Medico e paziente 02 2012

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Mensile € 5,00

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 2 marzo-aprile 2012

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Prevenzione i fattori di rischio per Ca. mammario tra i 40 e 49 anni Nefropatie prevenzione della malattia renale cronica Approfondimenti diabete di tipo 2 emergenza planetaria Congressi le novità dal meeting annuale dell’ACC

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anno XXXVIII - marzo-aprile 2012 Mensile di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Giorgia Diana Anastasia Zahova

p 6

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Medico e paziente n. 2

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI

in questo numero

sommario

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 2 marzo-aprile 2012

PREVENZIONE i fattori di rischio per Ca. mammario tra i 40 e 49 anni NEFROPATIE prevenzione della malattia renale cronica APPROFONDIMENTI diabete di tipo 2 emergenza planetaria CONGRESSI le novità dal meeting annuale dell’ACC

MP

Fonte: Immagine tratta da www.helsinki.fi/pjojala/insulin.htm

letti per voi

p 10 Diabete di tipo 2

Glicemia post-prandiale Il marker più affidabile del rischio cardiovascolare San Luigi Gonzaga Diabetes study

Tra le nuove sfide nella gestione integrata del diabete di tipo 2, si aggiunge ora anche il controllo dell’iperglicemia postprandiale nell’ambito della prevenzione delle complicanze CV

Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

Segreteria di redazione Concetta Accarrino

p 20 Nefropatie

Hanno collaborato a questo numero: Giancarlo Bilancio Katia Bonomo Franco Cavalot Massimo Cirillo Leonardo Di Martino Alessandra Antonia Mele Cesare Peccarisi Mariella Trovati Manuela Valle

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Franco Cavalot, Katia Bonomo, Manuela Valle, Leonardo Di Martino, Mariella Trovati

La prevenzione della malattia renale cronica Quando, come e in quali soggetti misurare il GFR

Per via del crescente aumento di malattie renali una stima del gfr dovrebbe essere ottenuta in tutti gli adulti con il sospetto di patologie che implichino un possibile coinvolgimento della funzione renale

Massimo Cirillo, Alessandra Antonia Mele, Giancarlo Bilancio

p 24 approfondimenti diabete di tipo 2 Un’emergenza planetaria

Il diabete di tipo 2 è una delle patologie a maggiore impatto sociale, economico e sanitario a livello mondiale. E gli ultimi dati epidemiologici, pubblicati nel rapporto dell’Organizzazione

Medico e Paziente

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG)

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sommario

mondiale della sanità (OMS), possono essere definiti a dire poco sconcertanti. Ciò che desta maggiore preoccupazione è l’alta incidenza e prevalenza del DT2 in Paesi in cui, fino a pochi anni fa la malattia era praticamente assente. La rivista Nature (Scully T. Nature 2012; S2,Vol. 485, 17 May) ha dedicato un approfondimento, presentando la situazione geografica-epidemiologica a livello mondiale, e in queste pagine presentiamo una sintesi di questo lavoro

Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2011 - 31/12/2011 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.342 Certificazione CSST n° 2011-2246 del 27/02/2012 Società di revisione: REFIMI

Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

Come abbonarsi a medico e paziente

Medico e paziente

Un’opzione italiana in prima linea nella terapia del diabete

p 28

Chirurgia dell’obesità e nuove opzioni ipocolesterolemizzanti all’attenzione dei cardiologi 22° Congresso ESH – 26-29 aprile - Londra

Ipertensione: nuove conferme sui benefici della triplice associazione Psichiatria europea a confronto - 20-21 aprile - Torino

Si rinnova l’assistenza psichiatrica in Italia XVI Congresso nazionale CIPOMO 17-19 maggio - Cosenza

L’oncologia del futuro sarà eco-sostenibile

p 30

Farminforma

p 45 segnalibro

Autori vari, Coordinamento scientifico Angelo Selicorni e Rossella Parini

Le Malattie Rare in età giovane-adulta Dal sospetto diagnostico alla gestione clinica Jane L. Henry, Peter H. Wilson

Acufeni. Manuale di sopravvivenza

Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it

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congressi

61° Meeting annuale ACC - 24-27 marzo-Chicago

Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00

Numeri arretrati € 10,00

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p 26 segnalazioni dalle aziende

Modalità di pagamento 1 Bollettino di ccp n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni srl - via Dezza, 45 - 20144 Milano 2 Bonifico bancario: Banca Popolare di Milano IBAN: IT 70 V 05584 01604 000000023440 Specificare nella causale l’indirizzo a cui inviare la rivista 3 Solo per l’Italia: assegno bancario intestato a M e P Edizioni srl


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letti per voi prevenzione

Nelle donne tra i 40 e i 49 anni di età, la “densità” del seno e la familiarità sembrano essere i principali fattori di rischio per Ca. mammario £

Individuare fattori di rischio che siano specifici per fasce di età rappresenta un importante traguardo nella prevenzione del cancro al seno, soprattutto in relazione alla pianificazione dei programmi di screening. Su questo tema esistono molteplici pubblicazioni; una metanalisi ne ha prese in esame alcune, con l’obiettivo di identificare i fattori di rischio e il loro peso nella determinazione del profilo di rischio complessivo per Ca. mammario nelle donne abbastanza giovani, con un’età compresa tra 40 e 49 anni. Peraltro, sull’esecuzione dello screening mammografico e sull’intervallo tra un esame e l’altro in questa fascia di donne, non vi è accordo da parte della comunità scientifica internazionale. In Italia, l’Osservatorio

nazionale screening del Ministero della salute raccomanda in genere di anticipare lo screening mammografico nelle donne con età 40-45 anni nel caso in cui abbiano un parente di primo grado affetto da tumore al seno. La metanalisi è stata condotta su 66 studi selezionati dai principali database della letteratura scientifica internazionale (Medline, Cochrane, Scopus) e dal Breast Cancer Surveillance Consortium statunitense. L’analisi di tutti gli studi ha evidenziato che i più importanti determinanti del rischio di Ca. mammario nelle donne tra i 40 e i 49 anni sono l’elevata densità del seno alla mammografia e la presenza di parenti di primo grado con tale forma di tumore. Questi due fattori portano le donne ad avere

un rischio che risulta almeno doppio rispetto a quelle in cui queste condizioni non sussistano. Altri fattori che sono emersi dall’analisi e che hanno un peso significativo (anche se minore) sul profilo di rischio sono: una pregressa biopsia al seno, parenti di secondo grado affette da tumore al seno, una densità eterogenea alla mammografia; questi tre fattori si associano con un aumento del rischio di 1,5-2 volte. E, infine, si è stimato un aumento del rischio di 1-1,5 volte nelle donne nullipare, in quelle che hanno avuto il primo parto all’età di 30 o più anni, e nelle utilizzatrici di contraccettivi orali. Seppure la metanalisi abbia alcune limitazioni (per esempio, gli studi considerati non erano omogenei per aggiustamento dei fattori di rischio, gruppi di controllo e misurazioni effettuate), suggerisce indicazioni che potrebbero essere d’aiuto nell’orientare i programmi di prevenzione nelle donne relativamente giovani. Nelson HD, Zakher B, Cantor A et al. Ann Intern Med 2012; 156 (9): 635-48

£ Un argomento molto controverso in clinica, nei pazienti con patologia coronarica che abbiano Dopo lo stent intracoronarico l’inserimento di uno stent, è la durata nel tempo della terapia antipiastrinica indispensabile per la prevenla terapia antipiastrinica zione di eventi trombotici a distanza. Attualmente, le può durare anche solo 6 mesi esperienze variano dai 6 ai 12 o anche 24 mesi in rapporto agli altri parametri clinici e alla tipologia di stent adoperato. A fare più chiarezza in questo campo arrivano i risultati di uno studio multicentrico italiano, che ha l’acronimo di PRODIGY, pubblicato di recente su Circulation e coordinato dal prof. M. Valgimigli della cattedra di Cardiologia dell’Università di Ferrara. Sono stati inclusi nello studio oltre duemila pazienti ricoverati in successione in vari Centri specialistici, e nei quali erano stati inseriti in proporzione bilanciata diversi tra gli stent registrati dalla FDA (solo metallici o a rilascio di farmaci quali zotarolimus, paclitaxel ed everolimus). Dopo un mese dall’intervento, per ciascun tipo di stent, i pazienti erano randomizzati in cieco tra due schemi di profilassi antipiastrinica, entrambi basati su ASA + clopidogrel; un gruppo ha ricevuto la terapia per 6 mesi, mentre nel secondo essa era protratta fino a 24 mesi. Gli eventi primari misurati nel trial erano mortalità per qualsiasi causa, infarto miocardico ed eventi cerebrovascolari; il rischio cumulativo per il gruppo in terapia per 24 mesi è risultato del 10,1 per cento mentre quello trattato per soli 6 mesi aveva, a 2 anni, addirittura un rischio di eventi lievemente inferiore: 10 per cento, con un HR di 0,98. Gli altri parametri clinici erano sovrapponibili e, in sintesi, è emerso solo un rischio lievemente maggiore di emorragia con la terapia biennale. Il risultato è molto importante perché notoriamente la profilassi antipiastrinica dopo inserimento di stent espone i coronaropatici a rischio di sanguinamenti: contenerla in soli 6 mesi è di certo un vantaggio clinico. CARDIOLOGIA

Valgimigli M, Campo G, Monti M et al. Circulation 2012; 125: 2015-26

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Medico e paziente

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Farmacovigilanza

Rispetto alla terapia con altri antibiotici, il trattamento con azitromicina comporta un aumento dell’incidenza di morte cardiaca improvvisa, specialmente in pazienti ad alto rischio CV £

Da qualche tempo è nota l’attività proaritmogena di alcuni antibiotici appartenenti alla classe dei macrolidi, tanto che negli ultimi due anni l’Agenzia regolatoria statunitense aveva disposto la revisione dei foglietti illustrativi di diversi composti, soprattutto in relazione a un aumentato rischio di morte cardiaca improvvisa. Tali provvedimenti finora non avevano “toccato” l’azitromicina, che si pensava avesse un livello minimo di cardiotossicità. Uno studio osservazionale recentissimo, pubblicato sul New England Journal of Medicine, riapre la questione evidenziando un aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa associato a una terapia con azitromicina, che appare più pronunciato nei soggetti ad alto rischio cardiovascolare (CV) al basale. Per valutare la sicurezza CV dell’azitromicina rispetto a nessun trattamento (controllo) e rispetto a terapie con amoxicillina, ciprofloxacina e levofloxacina,

sono state esaminate le prescrizioni del programma MEDICAID del Tennessee dal 1992 al 2006. Sono state escluse le prescrizioni effettuate in soggetti con gravi patologie non CV e anche quelle effettuate nel periodo immediatamente successivo a una degenza ospedaliera. Complessivamente sono state analizzate 347.795 prescrizioni di azitromicina, 1.348.672 di amoxicillina, 264.626 di ciprofloxacina, 193.906 di levofloxacina e 1.391.180 controlli. Rispetto a quanto osservato nei soggetti del gruppo di controllo, considerando i 5 giorni successivi alla prescrizione della terapia, nei trattati con azitromicina si è osservato un aumento significativo della mortalità cardiovascolare (HR, 2,88 CI 95 per cento 1,79-4,63; P <0,001). L’incremento della mortalità CV nei soggetti trattati con azitromicina è risultato significativo anche rispetto a quello osservato nei trattati con amoxicillina (HR 2,49, CI 95 per cento 1,38-4,50; P=0,002); un trend

analogo è stato riscontrato anche in termini di aumento della mortalità per tutte le cause (HR 2,02 CI 95 per cento 1,24-3,30; P=0,005). Anche rispetto alla ciprofloxacina, il trattamento con azitromicina correlava con un significativo aumento del rischio di morte improvvisa, mentre non sono state riscontrate differenze importanti rispetto alla levofloxacina. Estrapolando questi risultati sull’intera popolazione studiata, si ottiene una stima di 47 decessi CV in più per ogni milione di trattamenti con azitromicina. Se poi si considera il sottogruppo di popolazione a maggiore rischio CV al basale, tale stima sale a 245 per milione di trattamenti con azitromicina rispetto ai controlli. Secondo gli Autori, dunque, un ciclo di terapia con azitromicina della durata di 5 giorni si associa con un aumento assoluto, anche se di lieve entità, dei decessi cardiovascolari. Questo è da tenere in considerazione, specialmente quando si sceglie di prescrivere il farmaco in pazienti con fattori di rischio cardiovascolare. In seguito alla pubblicazione di questo studio, l’FDA ha annunciato una revisione dei risultati sulla base della quale valuterà la necessità di apportare o meno modifiche nei foglietti illustrativi dell’azitromicina. Ray WA, Murray KT, Hall K et al. New Engl J Med 2012; 366: 1881-90


letti per voi Neurologia

Uno studio italiano mette in evidenza un possibile ruolo dell’interleuchina-17 nella patogenesi della distrofia di Duchenne £ La distrofia muscolare di Duchenne (DMD) è una patologia grave e rara che colpisce prevalentemente (tranne rarissime eccezioni) i maschi, con un’incidenza stimata di circa 1 su 3.500 nati vivi. Attualmente non esiste una terapia specifica, il trattamento è di tipo multidisciplinare e ha lo scopo di limitare gli effetti della malattia, di prolungare la durata della vita e di migliorare le condizioni generali dei bambini affetti. La ricerca è molto attiva e negli ultimi anni le conoscenze su cause della malattia e possibili terapie si sono ampliate, anche se tuttora nessuna terapia si è rivelata efficace. In questo contesto si colloca lo studio di un gruppo di ricercatori del

“Bambino Gesù” di Roma, disegnato per valutare il ruolo e le possibili correlazioni tra alcuni mediatori dell’infiammazione e lo stato clinico. Sono stati analizzati i livelli di espressione dell’interleuchina-17 (IL-17), del Foxp3 (Forkhead box 3), del TNF-alfa (tumor necrosis factor alfa), di MCP-1 (monocyte chemoattractant proetin-1), IL-6 e TGF-beta (transforming growth factor-beta) mediante PCR in real time, da campioni di muscolo di pazienti DMD (27 pz.) e da pazienti affetti da una miopatia infiammatoria tipica, la dermatomiosite giovanile (8 pz.). Gli effetti motori nei pazienti DMD sono stati valutati mediante il North Star Ambulatory Assessment score.

£

Nei casi di DMD, i livelli di mRNA per IL-17 risultavano aumentati, mentre quelli per Foxp3 diminuiti rispetto ai pazienti con dermatomiosite giovanile, e il rapporto IL-17/Foxp3 risultava aumentato nei pazienti DMD. I livelli di mRNA per IL-17 sembrano inoltre correlati con i livelli di espressione delle altre citochine proinfiammatorie (TNF-alfa e MCP-1) e associati con l’outcome clinico dei pazienti. Gli Autori concludono che l’associazione tra espressione dei mediatori dell’infiammazione ed evoluzione clinica del Duchenne suggerisce un possibile ruolo per IL-17 nella patogenesi di questa temibile malattia. Un tassello in più, dunque, che potrebbe contribuire a fare chiarezza sui meccanismi della distrofia di Duchenne, e aprire le prospettive per un intervento terapeutico innovativo. De Pasquale L, D’Amico A, Verardo M et al. Neurology 2012; 78 (17): 1309-14

Quello tra ipertensione, acido urico e gotta è un rapporto molto complicato, in cui un elemento chiave è rappresentato dal trattamento Tra i farmaci antipertensivi, antipertensivo. Già da tempo per esempio si sospettava, e recentemente è stato confermato da uno studio pubblicato su Arthritis & solo i calcio antagonisti e il Rheumatism, che l’uso di diuretici (noti per aumentare i livelli sierici losartan sembrano protettivi di acido urico) fosse associato con un aumento del rischio di gotta, nei confronti del rischio di nei pazienti ipertesi. Anche il lavoro apparso sul BMJ, qui presentato, ha voluto approgotta nei pazienti ipertesi fondire gli effetti di diversi trattamenti antipertensivi sul rischio di gotta incidente. Si tratta di uno studio di popolazione con disegno caso-controllo “nested”, in cui i dati sono stati derivati dal database dei Medici di medicina generale del Regno Unito, nel periodo 2000-2007. Sono stati inclusi tutti i casi di gotta incidente (24.768) tra gli adulti di età compresa tra 20 e 79 anni e un campione di controllo (50.000 soggetti). Dopo aggiustamento per diversi fattori (età, sesso, BMI, visite dal MMG, assunzione di alcol, uso di farmaci e patologie concomitanti) sono stati calcolati i valori di rischio per gotta incidente nella popolazione ipertesa in trattamento (29.138); tali valori sono risultati rispettivamente 0,87 (CI 95 per cento 0,82-0,93) per i calcio antagonisti, 0,81 (0,70-0,94) per losartan, 2,36 (2,21-2,52) per i diuretici, 1,48 per i beta-bloccanti (1,40-1,57), 1,24 (1,17-1,32) per gli ACE-inibitori e infine 1,29 (1,16-1,43) per i sartani diversi da losartan. Per i calcio antagonisti e per il losartan, sono stati calcolati anche i valori di rischio in funzione della durata del trattamento antipertensivo: per i calcio antagonisti i valori sono stati 1,02 per un uso inferiore all’anno, 0,88 per 1-1,9 anni e 0,75 per un uso di due o più anni; per losartan i valori sono stati rispettivamente 0,98, 0,87 e 0,71 (P per trend <0,05). In linea dunque con le proprietà di ridurre i livelli sierici di urati, i calcio antagonisti e il losartan si associano con una diminuzione del rischio di gotta nei pazienti ipertesi; per contro un trattamento antipertensivo con qualsiasi altro dei farmaci studiati contribuiva in misura diversa all’aumento di tale rischio. I valori più elevati sono stati osservati per i diuretici, confermando ulteriormente gli studi precedentemente pubblicati.

Reumatologia

Choi HK, Soriano LC, Zhang Y et al. BMJ 2012; 344: d8190

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Diabete di tipo 2

Glicemia post-prandiale Il marker più affidabile del rischio cardiovascolare San Luigi Gonzaga diabetes study Tra le nuove sfide nella gestione integrata del diabete di tipo 2, si aggiunge ora anche il controllo dell’iperglicemia postprandiale nell’ambito della prevenzione delle complicanze CV

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n anni recenti, è stato dapprima ipotizzato e poi definitivamente dimostrato un rapporto tra i valori glicemici misurati in fase postprandiale, gli eventi cardiovascolari (CV) e mortalità per tutte le cause nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 (DT2). Questo rapporto è stato al centro di un vivace dibattito nella letteratura internazionale, anche perché il suo riconoscimento ha profonde conseguenze nella gestione clinica della malattia, sia per quanto concerne la misurazione della glicemia postprandiale nella vita quotidiana che per l’introduzione di misure farmacologiche e non farmacologiche necessarie alla prevenzione e alla correzione dell’iperglicemia postprandiale.

Franco Cavalot, Katia Bonomo, Manuela Valle, Leonardo Di Martino, Mariella Trovati Struttura Complessa a Direzione Universitaria di Medicina Interna ad Indirizzo Metabolico, Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Università di Torino, AOU San Luigi Gonzaga, Orbassano (Torino)

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Compenso glicemico e complicanze CV Due grandi trial pubblicati negli anni Novanta, il Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) (1) nel diabete di tipo 1, e lo United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS) (2) nel diabete di tipo 2 avevano dimostrato in modo incontrovertibile che l’iperglicemia è un fattore determinante nella patogenesi delle complicanze vascolari del diabete, e che la sua correzione ne previene la comparsa e ne rallenta l’evoluzione. Nello studio UKPDS, pietra miliare della moderna diabetologia, quando le misure non farmacologiche (dieta ed esercizio fisico) non erano più in grado di garantire un buon controllo glicemico in pazienti con DT2 di nuova diagnosi, venivano introdotti i famaci allora conosciuti, e in particolare gli ipoglicemizzanti orali metformina, sulfoniluree o la loro combinazione, oppure l’insulina: l’unico parametro glicemico valutato nella prevenzione delle complicanze d’organo era l’emoglobina glicosilata (HbA1c), che, come noto, è misura integrata dei valori glicemici degli ultimi

due-tre mesi e ha, nella popolazione non diabetica, valori compresi tra 4 e 6 per cento dell’emoglobina totale. Nell’UKPDS, l’HbA1c si rilevava predittore più efficace delle complicanze microvascolari (retinopatia, nefropatia) che di quelle macrovascolari, dato non sorprendente se si considera che le prime sono del tutto patognomoniche del diabete e riconoscono nell’iperglicemia un fattore patogenetico irrinunciable, mentre le seconde derivano dall’intervento sinergico di fattori di rischio glicemici e non (ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo di sigaretta ecc.). Sulla scia di questo trial, nella pratica clinica degli ultimi 20 anni le Linee guida terapeutiche per il DT2 hanno considerato l’HbA1c come il gold standard del compenso glicemico per la prevenzione delle complicanze vascolari, consigliando di mantenere questo valore al di sotto del 7 per cento. Peraltro, uno stesso valore di emoglobina glicosilata può essere registrato in pazienti che presentino variazioni glicemiche giornaliere contenute o escursioni glicemiche molto evidenti. Queste escursioni, in particolare, possono essere indotte dai pasti. Quindi, teoricamente, uno stesso valore di HbA1c può essere presente in un paziente con valori glicemici a digiuno moderatamente elevati e modesti incrementi glicemici postprandiali o con valori glicemici a digiuno bassi e spiccati incrementi glicemici postprandiali. Nella mentalità anglosassone, era prevalente la convinzione che la glicemia a digiuno e l’HbA1c fossero sufficienti


per guidare la terapia ipoglicemizzante: ne conseguiva la scarsa importanza data all’autocontrollo glicemico domicilare con la misurazione di glicemie a digiuno e postprandiali. Questo tipo di approccio ha peraltro mostrato i suoi limiti, soprattutto quando in studi successivi (in particolare gli studi ACCORD (3) e VADT (4)) si è cercato di raggiungere obiettivi di HbA1c particolarmente stringenti -inferiori al valore di 6,5 per cento o addirittura del 6 per centoregolando la terapia ipoglicemizzante prevalentemente sulla base della glicemia a digiuno: questi studi, infatti, hanno dimostrato che il raggiungimento di valori di HbA1c quasi-normali può essere controproducente in pazienti con storia protratta di diabete, in mediocre compenso metabolico e con complicanze CV in atto, in parte anche per la presenza di ripetute ipoglicemie. Una recente metanalisi ha dimostrato che il trattamento glicemico intensivo con obiettivo di HbA1c <7 per cento riduce gli eventi coronarici, anche se un trattamento con target di HbA1c ancora inferiori (e quindi poco al di sopra dell’ambito della normalità) può aumentare il rischio di eventi fatali, probabilmente per un aumento del numero e della gravità degli episodi ipoglicemici (5). È necessario osservare che nel DT2 modesti episodi ipoglicemici possono essere del tutto asintomatici, e quindi venire identificati solo nell’ambito di una misurazione glicemica programmata: secondo una nostra osservazione compiuta ormai molti anni orsono (6) questi episodi sono relativamente frequenti nel tardo pomeriggio e vengono esacerbati da una terapia con sulfoniluree regolata solo in base alla glicemia a digiuno, non raramente la più elevata della giornata in questi soggetti (7). Avevamo infatti dimostrato, che, in pazienti con DT2 senza trattamento farmacologico qualora la colazione del mattino venga effettuata con un contenuto glicemico modesto (come era abituale fino a qualche anno orsono in Piemonte anche nella popolazione generale), si assiste lungo la giornata a una progressiva riduzione dei valori glicemici prepran-

diali rispetto al valore a digiuno, il quale risente dell’incremento mattutino di ormoni della controregolazione insulinica (catecolamine, GH e cortisolo), tale da determinare il cosiddetto “fenomeno alba” (7). Quindi, i picchi postprandiali vanno a inserirsi su una linea interprandiale non “fissa”, ma in decremento (7). Date queste premesse, se la terapia ipoglicemizzante è regolata unicamente in base al valore glicemico a digiuno non è sorprendente che si determinino ipoglicemie frequentemente non avvertite, ma probabilmente pericolose, soprattutto durante la giornata e in particolare nel tardo pomeriggio, prima di cena (6). Non stupisce quindi che una terapia ipoglicemizzante particolarmente aggressiva volta a raggiungere valori di HbA1c nell’ambito della normalità, condotta basandosi essenzialmente sulla glicemia a digiuno senza precise raccomandazioni di autocontrollo domiciliare esiti in numerosi episodi ipoglicemici, in grado di peggiorare le complicanze vascolari già in atto anche a causa degli effetti proaterogeni dell’incremento delle catecolamine secondario all’ipoglicemia, come i trials ACCORD (3) e VADT (4) hanno dimostrato. È interessante notare che nello studio ADVANCE (8), in cui la quasi-normoglicemia era raggiunta senza un rilevante incremento degli episodi ipoglicemici, non si è osservato il peggioramento delle complicanze macrovascolari descritto nell’ACCORD. Dall’analisi di questi studi è emersa la convinzione che: i) la terapia ipoglicemizzante deve essere perseguita con obiettivi di compenso ambiziosi fin

dalla diagnosi del DT2, onde evitare le complicanze micro- e macrovascolari; in questo ambito, l’obiettivo di HbA1c è comunque <7 per cento, potendo mirare a valori inferiori solo in assenza di patologia vascolare già in atto e con approcci farmacologici molto attenti alla prevenzione della ipoglicemia; ii) è dannoso perseguire traguardi glicemici troppo stringenti (HbA1c <6,5 per cento) dopo anni di iperglicemia e in presenza di danno aterosclerotico già in atto. Si è inoltre meditato sul fatto che l’HbA1c non è l’unico parametro glicemico da considerare, ma deve essere posta attenzione anche ai valori glicemici che la determinano, considerando tre variabili: a) la glicemia a digiuno; b) la glicemia postprandiale; c) la variabilità glicemica. È stato osservato, a questo proposito, che per valori di HbA1c <7,3 per cento è prevalente l’effetto della glicemia postprandiale, per valori di HbA1c >9,3 per cento è prevalente l’effetto della glicemia a digiuno, mentre il ruolo delle due componenti glicemiche è sovrapponibile nella fascia di valori intermedi di HbA1c (9) . È chiaro quindi che per ottenere valori desiderabili di HbA1c occorre che sia l’iperglicemia a digiuno sia quella postprandiale stiano entro i parametri di riferimento, che sono stati identificati dall’American Diabetes Association (ADA) e dagli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito nei valori di 70-130 mg/dl per la glicemia a digiuno e preprandiale, e <180 mg/dl per la glicemia postprandiale, mentre valori inferiori sono stati identificati dall’In-

Tabella 1

Obiettivi terapeutici ADA/Standard Italiani

IDF

Glicemia a digiuno (mg/dl)

70-130

<100

Glicemia postprandiale (mg/dl)§

<180

<140£

HbA1c (%)*

<7

<6,5

Note: §la misurazione della glicemia postprandiale deve essere effettuata 1-2 ore dopo l’inizio del pasto; £nella Linea guida IDF 2011 sulla glicemia postprandiale il target è <160 mg/dl (10); *facendo riferimento ai valori di 4,0-6,0 per cento della popolazione non diabetica, con il metodo utilizzato dal DCCT.

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ternational Diabetes Federation (IDF) (Tabella 1). Importanza della glicemia postprandiale per le complicanze CV Gli studi precedentemente citati non permettevano di dirimere se la glicemia preprandiale, quella postprandiale e la variabilità glicemica devono essere considerate semplici componenti del compenso glicemico che l’HbA1c sintetizza in un unico valore, o possiedono proprietà predittive loro peculiari sul rischio CV. Già negli anni Novanta, osservazioni effettuate in soggetti non diabetici avevano dimostrato che la glicemia a due ore da un carico orale di glucosio (OGTT) predice gli eventi CV in modo singolarmente efficace. In particolare, lo studio DECODE (Diabetes Epidemiology Collaborative Analysis of Diagnostic Criteria in Europe) (11) e il Framingham Offspring Study (12), avevano dimostrato che la glicemia post-carico è predittore di eventi CV più forte della glicemia a digiuno (11) e dell’HbA1c (12), ed è inoltre predittore di morte per tutte le cause migliore della glicemia a digiuno (11). Il significato predittivo della glicemia post-carico nella popolazione non diabetica è stato confermato da una metanalisi che ha preso in considerazione complessivamente 38 studi (13). L’influenza di questo parametro glicemico sugli eventi CV sembra essere più spiccata nella donna (13). Ma la glicemia post-carico non è l’equivalente della glicemia misurata dopo un pasto misto, l’unica a poter essere definita a pieno titolo “glicemia postprandiale”. Quindi, le osservazioni precendentemente riportate nella popolazione non diabetica suggeriscono -ma non provano in modo definitivo- un ruolo predittivo della glicemia postprandiale nella popolazione diabetica. A questo fine occorreva disegnare studi appositi. Negli anni ’90 lo studio tedesco “Diabetes Intervention Study” (DIS) (14) aveva dimostrato che la glicemia misurata dopo colazione, ma non la glicemia

a digiuno, predice l’infarto miocardico e la mortalità in una popolazione di diabetici di nuova diagnosi seguiti per 11 anni: questo pionieristico studio, peraltro, non aveva corretto i risultati per i valori di HbA1c. Non era dunque stato dimostrato se il valore predittivo della glicemia postprandiale è indipendente da quello dell’emoglobina glicosilata. w San Luigi Gonzaga Diabetes Study Il primo studio a dimostrare il valore

predittivo della glicemia postprandiale sugli eventi CV nel diabete di tipo 2 anche dopo correzione per l’HbA1c è stato condotto dal nostro gruppo di ricerca su pazienti afferenti alla Struttura Complessa a Direzione Universitaria (SCDU) di Medicina Interna ad Indirizzo Metabolico nell’Azienda OspedalieroUniversitaria (AOU) San Luigi Gonzaga di Orbassano: per questa ragione, abbiamo definito lo studio “San Luigi Gonzaga Diabetes Study” (15). Il nostro gruppo di ricerca ha dunque seguito prospetticamente, a partire dal 1995, una popolazione di diabetici di tipo 2 in cui sono stati valutati all’arruolamento non solo i principali fattori di rischio CV e l’HbA1c, ma anche i valori glicemici a digiuno, due ore dopo colazione, due ore dopo pranzo e prima di cena, desunti dai profili glicemici giornalieri. Nel follow up a 5 anni, abbiamo osservato che -quando tutti i valori glicemici venivano inseriti contemporaneamente in modelli di analisi statistica che includevano i principali fattori di rischio cardiovascolare e l’HbA1c- solo la glicemia dopo pranzo si dimostrava predittore significativo di eventi cardiovascolari, in modo più forte nella donna rispetto all’uomo. Il follow up a 5 anni non aveva peraltro permesso di valutare l’impatto delle variabili glicemiche sulla mortalità, dato lo scarso numero di eventi mortali occorsi in questo lasso di tempo relativamente breve. La risposta relativa al valore predittivo delle variabili glicemiche sulla mortalità totale è venuta dal follow up a 14 anni del San Luigi Gonzaga Diabetes Study (16). Ai fini dell’analisi statistica, i quattro valori glicemici sopra riportati e l’HbA1c sono

stati valutati sia come parametri continui, sia dopo categorizzazione secondo i già ricordati obiettivi terapeutici suggeriti dall’ADA per il buon compenso: glicemia a digiuno e preprandiale <130 mg/dl, glicemia postprandiale <180 mg/dl, HbA1c <7 per cento. Sia con l’analisi che ha valutato i parametri glicemici in continuo sia con quella che li ha categorizzati secondo i target ADA abbiamo osservato che la glicemia postprandiale e l’HbA1c predicono sia eventi CV sia mortalità per tutte le cause, mentre la glicemia a digiuno non è un predittore significativo (Figura 1). Il fatto che, a differenza dello studio tedesco DIS, nel nostro studio sia la glicemia dopo pranzo, e non quella dopo colazione, a predire eventi cardiovascolari e mortalità, può essere attribuito alle differenti abitudini alimentari nelle due popolazioni: infatti, mentre in Germania la prima colazione è un pasto misto ricco di calorie e di carboidrati secondo le ben note abitudini anglosassoni, in Piemonte la prima colazione all’epoca dell’arruolamento (1995) era frequentemente un pasto molto limitato, poiché molti pazienti bevevano semplicemente una tazza di caffè non zuccherato. Il San Luigi Gonzaga Diabetes Study, quindi, è stato il primo studio nella letteratura internazionale a dimostrare il potere predittivo della glicemia postprandiale sugli eventi CV e sulla mortalità per tutte le cause anche quando nell’analisi statistica erano considerati tutti i principali fattori di rischio CV e l’HbA1c. In studi non prospettici era stato inoltre dimostrato che la glicemia postprandiale correla con il rischio di retinopatia (17), con lo spessore medio-intimale (IMT) carotideo (18), con la riduzione del flusso coronarico (19) e con la riduzione delle funzioni cognitive nell’anziano (20). Ma la presenza di una correlazione o anche di un forte potere predittivo su eventi cardiovascolari non sono sufficienti a trasformare un “predittore” in un “fattore di rischio”, in quanto è necessario a questo scopo fornire evi-

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Diabete di tipo 2 Figura 1

San Luigi Gonzaga Diabetes Study: risultati nel follow up a 14 anni Glicemia a digiuno

Glicemia 2 ore dopo pranzo

HbA1c

2,5 2,0

HR

1,5 1,0 0,5 0,0 Eventi CV

Mortalità

Note: Valori degli hazard ratios (HR) della glicemia misurata a digiuno (colonne gialle) e due ore dopo pranzo (colonne verdi) e dell’HbA1c (colonne viola) per eventi cardiovascolari (CV) e mortalità per tutte le cause nel follow up a 14 anni del San Luigi Gonzaga Diabetes Study (16). I soggetti con glicemia a digiuno non a target ADA (quindi con glicemia prima di colazione ≥130 mg/dl) sono stati paragonati con i soggetti a target (<130 mg/dl); i soggetti con glicemia post-prandiale non a target ADA (quindi con glicemia postprandiale ≥180 mg/dl) sono stati paragonati con i soggetti con glicemia a target (<180 mg/dl); i soggetti con HbA1c non a target ADA (quindi con HbA1c ≥7,0 per cento) sono stati paragonati con i soggetti con HbA1c a target (<7,0 per cento). Gli HR relativi alla glicemia a digiuno non sono statisticamente significativi, mentre tutti gli HR per la glicemia postprandiale e per l’HbA1c sono significativi (p <0,0001). Nello stesso studio, il valore predittivo della glicemia postprandiale e dell’HbA1c, ma non della glicemia a digiuno, è stato dimostrato anche quando le variabili glicemiche sono state considerate in continuo (e non categorizzate secondo il raggiungimento di obiettivi terapeutici) e quando sono state introdotte insieme in modelli statistici che includevano i più importanti fattori di rischio CV.

denze sull’impatto della correzione del predittore sull’evento da esso predetto. w La correzione dell’iperglicemia postprandiale riduce gli eventi CV? I risultati ottenuti con trial di intervento volti a rispondere a questa specifica domanda non sono a tutt’oggi del tutto dirimenti, anche per il fatto che è arduo correggere la glicemia a digiuno senza correggere contemporaneamente la glicemia postprandiale e viceversa. La correzione della glicemia postprandiale in questi studi è stata ottenuta con tre approcci differenti: a) usando l’acarbosio, un farmaco che riduce l’assorbimento intestinale di carboidrati

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complessi inibendo l’alfa-glucosidasi; b) la nateglinide, un farmaco glinidico che stimola la secrezione beta-cellulare di insulina; c) gli analoghi rapidi dell’insulina. Gli studi con l’acarbosio e con la nateglinide sono stati condotti anche (acarbosio) o esclusivamente (nateglinide) su soggetti affetti da ridotta tolleranza al glucosio (IGT). Una metanalisi dei trial clinici condotti con l’acarbosio ha dimostrato che il farmaco riduce gli eventi CV; questo effetto è stato dimostrato anche in soggetti con IGT nello studio STOP-NIDDM (21). Peraltro nello studio NAVIGATOR, la nateglinide non è stata in grado di ridurre gli eventi CV in soggetti affetti da

IGT e ad alto rischio CV (22), probabilmente per i limiti intrinseci dello studio. Infatti, nei soggetti trattati con nateglinide la glicemia a due ore dall’OGTT era superiore rispetto a quella registrata nei soggetti trattati con placebo: sarebbe dunque stato impossibile ricondurre eventuali risultati alla riduzione della glicemia post-carico, poiché essa non ha avuto sorprendentemente luogo. Infine, lo studio HEART2D ha considerato pazienti con DT2 con recente infarto miocardico, comparando gli effetti CV di due differenti schemi di terapia insulinica: a) uno schema basato sulla somministrazione preprandiale di un analogo rapido dell’insulina volto a ridurre la glicemia postprandiale; b) uno schema basato sulla somministrazione di insulina protamina 2 volte al giorno o di un analogo lento dell’insulina una volta al giorno allo scopo di ridurre la glicemia a digiuno (23). Lo studio non è stato in grado di apprezzare differenze relative ai due schemi sulla riduzione di eventi e mortalità CV, ma occorre considerare che le differenze di glicemia postprandiale nei due gruppi sono state minori di quanto atteso e quindi i presupposti per dimostrare una superiorità della correzione della glicemia postprandiale rispetto a quella a digiuno non si sono verificati. Un’analisi post hoc dello stesso studio nei soggetti con età >65 anni ha dimostrato un minor rischio di nuovi eventi CV nei soggetti con schema insulinico mirato a controllare la glicemia postprandiale (24). In conclusione quindi, i trials clinici finora condotti hanno fornito risultati contrastanti anche perché non sempre sono stati in grado di discriminare tra differenti gradi di correzione della glicemia postprandiale e quindi mancavano sovente i presupposti per osservare differenze nella prevenzione delle complicanze macrovascolari del diabete. Peraltro, le evidenze sul ruolo predittivo dell’iperglicemia postprandiale sugli eventi CV nel diabete sono state ritenute così forti dall’IDF da meritare un apposito documento contenente le linee guida per la gestione dell’iperglicemia postprandiale (25).


w Perché l’incremento della glicemia postprandiale ha conseguenze vascolari più dannose dell’incremento della glicemia a digiuno? Sono stati invocati numerosi meccanismi per spiegare l’effetto dell’iperglicemia postprandiale sulla funzione vascolare. La maggior parte di essi ha considerato il fenomeno delle rapide escursioni glicemiche, che tanta parte giocano nella cosiddetta “variabilità glicemica”. Un ruolo fondamentale è certamente quello dell’incremento dello stress ossidativo: le rapide escursioni glicemiche determinano infatti, produzione di radicali liberi dell’ossigeno, quali l’anione superossido, molto reattivi e altamente citotossici, e riduzione degli antiossidanti endogeni. Lo stress ossidativo è un elemento fondamentale nel determinismo della disfunzione endoteliale mediante l’inattivazione dell’ossido nitrico. La disfunzione endoteliale, come noto, è l’evento primo dell’aterosclerosi. L’iperglicemia postprandiale, d’altra parte, potrebbe essere anche marcatore di un alterato metabolismo postprandiale in parte legato all’insulino-resistenza, caratterizzato da altri fattori aterogeni quali, l’iperlipemia postprandiale e il determinismo di uno stato trombofilico (26). Come valutare la glicemia postprandiale e con quali obiettivi terapeutici? La glicemia postprandiale è un parametro controllato in modo molto stretto nei soggetti con normale tolleranza ai carboidrati: in essi, la glicemia non aumenta oltre i 140 mg/dl dopo i pasti e torna ai livelli preprandiali nel volgere di due-tre ore. Il valore di 140 mg/dl è la soglia di normalità della tolleranza glicemica a due ore dal carico orale di glucosio e il valore che l’IDF considera come target terapeutico della glicemia postprandiale (Tabella 1); al contrario, come già si è detto, l’ADA considera accettabili valori postprandiali <180 mg/ dl (Tabella 1). Riteniamo che gli obiettivi glicemici siano tanto più desidera-

bili quanto più si avvicinano ai valori normali, purchè il loro raggiungimento non esponga al rischio ipoglicemico, per le gravi conseguenze che l’ipoglicemia riveste a livello vascolare. Ma a quale distanza dal pasto deve essere misurata la glicemia postprandiale? Lo zenith glicemico viene raggiunto tra la prima e la seconda ora dall’inizio del pasto in relazione alla composizione e all’entità del pasto. La glicemia dovrà dunque essere misurata non solo a digiuno, ma anche tra una e due ore dopo colazione, pranzo e cena. Occorre a questo proposito ricordare che, per grammo di carboidrati introdotti, la colazione determina il maggiore incremento glicemico per variazioni cronobiologiche dell’assetto endocrinometabolico: ciò spiega perché nei Paesi anglosassoni, in cui la colazione è un pasto abbondante e ricco di glucidi, la glicemia dopo colazione sia sovente la più elevata della giornata. Non esiste dunque a nostro parere un razionale per indurre in Italia una modificazione delle abitudini alimentari per seguire il modello anglosassone, come spesso viene proposto. Se la prima colazione è frugale, infatti, l’incremento glicemico che ne consegue è modesto, e non sposta verso l’alto il profilo glicemico stesso. In queste condizioni, ci aspettiamo maggiori escursioni glicemiche dopo il pranzo o dopo la cena, i pasti con un maggiore apporto alimentare nella nostra tradizione. Ma come conoscere il valore della glicemia postprandiale e quello della variabilità glicemica senza introdurre nella pratica clinica l’autocontrollo domiciliare della glicemia? In realtà, l’utilità di questa procedura nel DT2 è tutt’oggi fonte di controversia. Una recente metanalisi ha dimostrato che la pratica dell’autocontrollo domiciliare si accompagna a una riduzione dei valori di HbA1c, anche se non è stabilito con quale intensità essa debba essere condotta (27). In un nostro studio abbiamo proposto uno schema relativamente semplice, secondo il quale i pazienti sono invitati a misurare la glicemia prima e due ore dopo colazione, pranzo e cena ogni quindici

giorni, dimostrandone una buona efficacia sulla riduzione dell’HbA1c: questo schema infatti, rende i pazienti consapevoli del proprio compenso glicemico e permette al team diabetologico di consigliare rapidi e tempestivi aggiustamenti terapeutici (28). Dagli studi sull’autocontrollo emerge chiaramente che l’automonitoraggio glicemico deve essere parte di un approccio proattivo nei confronti della correzione dell’iperglicemia, e non può limitarsi a una pratica “notarile” di registrazione di valori in seguito alla quale non viene preso alcun provvedimento terapeutico. Se il paziente e il team diabetologico non sono convinti dell’utilità dell’autocontrollo e non lo utilizzano in modo appropriato, la sua efficacia ne viene compromessa. Non si tratta dunque di una “bacchetta magica”, ma di un utile strumento che fornisce dati essenziali per impostare una terapia efficace e sicura. Inoltre, ci sembra del tutto riduttivo l’impiego dell’automonitoraggio glicemico solo per la prevenzione dell’ipoglicemia, e quindi ci sentiamo di proporlo non solo ai pazienti trattati con farmaci in grado di indurre ipoglicemia quali, le sulfoniluree, le glinidi e l’insulina, ma anche a quelli non trattati farmocologicamente o trattati con farmaci antiperglicemizzanti, come la metformina: solo mediante l’autocontrollo, infatti, è possibile identificare l’iperglicemia postprandiale, che potrebbe essere presente anche in pazienti con valori accettabili di glicemia a digiuno e di HbA1c (29), e gioca un ruolo importante nella predizione e probabilmente anche nella patogenesi degli eventi CV. w Quale terapia per l’iperglicemia postprandiale Il raggiungimento di un compenso glicemico ottimale nel diabete di tipo 2 non può che essere globale, con correzione sia dell’iperglicemia preprandiale sia di quella postprandiale e di conseguenza dell’HbA1c. Esso deve inoltre essere personalizzato, tenendo in grande considerazione le caratteristiche del paziente, in termini di età, durata di malattia, aspettativa di vita, patologie e

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Diabete di tipo 2 trattamenti concomitanti, e presenza di complicanze d’organo. Ciò premesso, alcuni approcci terapeutici agiscono maggiormente sull’iperglicemia postprandiale. Innanzitutto non bisogna dimenticare l’importanza dello stile di vita in termini di corretta alimentazione, appropriata attività fisica e controllo del peso corporeo: questi rimangono i capisaldi della terapia del diabete di tipo 2, in particolare quando vi sia una marcata insulino-resistenza. Dal punto di vista dietetico, sono fondamentali la limitazione dell’apporto calorico in caso di sovrappeso e obesità. Inoltre, indipendentemente dall’apporto calorico, saranno da preferire alimenti con basso indice glicemico (legumi, cereali integrali, pasta, la maggior parte della frutta) e limitando il carico glicemico medio (determinato dal prodotto del contenuto in carboidrati per l’indice glicemico medio dei carboidrati stessi). Occorre inoltre, ricordare il ruolo delle fibre, in quanto rallentano l’assorbimento dei nutrienti e quindi i picchi rapidi postprandiali. La prevenzione dell’iperglicemia postprandiale e delle sue conseguenze cardiovascolari è dunque, molto favorita dalla dieta mediterranea, ricca di cereali, frutta e verdura, e quindi di fibre e di sostanze antiossidanti. Per ciò che concerne la terapia farmacologica, i farmaci che maggiormente incidono sul controllo dell’iperglicemia postprandiale sono: i) l’acarbosio, un inibitore dell’alfa-glicosidasi intestinale che riduce l’assorbimento dei carboidrati complessi inibendone la scissione in carboidrati semplici; ii) le sulfoniluree a breve emivita; iii) le glinidi, farmaci insulino-secretagoghi che agiscono sul recettore delle sulfaniluree con un legame rapidamente reversibile e una breve durata d’azione; iv) i farmaci “incretinici” (le gliptine e gli analoghi del GLP-1), che determinano un incremento della secrezione insulinica e una riduzione della secrezione di glucagone, rallentano lo svuotamento gastrico e incrementano il senso di sazietà; v) gli analoghi rapidi dell’insulina. È peraltro da ricordare che la glicemia

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a digiuno e quella postprandiale sono intrinsecamente interconnesse, per cui ogni riduzione della glicemia a digiuno, anche ottenuta con farmaci poco attivi sul controllo glicemico postprandiale, si riflette in una riduzione della glicemia postprandiale. I farmaci attivi sulla glicemia postprandiale, peraltro, possono utilmente ridurre le escursioni glicemiche, che sembrano particolarmente implicate nel danno vascolare attribuito alla iperglicemia postprandiale. Occorre infine ricordare che i farmaci ipoglicemizzanti orali presentano effetti pleiotropici a livello vascolare che non dipendono dalla loro attività ipoglicemizzante e devono essere adeguatamente valutati: si pensi per esempio, alla capacità di alcune sulfoniluree e della repaglinide di ridurre il cosidetto pre-condizionamento ischemico, un effetto potenzialmente sfavorevole a livello vascolare, il cui reale impatto clinico è a tutt’oggi dibattuto. Quindi, è importante non solo l’entità della riduzione dell’iperglicemia postprandiale, ma anche la modalità con cui questo obiettivo viene ottenuto. Conclusione Il controllo glicemico è un cardine essenziale nella prevenzione delle complicanze vascolari del diabete di tipo 2. A questo proposito un ruolo particolare riveste l’attento monitoraggio e il trattamento appropriato dell’iperglicemia postprandiale e della variabilità glicemica. L’autocontrollo glicemico in fase pre- e postprandiale è parte fondamentale di una strategia complessiva di gestione del diabete in quanto aiuta i pazienti a comprendere l’effetto delle scelte alimentari, dell’attività fisica e della terapia farmacologica sui valori glicemici, e il medico a riconoscere l’iperglicemia postprandiale, a indirizzare le scelte terapeutiche e a modificare in modo tempestivo la terapia. Tra le nuove sfide della gestione integrata del diabete di tipo 2, che vede il paziente al centro di una stretta intera-

zione tra team diabetologico specialistico e Medici di Medicina Generale, si aggiunge oggi, dunque, il controllo della iperglicemia postprandiale nell’ambito della prevenzione delle complicanze vascolari della patologia. Bibliografia 1. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group. The Effect of Intensive Treatment of Diabetes on the Development and Progression of LongTerm Complications in Insulin-Dependent Diabetes Mellitus. New Engl J Med 1993; 329: 977-986. 2. UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group. Intensive blood-glucose control with sulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk of complications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 1998; 352: 837-53. 3. The ACCORD Study Group. LongTerm Effects of Intensive Glucose Lowering on Cardiovascular Outcomes. N Engl J Med 2011; 364: 818-28. 4. Duckworth W et al; VADT Investigators. Glucose control and vascular complications in veterans with type 2 diabetes. N Engl J Med 2009; 360: 129-39. 5. Ray KK et al. Effect of intensive control of glucose on cardiovascular outcomes and death in patients with diabetes mellitus: a meta-analysis of randomised controlled trials. Lancet 2009; 373: 1765-72. 6. Trovati M et al. Occurrence of low blood glucose concentrations during the afternoon in Type 2 (non-insulin-dependent) diabetic patients on oral hypoglycaemic agents: importance of blood glucose monitoring. Diabetologia 1991; 34: 662–7. 7. Trovati M et al. Blood glucose preprandial baseline decreases from morning to evening in type 2 diabetes: role of fasting blood glucose and influence on post-prandial excursions. Eur J Clin Invest 2002; 32: 179-86. 8. The ADVANCE Collaborative Group. Intensive Blood Glucose Control and Vascular Outcomes in Patients with Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2008; 358: 2560-72. 9. Monnier L et al. Contributions of fasting and postprandial plasma glucose incre-


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nefropatie

La prevenzione della malattia renale cronica Quando, come e in quali soggetti misurare il GFR per via del crescente aumento di malattie renali UNa STIMA DEL GFR DOVREBBE ESSERE OTTENUTa IN TUTTI gli adulti con il sospetto di patologie che implichino un possibile coinvolgimento della funzione renale

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ella pratica medica, con il termine di funzione renale ci si riferisce solo a una delle funzioni svolte dal rene e cioè la filtrazione glomerulare (1). La velocità di filtrazione glomerulare è la misura quantitativa di questa funzione ed è abbreviata con l’acronimo VFG in italiano e GFR in inglese (Glomerular Filtration Rate). Le unità di questa misura sono espresse come mL/min x 1,73 m2 e indicano la quantità di liquido filtrato dai glomeruli nell’unità di tempo (mL/min) normalizzata per 1,73 m2 di superficie corporea, correzione necessaria a ridurre l’effetto confondente delle differenti dimensioni del corpo e, quindi, dei reni. La valutazione quantitativa della funzione renale è un elemento fondamentale della pratica medica, non solo in nefrologia. Basti pensare alla frequenza con cui il sospetto di ridotta funzione renale influenzi il percorso diagnostico (per esempio esami radiologici con mezzo di

Massimo Cirillo, Alessandra Antonia Mele, Giancarlo Bilancio Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Salerno

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contrasto) e la prescrizione di farmaci (antibiotici, antitumorali ecc.). Nel mondo reale, la necessità di un indice semplice e affidabile di funzione renale si scontra con la difficoltà di avere misure rapide, semplici, economiche e non invasive della filtrazione glomerulare. A oggi, una misura precisa della filtrazione glomerulare implica ancora tecniche non rapide, costose e complesse che si basano sulla somministrazione endovena di particolari traccianti eliminati poi per via renale e solo attraverso la filtrazione glomerulare (inulina, ioexolo ecc.). I vari metodi disponibili misurano la velocità con cui questi traccianti scompaiono dal plasma o, meglio, compaiono nelle urine. La creatininemia come indice di funzione renale Di fatto, nella pratica medica routinaria, la misura della creatininemia è in sostanza l’unico parametro o, comunque, quello di gran lunga più usato ai fini di una valutazione quantitativa della funzione renale. La creatinina è un prodotto del metabolismo energetico del muscolo scheletrico che deriva dal

creatinfosfato. La creatinina è un catabolita terminale: una volta rilasciata dai muscoli nella circolazione, la creatinina non va incontro a ulteriori trasformazioni metaboliche. I muscoli sono quindi responsabili della quasi totalità della generazione corporea di creatinina; un’altra piccola quota deriva dalla dieta, ma, in genere, rappresenta una percentuale inferiore al 10 per cento del totale della generazione di creatinina. Indipendentemente dal meccanismo di generazione, la creatinina presente nella circolazione è eliminata esclusivamente dal rene, in larga maggioranza attraverso la filtrazione glomerulare, ma esiste una secrezione tubulare di creatinina che può aumentare in alcune condizioni. Sulla base di quanto detto, è ovvio che la creatininemia sia un marcatore endogeno di funzione renale e che, in ogni individuo, una riduzione della funzione renale determini un aumento dei valori di creatininemia. La creatininemia è in effetti un indice che ha alta specificità, cioè la funzione renale è effettivamente ridotta nella quasi totalità dei casi con creatininemia elevata. D’altra parte, la creatininemia ha una bassa sensibilità, cioè sono molti i casi in cui la creatininemia è nei valori normali, ma la funzione renale è invece sostanzialmente ridotta. La Figura 1 mostra la curva che descrive i rapporti della creatininemia con la funzione renale e indica l’esistenza di almeno due diversi tipi di difficoltà interpretative: difficoltà legate alla forma della curva e difficoltà legate


alla dispersione dei punti intorno alla curva. Per quel che riguarda la forma della curva, funzione renale e creatininemia sono legate da una relazione chiaramente non lineare e, in particolare, da una curva con pendenze variabili. La figura evidenzia che, per valori di creatininemia compresi nel range normale (donne: 0,5-1,0 mg/dL; uomini: 0,7-1,2 mg/dL), o a esso vicini, piccole differenze di creatininemia, come per esempio differenze di 0,2 mg/dL, possano indicare sostanziali differenze di funzione renale, anche di 50 mL/min o più. Al contrario, per valori di creatininemia manifestamente patologici, differenze di creatininemia dieci volte più grandi, 2,0 mg/dL, indicano differenze molto minori di funzione renale, cioè di 5 mL/min o meno. La non linearità della curva riflette la duplicità dei meccanismi escretivi della creatinina (filtrazione glomerulare e secrezione tubulare) e il fatto che la secrezione tubulare di creatinina tende ad attivarsi con l’aumentare dei valori di creatininemia. Per quel che riguarda la dispersione dei punti intorno alla curva, la figura mostra che in individui diversi il medesimo valore di creatininemia può corrispondere a valori molto diversi di filtrazione glomerulare. Questa dispersione riflette il fatto che il valore di creatininemia dipende non solo dalla quantità di creatinina eliminata dal rene, ma anche dalla quantità di creatinina generata dai muscoli. È quindi inevitabile che, in presenza di bassa generazione di creatinina, la creatininemia potrà restare in ambito normale anche in presenza di bassa funzione renale. Tale effetto gioca un ruolo chiave nella pratica medica di routine poiché la massa muscolare, e quindi la generazione, di creatinina ha una grande variabilità. Essa infatti diminuisce sostanzialmente con l’avanzare dell’età e in alcune condizioni morbose e, in genere, tende a essere minore nelle donne rispetto agli uomini. La clearance della creatinina La clearance renale della creatinina, cioè la misura del rapporto tra escrezio-

Figura 1

Rapporti tra creatininemia e velocità di filtrazione glomerulare (GFR)

Fonte: dati personali

ne urinaria temporizzata di creatinina e creatininemia, teoricamente dovrebbe dare informazioni sulla funzione renale più accurate rispetto al semplice valore della creatininemia ed è, di fatto, un parametro molto utilizzato nella pratica medica. In realtà, vari dati concordemente indicano che, quando paragonata a una misura precisa della filtrazione glomerulare, la clearance della creatinina basata su raccolte urinarie delle 24 ore è un test inaccurato con un’imprecisione media superiore al 30 per cento (2,3). I fattori responsabili di questa inaccuratezza sono vari. Intanto, la clearance della creatinina sovrastima il vero valore di filtrazione glomerulare in quanto riflette la somma della creatinina escreta per filtrazione glomerulare più quella escreta per secrezione tubulare. L’entità di questa sovrastima, cioè l’entità della secrezione tubulare di creatinina, è variabile perché può aumentare nelle nefropatie e ridursi per effetto di alcuni farmaci (4). Ancora, i risultati basati su raccolte urinarie delle 24 ore sollevano dubbi difficilmente risolvibili su completezza e precisione delle raccolte stesse. Inoltre, la misura dell’escrezione urinaria di creatinina aggiunge inevitabilmente ulteriori fonti di

errore: la misura del volume della raccolta, il prelievo del campione di urine dalla raccolta senza accurata agitazione della stessa, errori nella diluizione del campione di urine per il dosaggio ecc. Infine, indipendentemente dai problemi legati all’inaccuratezza, qualsiasi esame basato sulla raccolta delle urine delle 24 ore è improponibile in tutti i casi in cui tale procedura sia impossibile per motivi di urgenza o di altra natura. Le stime della filtrazione glomerulare Dal 2003, la National Kidney Foundation suggerisce che la funzione renale sia valutata utilizzando un nuovo parametro che si basa sul valore di creatininemia e non richiede la raccolta di campioni urinari (1). Tale parametro è indicato con l’acronimo eGFR, dell’espressione inglese estimated Glomerular Filtration Rate, traducibile in italiano come stima della velocità di filtrazione glomerulare. Il valore di eGFR mantiene le stesse unità di misura della velocità di filtrazione glomerulare (mL/min x 1,73 m2), ma non ne è una reale misura. In realtà il valore di eGFR è una stima approssimativa

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nefropatie della filtrazione glomerulare, calcolata utilizzando equazioni basate su dati di rapida, semplice ed economica acquisizione. Nel corso degli anni sono state proposte equazioni molto diverse, fatto che riflette la progressiva acquisizione di conoscenze e metodologie. I dettagli matematici delle varie equazioni non interessano il medico non specialista, ma tutte le equazioni proposte per il calcolo dell’eGFR in età adulta condividono un razionale comune. Un’osservazione verificabile da ogni medico è che, in media, la massa muscolare degli adulti tende a essere maggiore negli uomini rispetto alle donne e a ridursi con l’avanzare degli anni. Essendone la massa muscolare il principale determinante, è semplice utilizzare sesso ed età come indici rapidi della generazione media di creatinina. Questa ripetuta osservazione sperimentale spiega come l’inclusione nelle equazioni per il calcolo dell’eGFR di sesso, età e creatininemia renda più accurata la valutazione quantitativa della funzione renale riducendo l’effetto confondente della generazione di creatinina sull’uso della sola creatininemia come indice di filtrazione glomerulare. Il termine eGFR è relativamente moderno, ma il concetto data oltre 40 anni. L’equazione di Cockcroft-Gault è stata la prima ad acquisire una certa fama (5). Essa fu derivata dai dati di clearance della creatinina in circa 300 individui e utilizza i valori di sesso, età, creatininemia e peso. Il peso ha nell’equazione lo scopo di includere un fattore antropometrico che, almeno teoricamente, dovrebbe rappresentare un indice oggettivo della massa muscolare. Col tempo, l’equazione di CockcroftGault si è rivelata uno strumento poco accurato con un’imprecisione media intorno al 30 per cento (2,3). L’inclusione del peso nell’equazione è proprio uno dei fattori determinanti di questa inaccuratezza, in quanto il peso è un indice impreciso della massa muscolare, soprattutto nel mondo industrializzato dove il sovrappeso riflette di regola l’aumento della massa grassa, cioè di un tessuto che non ha nessun ruolo nella generazione di creatinina.

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Nel 1999, il gruppo di ricercatori dello studio Modification of Diet in Renal Disease (MDRD) riporta una nuova equazione che non include il peso, ma solo sesso, età, creatininemia (2). L’equazione MDRD ha rappresentato un sostanziale passo avanti in questo campo con un’imprecisione media intorno al 20 per cento (2,3). L’equazione è matematicamente complessa, ma richiede solo dati che di regola sono sempre disponibili nel laboratorio che effettua la misurazione della creatininemia. L’equazione era stata sviluppata su un campione di oltre 1.500 individui usando una raffinata analisi matematico-statistica basata su precise misure di filtrazione glomerulare effettuate con la somministrazione di un tracciante esogeno. Quindi, rispetto alla Cockcroft-Gault, l’equazione MDRD non necessita del peso e dà una stima più accurata della filtrazione glomerulare. La principale debolezza metodologica dell’equazione è la tendenza alla sottostima della filtrazione glomerulare per persone con funzione renale normale-alta, problema dovuto al fatto che l’equazione era stata sviluppata in un campione nel quale mancavano persone sane. La rapida diffusione internazionale dell’equazione MDRD evidenziò presto il fatto che il calcolo delle stime della filtrazione glomerulare fosse influenzato dal metodo usato per misurare la creatininemia e in particolare dalla possibilità che lo stesso campione di sangue potesse dare risultati di creatininemia differenti se si usavano metodi di dosaggio diversi. È del resto intuitivo che un’equazione basata sui valori di creatininemia risenta del metodo di laboratorio usato per la misura della creatininemia stessa. Per rendere più omogenei i vari metodi è stato sviluppato uno standard internazionale per la calibrazione dei vari tipi di dosaggio della creatininemia. Tale standard è indispensabile per il corretto calcolo del valore di eGFR (6). Nel 2009, il gruppo di ricercatori dello studio Chronic Kidney Disease - Epidemiology Collaboration (CKD-Epi) riporta una nuova equazione sviluppata per correggere le due principali inade-

guatezze metodologiche della MDRD. L’equazione CKD-Epi è infatti derivata da un campione di oltre 5.000 individui che includeva persone sane in cui la creatininemia era misurata con metodi basati sugli standard internazionali sopra ricordati (7). Come per l’equazione MDRD, la filtrazione glomerulare era misurata con la somministrazione di un tracciante esogeno. Dal punto di vista matematico, l’equazione CKD-Epi è anche più complessa della MDRD, ma comunque si basa sui soli valori di sesso, età e creatininemia. L’equazione CKD-Epi rappresenta un ulteriore passo avanti nel calcolo del valore dell’eGFR in quanto riduce l’imprecisione media dell’eGFR al di sotto del 20 per cento e soprattutto migliora molto l’accuratezza nel range dei valori normali-alti di filtrazione glomerulare (3,7). Come misurare la funzione renale Il filtrato glomerulare è oggi indicato da Linee guida internazionali e italiane come il test preferibile per una valutazione di primo livello della filtrazione glomerulare (1,8). La sua acquisizione può presentare comunque varie difficoltà pratiche. La stima fornita dall’equazione Cockcroft-Gault è disponibile su alcuni nomogrammi oppure è teoricamente ottenibile anche con un calcolo “a mano” da parte del medico. Le stime fornite dalle equazioni MDRD e CKDEpi sono ottenibili solo tramite l’uso di appositi calcolatori peraltro reperibili anche su internet (9); va detto però che, per entrambe, il medico dovrebbe verificare se il dosaggio di creatininemia è standardizzato con i metodi internazionali. L’equazione CKD-Epi, a oggi, è quella che di gran lunga ha la migliore accuratezza per la generalità delle persone in età adulta. Il calcolo dell’eGFR in età pediatrica va risolto in modo del tutto diverso per il quale si rimanda a testi specialistici (10). Per il calcolo del valore di eGFR, non sembra ragionevole suggerire un metodo “artigianale”, cioè basato sull’iniziativa individuale del singolo medico che


vi provvede con mezzi propri. Questo, infatti, rappresenta un lavoro aggiuntivo per il medico e, in più, implica inevitabilmente un certo numero di errori. Molto più semplice è spostare il calcolo del valore di eGFR nel computer del laboratorio che esegue la misura della creatininemia, il quale, di regola, è in possesso anche dei dati relativi a sesso ed età, cioè degli unici altri dati necessari allo scopo. Il problema del calcolo dell’eGFR va spostato e risolto nel laboratorio dove è misurata la creatininemia con due semplici modifiche: l’uso di metodi di dosaggio della creatininemia compatibili con i sistemi di calibrazione internazionale e la modifica dei programmi di calcolo dei computer con l’inclusione dell’equazione CKD-Epi. Il risultato è uno stampato che include il valore di creatininemia e, subito sotto, il valore di eGFR senza alcun aumento dei costi. L’eventuale necessità di misure accurate della filtrazione glomerulare con metodi basati sulla somministrazione di particolari traccianti esogeni resta una prerogativa dell’attività specialistica o di ricerca e, pertanto, non è qui considerata. w Quando e a chi chiedere il valore dell’eGFR Dati recenti su una coorte di oltre 2.000.000 di persone derivate da campioni della popolazione generale di tutto il mondo (Italia compresa) dimostrano che il valore dell’eGFR dato dall’equazione CKD-Epi è un accurato marcatore del rischio non solo di insufficienza renale, ma anche di malattie cardiovascolari (11). Sulla base di queste evidenze sembra ragionevole concludere che una misura così semplice ed economica dovrebbe essere effettuata in ogni adulto in cui le analisi del sangue si effettuino come screening, per il sospetto di malattie renali, cardiovascolari o di altri organi e apparati che implichino un possibile coinvolgimento della funzione renale. Inoltre, data l’asintomaticità di molti quadri iniziali di insufficienza renale, sembra ragionevole includere il dato di eGFR nelle valutazioni periodiche

previste per gli adulti dalla medicina preventiva. Come tutti gli indici di laboratorio, il valore di eGFR ha delle limitazioni note, rappresentate principalmente dai casi in cui la generazione di creatinina o la sua secrezione tubulare siano molto diverse dalla media. Per fare qualche esempio pratico, il valore dell’eGFR sarà superiore alla vera filtrazione glomerulare nelle persone con magrezza patologica o grandi mutilazioni, cioè nei casi di severa riduzione della massa muscolare. Il calcolo dell’eGFR attribuisce a questi casi una generazione di creatinina media, cioè maggiore di quella reale, e quindi interpreta la bassa creatininemia come un’elevata filtrazione glomerulare. Il contrario avviene nelle persone con grande massa muscolare, come alcuni atleti. Per la secrezione tubulare di creatinina, va ricordato che alcuni farmaci anche di uso comune (cimetidina, pirimetamina, trimetoprim, probenecid, flucitosina, cefalosporine ecc.) possono inibire questa funzione e quindi dare aumenti della creatininemia che le equazioni non possono che interpretare come riduzioni della filtrazione glomerulare benché dovuti a un meccanismo del tutto diverso. Conclusioni I dati disponibili all’estero e in Italia indicano che la frequenza di insufficienza renale terminale è diventata sostanzialmente maggiore dagli anni ’90 in poi, soprattutto nelle fasce di età avanzata. È ormai accertato che l’uso della semplice creatininemia come indice di funzione renale implica l’inevitabile conseguenza di molti casi di insufficienza renale non correttamente diagnosticati, specialmente nelle età avanzate. L’uso corretto del parametro eGFR rappresenta al momento uno degli elementi fondamentali della nefrologia moderna e quindi una delle armi da opporre alla ulteriore progressione di malattie renali. È ovvio che l’uso dell’eGFR come indice di funzione renale implicherà un certo numero di falsi positivi, cioè di persone con basso valore di eGFR, ma con buo-

na funzione renale. Un certo numero di falsi positivi appare come un errore preferibile a un elevato numero di casi con mancata diagnosi di insufficienza renale. Infatti, nella buona pratica medica, un valore ridotto di eGFR, da solo, dovrebbe rappresentare un elemento in favore della necessità di ulteriori approfondimenti diagnostici, non l’elemento sufficiente per una diagnosi definitiva. Bibliografia 1. Levey AS et al. National Kidney Foundation practice guidelines for chronic kidney disease: evaluation, classification, and stratification. Ann Intern Med 2003; 139: 137-47 2. Levey AS et al. A more accurate method to estimate glomerular filtration rate from serum creatinine: a new prediction equation. Modification of Diet in Renal Disease Study Group. Ann Intern Med 1999; 130: 461-70. 3. Cirillo M et al. Estimation of GFR: a comparison of new and established equations. Am J Kidney Dis 2010, 56: 802-4 4. Cirillo M. Razionale, pregi e difetti della stima della filtrato glomerulare: equazione Cockcroft-Gault ed equazione MDRD. G Ital Nefrol 2009, 26: 310-7 5. Cockcroft DW et al. Prediction of creatinine clearance from serum creatinine. Nephron 1976; 16: 31-41 6. Myers GL et al. Recommendations for improving serum creatinine measurement: a report from the Laboratory Working Group of the National Kidney Disease Education Program. Clin Chem 2006; 52: 5-18 7. Levey AS et al. A new equation to estimate glomerular filtration rate. Ann Intern Med 2009; 150: 604-12 8. http://www.simel.it/download /101011-documento.pdf 9. http://mdrd.com/ 10. Schwartz GJ et al. New equations to estimate GFR in children with CKD. J Am Soc Nephrol 2009; 20: 629-37 11. Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium. Comparison of risk prediction using the CKD-EPI equation and the MDRD study equation for estimated glomerular filtration rate. JAMA 2012; 307: 1941-51

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Diabete di tipo 2

Un’emergenza planetaria Il diabete di tipo 2 (DT2) è una delle patologie a maggiore impatto sociale, economico e sanitario a livello mondiale. E gli ultimi dati epidemiologici, pubblicati nel rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), possono essere definiti a dire poco sconcertanti. Ciò che desta maggiore preoccupazione è l’alta incidenza e prevalenza del DT2 in Paesi in cui, fino a pochi anni fa la malattia era praticamente assente. La rivista Nature (Scully T. Nature 2012; S2,Vol. 485, 17 May) ha dedicato un approfondimento, presentando la situazione geografica-epidemiologica a livello mondiale, e in queste pagine presentiamo una sintesi di questo lavoro

w I dati di una pandemia La prevalenza di diabete a livello mondiale è cresciuta rapidamente, in seguito al progressivo invecchiamento della popolazione, all’urbanizzazione crescente e al cambiamento negli stili di vita. Il maggiore impatto è in rapporto al diabete di tipo 2, che è responsabile del 90 per cento dei casi di diabete. Nel complesso, nei Paesi “diventati ricchi”, l’incidenza è cresciuta in maniera significativa, soprattutto come conseguenza dell’aumentato consumo di alimenti ricchi in zuccheri e grassi. In media, le stime indicano che circa l’8 per cento della popolazione in questi Paesi sia affetta da DT2. Tuttavia la criticità è rappresentata dai Paesi a basso e medio sviluppo in cui si registra la più alta prevalenza, circa il 10 per cento degli adulti. Occorre tenere presente che i dati potrebbero essere sottostimati, anche perché, come noto, la diagnosi potrebbe giungere anche con molto ritardo rispetto alla comparsa dei primi segni (Figura). Nei Paesi sviluppati e ad alto reddito a soffrire di diabete sono per lo più

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Africa Il DT2 è abbastanza raro nell’Africa subsahariana, e ha una prevalenza del 4,5 per cento. La prevalenza nei prossimi 20 anni è destinata a raddoppiare, con un tasso definito tra i più alti al mondo.

medio oriente La rapida crescita economica ha fatto balzare i numeri del diabete: con una prevalenza che è passata da circa il 6 per cento negli anni Novanta, al 20 per cento nel 2011.

india A livello nazionale la prevalenza arriva al 9 per cento, ma nelle aree urbane nel sud del Paese, i valori arrivano al 20. I costi legati all’assistenza sanitaria e l’impatto negativo sulla produttività hanno praticamente annullato il recente sviluppo economico.

Aree con sviluppo economico elevato medio-alto medio-basso basso

milioni di adulti con diabete quota di pazienti non diagnosticati


gli adulti, con età al di sopra dei 50 anni. Mentre, e questo aggrava ulteriormente la già drammatica situazione, negli Stati mediamente sviluppati a essere colpiti sono per lo più i soggetti in età giovane (e produttiva). In questo caso l’impatto a livello sociale e sanitario è sicuramente maggiore sia nel breve che nel lungo periodo. Andando a esaminare la mortalità, si osserva che questa ha un trend variabile in funzione del livello di ricchezza del Paese considerato. Nel 2011, i decessi attribuiti al DT2 sono stati oltre i 3,5 milioni nei Paesi a medio sviluppo economico, e di questi più di 1 milione sono stati re-

gistrati in Cina. Negli anni Ottanta la prevalenza della malattia in questo Paese era inferiore all’1 per cento, mentre i dati attuali indicano 90 milioni di diabetici. Il caso della Cina è probabilmente quello che desta maggiore preoccupazione, e infatti è stato classificato come “il Paese con l’epidemia di diabete più elevata a livello mondiale”. Complessivamente nelle aree poco o mediamente sviluppate, nel 2011 i decessi per DT2 o complicanze correlate sono stati 1,2/1.000 casi; ed è un valore questo, doppio rispetto a quanto riscontrato per le nazioni economicamente avanzate. Il dato peraltro non è sorprendente,

se pensiamo che le risorse socio-sanitarie in questi Paesi sono sensibilmente maggiori e vi è la possibilità di un accesso alle cure per (quasi) tutti. Ciononostante, sempre nel 2011, negli Stati Uniti i decessi sono stati 180mila: un numero comunque elevato. Secondo le previsioni nel 2030, circa 440 milioni di persone nel mondo saranno affette da diabete di tipo 2 (cioè il 7,7 per cento della popolazione tra i 20 e i 79 anni): è quindi un imperativo per i professionisti della salute attuare provvedimenti e politiche sanitarie mirate, in grado di garantire la diagnosi e il trattamento precoci.

i numeri…

I malati di diabete di tipo 2 sono 346 milioni. Più dell’80 per cento dei decessi si verifica nei Paesi a basso-medio sviluppo economico.

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SEGNALAZIONI dalle aziende

Un’opzione italiana in prima linea nella terapia del diabete

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a metformina è un farmaco ampiamente utilizzato per la cura del diabete mellito di tipo 2, è approvata in 90 Paesi nel mondo e fa parte dell’armamentario terapeutico del medico da molti anni. La metformina è ancora oggi farmaco di primaria importanza per il trattamento di questa patologia e la sua “anzianità” permette di disporre di una solida esperienza d’utilizzo. Tutte le Linee guida delle principali società scientifiche, infatti, dall’American Diabetes Association (ADA) all’American College of Physician (ACP), dall’European Association for the Study of Diabetes (EASD) alle italiane Associazione medici diabetologi (AMD) e Società italiana di diabetologia (SID), indicano la metformina come farmaco di prima scelta nel trattamento medico del diabete mellito di tipo 2. Una tale indicazione si colloca all’interno di un contesto, il diabete e le relative terapie, nel quale la ricerca è molto attiva.

Malattia dai grandi numeri L’“epidemia” di diabete conta, secondo l’Oms, circa 346 milioni di malati nel mondo, con 52 milioni di diabetici all’interno della macro-regione europea e una prevalenza in crescita. Nel 90 per cento circa dei casi si tratta di diabete di tipo 2. Concentrando l’attenzione sul nostro Paese, secondo i dati dell’Istat (2010) il 4,9 per cento della popolazione, pari a 3 milioni di persone circa tra gli adulti, ha una diagnosi di diabete e almeno un ulteriore milione ne è affetto senza saperlo. Una situazione che va peggiorando e che nel 2030 si prevede conterà circa 5 milioni di malati tra gli adulti.

I vantaggi della metformina Il trattamento del diabete mira al controllo della glicemia, che è associato a una significativa diminuzione del

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tasso di complicanze microvascolari, neuropatiche e cardiovascolari (anche se in quest’ultimo caso il livello delle evidenze è meno forte) tipiche della malattia. La terapia finalizzata allo stretto controllo glicemico comporta, tuttavia, tra i principali problemi, il rischio di ipoglicemia e l’aumento di peso, parametri di cui si deve tener conto nella scelta del regime da adottare. La metformina evidenzia un profilo d’efficacia e di sicurezza vantaggioso, che migliora la prognosi dei pazienti adulti affetti da diabete di tipo 2. Essa, infatti, non induce ipoglicemia e non determina aumento ponderale, è in grado di migliorare il profilo lipidico e di modificare favorevolmente altri fattori di rischio cardiovascolare. La sua efficacia nel corso del tempo è stata più volte oggetto di rivalutazione, specie nel confronto con le nuove molecole che si sono affacciate sulla scena della terapia del diabete. Già nell’UKPDS (Lancet, 1998), vera pietra miliare in questo campo, metformina ha determinato, a parità di controllo glicemico, un minor rischio di complicanze accompagnato da un ridotto numero di ipoglicemie e assenza di incremento ponderale; gli “end-point” cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus, angina instabile) hanno mostrato risultati più favorevoli nel gruppo di soggetti diabetici e obesi trattati con metformina rispetto ai gruppi sottoposti a trattamenti diversi (dieta, sulfoniluree o insulina). Uno studio retrospettivo (Diabetic Med, 2005), condotto su circa 9.000 pazienti con diabete di tipo 2 in terapia farmacologica orale, ha dimostrato su un periodo medio di 5 anni una riduzione della mortalità totale e cardiovascolare di circa il 40 per cento nei pazienti che assumevano metformina in monoterapia o in combinazione rispetto a quelli trattati con sole sulfoniluree. Di particolare interesse un’importante revisione sistematica (Ann Intern Med, 2007) che ha valutato l’efficacia comparativa e la sicurezza dei farmaci orali per il trattamento del diabete di tipo 2.


I risultati hanno evidenziato un profilo migliore per i farmaci meno recenti: metformina e sulfaniluree di seconda generazione hanno mostrato infatti effetti simili o superiori sul controllo glicemico e sugli altri fattori di rischio cardiovascolare (pressione arteriosa, assetto lipidico, peso corporeo). Per metformina, in particolare, è stata evidenziata la capacità di ridurre i livelli di C-LDL (media di 10 mg/dl), di non aumentare il rischio di ipoglicemia e di avere un effetto neutro sul peso corporeo, mentre quasi tutti gli altri agenti comportano un incremento di circa 1-5 kg. Bisogna infine segnalare che la metformina ha mostrato, in uno studio pilota del tipo caso-controllo (BMJ, 2005), di ridurre il rischio di neoplasia maligna. Oltre che nel primo livello della terapia farmacologica, la presenza di metformina è raccomandata anche successivamente, quando il controllo della glicemia in monoterapia non è soddisfacente ed è necessario associare due o più farmaci.

Controindicazioni Tra i vantaggi della metformina occorre annoverare anche quelli dovuti all’esperienza nell’ambito delle controindicazioni; queste concernono principalmente il rischio di acidosi lattica e dipendono dal meccanismo d’azione del farmaco, che determina l’accumulo di substrati gluconeogenetici tra i quali il lattato. Tra le condizioni che ne controindicano l’assunzione compaiono l’età avanzata, l’insufficienza renale cronica anche lieve, l’insufficienza cardiaca e l’insufficienza respiratoria. L’analisi degli studi nei quali l’uso di metformina è stato subordinato al rispetto rigoroso delle controindicazioni, tuttavia, non ha evidenziato casi di acidosi.

L’opzione italiana Metfonorm è una metformina interamente prodotta in Italia (Abiogen Pharma) disponibile nei tre dosaggi di 1.000 mg, divisibile, 850 mg e 500 mg. La prossimità della filiera produttiva deve costituire per il medico una garanzia di qualità del prodotto e può rappresentare un criterio di scelta nella prescrizione. Analoghe osservazioni sono valide per un altro prodotto, Gliconorm, un’associazione tra metformina e

Meccanismo d’azione della metformina Metformina è un farmaco orale della classe dei biguanidi ben conosciuto sia sotto l’aspetto terapeutico che del profilo di sicurezza. La sua azione ipoglicemizzante si manifesta soprattutto negli stati di insulino-resistenza, per la sua capacità di ripristinare la sensibilità tissutale all’insulina. Essa non stimola la secrezione di insulina e, per tale motivo, non causa ipoglicemia. Metformina ha la capacità di inibire la funzione mitocondriale e ridurre a livello epatico la fosforilazione ossidativa e il ciclo di Krebs, con la conseguenza di un impoverimento dei livelli cellulari di ATP, ciò che si traduce in una riduzione della produzione epatica di glucosio. Un altro meccanismo d’azione al livello cellulare concerne la capacità della metformina di attivare il sistema AMPK, un complesso enzimatico che modula il metabolismo glucidico e lipidico: quando le scorte cellulari di energia diminuiscono, l’attività della AMPK aumenta, inibendo la gluconeogenesi epatica e aumentando la sensibilità all’insulina e l’utilizzazione di glucosio a livello muscolare. Essa, inoltre, ritarda l’assorbimento intestinale del glucosio.

la sulfonilurea di seconda generazione glibenclamide. Anche questa associazione trova spazio nelle indicazioni terapeutiche per il diabete. Metformina e sulfaniluree di seconda generazione, grazie a meccanismi d’azione complementari (le sulfaniluree stimolano la secrezione d’insulina), svolgono un’azione sinergica che permette di ridurre le dosi dei singoli farmaci, offrendo una maggiore sicurezza d’impiego e minore incidenza di effetti collaterali. Il vantaggio di un’associazione precostituita si realizza soprattutto in termini di aderenza: la letteratura scientifica e la pratica clinica testimoniano di quanto migliori la “compliance” del paziente tanto più sia ridotta la frequenza di assunzione giornaliera di una terapia, e come un’unica assunzione al giorno rappresenti la possibilità che, in generale, ottiene la migliore aderenza. A questo aspetto, Gliconorm aggiunge la maneggevolezza, grazie alla divisibilità delle sue compresse che permette di modulare il dosaggio in funzione delle singole necessità terapeutiche, rendendo più facili le associazioni multiple di antidiabetici orali.

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C O NGRESSI

61° Meeting annuale ACC - 24-27 marzo – Chicago

Chirurgia dell’obesità e nuove opzioni ipocolesterolemizzanti all’attenzione dei cardiologi

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l congresso annuale dell’American College of Cardiology è uno degli appuntamenti più attesi della cardiologia (e non solo) mondiale sia per la ricchezza di contenuti che da anni ormai contraddistingue l’evento, sia per la multidisciplinarietà. Per motivi di spazio dedichiamo un focus solo ad alcune presentazioni che riteniamo possano essere di interesse per il Medico di medicina generale. Primo fra tutti possiamo citare lo studio STAMPEDE secondo cui nei pazienti diabetici e obesi, la chirurgia bariatrica associata con un trattamento farmacologico intensivo sembra garantire un migliore controllo del diabete tipo 2 (DT2) rispetto a quanto osservato per la terapia farmacologica. Nel braccio in terapia medica, dopo 12 mesi solo il 12 per cento dei pazienti aveva raggiunto un target di emoglobina glicata (HbA1c) ≤6 per cento, rispetto al 40 per cento circa dei pazienti sottoposti a una procedura chirurgica. Il trial ha arruolato 150 pazienti con età media 50 anni, valori medi di HbA1c 9,2 per cento, BMI 2743 kg/m2, e che erano in terapia con almeno tre farmaci ipoglicemizzanti. I partecipanti sono stati randomizzati a terapia medica aggressiva, terapia medica aggressiva+ bypass gastrico, terapia me-

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dica aggressiva+ resezione a manicotto (sleeve gastrectomia). Oltre agli eccellenti risultati sull’HbA1c, la procedura interventistica ha comportato, come peraltro prevedibile, una significativa riduzione di peso, dell’ordine dei 27 kg contro 4,5 kg della terapia medica (P <0,001). Un dato da sottolineare è anche il calo nell’utilizzo di ipoglicemizzanti, ipolipemizzanti e farmaci antipertensivi nei due gruppi sottoposti a chirurgia; nei soggetti in terapia medica, tale uso è invece aumentato (P <0,001). I risultati sono dunque significativi, come ha sottolineato il coordinatore dello studio Philip R. Schauer, soprattutto perché nonostante vi sia stato un miglioramento nell’armamentario terapeutico in ambito cardiovascolare e nel diabete di tipo 2, vi è tuttora un’ampia quota di pazienti obesi che è lontana da un trattamento ottimale e quindi resta ad alto rischio. Naturalmente questo studio non va inteso come un incitamento ad applicare la chirurgia bariatrica, va visto piuttosto come una potenziale opzione per quei pazienti obesi in cui il diabete non è ben controllato nonostante una terapia farmacologica in atto. Serviranno studi multicentrici e più ampi per comprendere meglio l’entità dei benefici osservati con la chirurgia bariatrica. Altra comunicazione di interesse riguarda un anticorpo monoclonale sperimentale per le dislipidemie. La molecola per il momento indicata come REGN727 (oppure SAR236553) è in fase II di sperimentazione, e ha dimostrato di garantire un significativo calo della frazione LDL di colesterolo quando aggiunta a

statine. Il trattamento infatti ha permesso di ridurre i livelli di C-LDL del 40-72 per cento in più rispetto a quanto riscontrato con il placebo in pazienti già in terapia con atorvastatina (ATV), ma non controllati adeguatamente. L’anticorpo fa parte di una nuova classe di farmaci, inbitori di PCSK9, che aumentano l’assorbimento di colesterolo da parte del fegato bloccando la PCSK9. Quest’ultima è una proteina prodotta nel fegato, che si lega ai recettori delle LDL promuovendone la degradazione e quindi riducendo la capacità del fegato di rimuovere il colesterolo LDL dal circolo sanguigno. Lo studio è stato condotto in 183 pazienti con livelli di C-LDL di 100 mg/dl in terapia con ATV da almeno 6 settimane; l’anticorpo è stato testato in diversi dosaggi, in iniezione sottocutanea ogni 2 settimane oppure ogni 4 settimane. Tra i pazienti trattati ogni 2 settimane, C-LDL si è ridotto del 40 per cento con un dosaggio pari a 50 mg, del 64 per cento con 100 mg e del 72 per cento con 150 mg; nei pazienti trattati ogni 4 settimane, le entità della riduzione sono state rispettivamente 43 per cento con 200 mg e 48 per cento con 300 mg. Nel gruppo placebo invece, il C-LDL si è abbassato solo del 5 per cento. Vi è dunque un’apparente maggiore efficacia dello schema di terapia bisettimanale, anche se questo aspetto dovrà essere approfondito. In ogni caso, questi dati sono stati commentati come “strabilianti”. E, se questo anticorpo confermasse l’efficacia e la sicurezza potrebbe davvero rappresentare una rivoluzione nel trattamento delle iperlipidemie.


CONGRESSI

22° Congresso ESH – 26-29 aprile – Londra

Ipertensione: nuove conferme sui benefici della triplice associazione

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n occasione del congresso annuale dell’European Society of Hypertension sono stati presentati ulteriori risultati positivi per la triplice associazione antipertensiva (Sevitrex), svilluppata da Daiichi-Sankyo. Le nuove evidenze sull’efficacia del farmaco derivano da tre studi, di durata diversa, che nel complesso delineano come la triplice associazione precostituita possa rappresentare una risposta concreta a uno dei problemi tuttora irrisolti nella gestione dell’ipertensione, che è quello dell’aderenza. Molti pazienti infatti sono lontani dai target pressori, nonostante l’ampia disponibilità di farmaci efficaci. E, uno dei motivi di questo “gap” è proprio l’aderenza terapeutica, che diventa specialmente evidente nei pazienti anziani polipatologici

in terapia con diversi farmaci, oltre agli antipertensivi. Nel primo studio che ha avuto una durata di 10 settimane, una quota significativamente maggiore di pazienti con ipertensione da moderata a severa ha raggiunto i target pressori, quando trattati con la triplice associazione (O, olmesartan/A, amlodipina/H, idroclorotiazide) rispetto a quanto osservato per la duplice associazione olmesartan/amlodipina. E questo profilo di efficacia è stato ottenuto a parità di sicurezza. L’altro studio, della durata di 32 settimane, evidenzia un altro beneficio della “triplice”, che è quello della possibilità di personalizzare il dosaggio. Infatti negli ipertesi che non erano arrivati a target con O/A/H al dosaggio di 40/10/12,5 mg, l’obiettivo nei

valori pressori è stato raggiunto passando al dosaggio 40/10/25 mg; i diversi dosaggi sono stati ben tollerati. Infine, il terzo studio, che va ad ampliare i risultati del TRINITY, pubblicato nel 2010, è stato presentato dal prof. Massimo Volpe, dell’Università La Sapienza di Roma e presidente SIIA. Sono stati analizzati i cambiamenti della pressione sistolica in pazienti ipertesi (moderati-gravi) dopo un trattamento con O/A/H di 54 settimane. I risultati dimostrano l’efficacia a lungo termine con una riduzione della pressione sistolica, al di sotto dei 140 mmHg in quasi tutti i soggetti trattati. “Questi ultimi risultati clinici”, ha commentato il prof. Volpe “forniscono ulteriori prove dei benefici terapeutici per i pazienti ipertesi derivanti dall’impiego della combinazione triplice”. Efficacia e semplificazione della terapia sono presupposti essenziali per garantire una gestione dell’ipertensione ad ampio spettro.

Psichiatria europea a confronto

XVI Congresso nazionale CIPOMO

Si rinnova l’assistenza psichiatrica in Italia

L’oncologia del futuro sarà eco-sostenibile

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a alcuni anni in 12 siti del Nord Italia è stato avviato un progetto di sviluppo di strutture che sono state adattate alle attuali normative regionali del settore socio-sanitario. Se ne è parlato a Torino (20-21 aprile), in occasione di un convegno europeo. Artefice di questo rinnovamento dell’assistenza sul territorio per i pazienti lungodegenti o con patologie un tempo destinate al ricovero manicomiale è il gruppo francese Orpea. Al momento focalizzata nel Nord Italia l’attività del gruppo Orpea è iniziata nel 2007 con l’acquisizione della casa di cura Villa di Salute, a pochi chilometri da Torino. Completamente rimodernata e ampliata, oggi è un’innovativa struttura a indirizzo neuropsichiatrico accreditata con il SSN. Le principali patologie trattate sono quelle neuropsichiatriche acute e post-acute, psicosi e disturbi della personalità, doppia diagnosi, sintomi psichiatrici secondari a patologie neurologiche, nonché patologie croniche acquisite e disturbi psicogeriatrici.

na tre giorni particolarmente intensa e ricca di contenuti innovativi ha contraddistinto il congresso del Collegio italiano dei primari oncologi medici ospedalieri (CIPOMO, 17-19 maggio – Cosenza). Un “laboratorio futuristico”, così possiamo sintetizzare il meeting, in cui gli specialisti presenti si sono interrogati sugli anni che verranno e sul possibile avvento di una “green oncology”. Quest’ultima rappresenta un nuovo paradigma concettuale e operativo dell’oncologia, orientato verso azioni cliniche partecipate con i pazienti, condivise tra i diversi operatori, ed eco-responsabili del potenziale impatto sull’ambiente umano, professionale, tecnologico, nonchè sulla biosfera. L’operato dell’oncologo medico sarà improntato sull’attenzione per l’ambiente e il risparmio di risorse in un’ottica di appropriatezza prescrittiva, diagnostica e terapeutica, organizzativa ed economica.

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MSD – Primary Care

Algoritmo: un filo d’Arianna per ridurre il “peso” delle malattie cardiovascolari

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pertensione, colesterolemia elevata, diabete, obesità sono i maggiori “azionisti” delle malattie cardiovascolari (CV), prima causa di morte prematura e di malattia invalidante nel nostro Paese. Come correggere questi fattori di rischio, di quanto, e con quali interventi sullo stile di vita o con farmaci, sono indicazioni che gli studi clinici degli ultimi decenni hanno chiarito con sufficiente precisione. Inoltre, le informazioni sui valori ottimali da raggiungere per i vari fattori di rischio sono note a larghe fette della popolazione. Dovremmo quindi aspettarci che i fattori di rischio CV vengano sempre meglio controllati col passare degli anni. E invece la realtà italiana, come quella di tutti i Paesi sviluppati, marcia in senso sconsolatamente opposto: anche i soggetti con rischio elevato o reduci da infarto o ictus si curano poco della loro pressione arteriosa, dei livelli di colesterolo o della glicemia. Mutare sensibilmente questa situazione non può che essere un impegno di lungo periodo, che va perseguito insieme dai medici e dai cittadini. In questa battaglia oggi c’è uno strumento in più: si chiama Algoritmo. È un percorso diagnostico-terapeutico comune definito da esperti di 13 Società scientifiche (cardiologi, diabetologi, nefrologi, internisti e medici di famiglia) e realizzato grazie a un contributo di MSD

Italia. È stato presentato a Roma dagli esperti che lo hanno redatto: “È un itinerario che riassume e ottimizza tutte le Linee guida internazionali– spiega Degli Esposti, nefrologo di Ravenna –sul rischio cardiovascolare metabolico”. Ma la novità più importante è l’approccio metodologico: “Il paziente al centro e gli specialisti che gli ruotano intorno– spiega la prof. Modena, direttore della cattedra di Cardiologia dell’Università di ModenaReggio e coordinatrice del Progetto -La filosofia di base è quella del ‘tutti per uno’ ovvero la multidisciplinarietà al servizio del paziente… L’Algoritmo è uno strumento importantissimo che non va confuso con le Carte del rischio perché è una carta di intervento, e quindi dinamica anche in prospettiva”. Il percorso è suddiviso in tre grandi aree: la prima per il soggetto sano, con funzione di prevenzione primaria; la seconda interessa i soggetti con almeno un fattore di rischio e quindi comprende l’ampia area di rischio CV intermedio; la terza riguarda i soggetti con diagnosi di diabete. Da segnalare, infine, che Algoritmo è disponibile anche come “app” per gli iPhone e iPad, scaricabile dall’App Store con il nome di Rischio Cv, ed è fruibile gratuitamente per medici e farmacisti ospedalieri iscritti al portale scientifico Univadis.it strumento di informazione apprezzato dai medici italiani che conta oltre centomila iscritti.

Teva

Contraccezione: disponibile in Italia una “pillola” di nuova generazione

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prescindere dai comportamenti e dagli orientamenti culturali, la pillola resta per le donne italiane il metodo contraccettivo di riferimento. A confermarlo sono i dati di un’indagine Doxa Marketing Advice, presentati alla stampa a Milano lo scorso 5 marzo. Seppure l’Italia sia ancora un po’ indietro rispetto ad altri Paesi europei (per esempio solo il 14,2 per cento delle italiane usa la pillola contro quasi il 60 delle portoghesi), le donne esprimono orientamenti ben precisi nei confronti della pillola. L’indagine è stata realizzata su un campione rappresentativo di donne in età fertile (18-50

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anni). Il 78,3 per cento delle intervistate è favorevole all’uso della pillola. Il motivo sembra per lo più di tipo culturale, legato a una forma di emancipazione; per molte infatti “la pillola ha liberato le donne”, permettendo di programmare la propria fertilità. Perplessità e dubbi emergono quando si considerano gli eventuali effetti collaterali. Il dato più sorprendente nelle intervistate sotto i 25 anni riguarda il rifiuto di usare la pillola perché necessita della prescrizione medica. Sussistono ancora alcune paure infondate, nonostante i passi da gigante degli ultimi 50 anni, con la disponibilità di pillole sempre più

sicure, efficaci e con un profilo di tollerabilità sempre migliore. L’ultimo progresso in questo senso è rappresentato da una nuova pillola monofasica (Zoely, Teva). A differenza delle altre, questa pillola associa il 17-b estradiolo, strutturalmente identico a quello prodotto dalle ovaie, con il nomegestrolo acetato, progestinico impiegato già da tempo. Si tratta di un’opzione con un elevato profilo di sicurezza, e quindi si delinea come soluzione ottimale per tutte le donne che desiderano una contraccezione efficace e allo stesso tempo “naturale”, che non alteri l’equilibrio metabolico.


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2-04-2010

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Novartis

La terapia antibiotica per la fibrosi cistica diventa “wireless”

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pazienti affetti da fibrosi cistica sono particolarmente vulnerabili alle infezioni da parte di microrganismi patogeni. Tra i più frequenti vi è Pseudomonas aeruginosa, e le stime indicano che oltre il 70 per cento dei malati di fibrosi cistica presenti un’infezione cronica. La gestione della terapia in questi casi è complessa e presenta alcune criticità, per esempio l’elevato carico terapeutico in termini di trattamenti e tempo richiesto, la scarsa aderenza alla terapia e il conseguente aggravamento della patologia a causa delle complicanze che possono insorgere. Altro aspetto problematico riguarda la possibilità di un’ulteriore contaminazione batterica, derivante da una non corretta pulizia e disinfezione dei nebulizzatori. Ricordiamo infatti che attualmente l’antibioticoterapia, rappresentata da tobrami-

cina, è somministrata per aerosol. Ecco perché costituisce una svolta la messa a punto e la disponibilità di un apparecchio portatile (Tobi Podhaler®) “wireless” in grado di dispensare la tobramicina in polvere, e non più in soluzione per aerosol. Con questo apparecchio il farmaco viene assunto in soli 5 minuti, contro i 20 richiesti dalla soluzione per aerosol. E questo rappresenta un indubbio vantaggio, perché calcolando anche i tempi richiesti per la preparazione del nebulizzatore e per la successiva pulizia, il nuovo dispositivo “regala” 13 ore di tempo libero, in un ciclo di terapia di 4 settimane. Il carico terapeutico si allevia, e in conseguenza vi è un potenziale impatto positivo sulla compliance, che rappresenta il ”tallone d’Achille” nella gestione della malattia. L’algoritmo terapeutico nei

malati è articolato. L’aderenza è quindi fondamentale, e in tal senso la tobramicina in polvere dispensata in modalità wireless rappresenta davvero un salto di qualità. Il dispositivo per la somministrazione è tascabile e dura una settimana, non necessita di disinfezione e nemmeno di alimentazione elettrica. L’impegno di Novartis per la fibrosi cistica è anche confermato dalla collaborazione al progetto Vivi Wireless. Un’iniziativa che offre ai malati un modo innovativo di praticare attività fisica, altra componente essenziale della terapia. La fisioterapia di routine si potrà integrare con specifici esercizi della console XBOX Kinect, di cui saranno dotati 30 Centri specialistici in Italia, aggiungendo così anche una componente ludica, da non sottovalutare vista la giovane età di molti malati.

AstraZeneca

Importante innovazione per la terapia farmacologica dell’infarto

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a sindrome coronarica acuta (SCA) è una condizione patologica grave, che è causa di circa 130mila ricoveri ogni anno ed è gravata da un tasso di mortalità in unità coronarica che può giungere al 10 per cento. I più colpiti sono gli anziani e i diabetici. Anche nel nostro Paese è ora disponibile un nuovo trattamento farmacologico, ticagrelor (AstraZeneca), che nell’importante studio PLATO si è dimostrato efficace nel ridurre del 16 per cento il rischio combinato di infarto del miocardio, morte cardiovascolare, ictus in pazienti affetti da SCA; il rischio relativo di morte cardiovascolare, in particolare, è stato del 21 per cento, rispetto alla terapia standard (clopidogrel), con un buon

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profilo di rischio emorragico. Ticagrelor è capostipite di una nuova classe chimica, denominata ciclo-pentiltriazolo-pirimidina (CPTP), di antagonisti del recettore P2Y ed è già riconosciuto dalle maggiori Linee guida internazionali e dal NICE. È indicato, in associazione con ASA, per la prevenzione di eventi cardiovascolari in pazienti adulti affetti da SCA, compresi i pazienti trattati con la sola terapia medica, sottoposti ad angioplastica o all’impianto di bypass aorto-coronarico per ripristinare la pervietà delle arterie coronariche occluse. Punti di forza di ticagrelor sono la rapidità e reversibilità d’azione, caratteristiche

molto importanti in fase acuta, quando il paziente è a maggior rischio di ricorrenza dell’evento. Nel trattamento dell’infarto, infatti, la terapia antiaggregante ottimale mira a garantire una pronta e adeguata riperfusione del muscolo cardiaco, a minimizzare i danni prodotti dalla necrosi ischemica, a ridurre il rischio di formazione di nuovi trombi e a permettere la massima riduzione del tempo di sospensione della terapia antipiastrinica imposto da interventi invasivi. Ticagrelor mostra anche un buon profilo di rischio emorragico: lo studio PLATO ha evidenziato un tasso di sanguinamenti maggiori e fatali non dissimili per i due trattamenti confrontati.


ABC Farmaceutici

Un nuovo simbiotico per controllare le infezioni del tratto uro-genitale

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BC Farmaceutici, azienda che vanta un’esperienza trentennale in ambito uro-gastroenterologico, ha messo a punto un nuovo prodotto (Colifagina PRO®) che potrà trovare impiego nella prevenzione delle infezioni da coliformi del tratto uro-genitale. Si tratta di un simbiotico, con due ceppi probiotici brevettati, Bifidobacterium breve BR03 e Lactobacillus rhamnosus LR06, geneticamente tipizzati e resistenti a temperatura ambiente, frutto-oligosaccaridi e fibre prebiotiche che favoriscono la colonizzazione e l’integrità del sistema immunitario intestinale. Il B. breve incrementa i linfociti T-helper responsabili delle difese immunitarie e potenzia la risposta Th2 con produzione di potenti citochine antinfiammatorie. L. rhamnosus LR03 inibisce selettivamente la moltiplicazione di diversi biotipi

di Escherichia coli, mediante il rilascio di batteriocine che si comportano come antibiotici locali, e incrementa anche le difese di tipo natural killer e da cellule B, responsabili della produzione di immunoglobuline. Il simbiotico favorisce la stimolazione citochinica e modula la risposta immune nei confronti di diversi tipi di E. coli. Proprio nei confronti dell’E. coli si sta osservando un preoccupante fenomeno di resistenza agli antibiotici, soprattutto nelle cistiti e vulvo-vaginiti. Per questo la ricerca è orientata verso altre strategie terapeutiche, sia nel primo trattamento sia nella prevenzione delle recidive, suggerendo l’utilità di un approccio diverso, che preveda l’impiego di preparati in grado di modificare in senso probiotico l’ecosistema intestinale, e ridurre la carica uro-patogena soprattutto

MedicalStar

Il sito dedicato alla vitamina D è online totalmente rinnovato

VitaminaD.it è un sito italiano con taglio scientifico interamente dedicato alla vitamina D, che ha l’obiettivo di informare sull’importanza di questa vitamina, sulle funzioni che svolge, sulle fonti di integrazione e il fabbisogno personale, su come scoprire eventuali carenze. Sul sito si trovano diversi video a supporto e una vasta letteratura scientifica per approfondire il tema. Viene inoltre offerta la possibilità di contattare “l’esperto”, una dottoressa del Dipartimento di Endocrinologia dell’Università di Pisa specializzata nell’argomento. Da non perdere i video del “Dottor D”, che spiegano in maniera semplice e immediata il meccanismo d’azione e le molteplici funzioni della vitamina D nel nostro organismo.

dei ceppi di E. coli. Studi sperimentali in vitro, condotti all’Università di Catania, hanno mostrato l’importanza della colonizzazione vaginale dei lattobacilli nel mantenimento dell’omeostasi dell’ecosistema vaginale, con diminuzione del rischio di colonizzazione di uro-patogeni provenienti dal serbatoio intestinale. I ceppi presenti in Colifagina PRO® mostrano interessanti capacità di inibizione dell’adesione in vitro di E. coli su cellule uro-epiteliali umane, a sostegno dell’utilità nelle infezioni da coliformi del tratto uro-genitale. Il prodotto rappresenta, quindi, un ausilio per favorire il mantenimento del sistema immunitario intestinale e la risposta immune contro i patogeni intestinali, responsabili di alterazioni intestinali, diarrea, cistiti e vulvo-vaginiti.

Teva Nuove guide per il MMG dedicate all’area cardiovascolare

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ontinua la serie editoriale Disease Management della Società Italiana di Medicina Generale. Sono disponibili due nuovi volumi, dedicati all’area cardiovascolare: “Le malattie cardiovascolari: dinamiche assistenziali” e “La (nuova) nota 13 AIFA e i suoi effetti professionali, clinici e economici”. Queste guide pratiche risultano essere interessanti per il lavoro quotidiano del medico perché affrontano percorsi diagnostici-terapeutici e assistenziali in modo sintetico e pragmatico. Nello specifico entrambe le guide oltre a trattare gli aspetti di gestione clinica, diagnostica e terapeutica, approfondiscono anche le dinamiche e le normative assistenziali, con un’accurata analisi interdisciplinare perché, oltre a quella puramente medica, si raccoglie anche l’analisi sull’organizzazione dell’assistenza e di esperti in farmaco economia. I medici interessati a ricevere gratuitamente le guide possono richiederle registrandosi sul sito www.teva-lab.it. Questo portale offre informazioni e servizi per il medico, tra i quali possiamo ricordare una rassegna aggiornata delle normative regionali e un percorso formativo FAD con crediti ECM.

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Sirton Medicare

Ibsa

L’ipotiroidismo, una malattia sconosciuta

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e malattie della tiroide sono frequenti e molto diffuse, eppure sono poco conosciute nel nostro Paese a livello della popolazione generale. Una recente indagine infatti, condotta in soggetti con età superiore ai 15 anni, dimostra che solo il 20 per cento degli interpellati conosce le malattie della tiroide. E solo il 7 per cento, per esempio, ritiene che l’ipotiroidismo (che peraltro colpisce il 5 per cento della popolazione, tanto quanto il diabete) sia una condizione seria e limitante. L’ipotiroidismo in particolare, secondo gli intervistati, sembra facilmente riconoscibile; ciononostante viene diagnosticato molto tempo dopo la manifestazione dei primi sintomi. Per informare la popolazione e per sensibilizzare sulla prevenzione, la Settimana della tiroide (18-25 maggio) anche quest’anno ha voluto sottolineare l’importanza della diagnosi precoce. Tanto più che per patologie come l’ipotiroidismo la terapia ormonale sostitutiva con levotiroxina è ben consolidata da decenni, e permette di controllare in modo efficace i sintomi. Inoltre, le nuove formulazioni di levotiroxina sono più facilmente modulabili, e quindi permettono di aggiustare lo schema di terapia in base alle esigenze del singolo paziente.

La detersione del corpo anti-ageing e a prova di allergie

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soggetti che presentano particolari allergie, per esempio al nichel e ai conservanti sintetici, quelli affetti da dermatite seborroica o stati pruriginosi ricorrenti possono contare su un nuovo prodotto per la detersione della pelle. Si tratta di DERMiO (Sirton Medicare), un dermo-detergente fluido per corpo, mani e ascelle, ricco di principi attivi naturali a base oleo-detergente e arricchito di licopene biologico. Grazie a questa formulazione, DERMiO assicura un’azione antimicrobica, antimicotica e antiageing naturale, risultando un importante alleato nella prevenzione di irritazioni, dermatiti, invecchiamento e abbassamento delle difese di tutti i tipi di pelle. È l’unico detergente a base di licopene biologico (estratto di pomodoro naturale al 100 per cento), incapsulato in cerasomi di grano, ed offre un significativo contributo nel rallentamento del processo di invecchiamento della pelle. Il prodotto è indicato per uomini e donne di ogni età (anche durante gravidanza, allattamento e menopausa), nel periodo adolescenziale e, in generale, per proteggere la pelle in luoghi ad alto rischio di contagio micotico, come palestre, piscine e saune. È disponibile in farmacia e ha un costo di 14,00 euro (flacone di 200 ml).

SHIRE

Nuova opzione terapeutica per la stipsi cronica La stipsi è una condizione che interessa una vasta parte della popolazione: in Italia circa l’11 per cento, con picco nel sesso femminile sotto i 65 anni e aumento con il progredire dell’età. Quando assume carattere di cronicità diventa un problema serio e la diagnosi, in genere a opera di un gastroenterologo, risponde a precisi criteri internazionali. Il sintomo più frequente è la difficoltà evacuatoria dovuta alla presenza di feci dure. La stipsi cronica inoltre favorisce l’insorgere di alterazioni extraintestinali, quali incontinenza urinaria femminile, infezioni urinarie e prostatiti. Spesso si associano condizioni particolarmente disagevoli quali emorroidi e prolasso rettale, fissurazione anale e fecalomi. Recentemente è stata presentata a Milano un’indagine Doxapharma condotta in 39 Centri specialistici italiani su circa 900 pazienti con stipsi cronica: quasi la metà di essi giudicava “non buono” il proprio stato di salute con compromissione delle capacità lavorative. I lassativi tradizionali sono inutili (o peggio) in questa condizione, ma dal 2012 è disponibile anche in Italia una nuova efficace terapia (prucalopride, Shire) selettiva sulla motilità intestinale. Il vero ostacolo, tuttavia, a una gestione razionale della patologia è che essa non è considerata dal Ministero una sindrome a sé, distinta dalla stipsi occasionale che è classificata (anche per il rimborso delle terapie) un disturbo funzionale.

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Mipharm - doc generici

Farmaci generici, ma solo di qualità

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farmaci generici a volte vengono percepiti come “diversi” rispetto agli originatori, e la criticità riguarda in particolar modo la loro produzione. Erroneamente sia gli operatori sanitari che i pazienti ritengono che i generici vengano prodotti in stabilimenti “secondari”, privi di controlli e standard qualitativi. Si crea quindi una percezione distorta che ostacola la corretta penetrazione del farmaco generico, con un impatto negativo sia sul singolo che sul Servizio sanitario nazionale. A testimonianza dell’esistenza di elevati standard qualitativi all’interno di tutta la catena produttiva di un generico, opera in Italia Mipharm, un’azienda milanese che da circa un decennio è attiva nello sviluppo, produzione e commercializzazione di diverse specialità farmaceutiche. A partire dal 2009, l’azienda si è concentrata solo sui generici, diventando un riferimento per molte altre aziende leader del mercato del generico, tra cui Doc Generici. Mipharm ha un sito produttivo a Milano, all’avanguardia, dotato di tecnologie moderne che permettono di produrre circa 65 milioni di pezzi all’anno, nel rispetto dei più elevati standard qualitativi. L’azienda ha circa 250 dipendenti, e un fatturato per il 2011 che supera i 34 milioni di euro.


segna

libro

Autori vari, Coordinamento scientifico Angelo Selicorni e Rossella Parini

Le Malattie Rare in età giovane-adulta Dal sospetto diagnostico alla gestione clinica Hippocrates Edizioni Medico-Scientifiche, pagg. 450

L’

ambito delle malattie rare ha da sempre focalizzato l’attenzione sull’età pediatrica. La patologia rara tuttavia riguarda anche l’età adulta, per l’esattezza fino al 75 per cento dei soggetti, ci informa la dottoressa Marcella Zollino, coordinatrice del Gruppo nazionale di Genetica-clinica-SIGU, nella premessa di questo libro. Questo soprattutto grazie ai progressi che la ricerca ha compiuto in questi anni, che si sono tradotti in una maggiore aspettativa di vita, ma anche perché l’esordio o il quadro di alcune patologie rare si delinea in età giovane-adulta. La disponibilità di sofisticate tecniche di diagnosi per una fine caratterizzazione genotipica, così come le possibilità offerte in tema di prognosi e di qualità di vita da un’assistenza improntata alla multidisciplinarietà, impongono ai medici una crescita culturale su questi temi. Se i destinatari principali di questo messaggio sono i MMG, quelli forse

al momento meno attrezzati a fronteggiare le malattie rare, esso riguarda anche i pediatri e la medicina specialistica: tutti si troveranno sempre più ad avere, tra i propri, questi pazienti. Ecco dunque, il motivo di questo “dizionario” di malattie rare dell’età giovane-adulta, che condensa “informazioni significative e aggiornate sul piano diagnostico, ma soprattutto, assistenziale per un numero consistente di malattie rare geneticometaboliche, fornendo al lettore una sintesi preziosa della letteratura esistente” (dalla prefazione di Angelo Selicorni, presidente SIMGePeD). Il volume è diviso nelle due sezioni “Sindromi malformative” e “Malattie metaboliche” ed è corredato di glossario, indice, comprensivo di un elenco dei codici d’esenzione relativi alle patologie trattate, e una piccola documentazione iconografica. Il libro è stato presentato in occasione della recente Giornata dedicata alle malattie rare del 29 febbraio scorso ed è stato realizzato grazie al contributo non condizionato di Genzyme.

Jane L. Henry, Peter H. Wilson

acufeni. Manuale di sopravvivenza Edizione italiana a cura di Dario C. Alpini e Antonio Cesarani, Springer, pagg. 148, euro 20,00

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cufeni (o tinnitus) è un termine che fa riferimento alla percezione di suoni o di rumori nelle orecchie o nella testa senza che nell’ambiente esterno vi sia un rumore. Gli acufeni molto spesso mimano rumori comuni quali per esempio, un ronzio o un fischio. Si tratta di un fenomeno noto e descritto fin dall’antichità, che attualmente rappresenta un problema comune e si riscontra in una quota variabile tra il 6 e il 17 per cento della popolazione. È bene precisare che nella maggior parte dei casi, vi è una disfunzione del sistema uditivo all’origine degli acufeni, e quindi non si tratta di un qualcosa di “immaginario” o “inventato”. L’impatto sulla qualità di vita delle persone che ne soffrono è molto variabile. In alcuni pazienti per esempio, il disturbo non è, oppure è solo lievemente percepito; in queste situazioni il medico spesso viene consultato solo per comprendere le cause del disturbo. Ci sono viceversa situazioni ben più gravi e fastidiose,

che necessitano di un consulto specialistico. I pazienti con forme più gravi spesso lamentano anche tensione, ansia, depressione, irritabilità e disturbi del sonno. La conseguenza finale è un negativo e incisivo impatto sulla qualità di vita, e sulle attività produttive e di relazione. Pur non essendoci una cura definitiva e risolutiva per gli acufeni, vi sono alcune “regole” che insegnano a ridurre i fastidi, rendendoli sopportabili. Questo volume più che un libro di teoria, vuole essere un “manuale di sopravvivenza” per insegnare come convivere con gli acufeni e come gestire questo distrubo in modo semplice, efficace ed economico. È corredato da numerose figure e tabelle che ne facilitano la lettura.

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