Medico e paziente 02-03 2013

Page 1

Mensile € 5,00

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXIX n. 2-3 - 2013

2-3

Cardiologia l’IVS come marker del rischio cardiovascolare Intolleranza non celiaca al glutine i risultati di uno studio italiano Prevenzione il ruolo degli aminoacidi nelle patologie legate all’invecchiamento Degenerazione maculare senile nuovi strumenti per la diagnosi precoce

MP


SEMPRE PIÙ DIFFICILE! La crisi economica e le difficoltà dell'editoria rendono sempre più difficile far arrivare la rivista sulla scrivania del Medico

Assicurarsi tutti i numeri di Medico e Paziente è facile

Le modalità di pagamento sono le seguenti

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

6

CLINICA

DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

MP

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

>s Domenico D’Amico

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI - € 3,00

Anno VIII- n. 2 - 2012 Mensile € 5,00

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI

RINNOVA SUBITO L'ABBONAMENTO!

64° AAN ANNUAL MEETING

Le novità dal Congresso dei neurologi americani

2

I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

MP

15,00 euro

Medico e Paziente

25,00 euro

Medico e Paziente + La Neurologia Italiana

Bollettino di c.c.p. n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni - Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Bonifico Bancario Banca Popolare di Milano IBAN: IT 70 V 05584 01604 000000023440 Conto intestato a M e P Edizioni-Medico e Paziente Specificare nella causale l'indirizzo per la spedizione Solo per l’Italia: Assegno bancario intestato a M e P Edizioni-Medico e Paziente srl

Comunicaci la tua e-mail all'indirizzo abbonamenti@medicoepaziente.it e

IL TUO ABBONAMENTO DURERÀ 6 MESI IN PIÙ


Medico e paziente n. 2-3 anno XXXIX - 2013 Mensile di formazione e informazione per il Medico di famiglia

MP

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Floriana Adragna, Antonio Carroccio, Folco Claudi, Giovanni Corna, Cesare Cuspidi, Alberto D’Alcamo, Giuseppe Iacono, Pasquale Mansueto, Enzo Nisoli, Piera Parpaglioni, Stefano Piermarocchi, Giusi Randazzo, Annalisa Re, GiovamBattista Rini, Aurelio Seditia

in questo numero

sommario

p 5

letti per voi

p 7

cardiologia L’ipertrofia ventricolare sinistra come marker di rischio cardiovascolare Aspetti clinici e prognostici

L’ipertrofia ventricolare sinistra è un biomarker di elevato rischio per eventi CV fatali e non. La sua identificazione è importante per la messa a punto di adeguate strategie terapeutiche

Cesare Cuspidi, Annalisa Re, Giovanni Corna

14. Diagnosi di IPB e trattamento dei LUTS in Medicina generale I risultati di una survey europea 18. Ipertrofia prostatica benigna

Come evitare la progressione della malattia

In arrivo nuove opzioni di trattamento

22. Sindrome della vescica iperattiva 26. Terapia

Nella cistite interstiziale si rivela efficace la combinazione acido ialuronico-condroitin solfato

27. Eiaculazione precoce

Focus sulla diagnosi precoce e sui vantaggi del trattamento farmacologico

>>>> Medico e Paziente

2-3 .2013

3


Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG)

Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2012 - 31/12/2012 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.400 Certificazione CSST n° 2012-2333 del 27/02/2013 Società di revisione: REFIMI

Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

Come abbonarsi a medico e paziente

Medico e paziente

p 29 Gastroenterologia

Intolleranza al glutine non celiaca I risultati di uno studio italiano in doppio cieco

In passato la malattia celiaca era considerata rara, e pertanto quasi completamente ignorata dai clinici. Negli ultimi 20 anni però, è diventata al centro dell’interesse sia del mondo clinico che della ricerca

Pasquale Mansueto, Floriana Adragna, Alberto D’Alcamo, Aurelio Seditia, Giusi Randazzo, Giuseppe Iacono, GiovamBattista Rini, Antonio Carroccio

p 37 panorama

PROGETTO EPIC: troppi salumi e insaccati accorciano la vita Il pecorino sardo utile contro l’ipercolesterolemia Forum multidisciplinare sulla sana nutrizione Gli aminoacidi: la nuova frontiera nella prevenzione delle patologie legate all’invecchiamento

p 40 segnalazioni

Degenerazione maculare legata all’età Test genetici: il futuro della diagnosi precoce

p 42 segnalazioni

TERAPIA NUTRIZIONALE Il trattamento dietetico nutrizionale, un’efficace arma per controllare l’evoluzione dell’insufficienza renale cronica

p 43

Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it

2-3.2013

Farminforma

p 46 Notizie dal web

Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00

Numeri arretrati € 10,00

4

>>>>>>

sommario

Modalità di pagamento 1 Bollettino di ccp n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni srl - via Dezza, 45 - 20144 Milano 2 Bonifico bancario: Banca Popolare di Milano IBAN: IT 70 V 05584 01604 000000023440 Specificare nella causale l’indirizzo a cui inviare la rivista 3 Solo per l’Italia: assegno bancario intestato a M e P Edizioni srl


letti per voi GERIATRIA

Da uno studio prospettico emerge l’importanza di riconoscere e valutare il declino cognitivo negli anziani con scompenso cardiaco £ Lo scompenso cardiaco (SC) è una delle cause principali di ospedalizzazione e di ricoveri ripetuti a breve distanza di tempo. Circa l’80 per cento dei pazienti ha più di 65 anni e negli ultimi due decenni è raddoppiata la percentuale degli ultra-ottantenni. Malgrado l’età di questa popolazione, la compromissione delle funzioni cognitive molto spesso non viene diagnosticata, poiché non rientra nel modello tradizionale di malattia relativo allo scompenso cardiaco. Uno studio di coorte prospettico, condotto su 282 anziani ospedalizzati con diagnosi primaria di SC in due ospedali del Connecticut, ha esaminato l’associazione dei deficit cognitivi e della relativa documentazione fornita al momento della dimissione con la

Prevenzione

mortalità a 6 mesi o la frequenza di reospedalizzazione. Un declino cognitivo di vario grado, misurato con il Mini Mental State Examination (MMSE), è stato riscontrato nel 46,8 per cento dei pazienti (lieve nel 25,2 per cento, moderato-severo nel 21,6). Di questi casi, solo il 22,7 per cento era stato documentato durante il ricovero. Coloro nei quali la compromissione non era stata diagnosticata erano più giovani (81,3 vs. 85,2 anni, P <0,05) e con deficit più leggeri (punteggio medio al MMSE 22,0 vs. 18,0, P <0,01). Dopo l’aggiustamento per diverse variabili, si è visto che i pazienti senza documentazione dei deficit cognitivi avevano una probabilità maggiore e significativa di mortalità a 6 mesi o di nuovo ricovero

in ospedale, rispetto ai soggetti senza compromissione cognitiva (HR 1,53; CI 95 per cento 1,06-2,20; P=0,02). Nei soggetti con declino cognitivo documentato, tale rischio era inferiore (HR 1,27, 0,72-2,25; P =0,41). Come riscontrato in studi precedenti, la compromissione delle funzioni cognitive è uno dei più forti predittori indipendenti della mortalità nei pazienti ricoverati per SC. Il suo riconoscimento ha implicazioni importanti per la gestione di una malattia che richiede attenzione costante ai sintomi, controllo giornaliero del peso, aderenza alla terapia farmacologica e alle prescrizioni dietetiche. La diagnosi di eventuali disturbi cognitivi durante il ricovero per SC potrebbe facilitare l’adozione di interventi mirati alla dimissione, per esempio una semplificazione del regime terapeutico e l’istituzione di un programma di assistenza domiciliare. (P.P.) Dodson JA, Truong TTN, Towle VR et al. Am J Med 2013; 126: 120-6

£

Le calcificazioni coronariche (CAC), già identificate come potenti predittori di infarto miocardico, si rivelano ora anche LE CALCIFICAZIONI CORONARICHE predittori indipendenti di ictus nei soggetti classificati a basso o medio rischio cardiovascolare, tra i quali consentono di ricoCOME PREDITTORI INDIPENDENTI noscere quelli con un rischio più elevato. È questo il risultato DI ICTUS NELLA POPOLAZIONE di uno studio di popolazione apparso su Stroke, condotto in GENERALE Germania su una coorte di 4.180 soggetti di età compresa tra 45 e 75 anni, senza precedenti di ictus, di coronaropatia o di infarto miocardico, valutati per eventi cerebrovascolari in un arco di circa 8-9 anni. La presenza di CAC, determinata con EBTC (Electron Beam Computed Tomography), è stata analizzata come predittore di ictus in aggiunta ai fattori di rischio cardiovascolare riconosciuti (età, sesso, pressione arteriosa sistolica (PAS), LDL, HDL, diabete mellito, fumo, fibrillazione atriale). Gli ictus registrati durante lo studio sono stati 92 (82 di natura ischemica e 10 di natura emorragica). Si è visto che i soggetti incorsi in uno stroke avevano valori di CAC al basale significativamente più elevati degli altri (mediana 104,8 vs. 11,2; P <0,001). Dopo analisi di regressione, le calcificazioni coronariche sono risultate un predittore indipendente di ictus (HR 1,52 [CI 95 per cento 1,19-1,92]; P =0,001) in aggiunta all’età (1,35 per 5 anni [1,15-1,59]; P <0,001), alla PAS (1,25 per 10 mmHg [1,14-1,37]; P <0,001) e al fumo (1,75 [1,07-2,87]; P =0,025). Il valore predittivo di CAC era evidente sia negli uomini sia nelle donne, più forte nei soggetti ≤65 anni rispetto agli over 65, ed era indipendente dalla presenza di fibrillazione atriale. Inoltre le calcificazioni coronariche erano in grado di discriminare il rischio di ictus soprattutto nei soggetti appartenenti alle categorie di rischio basso (<10 per cento) o intermedio (10-20 per cento) del Framingham risk score. La presenza di CAC, oltre a riflettere l’entità delle placche coronariche, sembra costituire anche un marker di malattia aterosclerotica sistemica, in grado di predire eventi vascolari anche al di fuori del distretto coronarico. E in particolare, come dimostrato in questo studio, di predire gli eventi cerebrovascolari in modo indipendente dai fattori di rischio già noti. (P.P.) Hermann DM, Gronewold J, Lehmann N et al. Stroke 2013;44: 1008-13

Medico e Paziente

2-3.2013

5


letti per voi Neurologia

Prevenzione dell’emicrania con uno stimolatore transcutaneo sopraorbitale: i risultati di efficacia e di sicurezza di una procedura non invasiva £

La stimolazione dei nervi periferici è un trattamento accettato per il dolore cronico, tuttavia è stata poco studiata in relazione alle cefalee primarie. Alcuni trial hanno riportato un miglioramento dell’emicrania cronica con la stimolazione percutanea del nervo occipitale (da sola o combinata con quella sopraorbitale), che costituisce però una procedura invasiva, non accettabile per soggetti con emicrania episodica.

Una procedura non invasiva per la prevenzione dell’emicrania, basata sull’impiego di uno stimolatore transcutaneo sopraorbitale (STS), è stata messa alla prova nello studio PREMICE, un trial prospettico, multicentrico, in doppio cieco e controllato condotto in Belgio. Il dispositivo (reale o finto usato come controllo) è stato applicato giornalmente per 20 minuti, nel corso di 3 mesi, in 67 pazienti che soffrivano di almeno due attacchi di emicrania al mese. Tra il mese di run-in e il terzo mese di trattamento, il numero medio di giorni con emicrania è diminuito significativamente nel gruppo trattato con il dispositivo (6,94 vs. 4,88; p=0,023), ma non nel gruppo di controllo (6,54 vs. 6,22; p =0,608). Il tasso di risposte al 50 per cento era significativamente maggiore nel gruppo con il dispositivo rispetto a quello di controllo (38,1 per cento vs. 12,1 per cento; p =0,023). Ridotti in modo significativo nel primo gruppo

£

rispetto al secondo sono stati anche gli attacchi emicranici in un mese (p =0,044), i giorni con emicrania in un mese (p =0,041) e l’assunzione in acuto di farmaci anti-emicranici nell’arco di un mese (p =0,007). Non sono stati riscontrati effetti avversi in entrambi i gruppi. La STS con il dispositivo testato è risultata quindi efficace e sicura come trattamento preventivo per l’emicrania (evidenza di Classe III secondo lo studio). Il guadagno terapeutico (26 per cento) è nel range di quelli riportati per altri trattamenti preventivi farmacologici e non. Considerando che l’efficacia dei farmaci ad azione preventiva è limitata, e che quelli più efficaci possono avere effetti collaterali, lo studio in questione suggerisce uno spazio per trattamenti alternativi per la prevenzione dell’emicrania. (P.P.) Schoenen J, Vandersmissen B, Jeangette S et al. Neurology 2013; 80: 697-704

Pochi studi hanno indagato in che modo la vita delle persone che soffrono di depressione maggiore sia colpita da Lo stigma associato ai una discriminazione, definita come rifiuto o comportamento negativo nei confronti di una persona con problemi di salute disturbi mentali pesa anche mentale. La discriminazione, che sia realmente sperimensulla depressione maggiore tata oppure (solo) “anticipata” dal soggetto, può causare basse percentuali di ricerca d’aiuto e di accesso alle cure, trattamento insufficiente, povertà e marginalizzazione sociale. Nell’ambito di due ricerche promosse dall’Unione Europea, l’ASPEN (Anti Stigma Programme European Network) e l’INDIGO (International Study of Discrimination and Stigma for Depression), è stata condotta un’indagine in 39 sedi di 35 Paesi in tutto il mondo. Tra i centri coordinatori per l’Italia vi era il Dipartimento di Salute pubblica, sezione di Psichiatria, dell’Università di Verona. Oltre mille soggetti con diagnosi di disturbo depressivo maggiore sono stati valutati con Discrimination and stigma Scale (DISC-12). Il 79 per cento degli esaminati ha riferito di avere sperimentato una discriminazione in almeno un’occasione, il 37 per cento di essersi trattenuto dall’iniziare una relazione personale, il 25 per cento di aver rinunciato a cercare un lavoro, il 20 per cento di aver rinunciato a un programma di educazione o formazione. I livelli più elevati di discriminazione reale risultavano associati con episodi depressivi multipli nel corso della vita, con almeno un ricovero psichiatrico, con condizioni sociali quali vedovanza, separazione o divorzio, con un lavoro non pagato o la ricerca di lavoro. Una discriminazione reale si associava inoltre a una minore volontà di rendere nota la diagnosi di depressione. La discriminazione anticipata non era necessariamente associata con un episodio poi realmente vissuto: il 47 per cento dei soggetti che avevano anticipato una discriminazione sul lavoro e il 45 per cento di quelli che l’avevano anticipata in una relazione personale, non l’avevano effettivamente subita. Degno di nota è il fatto che la prima fonte di discriminazione fosse indicata nella famiglia, che tuttavia era anche la fonte principale di supporto. Come ribadisce lo studio, la discriminazione correlata alla depressione è un ostacolo alla cura, alla partecipazione sociale e all’integrazione di questi pazienti. La prevenzione dello stigma legato alla malattia è un obiettivo per tutti i soggetti coinvolti. (P.P.)

Psichiatria

Lasalvia A, Zoppei S, Van Bortel T et al. Lancet 2013; 381: 55-62

6

Medico e paziente

2-3.2013


cardiologia

L’ipertrofia ventricolare sinistra come marker di rischio cardiovascolare Aspetti clinici e prognostici

L’

ipertensione arteriosa (IA) sistemica determina alterazioni strutturali e funzionali a carico del cuore e delle arterie di grande e piccolo calibro, in vari distretti circolatori e in particolare a livello cerebrale e retinico. Le manifestazioni di danno d’organo correlate all’IA, più conosciute e utilizzate a fini diagnostici e prognostici, sono costituite dall’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS), dalla microalbuminuria, dalle alterazioni strutturali delle arterie carotidi (ispessimento intimale e placche) e da modificazioni del microcircolo retinico quali riduzione del calibro arteriolare, incroci artero-venosi (e molto più raramente da emorragie ed essudati) (1). Lo sviluppo e la persistenza di queste manifestazioni di danno d’organo ha rilevanti implicazioni cliniche e prognostiche. L’IVS è il più noto marker di danno d’organo subclinico indotto dall’IA e costituisce, da un punto di vista fisiopatologico, un meccanismo adattativo finalizzato a normalizzare l’eccessivo stress parietale causato dal cronico aumento del post-carico; tuttavia la sua presenza e la sua progressione riveste un significato prognostico sfavorevole(2). Infatti, l’IVS diagnosticata con criteri elettrocardiografici e/o ecocardiografici rappresenta nell’iperteso un potente indicatore di aumentato rischio di eventi cardiovascolari fatali e non-fatali. I meccanismi fisiopatologici che spiegano l’eccesso di morbilità e mortalità cardio-

L’ipertrofia ventricolare sinistra è un biomarker di elevato rischio per eventi CV fatali e non. La sua identificazione è importante per la messa a punto di adeguate strategie terapeutiche

vascolare comprendono le alterazioni delle funzioni sistolica e diastolica del VS, l’aumento della componente connettivale del miocardio, la riduzione della riserva coronarica, l’aumentata propensione alle aritmie ventricolari e sopraventricolari, inclusa la fibrillazione atriale parossistica e permanente. In particolare l’elevata incidenza di cardiopatia ischemica negli ipertesi con IVS è correlata a tre ordini di fattori: 1) l’aumento del consumo d’ossigeno da parte del VS ipertrofico; 2) la riduzione dell’offerta di ossigeno dovuta all’insufficiente sviluppo del microcircolo coronarico in rapporto all’ipertrofia dei miociti e alle alterazioni strutturali arteriolari (per aumento del rapporto spessore parietale/lume); 3) l’alta prevalenza di lesioni aterosclerotiche delle arterie coronariche epicardiche. In questa revisione della letteratura esamineremo le recenti evidenze scientifiche in merito agli aspetti diagnostici, alla prevalenza e alle implicazioni prognostiche di questo fenotipo cardiaco.

Diagnosi elettrocardiografica di IVS Sebbene siano potenzialmente disponibili molte tecniche diagnostiche non invasive per valutare la presenza di IVS nella popolazione generale e negli individui ad alto rischio, quali i soggetti con IA, l’elettrocardiogramma (ECG) e in subordine l’ecocardiogramma rimangono i metodi d’indagine correntemente impiegati nella pratica clinica. L’ECG, in relazione alla sua capillare disponibilità e al limitato costo costituisce in assoluto l’esame di prima linea, nonostante i noti limiti di accuratezza diagnostica. La presenza di

a cura di Cesare Cuspidi1, Annalisa Re2, Giovanni Corna3 1. Dipartimento di Scienza della Salute, Università Milano-Bicocca, Milano; Istituto Auxologico Italiano, Milano 2. Scuola di Specializzazione in Medicina Interna, Università Milano-Bicocca, 3. Scuola di Specializzazione in Medicina dello Sport, Università Milano-Bicocca, Milano

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

7


cardiologia Tabella 1

Gli indici elettrocardiografici di ipertrofia ventricolare sinistra (e relativi criteri diagnostici) più frequentemente impiegati in 26 studi (40.444 pazienti), pubblicati dal 2000 al 2012 (13) 3,5 mV (7 studi) Criterio di Sokolow-Lyon (voltaggio S in V1+R in V5 oV6)

3,6 mV (8 studi) 3,8 mV (1 studio) 3,9 mV (4 studi) 2,0 mV nelle donne, 2,8 mV negli uomini (2 studi) 2,1 mV nelle donne, 2,5 mV negli uomini (2 studi)

Criterio di Cornell (voltaggio R in aVL+S in V3)

2,2 mV nelle donne, 2,8 mV negli uomini (2 studi) 2,1 mV nelle donne, 2,9 mV negli uomini (7 studi) 2,5 mV nelle donne, 2,9 mV negli uomini (1 studio)

IVS può infatti alterare l’ECG aumentando il voltaggio del QRS, la sua durata e/o modificando l’asse elettrico, il tratto ST, l’onda T e l’onda P. A partire dalle osservazioni pionieristiche di Einthoven (3) e Lewis (4), basate sulla misura dei voltaggi del QRS nelle derivazioni periferiche degli arti, usando riferimenti clinici e necroscopici come “gold standard”, numerosi criteri diagnostici sono stati proposti e adottati nella pratica clinica e nella ricerca. Nel documento dell’American Heart Association/American College Cardiology Foundation/ Heart Rhythm Society (5) pubblicato nel 2009, sono stati riportati ben 35 diversi criteri elettrocardiografici di IVS, basati su differenti parametri (voltaggi del QRS nelle derivazioni periferiche o nelle derivazioni precordiali, combinazioni di entrambi, prodotto del voltaggio QRS per la durata, criteri multi-parametrici e criteri specifici per pazienti con blocco di branca destra o sinistra). Va osservato, tuttavia, che la maggioranza dei criteri citati non ha effettivamente avuto una diffusione nell’ambito dell’attività clinica cardiologica. La sensibilità diagnostica dell’ECG nell’identificare l’IVS, come ampiamente documentato in molti studi

8

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

di confronto con tecnica ecocardiografica o con risonanza magnetica nucleare, è assai limitata. In una recente review (6), che ha valutato l’accuratezza diagnostica di 6 differenti criteri elettrocardiografici, analizzando i risultati di 21 studi condotti complessivamente su 5.608 pazienti ipertesi, è stato documentato che la sensibilità variava dal 10,5 (indice di Gubner) al 21,0 per cento (indice di Sokolow-Lyon) mentre la specificità era compresa tra 89 (Sokolow-Lyon) e 99 per cento (Romhilt-Estes score). La discrepanza diagnostica tra gli indici elettrocardiografici e la massa ventricolare sinistra calcolata con ecocardiografia o con altre più sofisticate tecniche d’imaging è fondamentalmente correlata ai limiti intrinseci dell’elettrocardiografia che ovviamente non consente una valutazione diretta della morfologia ventricolare sinistra, ma riflette esclusivamente le modificazioni delle caratteristiche elettriche associate al processo ipertrofico. L’ampiezza dei voltaggi del QRS è inoltre fortemente influenzata dalla taglia corporea, e in minor misura dal sesso e dalla razza. Negli individui obesi, che costituiscono una frazione crescente della popolazione generale e di quella

ipertesa, l’accuratezza di molti criteri ECG utilizzati abitualmente nella diagnosi di IVS è marcatamente diminuita in conseguenza dell’aumento del grasso epicardico e dello spessore del pannicolo adiposo sottocutaneo che riduce l’intensità del segnale elettrico registrato a livello della superficie cutanea (7). Numerosi studi condotti in obesi normotesi e ipertesi, con elevata prevalenza di IVS ecocardiografica, hanno rimarcato la limitata sensibilità di gran parte degli usuali indici ECG, e in particolare di quelli basati sull’ampiezza dei voltaggi del QRS nelle derivazioni precordiali. In uno studio comprendente complessivamente 1.204 ipertesi obesi e non obesi, i criteri di Sokolow-Lyon e di RomhiltEstes così come il pattern di sovraccarico ventricolare sinistro avevano una ridotta sensibilità nel sottogruppo degli obesi, mentre il criterio di Cornell, il Perugia score, il prodotto di Cornell e il voltaggio del QRS in aVL mostravano una simile accuratezza diagnostica in entrambi i gruppi (8). Nel valutare la sensibilità e specificità diagnostica di 11 criteri ECG nell’identificare l’IVS ecocardiografica in 95 obesi severi (BMI >40 kg/m2) candidati alla chirurgia bariatrica, è stato dimostrato che nessuno dei criteri basati sul voltaggio del QRS aveva un apprezzabile valore diagnostico e che anche il prodotto di Cornell mostrava scarsissima sensibilità (9). Sulla base delle attuali evidenze scientifiche, è possibile affermare che nella popolazione obesa la diagnosi ECG di IVS dev’essere preferibilmente basata su criteri che prescindano in tutto o in parte dall’ampiezza del QRS nelle derivazioni precordiali quali il voltaggio dell’onda R in aVL, il criterio di Cornell e il prodotto di Cornell.

Diagnosi ecocardiografica di IVS La metodica ecocardiografica è più sensibile e specifica nella diagnosi di IVS in quanto consente di misurare in modo accurato gli spessori parietali e i diametri intracavitari del VS. Tali misurazioni vengono effettuate con tecnica M-mode (sotto controllo 2D) o direttamente in 2D


nella sezione parasternale asse lungo o asse corto. La definizione di IVS si fonda sul calcolo della massa ventricolare sinistra con formule matematiche validate in studi che hanno confrontato le stime ecocardiografiche con reperti necroscopici. Siccome la taglia corporea è tra i più importanti determinanti delle dimensioni del cuore, la massa ventricolare sinistra deve essere indicizzata per i parametri antropometrici individuali. La normalizzazione può essere ottenuta sostanzialmente dividendo la massa assoluta per la superficie corporea, per l’altezza e per l’altezza elevata alla potenza di 2,7. La divisione della massa per la superficie corporea è quella più frequentemente utilizzata nella pratica clinica, sebbene questo tipo d’indicizzazione possa risultare inaccurato nei soggetti obesi perché tende a sottostimare sostanzialmente la prevalenza di IVS (10). La correzione della massa ventricolare dev’essere inoltre effettuata con i parametri antropometrici direttamente misurati nel laboratorio ecocardiografico, e non con i valori riferiti dai pazienti, che tendono a sovrastimare l’altezza e sottostimare il peso che possono impattare sulla reale prevalenza di IVS (11). Nella IA la valutazione ultrasonografica del cuore, oltre all’individuazione della presenza e del grado di IVS, permette di ottenere preziose informazioni sulla geometria ventricolare e sul tipo di IVS, utilizzando la relazione tra massa ventricolare e spessore parietale relativo (rapporto tra spessore parietale e diametro). L’ipertrofia viene definita concentrica quando l’aumento della massa ventricolare è associato a un incremento dello spessore parietale relativo (rapporto h/r >0,43); l’ipertrofia eccentrica è contrassegnata da un aumento della massa in presenza di un normale spessore parietale relativo. Inoltre l’IVS può non essere simmetrica o globale, ma distrettuale e localizzarsi prevalentemente al setto interventricolare (che rappresenta il 40 per cento della massa ventricolare). Questo spettro di modificazioni della morfologia del ventricolo sinistro sottolinea chiaramente l’esistenza di complesse

Tabella 2

Criteri ecocardiografici di ipertrofia ventricolare sinistra basati sulla massa ventricolare sinistra indicizzata per la superficie corporea, altezza e altezza alla potenza di 2,7 Società Americana di Ecocardiografia/Società Europea di Ecocardiografia (Am J Soc Echoc 2005)

116 g/m2, 127 g/h, 49 g/h2,7 negli uomini

Società Europea dell’Ipertensione/Società Europea di Cardiologia (J Hypertens 2007)

125 g/m2 negli uomini

Studio PAMELA (J Hypertens 2012)

96 g/m2, 100 g/h, 45 g/h2,7 nelle donne

110 g/m2 nelle donne 114 g/m2 ,123 g/h, 51 g/h2,7 negli uomini 99 g/m2, 101 g/h, 47 g/h2,7 nelle donne

interazioni tra ipertensione arteriosa sistemica e risposta adattativa del cuore. Fattori demografici, etnici, clinici, emodinamici e umorali possono interagire variamente tra loro e influenzare il grado e il tipo di IVS in un determinato individuo. L’ipertrofia concentrica è più frequentemente associata a ipertensione di entità moderata o severa, non adeguatamente controllata dalla terapia, ed è di più comune riscontro nelle fasce di età più avanzata. Solitamente essa esprime un più marcato coinvolgimento di danno d’organo cardiaco ed extracardiaco, e la sua prognosi è più sfavorevole della forma eccentrica. L’IVS concentrica ed eccentrica sono caratterizzate da diversi profili emodinamici, nella prima la gettata cardiaca è normale o lievemente ridotta, mentre nella seconda è elevata. Le resistenze vascolari periferiche sono elevate nell’IVS concentrica, al contrario sono normali o relativamente ridotte nella forma eccentrica. È utile infine sottolineare che l’IVS, indipendentemente dalla sua geometria, si accompagna ad altre importanti modificazioni morfofunzionali cardiache quali la dilatazione atriale e la disfunzione diastolica. Il quadro ecocardiografico caratterizzato dall’associazione di IVS, disfunzione diastolica e dilatazione dell’atrio sinistro esprime l’evoluzione verso la cardiopatia ipertensiva sintomatica (insufficienza cardiaca con funzione sistolica conservata).

Prevalenza di IVS elettrocardiografica ed ecocardiografica La prevalenza di IVS è dipendente dalle variabili cliniche e demografiche dei soggetti esaminati e, inoltre, dal tipo di metodica diagnostica utilizzata. Nel Framingham Heart Study la sensibilità diagnostica dell’ecocardiogramma nell’individuare soggetti portatori di IVS è stata otto volte superiore a quella dell’elettrocardiogramma. Un’importante dimostrazione dell’elevata sensibilità dell’ecocardiogramma è stata fornita dallo studio multicentrico italiano APROS, condotto in oltre mille ipertesi senza segni ECG di IVS, in cui la prevalenza d’ipertrofia definita con criteri ecocardiografici è risultata superiore al 20 per cento (12). Per quanto concerne gli aspetti clinici, i principali fattori in grado di influenzare la prevalenza di IVS sono i livelli dei valori pressori pre-trattamento, l’efficacia del controllo pressorio esercitato dalla terapia antipertensiva, la presenza di condizioni cliniche associate quali diabete, sindrome metabolica e l’età. Recentemente il nostro gruppo ha condotto un’analisi sistematica sulla prevalenza dell’IVS diagnosticata con ECG o con ecocardiogramma in oltre 78.000 ipertesi esaminando gli studi più rap-

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

9


cardiologia presentativi della letteratura pubblicati a partire dal 2000. La prevalenza di IVS elettrocardiografica (26 studi, 40.444 pazienti) è risultata in media del 18 per cento, senza differenze statisticamente significative tra maschi e femmine (13). I criteri diagnostici più frequentemente impiegati dai vari Autori sono stati nell’ordine l’indice di Sokolow-Lyon, il criterio di Cornell e il prodotto di Cornell (Tabella 1). Per quanto attiene la prevalenza di IVS ecocardiografica (30 studi, 37.700 pazienti), essa è stata mediamente compresa tra il 36 (criteri più conservati) e il 41 per cento (criteri meno restrittivi), senza differenze di genere (Figura 1) (14). L’IVS concentrica è risultata significativamente più frequente di quella eccentrica. Il criterio di IVS più frequentemente impiegato (9 studi) è stato quello raccomandato dalle Linee guida dell’European Society of Hypertension/European Society of Cardiology (125 g/m2 negli uomini e 110 g/m2 nelle donne) (Tabella 2). Questi dati complessivamente dimostrano che l’IVS, nonostante gli innegabili miglioramenti nell’approccio

diagnostico e terapeutico verificatosi nelle ultime decadi, rimane un frequente indicatore di danno d’organo, riflettendo così i limiti della pratica clinica nell’ottenere un adeguato controllo pressorio nella popolazione generale degli ipertesi. L’evidenza infine che circa un iperteso su cinque può presentare segni di IVS all’ECG rafforza il concetto che questo esame non sia affatto obsoleto e che debba essere sempre effettuato nella valutazione iniziale e nel corso della terapia di ogni paziente.

Significato prognostico dell’IVS Consistenti evidenze scientifiche sottolineano che l’IVS, indipendentemente dalla tecnica diagnostica utilizzata, è un importante fattore di rischio di scompenso cardiaco, ictus e cardiopatia ischemica, non solo nei soggetti con ipertensione, ma anche nella popolazione generale. È stato dimostrato infatti da numerosi studi prospettici di ampie dimensioni, condotti in varie aree geografiche e in differenti etnie, che la presenza di questo segno

di danno d’organo cardiaco subclinico è associata con un’incidenza di eventi cardiovascolari uguale o superiore al 20 per cento nel corso di un periodo di 10 anni di osservazione. Uno studio osservazionale effettuato in un campione multirazziale di 7.495 americani adulti (52 per cento bianchi, 24 per cento afro-americani, 24 per cento latini) ha evidenziato che l’IVS diagnosticata con ECG era significativamente correlata all’incidenza di mortalità cardiovascolare a 10 anni in tutti i gruppi etnici, e che l’eccesso di rischio aggiustato per età, pressione sistolica, fumo, colesterolo e diabete era marcatamente più elevato negli afro-americani (15). Un’indagine effettuata su 35.602 normotesi e ipertesi con normale funzione sistolica del ventricolo sinistro (FE >50 per cento) ha documentato che il rischio di mortalità da ogni causa era circa due volte più elevato negli individui con IVS ecocardiografica rispetto a coloro che avevano livelli di massa ventricolare sinistra normali (16). L’effettivo ruolo dell’IVS nel determinare la prognosi è messo a fuoco dai molti studi che hanno

Figura 1

Prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con ecocardiogramma in 37.700 ipertesi I dati riportati riguardano la popolazione complessiva, i maschi, le femmine, gli ipertesi non trattati e trattati (14)

Più conservativi

Meno conservativi

Criteri ECO

40,9

43,5

46,2

33,1

35,6

36,0

37,9

30,5

Popolazione totale

Maschi (13 studi) Ipertrofia ventricolare sinistra

10

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

Femmine (13 studi)

Ipertesi non trattati

Massa ventricolare sinistra normale

52,8

43,5

Ipertesi trattati


dimostrato una significativa relazione tra regressione dell’ipertrofia e riduzione del rischio di eventi cardiovascolari. Il razionale fisiopatologico relativo alle implicazioni della regressione dell’IVS è rappresentato dalle numerose osservazioni sperimentali e cliniche sugli effetti favorevoli della riduzione della massa ventricolare sinistra sulla funzione sistolica e diastolica, sulla riserva coronarica, sulle aritmie e sulla fibrosi miocardica. Lo studio italiano multicentrico CardioSis condotto su oltre 1.100 ipertesi non diabetici ha mostrato che i pazienti randomizzati a un trattamento più aggressivo, con un target pressorio sistolico <130 mmHg presentavano nel followup una maggiore riduzione dei segni elettrocardiografici di IVS e un minor numero di eventi rispetto a coloro che erano trattati meno intensamente (target pressorio sistolico <140 mmHg) (17). Una recente metanalisi di 5 studi comprendente 2.449 pazienti ipertesi ha chiaramente evidenziato che la regressione di IVS o la persistente normalità della massa ventricolare sinistra era associata a una riduzione del 46 per cento degli eventi cardiovascolari rispetto alla persistenza o al nuovo sviluppo di IVS, e che la differenza rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per potenziali fattori confondenti. Complessivamente questi dati indicano che la regressione o la prevenzione dello sviluppo di IVS indotta della terapia antipertensiva rappresenta un’indicazione importante sulla efficacia del controllo pressorio e della protezione cardiovascolare.

Conclusioni L’ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata con l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma, è un biomarker di elevato rischio per eventi cardiovascolari fatali e non fatali sia nella popolazione generale sia negli ipertesi, e la sua identificazione rappresenta un’importante informazione per la messa a punto di adeguate strategie terapeutiche e per la valutazione della loro efficacia nel tempo.

In questa prospettiva l’ECG standard dovrebbe essere effettuato sistematicamente in ogni iperteso (19) e l’ecocardiogramma eseguito successivamente in tutti quei casi in cui si ritenga che l’identificazione di IVS sia utile nel modificare le scelte terapeutiche a prescindere da sintomi clinici o per diagnosticare correttamente una cardiopatia ipertensiva sintomatica.

Bibliografia 1) 2007 Guidelines for the Management of Arterial Hypertension. The Task Force for the Management of Arterial Hypertension of the European Society of Hypertension (ESH) and of the European Society of Cardiology (ESC). J Hypertens 2007;25:1105-1187. 2) Ruilope LM, Schmieder RE. Left ventricular hypertrophy and clinical outcomes in hypertensive patients. Am J Hypertens 2008;21:500506. 3) Einthoven W. Le telecardiogramme. Archives Internat de Physiol 1906;4:132-134. 4) Lewis T. Observations upon ventricular hypertrophy with special reference to preponderance of one or the other chamber. Heart 1914;5:367-402. 5) Hancock FW, Deal BJ, Mirvis DM, et al. AHA/ACCF/HRS Recommendations for the standardization and interpretation of the electrocardiogram. Part V: electrocardiogram changes associated with chamber hypertrophy a scientific statement from the American Heart Association Electrocardiography and Arrhythmias Committee, Council on Clinical Cardiology: the American College of Cardiology Foundation; and the Heart Rhythm Society. J Am Coll Cardiol 2009;53:9926) Pewsner D, Juni P, Egger M, et al. Accuracy of electrocardiography in diagnosis of left ventricular hypertrophy in arterial hypertension: systematic review. BMJ 2007;335:771-775. 7) Cuspidi C, Sala C, Grassi G. Detection of left ventricular hypertrophy in obesity : mission impossible ? J Hypertens 2013; 31: 256-8 8) da Costa W, Riera ARP, de Assis Costa F et al. Correlation of electrocardiographic left ventricular hypertrophy criteria with left ventricular mass by echocardiogram in obese hypertensive patients. J Electrocardiol 2008;41:724-729.

9) Dominiek-Karlowicz J, Lichodziejewska B, Lisik W, et al. Electrocardiographic criteria of left ventricular hypertrophy in patients with morbid obesity. Ann Noninvasive Electrocardiol 2011;16:258-262. 10) Dewey FE, Rosenthal D, Murphy DJ, et al. Does size matter? Clinical applications of scaling cardiac size and function for body size. Circulation 2008;117;2279-2287 11) Cuspidi C, Negri F, Muiesan ML, et al. Indexing cardiac parameters in echocardiographic practice. Do estimates depend on how weight and height have been assessed? A study on left atrial dilatation. J Am Soc Hypertens 2011;5:192-201. 12) Cuspidi C, Ambrosioni E, Mancia G, et al. Role of echocardiography and carotid ultrasonography in stratifying risk in patients with essential hypertension: the Assessment of Prognostic Risk Observational Survey. J Hypertens 2002;20:1307-1314. 13) Cuspidi C, Rescaldani M, Sala C, et al. Prevalence of electrocardiographic left ventricular hypertrophy in human hypertension :an updated review. J Hypertens 2012; 30: 2066-2073. 14) Cuspidi C, Sala C, Negri F, et al. Prevalence of left ventricular hypertrophy in hypertension : an updated review of echocardiographic studies. J Hum Hypertens 2012; 26: 343-349. 15) Havranek EP, Froshaug DB, Enserman CDB, et al. Left ventricular hypertrophy and cardiovascular mortality by race and ethnicity. Am J Med 2008; 121: 870-875. 16) Milani RV, Lavie CJ, Mehera MR, et al. Left ventricular geometry and survival in patients with normal left ventricular ejection fraction. Am J Cardiol 2006; 97: 959-963. 17) Verdecchia P, Staessen JA, Angeli F, et al. Usual versus tight control of systolic blood pressure in non-diabetic patients with hypertension (Cardio-Sis) : an open-label randomised trial. Lancet 2009; 374:525-533. 18) Pierdomenico SD, Cuccurullo F. Risk reduction after regression of echocardiographic left ventricular hypertrophy in hypertension : a meta-analysis. Am J Hypertens 2010;23:876-881. 19) Cuspidi C, Re A, Dell’Oro R et al. The neglected role of electrocardiogram in the diagnostic work-up of hypertensive patients: a study in clinical practice. High Blood Press Cardiovasc Prev 2013; Apr 26 (Epub ahead of print)

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

11


o ic d e M il r e p iĂš p in to n e m Un stru Il supplemento te, di Medico e Pazien destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo

Algosflogos

è inviata gratuitamente a tutti i Medici che si registrano al sito di Medico e Paziente

Se vuoi riceverla iscriviti al sito www.medicoepaziente.it


Diagnosi di IPB e trattamento dei LUTS in Medicina generale I RISULTATI DI UNA SURVEY EUROPEA

Ipertrofia prostatica benigna COME EVITARE LA PROGRESSIONE DELLA MALATTIA

Sindrome della vescica iperattiva IN ARRIVO NUOVE OPZIONI DI TRATTAMENTO TERAPIA

Nella cistite interstiziale si rivela efficace la combinazione acido ialuronico-condroitin solfato EIACULAZIONE PRECOCE

Focus sulla diagnosi precoce e sui vantaggi del trattamento farmacologico


Diagnosi di IPB e trattamento dei LUTS in Medicina generale I risultati di una survey europea Come se la cavano i generalisti europei con la diagnosi e la terapia dell’ipertrofia prostatica benigna (IPB)? La questione è stata indagata recentemente da uno studio di Francesco Montorsi, del dipartimento di Urologia dell’Università vita-Salute, ospedale San Raffaele di Milano, su una coorte di 455 medici reclutati in diverse nazioni europee e con una significativa esperienza clinica in questo campo. Secondo quanto riferito in un articolo di resoconto sulla rivista “The International Journal of Clinical Practice” (1), lo studio ha permesso di evidenziare che la nicturia è, tra i sintomi del tratto urinario inferiore (LUTS), quello più frequente, mentre l’associazione di sintomi con maggiore prevalenza è la triade nicturia-frequenza di minzione-sensazione di svuotamento completo. Significative sono anche le comorbilità segnalate, che riguardano le patologie cardiovascolari, il diabete e l’ipertensione, che consiglierebbero un approccio terapeutico farmacologico che non abbia effetti avversi sul sistema cardiovascolare. Nel trattamento di prima linea, le preferenze dei generalisti europei vanno agli alfa bloccanti, il che dimostra secondo gli Autori, che le loro preoccupazioni sono dirette a evitare episodi ipotensivi che possano dare luogo a cadute, più che ad altri effetti collaterali, quali i disturbi dell’eiaculazione e la perdita di libido.

❱❱ Caratteristiche dello studio L’indagine è stata condotta su almeno 90 generalisti

14

Medico e Paziente 2-3.2013

per ciascuna delle nazioni coinvolte (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito) per arrivare a una significatività statistica. Alcuni criteri utilizzati per scegliere i medici, sono stati l’esperienza clinica compresa tra 3 e 35 anni e l’aver gestito almeno due pazienti con LUTS al mese. Grazie alle interviste ai medici, è stato possibile raccogliere dati relativi a un totale di 886 soggetti che soffrono di LUTS, compresi in un range di età tra 39 e 68 anni, e con età media di 68 anni. Poco meno di due terzi dei pazienti era rappresentato da soggetti anziani, definiti dall’età maggiore di 65 anni, mentre solo una piccola quota, tra il 4,2 e il 9,9 per cento era costituita da pazienti molto anziani (over 80).

❱❱ I pazienti e i loro disturbi Per effetto dell’invecchiamento della popolazione generale e della prevalenza che viene loro attribuita nei soggetti con più di 50 anni, pari al 30-40 per cento, i LUTS si presentano all’attenzione del medico con sempre maggiore frequenza. Il sintomo più comune riferito dai pazienti con IPB è la nicturia, che riguarda il 71-88 per cento di loro. Seguono la frequenza di minzione (15–79 per cento), l’urgenza (43–68) e il flusso urinario debole (47–64). La combinazione di sintomi più usuale è la triade nicturia-frequenzasensazione di svuotamento incompleto (22–31). La maggior parte dei pazienti, valutabile tra l’87,4 e il 96 per cento, ha però anche una serie di patologie concomitanti che non riguardano la vescica e il tratto urinario (Tabella 1). Tra questi, i più frequenti messi in luce dallo studio sono l’ipertensione arteriosa


Tabella 1. Comorbilità dei LUTS Nessuna

12,6%

Ipertensione

69,5%

Insufficienza renale

0,5%

Insufficienza epatica

1,6%

Malattie cardiovascolari

14,2%

Cistiti/uretriti

3,2%

Diabete mellito

17,9%

Prostatite batterica

1,1%

Altri

9,5%

(52,4–75,1 per cento), seguita da diabete (14,5–37,5) e patologie cardiovascolari (11,2–27,1). I tassi di prevalenza di ipertensione e diabete trovati sono in accordo con i valori del VII JNC report (2) secondo cui è affetto da ipertensione il 50 per cento dei soggetti tra i 60 e i 69 anni (anche se tale valore sale al 75,1 per cento nella popolazione tedesca), e da diabete il 17,5 per cento. Dalla media europea di prevalenza del diabete si discostano notevolmente i tedeschi, con il 36,7 per cento, e gli spagnoli, con il 37,5 per cento. L’associazione tra LUTS, malattie cardiovascolari, diabete e ipertensione è già stato documentato nello studio BACH (3) ed è coerente con l’associazione LUTS-malattie metaboliche trovata nello studio USAGE (4) e con quella LUTS/fattori di rischio cardiovascolari (5). Al momento non è noto se esistano fattori eziologici che collegano tra loro i diversi disturbi o se semplicemente le comorbilità siano dovute alla forte prevalenza di una popolazione anziana tra i pazienti con LUTS.

❱❱ Metodologia diagnostica Uno degli obiettivi principali dello studio era quello di verificare l’adeguatezza dell’approccio diagnostico e terapeutico dei general practitioners europei, che nella maggior parte dei casi sono quelli che individuano l’IPB (Tabella 2). Dallo studio di Montorsi, la metodologia diagnostica è risultata abbastanza omogenea nei diversi Paesi per quanto riguarda la descrizione dei sintomi, richiesta dal medico in una percentuale variabile tra il 74,9 e l’85,1 per cento dei

casi, l’esame rettale (55,4–82,1) e la misurazione del PSA (79,1–94,7). Notevoli differenze sono state riscontrate invece nel caso dell’ecografia transrettale, che gode di notevole popolarità tra i generalisti italiani e francesi, che l’hanno utilizzata, rispettivamente, nel 51,1 per cento e 55,9 per cento dei casi, mentre in Germania, Spagna e Regno Unito questa metodica diagnostica viene riservata solo a una piccola quota di pazienti (15,3, 13,1 e 2,3 per cento, rispettivamente).

❱❱ I dati italiani e le differenze tra i paesi Scorporando i dati, dallo studio risultano 96 generalisti italiani coinvolti, per complessivi 190 pazienti di età media 67,5 anni, il 57,3 per cento dei quali oltre i 65 anni di età e il 7,9 per cento oltre gli 80 anni. Per quanto riguarda le patologie o i disturbi concomitanti, tra i pazienti italiani con LUTS la percentuale di soggetti con ipertensione arteriosa è del 69,5 per cento, leggermente superiore quindi alla media dei paesi considerati, che si attesta al 63,3 per cento. La quota di pazienti con diabete, pari al 17,9 per cento, è, per contro, inferiore alla media (25 per cento) e decisamente più bassa rispetto a paesi come la Germania (36,7) e la Spagna (37,5), mentre è sostanzialmente allineata alle cifre della Francia (17,3) e leggermente superiore a quelle del Regno Unito (14,5). Significative differenze sono state riscontrate rispetto alle altre nazioni anche nel percorso diagnostico (figura 1). In primo luogo, la descrizione dei sintomi è stata riferita dai medici italiani solo nel 18,4 per cento dei casi, contro il 66,2 per cento della media delle altre nazioni e decisamente in controtendenza rispetto a nazioni come la Spagna, in cui il metodo viene utilizzato addirittura nell’85,1 per cento dei

Tabella 2. Le figure coinvolte nella diagnosi di IPB in Europa Generalista (rispondente)

83,7%

Altro generalista

12,6%

Urologo

12,6%

Altri

1,1%

2-3.2013 Medico e Paziente

15


Figura 1. L’approccio diagnostico in Italia confrontato con la media europea (valori espressi in percentuale) Italia

Media europea

100 80 60 40 20 0

criz

Des

i e a le ra ici so ca SS ale tom PSA urin ubic etta oltu flus ami mat rett o IP i sin del ito-r vrap inoc ans mi e isi delle odin nari r r g r o e a t i o s i U s n U d t a l E i s io ia me Ana graf Que uraz graf Esa Eco Mis Eco

de ione

medici generalisti, e come la Germania, con l’80,2 per cento, seguita a poca distanza dal Regno Unito (76,7). Di segno opposto il dato della Francia, in cui i sintomi descritti vengono utilizzati solo dal 7,8 per cento dei medici. Oltralpe però viene diffusamente utilizzato l’IPSS (82,1 per cento), poco amato invece in Germania (9,6) così come nel Regno Unito (14,5). Il questionario strutturato, stando a guardare queste tre nazioni, sarebbe quindi utilizzato in misura inversamente proporzionale ai sintomi riferiti durante il colloquio, indice del fatto che le informazioni riguardanti i disturbi riferiti dal paziente non vanno perse. In Italia, per contro, è bassa anche la percentuale di MMG che utilizza l’IPSS, e arriva al 3,2 per cento, contro una media del 15,4 per cento. In Spagna, per contro, anche l’IPSS è molto utilizzato (57,1 per cento). Una ragione dello scarso apprezzamento del questionario in certe nazioni è forse da ricercare nel fatto che alcuni medici non lo trovano utile per la pratica clinica: si tratta di un questionario su sette sintomi messi tutti sullo stesso piano, contrariamente alla tendenza attuale che attribuisce maggiore peso ai sintomi più fastidiosi. Decisamente fuori dai valori medi, in Italia, è anche il ricorso all’esame digito-rettale, riferito solo dal 20 per

16

Medico e Paziente 2-3.2013

i

Altr

cento dei generalisti, contro una media del 63,8 per cento, mentre appaiono in linea il ricorso al dosaggio del PSA (94,7 contro l’87,9 per cento della media europea) e l’utilizzo dell’ecografia sovrapubica (36,3 vs. 29,8 per cento). Indagini più invasive della funzionalità della vescica e dell’uretra sono l’uroflussimetria e l’esame urodinamico, utilizzati per la diagnosi, rispettivamente, dal 35,8 per cento (contro una media europea del 16,8) e dal 6,3 per cento (vs. 9,5) dei medici italiani. Tra gli esami di laboratorio, spicca l’esame ematico, prescritto dal MMG italiano nel 34,7 per cento dei casi, l’esame delle urine (52,1) e l’urinocoltura (30). Secondo le attuali Linee guida, la valutazione diagnostica di base da parte del generalista dovrebbe includere la valutazione dei sintomi tramite il questionario IPSS, l’esame digito-rettale, una tabella frequenza/volume, analisi delle urine e del PSA (6).

❱❱ Trattamento Per quanto riguarda il trattamento, l’obiettivo principale era la risoluzione della nicturia, con un punteggio medio di severità (>3,5) che rifletteva una necessità impellente, seguito a breve distanza dalla frequenza (3,3–3,9). Particolare attenzione meritano


Diagnosi di IPB e trattamento dei LUTS in Medicina generale

le comorbilità: la frequente associazione dei LUTS con patologie cardiovascolari, diabete e ipertensione suggerisce che il trattamento farmacologico di elezione dovrebbe essere privo di effetti per il sistema cardiovascolare. Per i medici europei, interrogati esplicitamente sulla questione, la preoccupazione maggiore al momento della terapia era il rischio di ipotensione associato all’uso di antagonisti non selettivi del recettore adrenergico alfa 1, considerando l’alta percentuale di pazienti con LUTS che sono anche ipertesi. In particolare, i MMG europei hanno riferito di temere un fenomeno di ipotensione ortostatica quando i pazienti si alzano di notte per effetto della nicturia. Tra gli effetti avversi temuti figurano anche l’eiaculazione retrograda e la diminuzione della libido, ma in misura nettamente inferiore, tenuto conto che si tratta di effetti collaterali meno importanti nei soggetti anziani, presenti in ampia percentuale tra i pazienti con LUTS, che possono soffrire di questi disturbi anche indipendentemente dal trattamento farmacologico.

❱❱ Per concludere La survey ha mostrato che tra i LUTS, il sintomo più comune è la nicturia. Dall’analisi dei sintomi è emerso che la combinazione più comune è la triade nicturia-frequenza-sensazione di svuotamento incompleto. Un’associazione tra LUTS, disturbi cardiovascolari, diabete e ipertensione suggerisce che il trattamento farmacologico dovrebbe essere privo di rischi di eventi avversi per il sistema cardiovascolare. Gli alfa-bloccanti sono risultati il più diffuso trattamento di prima linea dei LUTS, il che dimostra che i rispondenti sono più preoccupati degli episodi ipotensivi che possono dare luogo a una caduta del paziente invece che degli altri effetti collaterali tipici (disturbi dell’eiaculazione e calo della libido). L’indagine inoltre sottolinea la necessità di formazione dei MMG in ambito diagnostico.

Bibliografia 1. Montorsi F, Mercadante D, Diagnosis of BPH and treatment of LUTS among GPs: a European survey. Int J Clin Pract 2013; 67: 114–9. 2. Trueman P, Hood SC, Navak US, Mrazek MF. Prevalence of lower urinary tract symptoms and self-reported diagnosed ‘‘benign prostatic hyperplasia’’, and their effect on quality of life in a community-based survey of men in the UK. BJU Int 1999; 83: 410-5 3. Van Exel NJ, Koopmanschap MA, McDonnell J et al. Medical consumption and costs during a oneyear follow-up of patients with LUTS suggestive of BPH in six European countries: report of the TRIUMPH study. Eur Urol 2006; 49: 92–102 4. Fourcade RO, The`ret N, Taieb C; on behalf of the BPH USAGE Study Group. Profile and management of patients treated for the first time for lower urinary tract symptoms ⁄ bening prostatic hyperplasia in four European countries. BJU Intern 2008; 101: 1111–8 5. Carballido J, Fourcade R, Pagliarulo A et al. Can simple tests performed in the primary care setting provide accurate and efficient diagnosis of benign prostatic hyperplasia? Rationale and design of the diagnosis improvement in Primary Care Trial. Int J Clin Pract 2009; 63: 1192-1197 6. Hutchinson A, Farmer R, Chapple C et al. Characteristics of patients presenting with LUTS ⁄ BPH in six European countries. Eur Urol 2006; 50: 555–62

2-3.2013 Medico e Paziente

17


Ipertrofia prostatica benigna Come evitare la progressione della malattia Sempre più evidenze scientifiche portano a considerare l’ipertrofia prostatica benigna (IPB) come una malattia progressiva: è questa la premessa che deve portare il medico a focalizzare la sua attenzione sui fattori di rischio della progressione, al fine di ottenere un trattamento del paziente ottimale e personalizzato.

È questo il messaggio che è stato lanciato nel corso del meeting EAU 2013 (Milano, 15-19 marzo) in un simposio sponsorizzato da GlaxoSmithKline dal titolo “La stratificazione del rischio per ottimizzare la gestione di pazienti con IPB a rischio di progressione”.

❱❱ Con l’evoluzione della malattia, i sintomi peggiorano Durante gli interventi, è stato sottolineato che i sintomi della basse vie urinarie (LUTS) hanno un’eziologia multifattoriale e sono assai diffusi nella popolazione anziana. Secondo alcune statistiche, il 40 per cento degli uomini tra 61 e 70 anni riferisce al proprio medico di famiglia di avvertire uno o più LUTS con gravità da moderata a severa, mentre il 70 per cento è affetto da una IPB (due o più condizioni si possono ovviamente presentare insieme) (1). Le più importanti cause di LUTS in pazienti con sintomi fastidiosi sono l’ostruzione prostatica benigna, l’iperattività detrusoriale/vescica iperattiva e la poliuria notturna. I dati riportati in letteratura dimostrano inoltre come spesso i sintomi vadano incontro a una progressione

18

Medico e Paziente 2-3.2013

(2): su un periodo di quattro anni, il 31 per cento degli uomini sperimenta un peggioramento dei sintomi lievi-moderati se questi non vengono trattati (figura 1). Le conseguenze della progressione di IPB sono sostanzialmente cinque: incremento nel volume della prostata, peggioramento dei sintomi, peggioramento della velocità del flusso urinario, ritenzione urinaria acuta e infine un possibile trattamento chirurgico dell’IPB. In questo quadro, non sono da sottovalutare l’impatto sulla qualità della vita del paziente e sulle relazioni familiari e sociali, e i costi per il sistema sanitario (Riquadro qui sotto).

I costi sociali dell’ipertrofia prostatica Da uno studio condotto nel Regno Unito (9) sono emersi alcuni dati sull’impatto dell’IPB. I risultati si possono così riassumere:  ogni anno, si registrano 1,6 milioni di visite dal MMG  la chirurgia dell’IPB rappresenta il decimo più comune intervento eseguito negli ospedali  la RUA rientra nel 5 per cento delle più frequenti cause di ricovero per acuzie Tutto questo si traduce in un notevole impatto economico. I costi annui ammontano a:  oltre 44 milioni di sterline per visite dal MMG dovute a IPB  oltre 69 milioni di sterline per farmaci (alfa bloccanti e 5ARI) o ltre 111 milioni di sterline per attività correlate alla RUA e alla chirurgia dell’IPB


❱❱ Valutare i fattori di rischio

Progressione dell’IPB

Per evitare questi esiti infausti, nella pratica clinica occorre partire dall’individuazione di quei pazienti in cui è più probabile la progressione, valutando cinque fattori di rischio: l’età superiore a 50 anni, la gravità dei LUTS, l’aumento delle dimensioni della prostata (considerando come valore soglia i 30 cc), un valore del PSA che supera i 1,5 ng/ml e infine la diminuzione di flusso urinario. L’obiettivo non è di offrire lo stesso trattamento per tutti i pazienti, bensì un trattamento individualizzato che tenga conto dei diversi fattori di rischio. Attualmente, la terapia farmacologica dell’IPB è dominata dalla monoterapia con alfa-bloccanti. Dallo studio osservazionale TROPHEE (3), condotto in Francia su 1.098 pazienti con IPB, è risultato che il trattamento medico prescritto dal MMG è rappresentato per il 48 per cento da alfa-bloccanti, nel 13 per cento da 5ARI (inibitori della 5-alfa reduttasi), dalla terapia di combinazione per il 17 e infine per il 22 per cento da fitoterapia (non raccomandata dalle Linee

Fattori di rischio… e tà >50 anni G ravità dei LUTS D imensioni della prostata aumentate (>30 cc) P SA ≥1,5 ng/ml D iminuzione di flusso urinario (Qmax) … e obiettivi della terapia M igliorare i sintomi di IPB P revenire le complicazioni come la RUA R idurre la necessità d’intervento chirurgico M igliorare la qualità della vita

Figura 1. Progressione dei LUTS valutata in base al peggioramento della categoria IPSS (Modificata da 4)

35

tasso cumulativo di progressione

30

Sintomi severi (19-35)

Sintomi moderati (IPSS 8-18))

25

7 7

6

20

15

24 5 5

10

5

2

8

21 18

10

4 0 6

12

18

24

36

48

mesi

2-3.2013 Medico e Paziente

19


❱❱ Dutasteride, efficacia confermata dallo studio REDUCE Uno studio pubblicato sul British Medical Journal (Toren et al. BMJ 2013; 346: f2109) ha confermato l’efficacia di dutasteride nel ridurre in modo significativo l’incidenza della progressione dell’ipertrofia prostatica benigna (IPB). Si tratta di un’analisi posthoc dello studio REDUCE (Reduction by Dutasteride of Prostate Cancer Events), a cui hanno partecipato 1.617 soggetti che al basale avevano un volume prostatico inferiore a 40 ml e un indice di IPSS inferiore a 8, randomizzati a ricevere dutasteride alla dose di 0,5 mg/die (792 soggetti) oppure placebo (825 soggetti). Dall’analisi dei dati è emerso che 464 pazienti, il 29 per cento del totale, sono andati incontro a progressione clinica dell’IPB durante lo studio. Di questi, 297 (36 per cento) appartenevano al gruppo placebo e 67 (21 per cento) al gruppo di trattamento: l’assunzione del farmaco ha quindi determinato una riduzione del 41 per cento del rischio relativo e del 15 per cento del rischio assoluto di progressione. Nel sottogruppo di pazienti con una pregressa ritenzione urinaria acuta e un intervento chirurgico connesso all’IPB, la riduzione del rischio relativo e assoluto correlata a dutasteride è risultata, rispettivamente, del 6,0 per cento e del 3,8 per cento.

guida dell’EAU). E, non è un dato che dipende dal fatto che a prescrivere i farmaci siano dei generalisti: lo studio canadese CanBas (4) su 849 pazienti, ha documentato che gli alfa-bloccanti rendono conto del 51 per cento dei trattamenti farmacologici prescritti da urologi, gli inibitori della 5-alfa reduttasi del 12 per cento, la terapia di combinazione del 25 per cento e gli altri farmaci del 12 per cento.

❱❱ Monoterapia vs. terapia di combinazione Una così evidente preferenza dei medici per gli alfabloccanti non è sostenuta dalle evidenze scientifiche: questa categoria di farmaci somministrati in monoterapia non riduce l’incidenza cumulativa di ritenzione urinaria acuta (RUA) o di terapie invasive rispetto al placebo, come emerso dallo studio MTOPS (5). Le Linee guida di diverse società scientifiche di tutto il mondo sono concordi nel raccomandare in prima linea la terapia di combinazione alfabloccante-5ARI, sulla base dei risultati di ampi trial controllati, tra cui quelli di riferimento sono lo stesso MTOPS (5) e ComBAT (6). Nello specifico le uniche combinazioni di questo tipo che sono state valutate per il loro profilo di efficacia e sicurezza sul lungo termine sono dutasteride+tamsulosin (DUT+TAM) e finasteride+doxazosin (FIN+DOX). Nello studio ComBAT, DUT+TAM ha dimostrato di ritardare in modo significativo l’insorgenza di RUA e il ricorso alla chirurgia rispetto a TAM in monoterapia. Ma il dato che emerge con forza è che i vantaggi della terapia di combinazione si possono osservare solo sul medio e lungo termine. Rispetto all’endpoint di riduzione complessiva dei sintomi, lo stesso studio ComBAT mostra un vantaggio dell’associazione DUT+TAM rispetto al TAM in monosomministrazione solo dalla nona alla 48-esima settimana. Analogamente, lo studio MTOPS ha evidenziato come FIN+DOX migliori significativamente i sintomi complessivi di IPB rispetto a DOX solo dopo quattro anni di somministrazione, mentre a un anno i risultati in questo senso sono confrontabili.

❱❱ Conclusioni Nella pratica clinica, il dubbio che spesso si presenta è se iniziare la terapia con 5ARI appena si presentano

20

Medico e Paziente 2-3.2013


Ipertrofia prostatica benigna

i sintomi di IPB o considerarla solo in un secondo momento. In un’analisi retrospettiva su 2.636 pazienti a cui sono stati prescritti alfa-bloccanti e 5ARI nel periodo 2000-2007 si è dimostrato che ritardare la terapia con 5ARI aumenta il rischio clinico di progressione dell’IPB, di RUA e di intervento chirurgico (7). Viceversa, la somministrazione precoce della terapia di combinazione prolunga il tempo alla progressione clinica rispetto alla somministrazione ritardata. Concludendo, possiamo evidenziare quanto segue:  L’IPB è una patologia progressiva con un notevole impatto sulla qualità di vita del paziente e del suo partner, oltre che sul sistema sanitario.  Sulla base del rischio di progressione dell’IPB dei pazienti è possibile un migliore trattamento individualizzato.

 Nei soggetti con IPB di grado moderato-severo, i fattori di rischio cruciali per la progressione sono un volume della prostata ≥30 cc e/o PSA ≥1,5 ng/ml. L a monoterapia con alfa-bloccanti non è efficace nel prevenire la progressione dell’IPB. Il trattamento di combinazione con alfa-bloccanti e inibitori della 5-alfa reduttasi dovrebbe essere proposto a pazienti con IPB a rischio di progressione, ovvero con LUTS di grado moderato-severo, aumento del volume prostatico e ridotta Qmax. La terapia di combinazione non è raccomandata per il breve termine (meno di 1 anno) (Raccomandazione di livello 1b, Linee Guida EAU 2013) (8).

Bibliografia 1. Naslund MJ, Gilsenan AW, Midkiff KD et al. Prevalence of lower urinary tract symptoms and prostate enlargement in the primary care setting. Int J Clin Pract, 2007; 61(9):1437-45 2. Djavan B, Fong YK, Harik M et al. Longitudinal study of men with mild symptoms of bladder outlet obstruction treated with watchful waiting for four years. Urology. 2004; 64(6):1144-1148 3. Fourcade RO, Lacoin F, Rouprêt M et al. Outcomes and general health-related quality of life among patients medically treated in general daily practice for lower urinary tract symptoms due to benign prostatic hyperplasia. World J Urol 2012; 30(3): 419–426 4. Nickel JC, Downey J, MSc, Bénard F et al. The Canadian Benign Prostatic Hyperplasia Audit Study (CanBas). Can Urol Assoc J 2008; 2(4): 367–373 5. McConnell JD, Roehrborn CG, Bautista OM et al. Medical Therapy of Prostatic Symptoms (MTOPS) Research Group. The longterm effect of doxazosin, finasteride, and combination therapy on the clinical progression of benign prostatic hyperplasia. N Engl J Med. 2003 Dec 18;349(25):2387-98 6. Roehrborn CG, Siami P, Barkin J et al; CombAT Study Group. The effects of dutasteride, tamsulosin and combination therapy on lower urinary tract symptoms in men with benign prostatic hyperplasia and prostatic enlargement: 2-year results from the ComAT study. J Urol 2008;179(2):616-21 7. Naslund M, Eaddy MT, Hogue SL et al. Impact of delaying 5-alpha reductase inhibitor therapy in men on alpha-blocker therapy to treat BPH: assessment of acute urinary retention and prostate-related surgery. Curr Med Res Opin. 2009 Nov;25(11):2663-9 8. Oelke M, Bachmann A, Descazeaud A et al. EAU Guidelines on the Treatment and Follow-up of Non-neurogenic Male Lower Urinary Tract Symptoms Including Benign Prostatic Obstruction. Eur Urol. 2013 Mar 13 [Epub ahead of print] (www.uroweb.org/gls/ pdf/12_Male_LUTS.pdf) 9. Kirby R, McLean A, Nash, J et al. (2009) ProState of the Nation Report. A call to action: delivering more effective care for BPH patients in the UK.

2-3.2013 Medico e Paziente

21


Sindrome della vescica iperattiva In arrivo nuove opzioni di trattamento Il problema della vescica iperattiva, noto presso gli urologi anche come sindrome da urgenza-frequenza, affligge una parte consistente della popolazione, soprattutto donne.

In ambito terapeutico, interessanti novità sono state discusse nel corso della conferenza di presentazione di “Donne VIP”, una campagna di sensibilizzazione sull’incontinenza da vescica iperattiva e durante il congresso EAU. Sono stati presentati i risultati di due nuovi studi sul farmaco mirabegron (Astellas), che ne hanno valutato la frequenza di eventi avversi in confronto con tolterodina e con placebo. Dai dati raccolti, è emersa la superiore sicurezza di mirabegron, sia rispetto al farmaco concorrente sia rispetto al placebo.

I dati di prevalenza universalmente citati in tema di vescica iperattiva sono quelli raccolti nello studio NOBLE, pubblicati nel 2003 (1). Le dimensioni del problema sarebbero rilevanti: ne è affetto il 16,6 per cento della popolazione con più di 18 anni; nel caso della popolazione femminile inoltre, urgenza e frequenza sono associate a una franca incontinenza, sintomo che tra gli uomini riguarda solo lo 0,014 per cento dei soggetti. Per quanto riguarda l’Europa, i dati più recenti risalenti al 2001 (2) segnalano valori di prevalenza molto simili, corrispondenti a una popolazione affetta da vescica iperattiva di circa 22 milioni di persone, pur con qualche differenza tra nazione e nazione: le più colpite sarebbero Spagna, Regno Unito, Svezia e Germania. Se si considera più nello specifico la popolazione over40, le percentuali di prevalenza della vescica iperattiva arrivano a sfiorare il 20 per cento circa.

Tabella 1. Come viene classificata l’incontinenza Incontinenza da sforzo: si manifesta in seguito all’aumento repentino della pressione addominale durante l’attività fisica o il movimento, starnutendo, tossendo o ridendo. È l’effetto di una perdita di efficienza della muscolatura perineale pelvica dovuta all’invecchiamento dei tessuti muscolari (soprattutto in menopausa) o a seguito di una sofferenza del perineo nei travagli prolungati durante il parto naturale. Incontinenza da urgenza: si manifesta associata all’impellenza di urinare ed è generalmente provocata da contrazioni irrefrenabili e incontrollabili della vescica (vescica iperattiva). Incontinenza da sforzo: si manifesta con sintomi tipici dell’incontinenza da sforzo e di quella da urgenza. Incontinenza da rigurgito: si manifesta con la vescica che diventa incapace di svuotarsi facendo traboccare l’urina con una perdita continua, goccia a goccia Fonte: modificata da AAVV, 2012 (6)

22

Medico e Paziente 2-3.2013


Tra i fattori di rischio più importanti, si annoverano la menopausa, l’obesità, il fumo di sigaretta, le malattie neurologiche e l’assunzione di farmaci, mentre vengono segnalate anche significative associazioni con altre condizioni che riguardano specificamente la vescica e le vie urinarie, per esempio le infezioni o un precedente intervento di chirurgia uro-ginecologica. Nel nostro Paese, si stima che i pazienti affetti da sindrome da vescica iperattiva siano più di tre milioni.

❱❱ Sintomatologia La vescica iperattiva si manifesta con una forte urgenza della minzione, associata a pollachiuria e a nicturia, oltre a incontinenza (tabella 1), con un significativo impatto sulla qualità di vita, soprattutto in soggetti nella terza età in cui i sintomi più severi, associati ad altre patologie o ad altri motivi di fragilità fisica e psicologica, possono arrivare a minare l’autostima e l’equilibrio del paziente. A risentirne sono soprattutto le donne, che riferiscono spesso una limitazione nelle relazioni sociali, e nella vita sessuale oltre a un vero e proprio condizionamento negli spostamenti, per la necessità di avere sempre a portata i servizi igienici (riquadro). “Si tratta di una patologia che allontana le donne dalla vita sociale e costringe coloro che ne sono affette a rinunciare a viaggi e spostamenti, a sviluppare un’insana dipendenza dal bagno e quindi una progressiva perdita di libertà”, ha spiegato la prof. Flavia Franconi, dell’Università di Sassari e presidente GISeG nel corso della conferenza. Anche per via della totale assenza d’interventi sociosanitari, troppe donne ancora ritengono che l’incontinenza urinaria sia una condizione da nascondere, un evento “naturale” e ineluttabile, per il quale non si può cercare aiuto, o da sopportare in silenzio, com’era la menopausa fino a qualche anno fa”. Questo quadro nosologico dovrebbe motivare il Medico di medicina generale a utilizzare i presidi terapeutici e in particolare farmacologici per una pronta risoluzione del disturbo, partendo da un’attenta anamnesi e valutazione del paziente che consenta di evidenziare i sintomi, anche quando il soggetto non riesce a riferirli in modo chiaro, per pudore o semplicemente per sottovalutazione (riquadro).

❱❱

La vescica iperattiva, questa sconosciuta Quanto è conosciuta la sindrome da vescica iperattiva? Una risposta parziale, ma ugualmente esplicativa viene dai risultati di una ricerca condotta su un campione statisticamente significativo di donne italiane dalla società demoscopica Elma Research nell’ambito di DonneVip, la campagna di sensibilizzazione su vescica iperattiva e incontinenza urinaria promossa da GISeG – Gruppo italiano Salute e Donna, con il contributo incondizionato di Astellas. Delle 1.560 donne tra 35 e 70 anni, 672, cioè circa il 43 per cento, hanno dichiarato di soffrire d’incontinenza urinaria. L’età media di questo gruppo è risultata di 58 anni. I dati nel loro complesso confermano un dato già di per sé prevedibile: l’informazione sull’incontinenza urinaria è molto più diffusa di quella che riguarda la vescica iperattiva; dichiarano infatti di conoscerne la sintomatologia, rispettivamente, il 97 per cento e il 31 per cento del campione, in media. Vi sono tuttavia notevoli differenze tra le donne che soffrono d’incontinenza e quelle che non ne soffrono. Le prime hanno dimostrato una conoscenza dell’incontinenza nel 90 per cento dei casi e della vescica iperattiva nel 40 per cento; le seconde hanno sentito parlare dell’incontinenza nel 90 per cento dei casi e della vescica iperattiva nel 30 per cento dei casi. L’indagine ha valutato anche l’impatto psico-sociale dell’incontinenza. Tra coloro che ne soffrono, una su tre ha dichiarato di ritenere che il disturbo sia causa di vergogna e che possa rendere chi ne è affetto meno attraente e piacevole, compromettendo la vita socio-relazionale. Tra coloro che non soffrono del disturbo, ben due terzi ritiene che esso possa compromettere la vita socio-relazionale, il 74 per cento pensa che possa compromettere la femminilità e il 34 per cento si sente molto o moltissimo esposto al rischio di sviluppare la patologia.

2-3.2013 Medico e Paziente

23


❱❱ I presidi farmacologici La terapia di elezione per i sintomi della vescica iperattiva è rappresentata dagli antagonisti muscarinici, che agiscono riducendo o abolendo in modo selettivo gli effetti della stimolazione del parasimpatico, inducendo un rilasciamento della muscolatura liscia. I recettori muscarinici sono presenti nell’urotelio, la mucosa vescicale, e nel muscolo detrusore della vescica: a ciò si deve l’efficacia di questi farmaci nei confronti dei sintomi quali urgenza, frequenza e incontinenza. Gli stessi recettori sono presenti anche a livello delle ghiandole salivari, dell’apparato cardiovascolare e dell’intestino, ed è per questo che spesso vengono descritti come eventi avversi dell’assunzione di antimuscarinici la secchezza delle fauci, bradicardia o tachicardia (secondo il dosaggio) e la costipazione. Tra i diversi farmaci in commercio attualmente in Italia (tabella 2), alcuni hanno una maggiore selettività per i recettori della vescica e hanno pertanto un migliore profilo di sicurezza. Recentemente è stato presentato mirabegron, il primo esponente di una nuova classe di farmaci, che ha ottenuto l’approvazione dello FDA nel giugno del 2012 e dell’Ema nel gennaio di quest’anno. Si tratta di un agonista del beta-3-adrenocettore che agisce stimolando il rilasciamento del muscolo detrusore della vescica, facilitando così il suo riempimento senza impedirne lo svuotamento.

❱❱ I risultati dei trial clinici In uno studio presentato al congresso dell’EAU da Nitti e coll. (3) sono stati analizzati i risultati di tre trial di fase III, randomizzati in doppio cieco e controllati con placebo, con particolare riguardo ai dati di sicurezza della somministrazione di tre diversi dosaggi di mirabegron – 25 mg, 50 mg o 100 mg – e di tolterodina 4mg a rilascio prolungato (in uno solo dei tre trial) su 4.611 pazienti complessivi. Secondo i risultati, l’incidenza degli eventi avversi più comunemente associati agli antimuscarinici era pressoché la stessa nei diversi gruppi di trattamento, con l’eccezione della secchezza delle fauci e del prurito, che nel gruppo trattato con tolterodina è risultata rispettivamente del 10,1 per cento e del’1,4

24

Medico e Paziente 2-3.2013

Tre domande mirate per svelare i sintomi La sindrome da vescica iperattiva e, a maggior ragione, l’incontinenza urinaria rappresentano, per chi ne soffre, un problema da affrontare, ma anche da raccontare. È per questo che il Medico di medicina generale deve saper cogliere anche tra le righe dei sintomi riferiti eventuali accenni ai disturbi minzionali. Soprattutto nel caso di pazienti fragili o con fattori di rischio specifici, possono essere utili tre domande mirate: 1. Ha avuto, negli ultimi tre mesi, perdite di urina involontarie, spontanee per piccoli sforzi, per la tosse, per uno starnuto? 2. In genere va a urinare più di 8 volte durante il giorno e/o alzarsi più di una volta per notte? 3. Le capita di avere urgente, improvviso e irrefrenabile desiderio di urinare? Fonte: modificato da Pesce et al., 2002 (5)

per cento, rispettivamente, quindi circa quattro volte maggiore delle percentuali rilevate per mirabegron (1,7-2,5 e 0,2-0,3 per cento, rispettivamente) e per il placebo (2,1 e 0,4 per cento, rispettivamente). I dati indicano quindi che mirabegron rappresenta una valida alternativa terapeutica agli antimuscarinici, in particolare per quei pazienti in cui la secchezza delle fauci è particolarmente importante e può determinare un abbandono della terapia. Per quanto riguarda il profilo di efficacia, lo stesso gruppo di ricercatori ha appena pubblicato i risultati di uno studio randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo, condotto negli Stati Uniti e in Canada su pazienti con vescica iperattiva (4). Dopo due settimane di somministrazione di placebo, i soggetti sono stati randomizzati a ricevere mirabegron 50 o 100 mg una volta al giorno o placebo per un periodo di 12 settimane. I dati di efficacia sono stati raccolti dai diari tenuti dai pazienti da cui è stato ricavato il numero medio di episodi d’incontinenza e di minzione nelle 24


Sindrome della vescica iperattiva

Tabella 2. Gli antimuscarinici in commercio in Italia Principio attivo

Meccanismo d’azione

Selettività per la vescica

Solifenacina succinato

Antagonista competitivo e specifico dei recettori muscarinici

Elevata

Tolterodina

Antagonista competitivo e specifico dei recettori colinergici

Moderata

Ossibutinina

Antagonista competitivo e specifico dei recettori colinergici

Assente

Fesoterodina

Antagonista dei recettori muscarinici privo di selettività per specifici sottotipi

Trospio

Antagonista dei recettori muscarinici privo di selettività per specifici sottotipi

Propiverina

Spasmolitico e anticolinergico

ore, nonché le relative variazioni dal basale alla visita finale. La valutazione del profilo di sicurezza ha tenuto conto degli eventuali eventi avversi, degli esami di laboratorio, dei tracciati ECG e infine del volume residuo vescicale post-minzionale. Rispetto al placebo, i gruppi di trattamento con mirabegron 50 e 100 mg hanno dimostrato una diminuzione degli episodi d’incontinenza e di minzione maggiore rispetto al placebo, con una statistica significativa. La frequenza di eventi avversi quali ipertensione, infezioni delle vie urinarie e rinofaringite è risultata simile tra pazienti trattati con il farmaco e con placebo.

❱❱ Conclusioni La sindrome da vescica iperattiva è un problema diffuso, ma spesso non riconosciuto adeguatamente da chi ne soffre. L’attenzione del MMG dovrebbe essere rivolta al riconoscimento dei sintomi anche quando questi non sono riferiti in modo chiaro nel colloquio con il paziente. Per la terapia, attualmente sono disponibili diversi farmaci antagonisti muscarinici, pur con diverse specificità di azione sulla vescica. Nel prossimo futuro, sarà commercializzato anche in Italia, mirabegron, un farmaco con un meccanismo d’azione differente che ha dimostrato un favorevole profilo di sicurezza e di efficacia.

Bibliografia 1. Stewart WF, Van Rooyen JB, Cundiff GW et al. Prevalence and burden of overactive bladder in the United States. World Journal of Urology 2003; 20:327-36 2. Milsom I, Abrams P, Cardozo L et al. How Widespread Are the Symptoms of an Overactive Bladder and How Are They Managed? A Population-based Prevalence Study. British Journal of Urology International 2001; 87:760-766 3. Nitti V, Chapple CR, Amarenco G et al. The incidence of antimuscarinic- associated side effects in overactive bladder (OAB) patients trated with mirabregon: Results of a pooled analysis of 3 randomised phase 3 trials. Eur Urol Suppl 2013; e401 4. Nitti V, Auerbach S, Martin N et al. Results of a Randomized Phase III Trial of Mirabegron in Patients with Overactive Bladder. J Urol. 2013; 189(4):1388-9 5. Pesce F, Cerruto A, Rubini S. Sindrome della vescica iperattiva, 2002. Documenti SIMG 6. AAVV. Libro bianco sull’incontinenza urinaria, 2012. A cura di Federazione italiana incontinenti (FINCO)

2-3.2013 Medico e Paziente

25


TERAPIA

Nella cistite interstiziale si rivela efficace la combinazione acido ialuronico-condroitin solfato

L

a sindrome del dolore pelvico, conosciuta anche come cistite interstiziale, è uno stato infiammatorio cronico della vescica con una notevole diffusione nella popolazione generale di sesso femminile, anche se mancano dati epidemiologici affidabili, soprattutto per il continente europeo. Inoltre, si tratta di una condizione ancora scarsamente compresa e di eziologia incerta, ed è per questo che solo recentemente sono stati definiti criteri diagnostici condivisi. Nel 2008, la European Society for the Study of Interstitial Cystitis (ESSIC) ha proposto che la cistite interstiziale venga diagnosticata sulla base di un dolore pelvico cronico (di durata superiore a sei mesi), pressione o sensazione di fastidio associati alla vescica e almeno un altro sintomo urinario, quale per esempio l’urgenza o la frequenza di minzione (1). Una delle teorie attualmente più accreditate prevede, tra le diverse caratteristiche fisiopatologiche della cistite interstiziale, l’alterazione dell’urotelio, e in particolare dello strato più superficiale, il coating. Questo, a sua volta è formato da una porzione profonda di glicoproteine e proteoglicani e da una porzione superficiale di glicosaminoglicani (GAG), tra cui l’acido ialuronico

26

Medico e Paziente 2-3.2013

e il condroitin solfato. In condizioni fisiologiche, il coating, impedendo l’adesione di uropatogeni, costituisce una protezione antibatterica che viene meno se l’urotelio viene alterato per effetto di infezioni, di una reazione autoimmunitaria o per la presenza di sostanze tossiche. Quando è danneggiato, l’epitelio diventa permeabile e non è più in grado d’impedire la penetrazione delle sostanze tossiche attraverso le pareti della vescica, innescando una cascata di risposte infiammatorie e neurogeniche il cui esito ultimo sono i sintomi dolorosi e di svuotamento, nonché un ulteriore danneggiamento dell’urotelio. L’evidenza in pazienti con cistite interstiziale d’infiammazione neurogenica può spiegare l’iperalgesia della vescica, mentre l’iperattivazione delle cellule mastocitarie subepiteliali può danneggiare ulteriormente l’urotelio.

Il razionale del trattamento Le tre componenti citate – danno a carico dell’urotelio, infiammazione neurogenica e attivazione delle cellule mastocitarie subepiteliali – rappresentano il bersaglio terapeutico per la cistite interstiziale. I dati riportati in letteratura depongono

a favore del trattamento intravescicale a base di un’associazione tra acido ialuronico (una componente importante dello strato di GAG) e condroitin solfato (un GAG solforato con proprietà antinfiammatorie), in grado di promuovere il ripristino dell’integrità e della funzionalità dell’urotelio. In un recente studio condotto dal gruppo del prof. Mauro Cervigni del Dipartimento di Uroginecologia dell’Ospedale San Carlo di Roma (2) è stata valutata l’efficacia sul lungo termine (fino a tre anni) della terapia di combinazione acido ialuronico all’1,6 per cento e condroitin solfato al 2,0 per cento, somministrata per instillazione intravescicale, per un periodo di nove mesi in 12 pazienti di sesso femminile con cistite interstiziale refrattaria ad altri trattamenti. Le pazienti, di età compresa tra 34 e 65 anni (media 52,6 anni) e con durata del disturbo da 1 a 7 anni (media 3,2 anni) sono state valutate in base a un diario minzionale, a una scala analogica visiva (VAS) del dolore vescicale e a tre questionari più specifici: l’O’Leary-Sant Interstitial Cystitis Symptom Index, l’O’LearySant Interstitial Cystitis Problem Index (3) e la Pelvic Pain and Urinary Urgency Frequency (PUF) Patient


Symptom Scale. Dai dati raccolti è risultato un miglioramento generalizzato e mantenuto nel tempo nella funzionalità della vescica: il numero medio di svuotamenti è passato dal valore al basale di 17,8 a 15,5 dopo nove mesi e a 11,0 dopo tre anni, mentre il volume medio per svuotamento è cambiato invece da un valore medio al basale di 136,8 ml a 143,9 ml dopo nove mesi e a 180,9 ml dopo tre anni. Sintomi quali il dolore, la frequenza e l’urgenza sono migliorati per tutta la durata del trattamento, così come la qualità della vita. I risultati della terapia intravescicale diretta alla sostituzione dei GAG indica, secondo gli Autori, che il ripristino dell’urotelio ha l’effetto di ridurre i sintomi della cistite interstiziale in pazienti refrattari ad altri trattamenti, con un beneficio protratto fino a tre anni del trattamento di nove mesi. Queste conclusioni dovrebbero incoraggiare a disegnare studi più ampi e controllati per ottenere risultati statisticamente più solidi.

Bibliografia 1. van de Merwe JP, Nordling J, Bouchelouche P et al. Diagnostic criteria, classification, and nomenclature for painful bladder syndrome/interstitial cystitis: an ESSIC proposal. Eur Urol. 2008 Jan;53(1):60-7 2. Cervigni M, Natale F, Nasta L, Mako A. Intravesical hyaluronic acid and chondroitin sulphate for bladder pain syndrome/interstitial cystitis: long-term treatment results. Int Urogynecol J. 2012 Sep;23(9):1187-92 3. O’Leary MP, Sant GR, Fowler FJ Jr et al. The interstitial cystitis symptom index and problem index. Urology. 1997; 49(5A Suppl): 58-63

Eiaculazione precoce

Focus sulla diagnosi precoce e sui vantaggi del trattamento farmacologico

L’

eiaculazione precoce (EP) viene attualmente considerata il disturbo sessuale più diffuso nella popolazione maschile: ne soffrirebbe, secondo le stime, un uomo sessualmente attivo su tre. A fare il punto sulla tematica e sulle possibili soluzioni, anche in termini di terapia farmacologica, ci ha pensato il simposio tenutosi nel corso del congresso EAU di Milano. I diversi interventi hanno sottolineato come l’EP se non correttamente affrontata, possa compromettere anche seriamente la vita sessuale di chi ne soffre e del suo partner, con potenziali serie ripercussioni sulla relazione di coppia. Cardine di un corretto trattamento è un’adeguata diagnosi, basata su un’accurata anamnesi del paziente, volta a identificare se si tratti di un’EP primaria, insorta fin dal primo rapporto sessuale, o secondaria, cioè manifestatasi dopo un periodo di funzione eiaculatoria soddisfacente. Nel primo caso è consigliabile procedere a un esame obiettivo, ma non sono raccomandati esami di routine; nel secondo caso invece l’esame obiettivo dovrebbe essere focalizzato a evidenziare eventuali disturbi concomitanti quali disfunzione erettile, ipertiroidismo, prostatiti

ecc., che, se presenti, dovrebbero essere affrontati contestualmente alla terapia dell’EP. Per quest’ultima, le più recenti linee guida dell’EAU, pubblicate nel 2012, raccomandano di affrontare il problema globalmente, sia con interventi di tipo psicologico ed educativo, sia eventualmente di tipo farmacologico. Nell’EP è stata riconosciuta infatti una forte componente psicologica, in particolare per i soggetti con disturbi d’ansia o depressione o con disturbi più specificatamente legati alla sfera sessuale. Per quanto riguarda invece la terapia farmacologica, il farmaco di prima scelta è dapoxetina, molecola sviluppata da JanssenCilag e ora commercializzata con il marchio Menarini, l’unica approvata per la terapia al bisogno dell’EP primaria e secondaria (livello di evidenza 1a) (1). Questa raccomandazione si basa su numerosi studi clinici controllati contro placebo che hanno dimostrato come l’assunzione di dapoxetina al dosaggio di 30 o 60 mg da una a tre ore prima del rapporto sessuale consenta un notevole miglioramento nei tempi e nel controllo dell’eiaculazione nonché, di rifles-

2-3.2013 Medico e Paziente

27


so, nella soddisfazione sessuale (2). Il farmaco presenta un notevole profilo di sicurezza, con effetti collaterali sporadici limitati a nausea, diarrea, cefalea e vertigini. In un recente lavoro su pazienti affetti da EP afferenti al Dipartimento di Urologia e Andrologia del Policlinico universitario “Paolo Giaccone” di Palermo, è stata confrontata la compliance all’assunzione di dapoxetina in confronto con citalopram (3). Sotto questo profilo, i due inibitori di ricaptazione della serotonina sono risultati sostanzialmente equivalenti (56 vs. 61 per cento di compliance), mentre le percentuali d’incidenza di effetti avversi (14,6 vs. 38,4 per cento) e di benefici riportati (82 vs. 69,2 per cento) sono nettamente a favore di dapoxetina. Nel corso del simposio dell’EAU è stata presentata una sintesi dei trial randomizzati e controllati sull’efficacia di dapoxetina nel trattamento dell’EP, valutati con

un parametro standardizzato, il tempo di latenza eiaculatoria intravaginale (IELT) (4). Dall’analisi dei dati emerge un incremento di 3-4 volte dei valori di IELT a 12 e 14 settimane rispetto al basale (5). Secondo uno studio di farmacocinetica e farmacodinamica risalente al 2006, citato nello stesso intervento del simposio, il farmaco viene assorbito ed eliminato rapidamente: dopo 24 ore, la concentrazione plasmatica è inferiore al 5 per cento del valore di picco (6). Particolarmente interessante è il risultato di uno studio coreano presentato nel corso del congresso EAU che ha valutato l’efficacia della terapia di combinazione dapoxetina con un inibitore della fosfodiesterasi-5, sebbene nello specifico si tratti di una molecola, mirodenafil, non ancora approvata dalle agenzie per il farmaco né negli Stati Uniti né in Europa (7). L’associazione dapoxetina + mirodenafil, farmaco sviluppato da SK

Chemicals Life Science, è risultata più efficace della monoterapia con dapoxetina nell’incremento dei valori di IELT nel migliorare i valori di IELT in pazienti con EP primaria. Un ultimo studio in cieco, controllato contro placebo, e presentato all’EAU (8) ha preso in considerazione gli effetti sull’EP della somministrazione di quattro farmaci fuori indicazione, spesso prescritti anche in assenza di evidenze scientifiche solide: tramadol, sildenafil, paroxetina, e lidocaina in gel per applicazione topica. In termini d’incremento dello IELT, tutti i farmaci sono risultati superiori al placebo, con effetti collaterali poco significativi; i migliori effetti sono stati ottenuti con tramadol (351±119 secondi), mentre lidocaina è risultata significativamente superiore a paroxetina (278±111 vs. 186±65 secondi). La soddisfazione sessuale è risultata invece superiore nel gruppo trattato con sildenafil.

Bibliografia 1. Eiaculazione precoce - Raccomandazioni della Società Italiana di Uologia (SIU) per la gestione del paziente nella pratica clinica (www.siu.it) 2. McMahon CG. Dapoxetine: a new option in the medical management of premature ejaculation. Ther Adv Urol 2012; 4(5):233-51 3. Pavone C, Scalici Gesolfo C, Abbadessa D et al. Compliance to therapy with Dapoxetine in patients affected by Premature Ejaculation. Urologia 2013 [Epub ahead of print] 4. Hatzichristou D. Premature ejaculation on demand treatment with dapoxetine: from clinical evidences to real practice. 5. McMahon CG, Althof SE, Kaufman JM. Efficacy and safety of dapoxetine for the treatment of premature ejaculation: integrated analysis of results from five phase 3 trials. J Sex Med 2011; 8(2): 524-539 6. Andersson KE, Mulhall JP, Wyllie MG. Pharmacokinetic and pharmacodynamic features of dapoxetine, a novel drug for ‘ondemand’ treatment of premature ejaculation. BJU Int 2006; 97(2): 311-315 7. Yoo C, Cho WY, Cho JS et al. Comparison of Dapoxetine Alone and Dapoxetine Plus Mirodenafil in Patients with Premature Ejaculation: Multicenter, Prospective, Double-Blind, Randomised and Placebo-Controlled. Eur Urol Suppl 2013; 12; e214 8. Gameel TA, Tawfik AM, Soliman MG et al. On demand use of tramadol, sildenafil, paroxetine or local anesthetics for management of premature ejaculation, a randomized placebo-controlled clinical trial. Eur Urol Suppl 2013; 12; e214

28

Medico e Paziente 2-3.2013


gastroenterologia

Intolleranza al glutine non celiaca I risultati di uno studio italiano in doppio cieco

A

ttualmente poi, è possibile osservare un altro interessante fenomeno, che sta generando una grande confusione tra “gli addetti ai lavori”. Il numero dei soggetti che intraprendono una dieta senza glutine (o gluten-free diet, GFD) è molto superiore rispetto a quanto atteso sulla base del numero dei pazienti affetti da malattia celiaca, alimentando, nel 2010, un mercato globale di prodotti “gluten-free” pari a circa 2,5 miliardi di dollari. Questo trend è supportato dal fatto che, oltre alla malattia celiaca, altre condizioni cliniche e malattie correlate all’ingestione del glutine sono diventate d’interesse sanitario. In questo contesto, al fine di elaborare una nuova nomenclatura e classificazione dei disordini glutinecorrelati, nel febbraio 2011 si è riunito, a Londra un gruppo di 15 esperti. A ogni esperto è stato assegnato un tema specifico, che è stato discusso con gli altri membri del meeting, e il consenso è stato considerato raggiunto quando ogni singolo membro ha aderito alla nomenclatura e alle definizioni proposte (Figura 1). Attualmente sono riconosciute almeno 3 diverse forme di reazioni avverse al glutine: l’autoimmune (la malattia celiaca, l’atassia da glutine e la dermatite erpetiforme), l’allergica (l’ allergia al frumento), e quella, forse, immuno-mediata (intolleranza non celiaca al glutine, o gluten sensitivity); di quest’ultima forma si occupa da diversi anni il nostro gruppo di lavoro, con numerosi protocolli di ricerca in corso su decine di pazienti volontari.

In passato la malattia celiaca era considerata rara, e pertanto quasi completamente ignorata dai clinici. Negli ultimi 20 anni però, è diventata al centro dell’interesse sia del mondo clinico che della ricerca Cenni di storia Grano, riso e mais sono i cereali più largamente utilizzati nel mondo. Il grano è la coltura più diffusa, con più di 25.000 differenti varietà, prodotte da una moltitudine di incroci in tutto il mondo. La maggior parte della produzione del grano viene consumata dopo essere stata trasformata in pane, in altri prodotti da forno e in pasta, e nel Medio Oriente e nel Nord Africa, in bulgur e couscous. La facile reperibilità delle farine di grano e le proprietà biochimiche delle proteine del glutine forniscono il razionale per il loro impiego come additivi alimentari (addensanti) nella lavorazione industriale dei cibi. Il glutine è il principale complesso proteico del grano, con equivalenti tossici anche in cereali, come la segale e l’orzo. Le frazioni proteiche tossiche del glutine includono le gliadine e le glutenine; le prime costituite da proteine monomeriche, le seconde da aggregati proteici. Probabilmente, l’introduzione del grano contenente il glutine, che si verificò circa 10.000 anni fa, con l’avvento dell’agricoltura, rappresentò una sfida evoluzionistica per il cacciatore-

raccoglitore che, per milioni di anni, si era nutrito quasi esclusivamente di carne creando quindi, le condizioni per la comparsa delle malattie umane da esposizione al glutine, le più conosciute delle quali sono state finora la malattia celiaca e l’allergia al frumento. In entrambe le condizioni, la reazione al glutine è mediata dall’attivazione dei linfociti T della mucosa gastrointestinale.

Le condizioni cliniche glutine correlate La malattia celiaca è un disordine autoimmune glutine-correlato, come dimostrato dalla presenza nel siero e nei tes-

a cura di Pasquale Mansueto1, Floriana Adragna1, Alberto D’Alcamo1, Aurelio Seditia1, Giusi Randazzo1, Giuseppe Iacono2, GiovamBattista Rini1, Antonio Carroccio3 1. Medicina Interna, Policlinico Universitario, Palermo 2. Gastroenterologia Pediatrica, Ospedale “Di Cristina”, Palermo 3. Medicina Interna, Ospedale di Sciacca (AG)

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

29


gastroenterologia Figura 1

Nuova nomenclatura e classificazione proposta per i disordini correlati al glutine

Disturbi correlati al glutine Patogenesi

Allergica

Non autoimmune, non allergica (immunità innata?)

Allergia al grano

Gluten sensitivity

Autoimmune

Atassia da glutine

Malattia celiaca

Sintomatica

Silente

Dermatite erpetiforme

Potenziale

Allergia respiratoria

Allergia alimentare

Anafilassi indotta dall’esercizio, dipendente dal grano

Orticaria da contatto

Fonte: modificata da Sapone A et al. Spectrum of gluten-related disorders: consensus on new nomenclature and classification. BMC Med 2012; 10: 13

suti intestinali di particolari autoanticorpi organo-specifici, e, più specificatamente, degli anticorpi anti-transglutaminasi tissutale (tTG) di classe IgG e IgA e degli anticorpi anti-endomisio (EMA) di classe IgG e IgA; sono inoltre presenti nel siero dei pazienti gli anticorpi anti-gliadina nativa (AGA) e gli anticorpi verso peptidi

deamidati della gliadina (AGA deamidati), di classe IgG e IgA. Per la diagnosi di malattia celiaca è però necessario anche il dosaggio preliminare delle IgA sieriche totali, per escludere il deficit congenito di IgA (l’immunodeficienza congenita più comune) che potrebbe inficiare i risultati dei test sierologici. Nell’allergia

Tabella 1

Sintomi riportati dai pazienti affetti da gluten sensitivity Dati dalla letteratura e dalla nostra personale esperienza Sintomi gastrointestinali

Sintomi neurologicipsichiatrici

Altri sintomi

Dolore addominale

Cefalea

Rash cutaneo

Gonfiore addominale

Ipostenia

Eczema

Diarrea

Facile faticabilità

Dolori articolari

Stipsi

Perdita di equilibrio

Dolori muscolari

Alvo alterno

“Intorpidimento” di braccia, gambe, dita

Anemia

Nausea

Disturbi del sonno

Perdita di peso

Vomito

Mente “annebbiata”

Incremento ponderale

Ematochezia

Sbalzi d’umore

Gonfiore (volto, mani, dita)

Depressione

Oligo- o polimenorrea Cistite interstiziale

30

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

al frumento, invece, si crea un “legame a ponte” tra le IgE, il glutine e il recettore per le IgE posto sulla membrana dei mastociti e dei basofili, con conseguente rilascio di mediatori chimici sia preformati, come l’istamina, che neoformati, dalle suddette cellule. Oltre alla malattia celiaca e all’allergia al frumento, più recentemente sono state descritte reazioni cliniche all’assunzione del glutine che non è assolutamente chiaro se coinvolgano un meccanismo autoimmune, allergico, o prescindano dal coinvolgimento immunologico. È possibile che queste forme siano legate all’attivazione dell’immunità innata; la loro patogenesi tuttavia è ancora in fase di studio e revisione, e sono generalmente definite come “gluten sensitivity”. In seguito all’assunzione del glutine, i pazienti sviluppano sintomi che possono somigliare a quelli della malattia celiaca o dell’allergia al frumento. Fra i sintomi gastroenterologici, i più comuni sono simili a quelli del colon irritabile (IBS-simili). Vi è tuttavia, un’elevata prevalenza di sintomi extra-intestinali, come cefalea, “mente annebbiata”, astenia cronica, dolori ossei o articolari, crampi muscolari,


Figura 2

Algoritmo proposto per la diagnosi differenziale dei disordini correlati al glutine Storia clinica ed esame obiettivo: valutazione iniziale per la diagnosi differenziale Allergia al glutine

Malattia celiaca o gluten sensitivity

Prick test IgE sieriche specifiche (RAST) Challenge con glutine

anti-tTG-IgA e IgG EMA IgA AGA IgG e IgA AGA deaminati IgA totali

Test positivi Challenge positivo

anti-tTG e/o AGA deaminati positivi

negativi

EGDS + biopsie

Sospettare gluten sensitivity

no

Allergia al glutine confermata

Allergia al glutine esclusa, considerare altre diagnosi

Challenge con glutine

Biopsie positive

positivo

no

Malattia celiaca confermata

Malattia celiaca potenziale

Gluten sensitivity confermata

negativo

Gluten sensitivity esclusa, considerare altre diagnosi

Fonte: modificata da Sapone A et al. Spectrum of gluten-related disorders: consensus on new nomenclature and classification. BMC Med 2012; 10: 13

intorpidimento delle gambe e perdita di peso, senza però, danni a carico della mucosa del piccolo intestino. La tabella 1 riassume alcuni dei sintomi attribuiti alla gluten sensitivity.

Gluten sensitivity: indicazioni diagnostiche In assenza di un marcatore sierologico, attualmente la diagnosi di gluten sensitivity viene posta per esclusione: infatti è necessario escludere sia una condizione di malattia celiaca che un’allergia al frumento. Successivamente, la possibile diagnosi di gluten sensitivity deve essere testata mediante dieta di eliminazione e successiva, graduale, reintroduzione dei cibi contenenti glutine (o challenge),

rilevando il miglioramento dei sintomi con l’eliminazione del glutine dalla dieta e la ricomparsa degli stessi alla sua reintroduzione. Tuttavia, questo approccio diagnostico è soggetto al rischio di un “effetto placebo” e “nocebo” della dieta d’eliminazione e di reintroduzione del glutine nel miglioramento e nel peggioramento dei sintomi. Da questo punto di vista, il “gold standard” per la diagnosi di gluten sensitivity è considerato il test di provocazione con glutine in doppio cieco controllato con placebo (Double-Blind Placebo-Controlled Challenge, DBPCC), in cui il glutine viene somministrato in alternativa con un placebo, in confezioni anonime, del tutto indistinguibili fra loro, e in cui né il medico né il paziente sanno cosa stanno somministrando e

assumendo; essendo però questa, una metodica di esecuzione complessa, nonché richiedente tempi molto lunghi, essa viene raramente impiegata nella pratica clinica. Vengono allora considerati pazienti affetti da gluten sensitivity coloro i quali mostrano: 1. sintomi clinici simili a quelli della malattia celiaca o dell’allergia al frumento; 2. risoluzione dei sintomi a dieta senza glutine e un loro peggioramento alla reintroduzione del frumento nella dieta; 3. sierologia per malattia celiaca negativa (anti-tTG e/o EMA) e con test allergologici (dimostrazione di IgE specifiche tramite prick test e/o RAST) negativi per il grano; 4. quadro istologico duodenale con villi normali o, al più, con un infiltrato linfo-

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

31


gastroenterologia citario intra-epiteliale (classificazione di Marsh 0-1). Basandosi quindi, su una combinazione di dati clinici, biologici, genetici e istologici, è possibile distinguere le tre condizioni (malattia celiaca, allergia al frumento e gluten sensitivity) seguendo l’algoritmo diagnostico mostrato in Figura 2. Tuttavia, molti ricercatori restano scettici sulla reale esistenza di una gluten sensitivity come categoria diagnostica ben definita. Essi insistono sia sul possibile ruolo dell’effetto placebo di una dieta di eliminazione, sia sul fatto che il glutine ha una struttura biochimica che lo rende estremamente difficile da digerire per chiunque; infatti, proprio sul piano della biochimica, il nostro intestino non riesce a degradare i lunghi polimeri delle proteine del glutine.

Tabella 2

cercato anche di identificare le caratteristiche cliniche, sieroloCriteri di Roma II giche e istologiche di questi pazienti, utilizzando come controlli, per la diagnosi di IBS pazienti affetti da sindrome del Almeno 12 settimane in 12 mesi di: colon irritabile (IBS) (Figura 3). Dolore o “discomfort” addominale Abbiamo reclutato pazienti afferenti al nostro Ambulatorio di + Celiachia e Intolleranze AlimenAlmeno 2 di: tari del Dipartimento di Medicina Attenuato dall’evacuazione Interna e Specialistica dell’AzienVariazioni nella frequenza delle evacuazioni da Ospedaliera Universitaria “P. Giaccone” di Palermo e all’U.O.C. Variazioni nella consistenza delle feci di Medicina Interna dell’OspedaUlteriori caratteristiche soggettive le di Sciacca (ASP di Agrigento), Alterata frequenza/consistenza delle feci affetti da una sintomatologia IBSAlterato passaggio delle feci simile, definita secondo i criteri Presenza di muco diagnostici di Roma II (Tabella 2) , con negatività degli anticorGonfiore o tensione addominale pi sierici anti-tTG ed EMA, test immuno-allergici IgE-mediati negativi per il grano (prick test e/o IgE Uno studio italiano studio, pubblicato sull’American Journal sieriche specifiche, RAST) e istologia per individuare i pazienti of Gastroenterology, ha confermato l’esiduodenale negativa per celiachia (cioè con gluten sensitivity stenza della gluten sensitivity con la meassenza di atrofia dei villi intestinali). Al todologia del challenge in doppio cieco momento dell’ingresso nello studio, tutti contro placebo. Nello studio abbiamo Tuttavia molto di recente, un nostro i pazienti sono stati sottoposti per 4 setTabella 3 timane a una dieta standard di eliminazione, sulla base delle nostre precedenti Caratteristiche cliniche dei pazienti affetti esperienze, con l’esclusione oltre che da GS (n =276) e IBS (n =50) del grano, anche del latte vaccino, delle uova, del pomodoro e del cioccolato. Ai GS IBS Valore P pazienti che riferivano ipersensibilità ali67/276 4/50 0,02 Anemia mentari è stato anche chiesto di evitare (24%) (8%) l’ingestione e/o il contatto con gli alimen94/276 2/50 0,0001 Perdita di peso ti che causavano i sintomi. In seguito, i (35%) (4%) pazienti sono stati sottoposti al challenge Mediana (e range) della durata 7 7 in doppio cieco con la farina di grano n.s. dei sintomi (anni) (1-40) (1-31) e, successivamente, con le proteine del Mediana (e range) del numero di endoscopie 3,5 0,5 latte vaccino (entrambe somministrate 0,001 precedentemente effettuate (1-6) (0-2) in capsule), mentre gli altri alimenti sono 137/276 7/50 stati testati in “aperto”. I challenge sono 0,0001 Auto-riferita intolleranza al glutine (50%) (14%) stati considerati “positivi” se gli stessi sintomi, che erano inizialmente presenti al 14/276 0/50 n.s. Anamnesi familiare positiva per MC (5%) (0%) momento del reclutamento nello studio, a dieta libera, riapparivano, dopo la loro 47/276 2/50 0,01 Storia di allergie alimentari nell’infanzia scomparsa in seguito alla dieta di elimi(18%) (4%) nazione. Si trattava quindi di pazienti 80/276 3/50 0,0001 Coesistenti malattie atopiche che presentavano una risoluzione dei (29%) (6%) sintomi con la dieta priva di glutine e la Note: 1) Storia familiare di MC indica una diagnosi di celiachia in un parente di loro ricomparsa dopo la riassunzione del primo grado. 2) La storia delle allergie alimentari nella prima infanzia è stata docugrano (e di altri alimenti). mentata da cartelle cliniche. 3) Malattie atopiche erano rinite, congiuntivite, asma bronchiale e dermatite atopica. GS, gluten sensitivity; IBS, sindrome del colon irriIn ogni caso però, essendo al momento tabile attuale, la diagnosi di gluten sensitivity

32

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013


Tabella 4

Pazienti (GS e controlli) positivi per AGA IgA e IgG, aplotipo HLA-DQ2 e/o -DQ8, EMA nel mezzo di coltura della biopsia duodenale, IgG anti-β-lattoglobulina e test di attivazione dei basofili GS (n=276)

IBS (n=50)

Valore P

AGA IgA

110/276 (40%)

5/50 (10%)

0,0001

AGA IgG

155/276 (55%)

7/50 (14%)

0,0001

Aplotipo DQ2 o DQ8

146/276 (53%)

14/50 (28%)

0,0001

EMA nel mezzo di coltura della biopsia duodenale

22/276 (8%)

0/9 (0%)

n.s.

IgG anti-b-lattoglobulina

94/276 (35%)

7/50 (14%)

<0,0005

Test di attivazione dei basofili

184/276 (66%)

2/50 (4%)

<0,0001

Note: non tutti i pazienti appartenenti al gruppo IBS sono stati sottoposti al dosaggio degli EMA nel mezzo di coltura duodenale. GS, gluten sensitivity; IBS, sindrome del colon irritabile

(o di ipersensibilità alimentare multipla, compresa la gluten sensitivity) sostanzialmente una diagnosi di esclusione, abbiamo sottoposto la maggior parte di questi pazienti anche ad altri esami, e fra questi, ecografia addominale, colonscopia (con esame istologico della mucosa di retto e del colon), clisma del tenue e breath test al lattosio (per l’intolleranza al lattosio) e al lattulosio (per la sindrome da sovraccrescita batterica), proprio per escludere la presenza di altre patologie organiche o funzionali. In aggiunta, i pazienti che esibivano un HLA compatibile per celiachia (DQ2 e DQ8 positivi) sono stati sottoposti anche durante l’EGDS (eseguita in tutti i pazienti dello studio, come criterio di inclusione) al dosaggio degli EMA nel mezzo di coltura delle biopsie intestinali. Inoltre, molti dei pazienti sono stati sottoposti al test di attivazione dei basofili, basato sulla dimostrazione citofluorimetrica di peculiari modificazione dei fenotipi di membrana dei basofili

Figura 3

Il disegno dello studio Soggetti con sintomi IBS-simili secondo i criteri di Roma II + che soddisfacevano i criteri diagnostici per la diagnosi di gluten sensitivity

920 pazienti eleggibili

4 settimane di dieta “standard” di eliminazione e successivo DBPCC con grano 276 affetti da gluten sensitivity o polintolleranze alimentari, inclusa la gluten sensitivity

644 non affetti da gluten sensitivity

Esclusi

4 settimane di dieta di eliminazione e successivo DBPCC con latte vaccino Gruppo 1: 70 pazienti affetti da gluten sensitivity isolata

Gruppo 2: 206 pazienti affetti da polintolleranza alimentare, inclusa la gluten sensitivity

Gruppo di controllo: 50 pazienti affetti da sindrome del colon irritabile

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

33


gastroenterologia attivati dagli allergeni alimentari testati (latte, uovo e grano, o Flow-CAST) che, già in precedenti nostri studi, aveva dimostrato una certa affidabilità ed efficienza nella diagnosi di gluten sensitivity e polintolleranza alimentare.

w I risultati Innanzitutto una percentuale rilevante (25 per cento) dei pazienti con sintomi IBS-simili sottoposti al challenge in doppio cieco con il grano è risultata veramente affetta da gluten sensitivity; questi pazienti erano asintomatici dopo dieta di eliminazione e tornavano a manifestare i sintomi durante il challenge con grano. Per quanto riguarda le caratteristiche cliniche dei pazienti con gluten sensitivity, in confronto a quelli con IBS, e l’individuazione di possibili marcatori diagnostici, i dati, espressi in tabella 3, hanno evidenziato che una storia di allergie alimentari nella prima infanzia e di coesistenti malattie atopiche, nonché la presenza di anemia e perdita di peso sono risultati più frequenti nei pazienti con gluten sensitivity rispetto ai controlli. Visto che precedenti studi, soprattutto

del gruppo di Sapone e coll., non hanno mostrato variazioni di permeabilità intestinale e assorbimento nei pazienti con gluten sensitivity, si può ipotizzare che l’anemia e la perdita di peso possano dipendere, almeno in parte, dalla dieta ristretta praticata al domicilio da questi pazienti, con l’esclusione volontaria di numerosi alimenti. In aggiunta, i pazienti con gluten sensitivity presentavano una frequenza più elevata di auto-percepita sensibilità ai farinacei: in pratica erano i pazienti stessi che attribuivano al grano la causa dei loro disturbi. Altra caratteristica dei pazienti con gluten sensitivity era che essi erano stati sottoposti a un numero maggiore di esami endoscopici (EGDS e colonscopia) durante la loro vita rispetto ai controlli; ciò dovrebbe indurre i medici a prestare una maggiore attenzione ai suggerimenti dei pazienti, i quali “disperati” per la mancata diagnosi e la frequente spiegazione “psicosomatica” dei loro disturbi, si sottopongono a ripetuti accertamenti invasivi. Per quanto riguarda i test sierologici (Tabella 4), oltre alla negatività dei marcatori di flogosi (leucociti, VES e PCR), abbiamo eviden-

Tabella 5

Reperti istologici duodenali e del colon in pazienti con GS e nel gruppo di controllo (IBS) GS (n=276)

IBS (n=50)

Valore P

248/276 (90%)

0/9 (0%)

0,0001

Numero di IELs CD3+/100 EC

43 ± 9

15 ± 5

<0,0001

Numero di eosinofili ogni 10 HPF

63 ± 20

31 ± 12

<0,0005

Presenza di noduli linfoidi

84/276 (31%)

0/35 (0%)

<0,0001

Infiltrazione di IELs CD3+

68/276 (25%)

8/35 (23%)

n.s.

Infiltrazione di eosinofili nella lamina propria

165/276 (60%)

1/35 (3%)

< 0,0002

Infiltrazione intra-epiteliale di eosinofili

174/276 (63%)

0/35 (0%)

<0,0001

Istologia duodenale IELs CD3+ >25/100 EC

Istologia del colon

Note: “Presenza di noduli linfoidi” indica il numero di pazienti che mostrano questo reperto bioptico; GS, gluten sensitivity; IBS, sindrome del colon irritabile; IELs, linfociti intra-epiteliali; EC, enterociti; HPF, campi a elevato ingrandimento.

34

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

ziato che circa la metà dei pazienti con gluten sensitivity aveva HLA compatibile per celiachia e AGA (sia IgG che IgA) positivi. Più interessante è il test di attivazione dei basofili, che ha confermato un’elevata sensibilità e specificità per la diagnosi di gluten sensitivity. Infine, tra i pazienti con gluten sensitivity, un piccolo sottogruppo ha mostrato positività per gli EMA nel mezzo di coltura delle biopsie duodenali, e questi pazienti dovrebbero quindi, essere considerati celiaci sieronegativi o “potenziali”. Infine, la valutazione istologica del duodeno, dell’ileo e del colon ha mostrato una maggiore infiltrazione di eosinofili nell’epitelio e nella lamina propria rispetto ai controlli (Tabella 5). Tale quadro istologico potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di indirizzo per la diagnosi di gluten sensitivity, mentre il diffuso coinvolgimento ileo-colico potrebbe spiegare perché i sintomi principali di questi i pazienti siano di tipo “basso” e non riferiti al tratto gastrointestinale superiore (reflusso gastroesofageo, per esempio). Tuttavia, e questo è forse l’elemento più innovativo della ricerca, i nostri dati suggeriscono che la gluten sensitivity sia una condizione clinica eterogenea, che comprende diversi sottogruppi di pazienti, con differenti storie e caratteristiche cliniche. Infatti, abbiamo individuato almeno due distinti tipi di gluten sensitivity: un gruppo di pazienti con gluten sensitivity isolata (positivi solo al challenge con il grano), e un altro di pazienti intolleranti al grano, alle proteine del latte vaccino e a molti altri alimenti, soprattutto uovo e pomodoro (positivi al challenge con la farina di grano e le proteine del latte vaccino e ai challenge “in aperto-non in cieco” con altri alimenti). Questi pazienti possono essere classificati come “polintolleranti”. Questi due diversi gruppi di soggetti con gluten sensitivity hanno, infatti, mostrato chiare differenze, sia nella presentazione clinica che nei riscontri immunologici, anche se con una parziale sovrapposizione. La Tabella 6 riassume le caratteristiche demografiche e cliniche (sintomatologia gastrointestinale) dei due gruppi di pazienti affetti da gluten sensitività,


rispetto al gruppo di controllo. I soggetti con gluten sensitivity isolata hanno mostrato una maggiore frequenza di anemia, perdita di peso, aplotipo HLA-DQ2 o -DQ8, linfocitosi duodenale e positività degli EMA nel mezzo di coltura delle biopsie duodenali rispetto ai pazienti del gruppo dei polintolleranti (Tabella 7). Per quanto concerne i pazienti con EMA positivi nella coltura delle biopsie duodenali, va notato che, anche se non abbiamo evidenziato positività per gli anti-tTG e gli EMA sierici e atrofia dei villi all’esame istologico duodenale, un nostro precedente studio ha dimostrato che pazienti sintomatici, sieronegativi e senza atrofia dei villi, che però, producono EMA nella coltura duodenale, possono successivamente sviluppare atrofia Tabella 7

pazienti finiranno o meno per sviluppare una malattia celiaca franca, potrà essere valutato solo da ulteriori studi di follow-up. Il secondo gruppo di pazienti

dei villi qualora continuino una dieta contenente glutine (potremmo, quindi, parlare di celiachia “sieronegativa” e “potenziale”). Ovviamente se tutti questi Tabella 6

Caratteristiche dei pazienti con GS isolata (Gruppo 1), con ipersensibilità alimentari multiple - compreso al frumento (Gruppo 2) e con IBS GRUPPO 1 (n=70)

GRUPPO 2 (n=206)

IBS (n=50)

Valore P

Sesso (% di donne)

21 M, 49 F (70%)

40 M, 166 F (82%)

15 M, 35 F (70%)

n.s.

Sintomi tipo IBS: diarrea/costipazione/alvo alterno

28/14/28 (40/20/40%)

86/51/69 (42/25/33%)

16/14/20 (32/28/40%)

n.s.

Note: La GS è stata valutata in tutti i casi con il DBPCC; GS, gluten sensitivity; IBS, sindrome del colon irritabile

Caratteristiche cliniche, sierologiche e istologiche dei pazienti con GS isolata (Gruppo 1) e con intolleranze alimentari multiple, compreso il frumento (Gruppo 2) GRUPPO 1

GRUPPO 2

Valore P

Anemia

49/70 (70%)

18/206 (9%)

0,0001

Perdita di peso

32/70 (45%)

62/206 (30%)

0,02

5,5 (1-40)

8 (1-30)

0,001

Auto-riferita intolleranza al glutine

14/70 (20%)

123/206 (60%)

0,0001

Anamnesi familiare positiva per MC

10/70 (14%)

4/206 (2%)

0,0002

Storia di allergie alimentari nell’infanzia

7/70 (10%)

40/206 (19%)

n.s.

Coesistente atopia

7/70 (10%)

73/206 (35%)

0,0001

AGA IgA

28/70 (40%)

82/206 (40%)

n.s.

AGA IgG

21/70 (30%)

134/206 (65%)

0,0001

Aplotipo DQ2 o DQ8

53/70 (75%)

93/206 (45%)

0,0001

EMA nel mezzo di coltura della biopsia duodenale

22/70 (30%)

0/206 (0%)

0,0001

IgG anti-β-lattoglobulina

14/70 (20%)

80/206 (39%)

0,01

Attivazione dei basofili

28/70 (40%)

166/206 (80%)

0,0001

67/70 (96%)

181/206 (90%)

0,0001

Numero di IELs CD3+/100 EC

44 ± 8

41 ± 7

n.s.

Numero di eosinofili ogni 10 HPF

43 ±14

70 ± 18

0,0001

Presenza di noduli linfoidi

14/70 (20%)

70/206 (35%)

0,05

Infiltrato di IELs CD3+

17/70 (24%)

51/206 (25%)

n.s.

Infiltrazione di eosinofili nella lamina propria

21/70 (30%)

144/206 (70%)

0,0001

Infiltrazione intra-epiteliale di eosinofili

20/70 (28%)

154/206 (75%)

0,0001

Mediana (range) della durata dei sintomi (anni)

Istologia duodenale IELs CD3+ >25/100 EC

Istologia del colon

Note: GS, gluten sensitivity; IBS, sindrome del colon irritabile; IELs, linfociti intra-epiteliali; EC, enterociti; HPF, campi a elevato ingrandimento.

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

35


gastroenterologia con gluten sensitivity (i “polintolleranti”) mostrava invece caratteristiche più simili a quelle degli “allergici” piuttosto che dei pazienti celiaci, anche se nessuno è risultato positivo alla ricerca delle IgE specifiche per alimenti. Questi pazienti, più numerosi dei primi (rapporto fra i due gruppi 3:1), hanno mostrato una maggiore frequenza nella storia familiare, di allergia alimentare, coesistente atopia e gluten sensitivity auto-riportata rispetto all’altro gruppo. La loro presenza predominante nel nostro gruppo di studio ha probabilmente condizionato i risultati dei saggi immunologici (positività degli AGA e del test di attivazione dei basofili), e degli studi istologici (infiltrazione eosinofila della mucosa del colon e del duodeno) rispetto ai gruppi di controllo. Sono, però, necessari ulteriori studi per chiarire se la presenza predominante di pazienti di tipo “allergico” possa essere considerata una caratteristica “universale” della gluten sensitivity o un “difetto” della nostra casistica.

Considerazioni conclusive A conclusione, e quasi a rendere ancora più “intrigante” il tema della gluten sensitivity, va precisato che per i challenge non abbiamo usato il glutine, ma il grano. Di conseguenza non possiamo escludere la possibilità che altre componenti del frumento, diversi dal glutine, possano essere responsabili del quadro che abbiamo descritto, come fruttani e carboidrati scarsamente assorbibili, che magari, da soli, possono indurre i sintomi. Ed è per questa ragione che al momento riteniamo, forse, più corretta l’espressione “intolleranza al grano” (non celiac wheat sensitivity) piuttosto che al glutine. Ulteriori studi sono, pertanto, necessari per approfondire questo nuovo e affascinante campo di ricerca.

Bibliografia • Biesiekierski JR, Newnham ED, Irving PM, Barrett JS, Haines M, Doecke JD, Shepherd SJ, Muir JG, Gibson PR. Gluten causes gastrointestinal symptoms in subjects without celiac disease: A doubleblind randomized placebo-

36

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

controlled trial. Am J Gastroenterol 2011; 106: 508-14. • Carroccio A, Brusca I, Mansueto P, Pirrone G, Barrale M, Di Prima L, Ambrosiano G, Iacono G, Lospalluti ML, La Chiusa SM, Di Fede G. A cytological assay for diagnosis of food hypersensitivity in patients with irritable bowel syndrome. Clin Gastroenterol Hepatol 2010; 8: 254-60. • Carroccio A, Brusca I, Mansueto P, Pirrone G, Barrale M, Di Prima L, Ambrosiano G, Iacono G, Lospalluti ML, La Chiusa SM, Di Fede G. A cytological assay for diagnosis of food hypersensitivity in patients with irritable bowel syndrome. Clin Gastroenterol Hepatol 2010; 8: 254-60. • Carroccio A, Di Prima L, Pirrone G, Scalici C, Florena AM, Gasparin M, Tolazzi G, Gucciardi A, Sciumè C, Iacono G. Antitransglutaminase antibody assay of the culture medium of intestinal biopsy specimens can improve the accuracy of celiac disease diagnosis. Clin Chem 2006; 52: 1175–80. • Carroccio A, Iacono G, Di Prima L, Pirrone G, Cavataio F, Ambrosiano G, Sciumè C, Geraci G, Florena A, Teresi S, Barbaria F, Pepe I, Campisi G, Mansueto P, Soresi M, Di Fede G. Antiendomysium antibodies assay in the culture medium of intestinal mucosa: an accurate method for celiac disease diagnosis. Eur J Gastroenterol Hepatol 2011;23: 1018-23. • Carroccio A, Iacono G, Montalto G, Cavataio F, Soresi M, Kazmierska I, Notarbartolo A. Immunologic and absorptive tests in celiac disease: can they replace intestinal biopsies? Scand J Gastroenterol 1993; 28: 673-6. • Carroccio A, Vitale G, Di Prima L, Chifari N, Napoli S, La Russa C, Gulotta G, Averna MR, Montalto G, Mansueto S, Notarbartolo A. Comparison of anti-transglutaminase ELISAs and anti-endomysial antibody assay in the diagnosis of celiac disease: a prospective study. Clin Chem 2002; 48: 1546-50. • Catassi C, Fasano A. Celiac disease. Curr Opin Gastroenterol 2008; 24: 687-691. • Evans KE, Aziz I, Cross SS, Sahota GR, Hopper AD, Hadjivassiliou M, Sanders DS. A prospective study of duodenal bulb biopsy in newly diagnosed and established adult celiac disease. Am J Gastroenterol 2011; 106: 1837-42. • Iacono G, Cavataio F, Montalto G, Florena A, Soresi M, Tumminello M, Notarbartolo A, Carroccio A. Intolerance of cow’s milk and chronic constipation in children. N Engl J Med 1998; 338: 1100-4. • Iacono G, Ravelli A, Di Prima L, Scalici C, Bolognini S, Chiappa S, Pirrone G, Licastri G, Carroccio A. Colonic lymphoid nodular hyperplasia in children: relationship to food

hypersensitivity. Clin Gastroenterol Hepatol 2007; 5: 361-6. • Kurppa K, Collin P, Viljamaa M, Haimila K, Saavalainen P, Partanen J, Laurila K, Huhtala H, Paasikivi K, Mäki M, Kaukinen K. Diagnosing mild enteropathy celiac disease: a randomized, controlled clinical study. Gastroenterology 2009; 136: 816-23. • Mazzarella G, Maglio M, Paparo F, Nardone G, Stefanile R, Greco L, van de Wal Y, Kooy Y, Koning F, Auricchio S, Troncone R. An immunodominant DQ8 restricted gliadinpeptide activates small intestinal immune response in in vitro cultured mucosa from HLA-DQ8 positive but not HLA-DQ8 negative coeliac patients. Gut 2003; 52: 57-62. • Monsuur AL, Wijmenga C. Understanding the molecular basis of celiac disease: what genetic studies reveal. Ann Med 2006; 38: 578-591. • Oberhuber G, Granditsch G, Vogelsang H. The histopathology of coeliac disease: time for a standardized report scheme for pathologists. Eur J Gastroenterol Hepatol 1999; 11: 1185-94. • Salmi TT, Collin P, Korponay-Szabó IR, Laurila K, Partanen J, Huhtala H, Király R, Lorand L, Reunala T, Mäki M, Kaukinen K. Endomysial antibody-negative coeliac disease: clinical characteristics and intestinal autoantibody deposits. Gut 2006; 55: 1746-53. • Sapone A, Bai J, Ciacci C, Dolinsek J, Green PH, Hadjivassiliou M, Kaukinen K, Rostami K, Sander DS, Schumann M, Ullrich R, Villalta D, Volta U, Catassi C, Fasano A. Spectrum of gluten-related disorders: consensus on new nomenclature and classification. BMC Med 2012; 10: 13. • Sapone A, Lammers KM, Mazzarella G, Mikhailenko I, Carteni M, casolaro V, Fasano A. Differential mucosal IL-17 expression in two gliadin-induced disorders: gluten sensitivity and the autoimmune enteropathy celiac disease. Int Arch Allergy Immunol 2010; 152: 75-80. • Shepherd SJ, Parker FC, Muir JG, Gibson PR. Dietary triggers of abdominal symptoms in patients with irritable bowel syndrome: randomized placebo-controlled evidence. Clin Gastroenterol Hepatol 2008; 6: 765-71. • Troncone R, Jabri B. Celiac disease and gluten-sensitivity. J Intern Med 2011; 269: 582-90. • Vande Voort JL, Murray JA, Lahr BD, Van Dyke CT, Kroning CM, Moore SB, Wu TT. Lymphocytic duodenosis and the spectrum of celiac disease. Am J Gastroenterol 2009; 104: 142-8. • Volta U, Tovoli F, Cicola R, Parisi C, Fabbri A, Piscaglia M, Fiorini E, Caio G. Serological tests in gluten sensitivity (nonceliac gluten intolerance). J Clin Gastroenterol 2012.


Progetto EPIC Troppi salumi e insaccati accorciano la vita

Riducendo il consumo di insaccati a meno di 20 g al giorno si potrebbe prevenire il 3,3 per cento dei decessi: è questa la conclusione di uno studio multicentrico europeo, apparso su BMC Medicine. Finalità dello studio era esaminare l’associazione tra consumo di carne rossa, salumi, o carni bianche e il rischio di morte precoce tra i partecipanti allo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), il più vasto studio di popolazione condotto sui rapporti tra dieta e salute, coordinato dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC). L’EPIC include circa 500.000 persone provenienti da 10 Paesi europei, che sono state arruolate tra il 1992 e il 2000 a un’età compresa tra i 39 e i 69 anni con l’obiettivo di approfondire le conoscenze scientifiche sul ruolo dei fattori nutrizionali in rapporto al rischio di tumori. Nel giugno 2009 sul totale del campione preso in esame erano stati registrati 26.344 decessi. Attraverso un’approfondita analisi statistica che ha soppesato tutti i fattori di rischio concomitanti, si è cercata una relazione significativa tra mortalità e consumo di carne rossa (manzo, maiale, agnello e montone, cavallo e capretto), salumi e carni trasformate (salsicce, prosciutto, pancetta e macinato pronto) o carni bianche (pollo, gallina, tacchino, anatra, oca, selvaggina e coniglio). Lo studio, che ha preso in esame i dati di 448.568 persone con profili dietetici molto eterogenei, vista la diversa provenienza geografica dei partecipanti, ha messo in luce che una dieta ricca di insaccati, salumi e carni trasformate aumenta il rischio di morte prematura. Sembra dunque che un consumo regolare di carni elaborate, contribuisca in modo significativo alla mortalità precoce. A partire dal secondo dopoguerra, in tutti i Paesi occidentali si

è assistito a un continuo aumento del consumo di carne. Oggi esso è in aumento anche in alcuni Paesi in via di sviluppo, come per esempio la Cina, grazie alle migliorate condizioni di vita. Una dieta ricca di carne ha molti benefici potenziali, ma anche diversi effetti avversi: la carne è naturalmente ricca di proteine, ferro, zinco e vitamine B e A, d’altro canto contiene anche colesterolo e grassi saturi, entrambi associati con un’aumentata concentrazione di proteine LDL e con il rischio di malattie coronariche. Inoltre le carni lavorate come per esempio i salumi si distinguono per elevato contenuto di sale, nitrati e nitriti, sostante utilizzate per conservare, ma che secondo alcuni sono composti potenzialmente cancerogeni. Va sottolineato che non il consumo in sé, ma l’eccessivo consumo di carni trasformate è dannoso per la salute: è necessario dunque attingere ad alternative proteiche come per esempio pesce, carni bianche, legumi, prodotti lattierocaseari, uova, semi oleosi, cereali integrali. I risultati di un altro recente studio, l’EPIC - Oxford, vanno proprio in questa direzione: è stato dimostrato infatti, che i vegetariani così come i non vegetariani che seguono uno stile di vita attento alla salute presentano tassi di mortalità significativamente inferiori rispetto alla popolazione generale inglese.

Il pecorino sardo utile contro l’ipercolesterolemia Accertate le proprietà benefiche del formaggio di pecora. Secondo uno studio italiano, il pecorino naturalmente arricchito di acido alfa-linolenico, acido linoleico coniugato e acido vaccenico, può diventare un prezioso alleato della dieta dei soggetti affetti da ipercolesterolemia. Non solo non aumenta la colesterolemia ma, anzi, può contribuire a ridurla grazie alla presenza dell’acido linoleico coniugato (CLA). Le qualità nutrizionali del pecorino s o n o state testate su 40 pazienti in sovrappeso e con elevati livelli di colesterolo (5,68-7,49 mmol/l). Per 21 giorni i partecipanti hanno dovuto sostituire il formaggio normale con 90 grammi di pecorino arricchito di CLA, senza modificare la loro dieta e il loro stile di vita. Al termine è risultata una riduzione del 7 per cento del colesterolo LDL, una diminuzione dell’anandamide (mediatore lipidico della classe degli endocannabinoidi) e una migliore azione metabolica.

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

37


Forum multidisciplinare sulla sana nutrizione

Gli aminoacidi: la nuova frontiera nella prevenzione delle patologie legate all’invecchiamento

L

o scorso maggio Parma ha ospitato la quarta edizione di Pianeta Nutrizione & Integrazione, una “maratona” che ha visto la presenza di oltre 2.500 partecipanti, in rappresentanza di tutti i settori coinvolti. Di particolare interesse è stato il focus “Aminoacidi e micronutrienti: prevenzione e salute”, dedicato alle potenzialità degli aminoacidi nell’ottica della prevenzione dell’invecchiamento e delle maggiori patologie a esso correlate. Sempre più evidenze derivanti dalla ricerca di base, delineano il ruolo promettente della supplementazione con aminoacidi (AA), in particolare quelli essenziali, quale strumento utile per la prevenzione dell’invecchiamento e delle patologie connesse. Di particolare significato è stata la presentazione di Enzo Nisoli, professore associato di Farmacologia medica all’Università di Milano, che da tempo studia il ruolo degli aminoacidi in relazione al metabolismo energetico e al processo di invecchiamento. Qui di seguito, presentiamo gli aspetti salienti del suo intervento che ci aiutano a capire il percorso che sta seguendo la ricerca in questo ambito.

Le basi molecolari dell’invecchiamento Partiamo innanzitutto dal concetto di invecchiamento. Non esiste una definizione tecnica, meccanicistica, ma possiamo considerarlo come quel processo che aumenta la probabilità di morire. Se portiamo l’attenzione su quelli che sono i processi molecolari che conducono alla fragilità dell’anziano, e

38

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

predispongono alle malattie cardiovascolari (CV), ai tumori, alle malattie neurodegenerative, oppure anche alla fragilità dell’apparato scheletrico, e se troviamo un denominatore comune tra invecchiamento e malattie del metabolismo legate all’età, riusciremmo a dare una più completa e più coerente definizione al processo di invecchiamento da una parte, e dell’altra potremmo trovare interventi di tipo preventivo, che modificando questi meccanismi comuni possano permettere una migliore conservazione della salute. Recentemente è stato introdotto il concetto di “inflammaging” che considera l’invecchiamento in sé come un processo fondamentalmente infiammatorio. Tale processo si manifesta sia a livello sistemico che cellulare. A livello cellulare, i dati finora disponibili hanno permesso di individuare il mitocondrio come organello chiave (o almeno uno degli organelli chiave) del meccanismo molecolare della senescenza: l’invecchiamento si traduce in una riduzione della funzione mitocondriale e un aumento dei radicali liberi. Quindi non solo processi infiammatori legano senescenza e patologie metaboliche correlate, e quindi fragilità dell’anziano, ma anche a livello cellulare l’invecchiamento è correlato a diminuita produzione energetica perché c’è un interessamento dei mitocondri. Oltre ai mitocondri, ci sono alterazioni anche a carico di organelli cellulari, quali il reticolo endoplasmatico e i perossisomi, tutti organelli che interagiscono e comunicano tra loro. Anche i radicali liberi in concentrazioni sotto una certa soglia hanno una funzione importantissima che è quella di segnalare al nucleo il malfunzionamento dei mitocondri, e quindi di stimolare il nucleo stesso a produrne di nuovi. I mitocondri mandano i radicali liberi come segnale di allarme al nucleo, il quale deve far fronte a una reazione antiradicalica. Quindi i livelli di radicali liberi sono fondamentali: sotto certi livelli sono regolatori essenziali, ma se superano una certa soglia diventano tossici. Se spostiamo l’attenzione sui processi sistemici, studi di metabolomica ci hanno permesso di ottenere preziose informazioni sui metaboliti circolanti, e in particolare sugli AA in relazione alle patologie legate all’invecchiamento (in particolare, insulinoresistenza, obesità). Le evidenze più recenti mostrano che non


tutti gli AA si comportano in maniera uguale: alcune miscele di AA, arricchite soprattutto in AA essenziali o ramificati esercitano effetti positivi in un ampio spettro di attività. Migliorano per esempio l’insulino-resistenza, la massa magra, gli indici di infiammazione, la sarcopenia, la funzione cognitiva in pazienti prealzheimeriani, lo scompenso cardiaco; inoltre migliorano il recupero in soggetti con ischemia cerebrale, se supplementati con AA nei primi 15 giorni, e fino a 3 settimane, di terapia intensiva. Ma se gli effetti sono osservabili in un così ampio spettro di attività, forse gli AA agiscono su tutti i processi di inflammaging, e forse sono essi stessi degli antinfiammatori.

Il ruolo degli aminoacidi nel processo di invecchiamento Per aiutarci a comprendere il complesso meccanismo che sta alla base delle patologie legate all’invecchiamento in rapporto ai radicali liberi e al metabolismo degli AA, il nostro gruppo ha studiato l’NO, un radicale prodotto in seguito a svariati stimoli. L’enzima che sintetizza l’NO è l’ossido nitrico sintasi endoteliale (eNOS). Gli animali senza eNOS (eNOS knock out) presentano una riduzione della mitocondriogenesi: non solo hanno meno mitocondri, ma presentano insulino-resistenza e ipertrigliceridemia, e in pratica sono dei perfetti modelli di sindrome metabolica. Inoltre in confronto ai rispettivi wild type muoiono prima, e per cause CV (in analogia con quanto avviene nell’uomo). Questi dati suggeriscono dunque un legame tra NOmitocondriogenesi-sopravvivenza (Science, 2003). Un altro studio (Science, 2005) su animali di laboratorio ha valutato gli effetti della restrizione calorica. Ricordiamo che la restrizione calorica rappresenta l’unico approccio in grado di rallentare i processi di invecchiamento. Nei topi in restrizione calorica, la eNOS aumenta in tutti i tessuti e aumentano anche tutti i marker di mitocondriogenesi. Un sistema che allunga la spettanza di vita è dunque correlato anche all’aumento di mitocondriogenesi, e il tutto è mediato dalla presenza di NO. NO e mitocondri sono implicati nella sopravvivenza degli animali. Sembrerebbe quasi un paradosso: nonostante si riduca l’alimentazione, vi è una maggiore produzione di organelli implicati nel metabolismo energetico. Questo processo sembra essere il frutto di una selezione avvenuta nel corso dell’evoluzione, tanto che il fenomeno è osservabile non solo nei mammiferi, ma anche in organismi inferiori come per esempio i lieviti (S. cerevisiae) e in alcuni vermi nematodi (C. elegans). Inoltre, è stato riscontrato che negli animali che esprimono più eNOS vi è un coinvolgimento del metabolismo di alcuni AA (soprattutto ramificati). A conferma che questi AA possano modulare o essere modulati da eNOS, è stata somministrata a

cardiomiociti di topo una miscela con AA essenziali, in cui i più presenti erano i ramificati. La miscela utilizzata nello studio è Aminotrofic, disponibile da tempo e indicata per la sarcopenia dell’anziano. I cardiomiociti “supplementati” si caratterizzavano per una maggiore produzione di mitocondri, un aumento di tutti i parametri di mitocondriogenesi e della loro attività. Se dunque aumentano eNOS, NO e i mitocondri, dovrebbe accadere quanto avviene con la restrizione calorica: infatti negli animali, quando supplementati a partire dal nono mese di età, e per tutta la durata di vita, è stato rilevato un aumento della sopravvivenza media del 12-13 per cento (Cell Metabolism, 2010). Forse anche gli AA che regolano eNOS e i mitocondri sono implicati nella sopravvivenza: per esempio un lavoro in fase di pubblicazione suggerisce che isoleucina e valina in S. cerevisiae aumentano la sopravvivenza. A conclusione di questa discussione, emerge come vi sia una sorta di comunicazione tra organelli e mediatori; l’invecchiamento che porta inesorabilmente verso le malattie croniche costituirebbe una disfunzione di questo colloquio. E per ripristinare la comunicazione serve la restrizione calorica, l’esercizio fisico e forse anche gli aminoacidi, e alcuni nutrienti. Queste considerazioni sono ben riassunte in quella che recentemente è stata proposta come “teoria della rete degli organelli dell’invecchiamento”: nell’invecchiamento, al di la di parametri sistemici e cellulari, vi è una comunicazione tra organelli che mantiene i livelli di buon controllo e di buono stato di salute. Su questi meccanismi si può agire per migliorare la sopravvivenza, anche nell’uomo. Gli studi condotti su piccoli gruppi di pazienti sugggeriscono come un’alimentazione ricca in AA essenziali o ramificati, correla con la perdita di peso, riducendo quindi il rischio di patologie quali diabete o sindrome metabolica, con un miglioramento della sarcopenia e dell’infiammazione. Nel soggetto anziano, “mangiare nutrienti” diventa un’importante risorsa, perché è già di base malnutrito e in carenza energetica per patologie coesistenti, croniche. Non solo, ma la supplementazione con AA diventa essenziale anche nell’anziano sano. Infatti le persone oltre i 55 anni di età faticano a praticare un adeguato esercizio fisico (intervento che permetterebbe di rallentare l’invecchiamento), e riducono via via anche l’introito di carne. A supportare queste chiare evidenze servirebbero ora trial di grosse dimensioni. Ma in considerazione del fatto che gli effetti positivi degli AA vanno ben oltre il miglioramento della massa muscolare, e in un’ottica di prevenzione vale la pena di considerare la supplementazione con AA. Tanto più che per i prossimi anni l’aumento dell’aspettativa di vita implica un sensibile incremento della popolazione anziana sopra i 65 anni, e quindi delle cronicità.

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013

39


SEGNALAZIONI

Degenerazione maculare legata all’età Test genetici: il futuro della diagnosi precoce

L

a degenerazione maculare legata all’età (DMLE) rappresenta,

quelli ambientali e demografici correlati al danno ossidativo e per il

nei Paesi industrializzati, la principale causa di cecità negli in-

restante 70 per cento alla predisposizione genetica.

dividui al di sopra dei 65 anni. In Italia a oggi, questa malattia

Come molte patologie di tipo degenerativo anche nella DMLE lo

colpisce circa 1 milione di persone, di cui 260.000 risultano essere

stress ossidativo svolge un ruolo primario. Esso è legato a diversi

affette dalla forma più rapida e devastante: la DMLE neovascolare.

fattori come l’età e l’esposizione alla luce, quest’ultimo considerato

Le persone affette da DMLE avanzata vivono in una condizione di

uno dei più importanti. Non va dimenticato, però, lo stile di vita che

forte disagio per quanto riguarda la mobilità, la cura di sé, la vita

può contemplare cattive abitudini come il tabagismo, il consumo di

sociale oltre che per l’evenienza, assai frequente, di incidenti do-

alcol, la dieta squilibrata. Anche i normali processi metabolici, da

mestici. Non meno importate è il costo sociale, che spesso ricade

parte loro, possono innescare numerosi processi ossidativi a livello

sui familiari del malato. La DMLE è una patologia che colpisce la

retinico cui segue la formazione di radicali liberi.

zona centrale della retina, cioè la macula. È una degenerazione ad

Attraverso l’azione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) si

andamento progressivo che può portare alla perdita completa e

verifica un danno di tipo ossidativo dei tessuti e principalmente a

irreversibile della visione centrale. La DMLE può essere di 2 tipi:

livello delle membrane cellulari e dei sistemi enzimatici.

atrofica (secca) o neovascolare (essudativa). La maculopatia atrofi-

La predisposizione genetica è legata alla presenza di alcuni polimor-

ca costituisce la forma più comune ed è caratterizzata da un’atrofia

fismi in geni che esprimono proteine legate ai processi di neutra-

del tessuto retinico a progressione piuttosto lenta e, nelle forme

lizzazione dei fenomeni ossidativi o possono indurre alterazioni sul

più gravi, può portare a ipovisione. La maculopatia neovascolare

controllo di processi infiammatori. L’associazione tra le componenti

costituisce la forma meno frequente. Si caratterizza per la comparsa

genetica e ambientale è alla base dell’insorgenza della patologia.

di vasi anomali a livello maculare, con frequente presenza di edemi

I sintomi nella forma iniziale prevedono: visione offuscata, visione

ed emorragie da cui possono conseguire esiti cicatriziali. È consi-

distorta (metamorfopsie) dove le linee diritte appaiono incurvate.

derata la forma più grave e può portare rapidamente alla cecità.

Inoltre gli oggetti possono apparire di falsa grandezza o forma al-

Le due forme non si possono considerare completamente indi-

terata (dismorfopsie). Nella forma avanzata può comparire un’area

pendenti in quanto la forma atrofica può evolvere in una forma

nera vuota al centro del quadro della visione (scotomi).

neovascolare e questo avviene in circa il 10 per cento dei casi. La DMLE avanzata causa la perdita della visione perché produce

L’importanza della diagnosi precoce

alterazioni permanenti della retina sensoriale a livello della macula

Solo per la DMLE neovascolare è possibile attuare una terapia

e cicatrici disciformi o atrofia nelle aree dove la retina cessa di

specifica. Da qualche anno, infatti, è stato introdotto l’uso di farmaci

esistere.

anti-angiogenetici, farmaci cioè che inibiscono la crescita dei vasi

Fisiopatologia della DMLE

sanguigni neoformati. I farmaci anti-VEGF, come è noto, sono composti da anticorpi monoclonali indirizzati proprio contro le proteine

L’eziopatogenesi della DMLE è multifattoriale e coinvolge sia una

che costituiscono i fattori di crescita vasali.

predisposizione genetica che molti fattori ambientali, demografici e

I farmaci anti-angiogenici somministrati per via intravitreale rap-

lo stile di vita. In particolare, recenti studi hanno stabilito che il ruolo

presentano l’unica possibile terapia per la DMLE neovascolare,

di tali fattori di rischio può essere attribuito per il 30 per cento a

e consentono di mantenere o migliorare l’acuità visiva e la qualità

40

MEDICO E PAZIENTE

2-3.2013


della vita. Va sottolineato che non esiste una terapia risolutiva per

brevi. Questi pazienti hanno bisogno di un monitoraggio rigoroso e

questa patologia e molto si può fare con la prevenzione primaria e

devono essere istruiti a segnalare precocemente al medico sintomi

secondaria. In quest’ottica più è precoce la diagnosi più saranno

visivi quali: distorsione delle immagini, annebbiamento centrale della

efficaci le strategie attuate. Di grande importanza è la correzione

visione o comparsa di macchie scure fisse e centrali.

dei fattori di rischio modificabili, per esempio dello stile di vita associato all’assunzione di antiossidanti mirati. Un ruolo di primo piano

MeP È un test invasivo per il paziente? Come viene effettuato?

in questo ambito è sicuramente legato ai test genetici predittivi per

Piermarocchi Il test genetico attualmente proposto per la maculopa-

la DMLE, che stanno entrando nella pratica comune in oculistica.

tia senile può essere considerato non invasivo. Infatti, il materiale su

Abbiamo chiesto al professor Stefano Piermarocchi, del Dipar-

cui viene eseguito il test genetico si ottiene “strofinando” un piccolo

timento di oftalmologia dell’Università di Padova, di illustrarci le

spazzolino sulla mucosa della superficie interna della guancia.

caratteristiche del test genetico e di fare il punto sulla sua utilità d’impiego in ambito diagnostico.

MeP In quali soggetti può risultare utile effettuare un test di questo

Medico e paziente Sappiamo che la degenerazione maculare (senile)

genere?

è una delle principali cause di grave ipovisione e che spesso è

Piermarocchi Questo test è indicato nei pazienti con familiarità per

osservabile una certa familiarità; qual è il rapporto fra la genetica e

grave maculopatia senile o nei soggetti che presentino già delle

questa patologia così invalidante?

alterazioni retiniche suggestive della malattia, permettendo in tal

Stefano Piermarocchi La degenerazione maculare senile (o dege-

modo di valutarne il rischio di evolutività.

nerazione maculare legata all’età) come molte altre malattie legate all’invecchiamento ha un’origine multifattoriale, cioè la sua insor-

MeP A che età si può eseguire?

genza è legata a una combinazione di fattori genetici e ambientali.

Piermarocchi Le varianti genetiche che vengono studiate con il test

Nella maggior parte dei soggetti, la sola presenza di fattori di rischio

proposto non si modificano nel corso della vita, pertanto il test ge-

ambientale (fumo, dieta povera di antiossidanti, esposizione al

netico può essere eseguito a qualsiasi età, tranne che, per questioni

sole ecc.) non è in grado di scatenare la malattia. Ma la presenza

medico-legali nei soggetti minorenni.

in famiglia di un parente di primo grado (genitore/fratello) affetto da maculopatia senile, associata ai fattori di rischio sopraelencati,

MeP Quanto è preciso il test?

aumenta significativamente il rischio di malattia.

Piermarocchi Il test presenta un’elevata sensibilità: infatti la probabilità che un soggetto con il test positivo sviluppi la malattia è pari

MeP Cosa si intende per fattori ambientali? È possibile valutarne

all’82 per cento.

l’influenza sulla degenerazione maculare? Piermarocchi Per fattori ambientali si intende principalmente l’in-

MeP Considerando che i dati genetici sono definiti sensibili, come è

sieme delle caratteristiche legate al luogo in cui viviamo (irraggia-

tutelato il paziente che si sottopone a questo test?

mento solare), alle abitudini alimentari (assunzione di cibi ricchi

Piermarocchi I campioni genetici sono analizzati dal laboratorio in

di antiossidanti: carotenoidi, fenoli, vitamine…) e allo stile di vita

forma anonima. Solamente l’oculista curante può collegare il risultato

(scarso esercizio fisico, fumo, eccesso di assunzione di alcolici).

del test con i dati anagrafici del paziente e comunicargli l’esito.

Molti studi sino a ora condotti hanno evidenziato un nesso tra fumo, obesità, ipertensione, scorretto regime alimentare e insorgenza

MeP Ora la domanda forse più ricorrente: cosa dire al paziente che

della malattia.

risulta ad alto rischio? E poi cosa si può fare per ridurre il rischio di andare incontro alla degenerazione maculare?

MeP Recentemente è stato proposto un test genetico per la degene-

Piermarocchi Il paziente ad alto rischio può essere educato a fare

razione maculare. A che cosa può servire un test di questo tipo?

un’adeguata prevenzione, cioè agire sui fattori di rischio ambientali

Piermarocchi L’analisi genetica può fornire al medico informazioni

(fumo, alimentazione…), assumere regolarmente integratori a base

sia per un corretto inquadramento clinico della malattia, ma soprat-

di antiossidanti e omega-3. Comunque tutto questo non andrà

tutto per identificare i pazienti a maggior rischio di evolutività, cioè

disgiunto da un corretto follow-up clinico e strumentale che sarà

di sviluppare gli stadi avanzati della malattia in tempi relativamente

programmato dal medico oculista curante.

MEDICO MEDICO EE PAZIENTE PAZIENTE 2-3.2013 5.2012

41


SEGNALAZIONI dalle aziende

Terapia nutrizionale

Il trattamento dietetico nutrizionale, un’efficace arma per controllare l’evoluzione dell’insufficienza renale cronica

L’

insufficienza renale cronica (IRC) rientra tra le condizioni a maggiore impatto sanitario ed economico in Italia, perché inesorabilmente progressiva e associata con un alto tasso di ospedalizzazione e mortalità. Per dare un’idea del peso dell’IRC, basta dare uno sguardo ai “numeri”: in Italia si stima una prevalenza tra la popolazione adulta dell’ordine del 4-6 per cento che equivale a circa 2 milioni di persone. Negli stadi più avanzati, cioè quelli che necessitano la dialisi, attualmente si troverebbero circa 45mila pazienti. A essere maggiormente colpite sono le donne in età avanzata, compresa tra 75 e 81 anni. Il peso di questi dati diventa ancora più significativo, se li consideriamo in prospettiva: il progressivo invecchiamento della popolazione italiana proietta per il futuro uno scenario difficile, per il quale bisogna attuare una strategia che da un lato permetta di controllare la progressione della patologia e dall’altro di ottimizzare i costi economici e sociali; un aspetto quest’ultimo assai attuale, e che condizionerà molto il futuro, in un’ottica di “spending review”. Queste tematiche hanno fatto da filo conduttore a un incontro che si è tenuto lo scorso 17 aprile a Milano, promosso da Dr. Schär, e nell’ambito del quale gli specialisti hanno puntato l’attenzione sulle potenzialità del trattamento dietetico nutrizionale come opzione di terapia conservativa efficace per stabilizzare i pazienti con IRC. “Le ultime evidenze scientifiche - ha sottolineato Giuliano Brunori, direttore del reparto di nefrologia dell’Ospedale Santa Chiara di Trento all’incontro milanese - dimostrano chiaramente come, oltre alla necessità di favorire l’aumento delle diagnosi precoci con gli esami di laboratorio disponibili, semplici e di basso costo, sia necessario adottare trattamenti adeguati non solo farmacologici. A questo proposito la nostra pubblicazione (Am J Kidney Dis 2007) parte da dati che chiariscono come l’adozione della terapia nutrizionale a molto basso contenuto proteico sia in grado di ritardare l’insufficienza renale cronica e le sue comorbidità in pazienti anziani con IRC, riducendo il rischio di morte renale del 50 per cento e prolungando del 41 per cento il tempo di vita renale. Lo studio quindi dimostra come i pazienti con insufficienza renale cronica a regime alimentare fortemente ipoproteico possano ridurre fino al 38 per cento il rischio di progressione verso la fase dialitica. Infine, un altro studio (Nephrol Dial

42

Medico e paziente

2-3.2013

Transplant 2010) dimostra come ritardando di almeno un anno l’ingresso della terapia dialitica grazie al trattamento dietetico nutrizionale, si riesca sia a migliorare significativamente la qualità di vita del paziente sia a ottenere un risparmio annuo/paziente per il Servizio Sanitario Nazionale di 21.180 euro nel solo primo anno di trattamento dietetico a basso contenuto di proteine”.

Una nuova linea di prodotti aproteici La diagnosi di IRC impone oltre a un trattamento farmacologico, un netto cambiamento del regime alimentare. Il paziente deve essere sottoposto, prima dell´inizio della dietoterapia, a un attento esame per valutare lo stato nutrizionale, le abitudini alimentari, l’ambiente familiare e lo stato socio-economico. Dovrebbe inoltre, essere informato al fine di comprendere lo scopo di tali indagini così che la dietoterapia sia seguita in modo ottimale. Nel trattamento dietetico nutrizionale in fase prima della dialisi, l’apporto proteico deve essere ridotto e in prevalenza costituito da proteine ad alto valore biologico (per esempio alimenti animali); va inoltre limitato l’introito di sodio, potassio e fosforo. Un regime nutrizionale di questo tipo seppure efficace nel rallentare la progressione dell’IRC, ha un forte limite legato all’accettazione da parte del paziente. Questo “gap” può essere in parte superato grazie a una nuova linea di prodotti che Dr. Schär ha lanciato di recente sul mercato. Mevalia Low Protein comprende un’ampia gamma di prodotti appositamente studiati per le persone che devono intraprendere e seguire una dieta a basso contenuto proteico: pazienti affetti da IRC e quelli con malattie metaboliche congenite del metabolismo proteico come la fenilchetonuria (PKU). A differenza dei prodotti ipoproteici attualmente disponibili, Mevalia garantisce un contenuto di proteine inferiore a 1 g/100 g di prodotto, e una minima concentrazione di aminoacidi, sodio, fosforo e potassio. Tutti i prodotti hanno caratteristiche organolettiche tali da renderli gustosi e appetitosi, cosicché per il paziente accettare e seguire la dietoterapia sarà più facile. Un altro plus della linea Mevalia è il vantaggioso profilo di qualità prezzo. Tutti i prodotti della linea sono prescrivibili dal medico, e in alcune regioni sono rimborsati dal SSN. Per informazioni sulla linea Mevalia è possibile anche vistare il sito www.mevalia.com.


GSK

Dopo 50 anni disponiamo di una terapia mirata alle cause del lupus eritematoso sistemico

I

l lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia infiammatoria cronica autoimmune, relativamente rara (la prevalenza in Italia è di circa 20-25mila casi), che colpisce prevalentemente le femmine, con un rapporto quasi di 10 a 1 rispetto ai maschi. Ha in genere manifestazioni cliniche molto variegate, e decorso variabile e intermittente. Tutto ciò spiega perché molto spesso il LES venga diagnosticato con anni di ritardo dalla comparsa dei primi sintomi. Il meccanismo che genera la malattia è una reazione immunitaria, paradossa e incontrollata, contro varie componenti della struttura cellulare, e quindi con interessamento di organi diversi (cute, articolazioni, reni, SNC, cuore e vasi). Per questo, le strategie di cura si basavano fino a oggi su quattro classi di farmaci: cortisonici, immunosoppressori, antimalarici e FANS, che vengono diversamente associati nel singolo paziente con l’obiettivo di “spegnere” le fasi attive di malattia, controllare i sintomi e limitare i danni d’organo. Un grande problema è che tutte le terapie citate sono gravate da numerosi e pesanti effetti collaterali. Da quest’anno anche i medici italiani avranno a disposizione una nuova terapia con il belimumab (Benlysta®), un anticorpo monoclonale frutto della ricerca Glaxo-SmithKline. Il nuovo

farmaco è stato presentato alla stampa a Milano il 12 aprile dai proff. Pierluigi Meroni, del “Gaetano Pini” di Milano e Andrea Doria, dell’Università di Padova. Il belimumab è un anticorpo inibitore specifico di BlyS, una proteina che regola lo sviluppo dei linfociti B; in pratica esso agisce diminuendo il livello degli auto-anticorpi contro le cellule del paziente. È stato validato attraverso gli studi registrativi BLISS-76 e BLISS-52, nei quali la nuova molecola, impiegata in aggiunta alla migliore terapia standard, in confronto con placebo, ha mostrato un’efficacia significativamente migliore, misurata con l’indice SRI, dopo 52 e 76 settimane di trattamento. Gli effetti indesiderati hanno mostrato un profilo paragonabile a quello del placebo. Il farmaco viene somministrato in infusione venosa lenta alla dose di 10 mg/kg, inizialmente ogni 2 e poi ogni 4 settimane. “Questo farmaco apre una nuova prospettiva nella terapia del LES – hanno commentato i proff. Meroni e Doria. “Per la prima volta possiamo ottenere la remissione clinica della malattia, prescindendo o quasi dall’impiego di cortisonici. È una nuova stagione che si apre, anche perché sono in arrivo nuove altre molecole con meccanismi d’azione mirati ai fattori che innescano la malattia”.

Novartis

BPCO: nuova opzione di trattamento, efficace e facile da gestire

È

disponibile anche in Italia, il glicopirronio bromuro che di recente ha avuto l’approvazione da parte delle Autorità regolatorie. Ricordiamo che si tratta di un broncodilatatore antimuscarinico a lunga durata d’azione (LAMA) con efficacia clinica che si manifesta già entro i primi 5 minuti dall’inalazione e si mantiene per 24 ore. Il glicopirronio bromuro (Seebri®) è stato sviluppato per la terapia di fondo degli adulti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), nei quali riesce a controllare i sintomi e a ridurre le riacutizzazioni a fronte di un profilo di tollerabilità sovrapponibile al placebo. I suoi effetti clinici più spicca-

ti si manifestano al mattino, momento più critico della giornata per i pazienti. Oltre al favorevole profilo di efficaciasicurezza, un vantaggio è rappresentato dal dispositivo di erogazione del farmaco (Breezhaler®). Si tratta di un inalatore a dose singola di polvere secca, adatto per i pazienti in tutte le fasce di età e per ogni stadio della BPCO. Il device assicura l’erogazione costante di farmaco, e ne facilita notevolmente l’assunzione. La terapia inalatoria in genere richiede del tempo, necessario per educare il paziente, specie se anziano, alla corretta assunzione; requisito quest’ultimo essenziale per l’efficacia. Il nuovo dispositivo permette

ai malati di udire (se l’inalazione viene eseguita correttamente la capsula con il farmaco vibra), sentire (la polvere miscelata al farmaco contiene uno zucchero che se correttamente aspirata si deposita in bocca e se ne sente il gusto) e vedere (per controllare ogni volta se la polvere con il farmaco è stata effettivamente inspirata tramite l’inalazione) se l’assunzione del farmaco è avvenuta correttamente. Oltre ai suddetti vantaggi, con questo device si ha una maggiore partecipazione del paziente alla terapia e più in generale una maggiore consapevolezza sulla gestione della malattia. Aspetti centrali nell’aderenza a un regime terapeutico.

Medico e Paziente

2-3.2013

43


Janssen-Cilag

Una terapia innovativa per il Ca. prostatico ormono-resistente

I

numeri del Ca. della prostata si commentano da soli: oltre 36.000 nuovi casi nel 2012, che nel 2020 saliranno secondo stime a circa 44.000 nuovi casi all’anno e a oltre 51.000 nel 2030. La terapia ormonale classica è inizialmente molto efficace, ma poi le cellule tumorali reagiscono anche a minime quantità di testosterone in circolo per proseguire nella proliferazione. Nelle fasi più avanzate, le cellule neoplastiche riescono addirittura a sintetizzare autonomamente il testosterone a partire dal colesterolo. Oggi possiamo bloccare la sintesi del testosterone autoprodotto dal tumore mirando a un enzima, il CYP17, elemento chiave della sintesi degli androgeni e, in particolare del testosterone, che è particolarmente presente, “iperespresso”, nelle cellule tumorali nello stadio avanzato della malattia.

È questa l’azione di un nuovo farmaco, abiraterone acetato (Janssen-Cilag), che rappresenta un’importante innovazione nella gestione del tumore in fase avanzata. “Abiraterone - spiega Giario Conti primario di Urologia all’Ospedale S. Anna di Como, - è un potente inibitore dell’enzima CYP17 agendo a livello del surrene, del testicolo e soprattutto del microambiente tumorale”. Abiraterone è un farmaco orale che è stato approvato nel settembre 2011 dall’EMA per il trattamento del Ca. prostatico resistente alla terapia ormonale classica, in pazienti che hanno già ricevuto una chemioterapia a base di docetaxel. Nell’aprile 2011 era già stato approvato dalla FDA. Da aprile è disponibile anche in Italia con la medesima indicazione. Su abiraterone è stato condotto il più grande studio di fase III sul carcinoma

della prostata: sono stati arruolati 1.195 pazienti con malattia avanzata in fase di progressione documentata, già trattati con chemioterapico (docetaxel) e sottoposti a terapia ormonale classica. Negli studi pubblicati tra 2011 e 2012 è emerso che: il trattamento otteneva una riduzione di oltre il 25 per cento del rischio di morte rispetto al gruppo di controllo; il vantaggio in termini di sopravvivenza è stato del 40 percento, con una mediana di sopravvivenza globale rispettivamente di 15,8 mesi nel gruppo con abiraterone e 11,2 mesi in quello di controllo. Si tratta di un risultato sorprendente in pazienti in una fase così avanzata della patologia. Abiraterone ha mostrato anche effetti importanti per la qualità di vita dei pazienti: azione palliativa del dolore nel 45 per cento dei casi, contro il 28 per cento del gruppo “controllo”.

Bayer

Aflibercept “intrappola” la degenerazione maculare senile

L

a terapia per la degenerazione maculare legata all’età (DMLE) compie un importante salto di qualità. Dopo gli anticorpi monoclonali per iniezione intravitreale arriva aflibercept, una proteina di fusione completamente umana, con un meccanismo d’azione nuovo che agisce come le chele di un’aragosta, intrappolando i fattori responsabili della crescita anomala dei vasi sanguigni all’interno della retina, caratteristica nei pazienti affetti da DMLE di tipo “umido” o “neovascolare”. Aflibercept è un “recettore esca” costituito da una proteina di fusione solubile, che si lega a tutte le isoforme del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF-A e VEGF-B) e del fattore di crescita placentare (PlGF) con un’affinità maggiore di quella dei recettori naturali per il VEGF. Aflibercept forma con il VEGF un complesso stabile, in cui la molecola di VEGF viene trattenuta tra le due estremità della proteina di aflibercept. Grazie alla sua struttura peculiare, aflibercept lega il VEGF con un’affinità maggiore di quella che si ottiene con gli attuali anticorpi mono-

44

Medico e paziente

2-3.2013

clonali, e questo conferisce una durata d’azione più prolungata nell’occhio e una maggiore potenza. Il nuovo farmaco si caratterizza per un’efficacia nel bloccare l’evoluzione della patologia, che nei diversi studi clinici ha superato il 95 per cento. Negli studi di confronto con l’attuale standard terapeutico (ranibizumab), aflibercept si è dimostrato clinicamente equivalente, con un numero di iniezioni intravitreali ridotto: sette invece di dodici. Inoltre è importante sottolineare che, dopo le prime tre iniezioni, praticate a distanza di un mese l’una dall’altra come per gli anticorpi monoclonali, le successive possono essere effettuate ogni due mesi. Questi elementi si traducono in vantaggi in termini di aderenza alla terapia e di sicurezza: con la pratica delle iniezioni intravitreali, infatti, è possibile incorrere in alcuni eventi avversi (per quanto rari) direttamente connessi alla procedura iniettiva. Inoltre diversamente dalle terapie standard, il nuovo farmaco non richiede il monitoraggio mensile.


IBSA

Novartis

Nuove conferme per ranibizumab

I

l meeting annuale dell’Association for research in vision and ophtalmology (ARVO) che si è tenuto ai primi di maggio a Seattle ha rappresentato l’occasione per fare il punto sull’impiego clinico di ranibizumab (Lucentis®). Si tratta, come noto, di un farmaco approvato per la prima volta nel 2006, ma che continua a sorprendere per la sua versatilità come peraltro confermano anche le recenti estensioni delle indicazioni nel nostro Paese. All’ARVO sono stati presentati i dati in “real world” di uno studio condotto nel Regno Unito, che evidenziano una riduzione pari al 59 per cento della cecità legale attribuibile alla degenerazione maculare senile in forma umida a partire dall’introduzione di ranibizumab per un periodo di 5 anni. Inoltre, nei pazienti affetti da neovascolarizzazione coroidale miopica, i dati a un anno dello studio REPAIR mostrano un significativo miglioramento dell’acuità visiva, con una media di 3,6 iniezioni in 12 mesi. Conferme dunque non solo per l’efficacia, ma anche per il profilo di sicurezza. La più ampia metanalisi che ha coinvolto oltre 10mila pazienti trattati con ranibizumab ha confermato la sicurezza e la tollerabilità riscontrate in precedenza, nel programma degli studi clinici.

La levotiroxina liquida “alleata” dell’aderenza terapeutica

L

a levotiroxina (L-T4) in monoterapia rappresenta il trattamento di scelta nei soggetti affetti da ipotiroidismo. Si tratta di una terapia cronica ed efficace, i cui benefici tuttavia sono spesso vanificati da una scarsa aderenza al regime di trattamento. Una recente indagine DOXA, promossa da IBSA Farmaceutici, condotta su 243 pazienti rappresentativi della popolazione italiana, dimostra come l’aderenza alla terapia con L-T4 costituisca il tallone d’Achille nella gestione della malattia. Uno dei motivi di questo aspetto così poco confortante è da ricercare nelle indicazioni (un pò macchinose) d’uso del farmaco. Affinché la levotiroxina sia pienamente efficiente deve essere assunta al mattino, a digiuno, e bisogna attendere almeno 30 minuti prima di fare colazione. Una concreta soluzione a questo problema è rappresentata dalla formulazione orale liquida di levotiroxina, che IBSA ha messo a punto lo scorso anno. La nuova formulazione consente una netta riduzione dei tempi di attesa tra l’assunzione del farmaco e la prima colazione, elemento veramente essenziale per migliorare l’aderenza del paziente al regime di terapia. La levotiroxina in soluzione orale (Tirosint® Soluzione Orale) è contenuta in flaconcini monodose.

Bayer

NutriMi 2013

La storia della carne, tra cultura e salute

In Europa, rivaroxaban anche per i pazienti con SCA

N

ell’ambito del congresso Conoscere e curare il cuore 2013 (Firenze, 22-24 marzo) si è tenuto un simposio interamente dedicato al ruolo dei nuovi anticoagulanti orali nella prevenzione del rischio tromboembolico. Significativamente, proprio in contemporanea con il simposio (22 marzo), l’Autorità regolatoria europea ha reso nota l’approvazione di rivaroxaban al dosaggio di 2,5 mg due volte al giorno, in associazione alla terapia antipiastrinica standard per la prevenzione di eventi aterotrombotici (infarto del miocardio, morte cardiovascolare o ictus) in pazienti adulti con sindrome coronarica acuta (SCA), con elevati livelli di biomarcatori cardiaci. Rivaroxaban è il primo dei nuovi anticoagulanti per il quale sia stata ottenuta questa indicazione, anche se per ora in forma preliminare. L’approvazione si basa sui dati dello studio di fase III ATLAS ACS 2 TIMI 51. Il trial è stato condotto in soggetti con SCA e ha mostrato risultati promettenti in questa popolazione, portando a una riduzione del 34 per cento della mortalità totale e cardiovascolare rispetto a quanto osservato con la sola terapia standard, seppure a prezzo di un aumento del rischio di sanguinamento e di emorragia intracranica.

N

el mese di aprile, Milano è stata per due giorni (18-19) la capitale della nutrizione, ospitando la settima edizione di NutriMI. In occasione dell’evento, è stato presentato un numero speciale della Rivista di nutrizione pratica, interamente dedicato al ruolo della carne, all’interno di un’alimentazione equilibrata e sostenibile. Come viene sottolineato nell’introduzione della Rivista, parlare di carne in un momento di grande attenzione e sensibilità verso tematiche legate alla salute dell’uomo e dell’ambiente è doveroso. Soprattutto alla luce del fatto che viviamo in un’epoca in cui l’umanità è protesa verso un futuro sempre più globalizzato, ma allo stesso tempo ogni popolazione sente la necessità di mantenere fede alle proprie radici storiche, sociali e culturali. Vengono presi in esame tutti i singoli valori che la carne ha acquisito nel corso dei secoli, gli aspetti nutrizionali nell’ambito di una corretta e bilanciata alimentazione, che preveda l’equilibrio nel consumo di alimenti di origine animale e vegetale, fino alla collocazione di questo alimento nel patrimonio gastronomico del nostro Paese.

Medico e Paziente

2-3.2013

45


notizie dal web Prevenzione Livelli ematici di vitamina D e funzione polmonare: quale relazione www.vitaminad.it Continuano ad accumularsi sempre più evidenze sugli effetti pleiotropici della vitamina D. Un recente studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism (Choi CJ et al. 2013; 98: 1703-10), e recensito sul sito www.vitaminad.it, avanza l’ipotesi che il mantenimento di livelli adeguati di vitamina D possa apportare benefici sulla funzionalità polmonare; nello specifico, tale associazione sarebbe più evidente nei pazienti a rischio di tubercolosi polmonare e sarebbe indipendente dall’età, dal sesso, dal peso corporeo e dallo stile di vita. I meccanismi alla base dell’azione positiva della vitamina D sulla funzione polmonare non sono ancora del tutto chiari, ma si ritiene che essa sia un immunomodulatore in grado di influenzare la funzione di barriera alle infezioni batteriche e virali. Inoltre, la vitamina D sembrerebbe in grado di contrapporsi alle infezioni a livello delle vie respiratorie, preservandone l’integrità funzionale. L’esistenza di dati contrastanti sulla relazione tra la funzione polmonare e le concentrazioni di vitamina D ha portato alla pubblicazione di questo nuovo studio, disegnato dalla collaborazione di ricercatori coreani e statunitensi. Lo studio ha utilizzato i dati del KNHANES, una survey sudcoreana sulla salute e la nutrizione che è stata condotta tra il 2008 e il 2010. I partecipanti, 10.096 soggetti con età superiore ai 19 anni, sono stati sottoposti al dosaggio della 25(OH)D (25-idrossivitamina D) e alla valutazione dei parametri di funzionalità respiratoria FEV1 e FVC. L’analisi dei risultati ha documentato un’associazione positiva tra i livelli ematici di 25(OH)D e i valori legati alla funzione polmonare: dopo aggiustamento per età, sesso, altezza e stagione, la differenza tra il quartile più alto e quello più basso di vitamina D era pari a 51±17 ml (P <0,01) per la FEV1 e a 58±20 ml (P <0,005) per la FVC. Tale correlazione è stata più marcata nei pazienti con storia di tubercolosi polmonare, in cui è stata evidenziata una differenza tra il quartile più alto e quello più basso di vitamina D pari a 229±87 ml (p <0,01 per trend) per la FEV1. Secondo gli Autori, questo lavoro suggerisce come pazienti affetti da tubercolosi possano trarre beneficio dalla somministrazione di vitamina D, e quest’ultima potrebbe rivelarsi una promettente misura preventiva per la TBC. Questi risultati quindi dovrebbero essere il punto di partenza per ulteriori e più approfonditi studi, al fine di ottenere chiare evidenze circa l’associazione riscontrata tra funzionalità polmonare e livelli ematici di vitamina D per poter eventualmente raccomandare un trattamento preventivo.

46

Medico e paziente

2-3.2013

Osteoartrosi del ginocchio Acido ialuronico intra-articolare: effetti positivi sui marker di progressione della patologia www.terapiainfiltrativa.it Nei pazienti che soffrono di osteoartrosi del ginocchio, la terapia infiltrativa con acido ialuronico comporta una riduzione dei livelli sierici dei marker di degradazione del collagene di tipo II e dell’infiammazione. Sono queste le conclusioni di uno studio (Henrotin Y et al. J Orthop Res 2013; 31: 901-7), recensito sul sito www.terapiainfiltrativa. it. I prodotti di degradazione del collagene di tipo II rappresentano potenziali marker di degradazione della cartilagine e di attività della malattia: in particolare, sono stati identificati il peptide Coll2-1 e la sua forma nitrata, Coll2-1 NO2. Questo studio è stato disegnato per misurare, in pazienti con osteoartrosi del ginocchio, le variazioni dei livelli sierici del Coll2-1 e il Coll2-1 NO2 al basale e dopo viscosupplementazione e analizzarne il possibile ruolo quali determinanti utili per la valutazione di un intervento terapeutico. Sono stati arruolati 51 pazienti con sintomatologia monolaterale al ginocchio che hanno ricevuto 3 infiltrazioni intra-articolari di 2 ml di acido ialuronico, a distanza di 1 settimana l’una dall’altra, e sono stati seguiti per 3 mesi. I risultati hanno evidenziato che le concentrazioni sieriche al basale del Coll2-1 e del Coll2-1 NO2 erano significativamente superiori nei pazienti con forme più gravi di osteoartrosi rispetto a quanto riscontrato in quelli affetti da forme meno gravi, e sono diminuite sistematicamente nel tempo, dopo il trattamento. Il dolore durante la deambulazione è diminuito da 57,7 mm (15,4) al basale a 29,3 mm (22,9) dopo 3 mesi dal trattamento (p <0,0001). Inoltre, la concentrazione sierica del Coll2-1 è apparsa significativamente inferiore al basale nei responder rispetto ai non responder. Questi dati mostrano che il trattamento di viscosupplementazione è in grado di indurre un rapido declino della degradazione del collagene di tipo II e dell’infiammazione articolare, come mostrato dalla diminuzione dei livelli sierici dei due biomarker analizzati. Tali marcatori, inoltre, potrebbero essere considerati come fattori predittivi per la risposta al trattamento.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.