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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 3 maggio-giugno 2012
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Ca. prostatico il ruolo del Prostate health index nella diagnosi precoce Stenosi aortica quali prospettive per la terapia ipolipemizzante Meeting EAS l’ipotesi HDL in prevenzione cardiovascolare professione la gestione del dolore in Medicina generale
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anno XXXVIII - maggio-giugno 2012 Mensile di formazione e informazione per il Medico di famiglia
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p 6
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Medico e paziente n. 3
in questo numero
sommario
Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 3 maggio-giugno 2012
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Ca. prostatiCo il ruolo del prostate health index nella diagnosi precoce stenosi aortiCa quali prospettive per la terapia ipolipemizzante Meeting eas l’ipotesi HDL in prevenzione cardiovascolare professione la gestione del dolore in Medicina generale
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letti per voi
p 10 Urologia oncologica
Diagnosi precoce del carcinoma prostatico Maggiore specificità e migliore accuratezza con il Prostate Health Index
Recenti pubblicazioni scientifiche evidenziano per questo nuovo indice maggiore specificità diagnostica rispetto ai marcatori standard e la capacità di definire l’aggressività del carcinoma
Massimo Lazzeri, Giorgio Guazzoni
p 14 gastroenterologia
Stipsi cronica Inquadramento clinico, diagnosi e terapia
In caso di fallimento delle strategie non farmacologiche e dei lassativi tradizionali, adeguati benefici sono offerti dall’impiego di agenti procinetici Lara Bellacosa, Ilenia Pareo, Anita Fucili, Marco Marcello Marcellini, Eugenio Ruggeri, Alexandra Antonucci, Veronica Gabusi, Chiara Frisoni, Rosanna Cogliandro, Vincenzo Stanghellini
p 22 cardiologia
Stenosi aortica degenerativa Una revisione sulle prospettive della terapia ipolipemizzante
L’attuale trattamento della stenosi aortica è la sostituzione chirurgica della valvola. La possibilità di un trattamento medico
Medico e Paziente
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sommario
che possa rallentare la progressione di questa malattia ha suscitato molto interesse negli ultimi anni Giuseppina Novo, Sonia Dell’Oglio, Fabrizia Centineo, Dario Mancuso, Fabiana Castellano, Khalil Fattouch, Salvatore Novo
p 30 segnalazioni dalle aziende Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2011 - 31/12/2011 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.342 Certificazione CSST n° 2011-2246 del 27/02/2012 Società di revisione: REFIMI
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Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi)
Neurologia L’importanza del trattamento precoce nel paziente affetto da sclerosi multipla
p 32
congressi
80° Congresso EAS – 25-28 maggio - Milano
Riformulare, non abbandonare, l’“ipotesi HDL” per la prevenzione cardiovascolare V Congresso ANIRCEF – 31 maggio-2 giugno – Napoli
Le cefalee: il dolore come necessità Congresso annuale EULAR – 6-9 giugno – Berlino
Artrite reumatoide: effetti positivi dei “biologici” sul rischio CV e sulla mortalità complessiva
p 36
Farminforma
p 41 professione
La gestione del dolore in Medicina generale: il punto sulla Legge 38/2010
Il dottor Pierangelo Lora Aprile, segretario scientifico nazionale e responsabile dell’area clinica delle Cure palliative e Medicina del dolore della SIMG, ci aiuta a capire come i MMG stanno affrontando la “rivoluzione culturale” che la Legge 38 comporta
Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
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Medico e paziente
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letti per voi Aterosclerosi
Secondo uno studio genetico l’incremento plasmatico di HDL non diminuisce il rischio di IM £ Il fatto che ad alti livelli ematici di colesterolo HDL si associasse la riduzione del rischio di infarto del miocardio (IM) ha costituito per anni un “dogma” nel campo della prevenzione di questa patologia, pur senza che ci fossero le evidenze a supporto della causalità tra i due fattori. Provare questo rapporto, dimostrando, cioè, che l’associazione di questo “biomarcatore” plasmatico con l’infarto del miocardio è causale, è stato l’obiettivo di uno studio collaborativo internazionale, coordinato dall’Università di Harvard, al quale hanno partecipato due gruppi italiani delle Università di Milano e di Verona. I risultati, che non hanno confermato l’ipotesi di partenza, hanno avuto una forte eco sulla stampa scientifica e su quella ad ampia diffusione, alimentando la discussione già in corso Prevenzione CV primaria
sulla validità di quella che è chiamata “ipotesi HDL”. Lo studio si è avvalso di due randomizzazioni mendeliane, che permettono di valutare il rapporto tra due variabili senza che fattori confondenti “terzi” (per esempio, quelli ambientali) possano alterare il risultato, individuando alcune varanti geniche associate all’HDL e all’LDL. Per la prima randomizzazione si è utilizzato come marcatore un polimorfismo a singolo nucleotide (SNP) sul gene della lipasi endoteliale (LIPG Asn396Ser), valutato su 20.913 casi di infarto e 95.407 controlli. Per la seconda, invece, si è sfruttato uno “score” genetico costituito da 14 SNP comuni associati all’HDL, testati su 12.482 casi di IM e 41.331 controlli. È stato testato anche lo score genetico di 13 SNP associati
£
all’LDL in funzione di controllo positivo. Si è potuto osservare che i soggetti portatori dell’allele LIPG 396Ser (presente con frequenza del 2-6 per cento) avevano maggiori livelli di HDL (più alti di 0,14 mmol/l; p=8x10-13), ma valori simili per altri fattori di rischio per IM (altri lipidi e non lipidici) rispetto ai non portatori; da tale differenza di valori di HDL era attesa una diminuzione del rischio di IM del 13 per cento (OR 0,87, CI 95 per cento 0,84-0,91). Tuttavia, si è evidenziato che l’allele 396Ser non è associato al rischio di IM (OR 0,99, CI 95 per cento 0,88-1,11; p =0,85). Secondo le stime dell’epidemiologia osservazionale, un incremento pari a 1 DS dell’HDL si doveva associare con una riduzione del rischio di IM (OR 0,62, CI 95 per cento 0,58-0,66). Tuttavia, l’incremento rilevato dallo studio non è risultato associato con il rischio di IM (OR 0,93, CI 95 per cento 0,68-1,26; p =0,63). Per l’LDL, invece, quanto ottenuto dalle valutazioni di “genetic score” confermava quanto atteso. Questi dati, ottenuti su un numero mol-
L’opportunità di prescrivere aspirina a basse dosi per la prevenzione cardiovascolare primaria è dibattuta. I l’aspirina a basse dosi sembra benefici sono relativamente modesti, sia per gli individui correlare con un aumento del non diabetici che per chi sia affetto da questa malattia; tali rischio di sanguinamenti, specie benefici inoltre, possono facilmente essere annullati dal rischio di emorragia. Quantificare questa possibilità per nei soggetti non diabetici valutare il reale bilancio derivato dall’uso dell’aspirina in prevenzione è stato l’oggetto di uno studio di coorte italiano, condotto sulla popolazione “reale” pugliese attingendo i dati dall’anagrafica sanitaria ufficiale. Lo studio ha preso in considerazione soggetti con nuova prescrizione per aspirina a basso dosaggio ( 300 mg) nel periodo dal gennaio 2003 al dicembre 2008, appaiati secondo “propensity score” in proporzione di 1:1 (186.425 soggetti per gruppo) con individui che nello stesso arco di tempo non avevano assunto tale farmaco. Durante un follow up medio di 5,7 anni, il tasso complessivo di eventi emorragici è stato 5,58 (CI 95 per cento 5,39-5,77) per 1.000 persone/anno nei soggetti in terapia con aspirina e 3,60 (CI 95 per cento 3,48-3,72) per 1.000 persone/anno nel gruppo che non aveva assunto tale farmaco, con IRR (incidence rate ratio) 1,55 (CI 95 per cento 1,48-1,63). L’assunzione di aspirina risultava associata a un rischio di sanguinamenti maggiori nella maggior parte dei sottogruppi in studio, ma non in quello, ad alto rischio, costituito dai diabetici (IRR 1,09, CI 95 per cento 0,97-1,22). A prescindere dall’aspirina, il diabete era associato in modo indipendente con un aumento del rischio di episodi di sanguinamento maggiore (IRR 1,36; CI 95 per cento 1,28-1,44). I benefici dell’aspirina a basse dosi in prevenzione primaria sembrano essere minori di quanto atteso e il farmaco è significativamente associato a un aumento del rischio di episodi maggiori di sanguinamento gastrointestinale e cerebrale; tale associazione non si osserva però nei soggetti diabetici e dunque questi rappresentano una popolazione da considerare in modo differente in relazione alla terapia antiaggregante. De Berardis G, Lucisano G, D’Ettorre A et al. JAMA 2012; 307 (21): 2286-94
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to consistente di soggetti, mostrano che alcuni meccanismi genetici che inducono un innalzamento dell’HDL non sembrano ridurre il rischio di IM e pongono in discussione il concetto che un aumento di questa frazione lipidica si traduca
“automaticamente” in una riduzione del rischio di infarto del miocardio. Voight BF, Peloso GM, Orho-Melander M et al. Lancet 2012; doi:10.1016/SO1406736(12)60312-2
Coronaropatie
Il test del cammino dei 6 minuti si rivela uno strumento utile per la valutazione del rischio CV in pazienti affetti da CHD stabile £
Nei soggetti con coronaropatia stabile (CHD), la valutazione del rischio di futuri eventi cardiovascolari (CV) attualmente utilizza modelli prognostici, basati sui marker tradizionali, che non sempre però sono in grado di fornire una stima precisa del profilo di rischio. I test ergometrici, che sostanzialmente valutano la capacità di esercizio fisico forniscono importanti indicazioni circa l’evoluzione e la prognosi della patologia, ma sono limitati da un costo economico e di tempo non trascurabile, specie se affiancati da esami d’imaging strumentali; questi ultimi spesso non necessari nei soggetti con CHD stabile. Il test del cammino dei 6 minuti (6MWT) è una metodica di facile esecuzione ed è comunemente impiegato per valutare la capacità funzionale. Il suo utilizzo è ben consolidato nello scompenso cardiaco come anche in
pneumologia. Meno conosciuto ne è l’impiego nella CHD stabile, come predittore del rischio CV. In questo contesto si colloca questo studio che fa parte del più ampio Heart and Soul Study, un trial prospettico che era stato disegnato per valutare il peso dei fattori psicosociali sulla prognosi di pazienti affetti da CHD stabile. Sono stati selezionati 556 pazienti del Heart and Soul Study che sono stati seguiti per un follow up medio di 8 anni. Nei partecipanti sono stati eseguiti il 6MWT e un test ergometrico. Nel periodo di osservazione è stata valutata l’incidenza di eventi CV, in particolare scompenso cardiaco, infarto del miocardio (IM) e decesso. Nel 39,2 per cento della popolazione studiata si è verificato un evento CV. I pazienti che appartenevano al quartile più basso della distanza percorsa al 6MWT (87-
419 m) avevano un tasso di incidenza di eventi CV 4 volte superiore rispetto a quanto osservato per i pazienti del quartile più alto (544-837 m; HR non aggiustato 4,29, CI al 95 per cento 2,83-6,53; P <0,001). Ogni diminuzione della distanza pari a una deviazione standard (SD) e corrispondente a 104 m correlava con un aumento del 55 per cento del tasso di eventi CV (HR aggiustato per età 1,55, CI al 95 per cento 1,35-1,78). Dopo aggiustamento per marker di rischio tradizionali e per parametri indicativi dello stadio di gravità della patologia (frazione di eiezione, ischemia indotta, disfunzione diastolica ecc.), ogni diminuzione corrispondente a 1 SD della distanza percorsa comportava un aumento del tasso di episodi CV del 30 per cento (HR 1,30, CI al 95 per cento 1,101,53). Inoltre la capacità “discriminatoria” in termini di rischio CV del 6MWT è risultata sovrapponibile a quella del test ergometrico standard. Secondo gli Autori quindi questo test, di facile e semplice impiego, quando associato alla valutazione dei fattori di rischio tradizionali si rivela uno strumento in grado di migliorare la stratificazione del rischio per eventi CV futuri in pazienti con coronaropatia stabile. Beatty AL, Schiller NB, Whooley MA Arch Intern Med 2012; doi: 10.1001/archinternmed.2012.2198
letti per voi Sclerosi multipla
La vitamina D3 aggiunta all’interferone beta-1b riduce l’attività di malattia evidenziabile con imaging di RM £
Da tempo una possibile correlazione tra vitamina D e sclerosi multipla (SM) è ipotizzata e oggetto di studio, ed è stato dimostrato nel complesso un effetto protettivo di questa molecola nei confronti della patologia. Nell’ambito delle potenzialità mostrate in questa area medica, un gruppo di ricerca internazionale ha disegnato un trial randomizzato in doppio cieco controllato verso placebo e della durata di 1 anno, che ha arruolato 66 pazienti con SM per valutare la possibile efficacia e sicurezza della vitamina D3 in aggiunta alla terapia con interferone beta-1b. Tali parametri venivano stabiliti attraverso il carico di malattia misurato co-
me volume di lesioni T2 alla risonanza magnetica (RM), la proporzione di pazienti con livelli sierici di 25(OH)D ≥85 nmol/l o di ormone paratiroideo intatto (PTH) ≤20 ng/l e il numero di eventi avversi, che costituivano gli endpoint primari dello studio. I risultati dell’analisi hanno mostrato un cambiamento medio nel carico di malattia di 287 mm3 nel gruppo placebo e di 83 mm3 nel gruppo in terapia addizionata con vitamina D (p =0,105). I livelli sierici di 25(OH) D sono aumentati da valori medi di 54 nmol/l a 110 nmol/l nel gruppo in trattamento con vitamina: l’84 per cento di questi pazienti raggiungeva livelli >85 nmol/l contro il solo
£
3 per cento del gruppo placebo (p <0,0001). I pazienti del gruppo assegnato ad assumere vitamina D inoltre, evidenziavano un numero minore di nuove lesioni in T2 e un significativo minore numero di lesioni in T1 aumentate, così come una tendenza alla riduzione dell’accumulo di disabilità e al miglioramento del “timed tandem walk” (endpoint secondari). Non si sono per contro evidenziate differenze significative in relazione alla comparsa di eventi avversi o al tasso annuale di recidiva. Queste osservazioni, concludono gli Autori dello studio, mostrano che la vitamina D3 aggiunta al trattamento standard con interferone beta-1 b è in grado di ridurre l’attività di malattia rilevabile con imaging di RM nella sclerosi multipla. Soilu-Hänninen M, Aivo J, Lindström BM et al. J Neurol Neurosurg Psychiatry doi:10.1136/jnnp-2011-301876
L’uso di contraccettivi ormonali comporta il rischio di complicanze tromboemboliche; una tale associazione Ictus ischemico, infarto fa sì che sia sempre importante informare le donne sulle diverse opzioni a disposizione in questo ambito della del miocardio e assunzione salute femminile. Dei nuovi contraccettivi ormonali, in dei più recenti contraccettivi uso negli ultimi 10 anni, numerosi studi hanno stabilito, ormonali: i risultati in particolare, il rischio di tromboembolismo venoso associato alla loro assunzione, mentre resta poco indagato, di uno studio danese e con risultati contrastanti, l’ambito del rischio di stroke ischemico e di infarto del miocardio. Certo le patologie a carico delle arterie sono meno frequenti nei soggetti giovani, tuttavia le complicanze a breve e lungo termine che ne possono derivare sono spesso molto serie. Proprio questa lacuna ha inteso colmare un gruppo di ricerca danese, che ha valutato i dati attinti dai registri nazionali di una coorte di donne non in gravidanza, e senza storia di patologia CV o cancro, di età compresa tra 15-49 anni per un periodo di 15 anni. Le osservazioni ottenute sono relative a oltre 14 milioni persone/anno, per 3.311 ictus trombotici e 1.725 infarti del miocardio occorsi. Sebbene si sia osservato un basso rischio assoluto per i due eventi oggetto dello studio, i dati rilevati hanno mostrano che, rispetto alla non assunzione di contraccettivi, il rischio era aumentato in seguito all’assunzione di un contraccettivo orale con etinilestradiolo alle dosi di 20 mcg di un fattore da 0,9 a 1,7 e con etinilestradiolo alle dosi da 30 a 40 mcg di un fattore da 1,3 a 2,3. Le differenze dovute ai diversi progestinici usati in combinazione erano invece relativamente piccole. Sono stati testati anche i rischi relativi corrispondenti all’uso di cerotto transdermico e anello vaginale, risultati per i due eventi, rispettivamente, di 3,2 e 0,0, e di 2,5 e 2,1. Di tali risultati, secondo gli Autori, si deve tener conto all’atto della prescrizione di un contraccettivo ormonale per via della maggiore mortalità e delle più gravi conseguenze derivanti dagli eventi trombotici a carico delle arterie.
Contraccezione
Lidegaard Ø, Løkkegaard E, Jensen A et al. N Engl J Med 2012; 366: 2257-66
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Medico e paziente
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Urologia oncologica
Diagnosi precoce del carcinoma prostatico Maggiore specificità e migliore accuratezza con il Prostate Health Index Recenti pubblicazioni scientifiche evidenziano per questo nuovo indice maggiore specificità diagnostica rispetto ai marcatori standard e la capacità di definire l’aggressività del Carcinoma. Per tali peculiarità, Il PHI si prospetta strumento per un cambiamento d’approccio diagnostico e terapeutico a questa patologia
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l carcinoma della prostata è il tumore maligno non cutaneo più diffuso nella popolazione maschile occidentale. Nel 2008 sono stati diagnosticati più di 900.000 nuovi casi nel mondo e si stima che questa quota possa superare il milione nel 2012 (1). Sempre nel 2008, in Europa, il numero di nuovi casi è stato superiore a 350.000 pazienti (2). La situazione italiana non è diversa da quella osservata negli altri Paesi occidentali. Nel 2010 sono state fatte circa 42.000 nuove diagnosi di tumore prostatico e il numero di decessi è stato di 7.500 pazienti (3). La storia naturale di questo carcinoma rimane tuttavia complessa e, sebbene la malattia abbia tutte le caratteristiche tipiche di un tumore maligno, è altrettanto vero che molti uomini
Massimo Lazzeri, Giorgio Guazzoni Dipartimento di Urologia, San Raffaele Turro, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
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MEDICO E PAZIENTE
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muoiono “con”, piuttosto che “per”, un tumore alla prostata. Come per la stragrande maggioranza delle altre neoplasie, la diagnosi precoce costituisce la garanzia per un trattamento adeguato, ovvero una terapia capace di combinare la necessità della radicalità oncologica con la riduzione degli effetti collaterali.
DIAGNOSI Storicamente l’esplorazione rettale è stata la manovra semeiologica principale per la diagnosi clinica e per avviare i pazienti alla biopsia di conferma. Purtroppo l’esplorazione rettale non solo è scarsamente specifica, ma è anche poco sensibile, non essendo in grado di identificare i tumori negli stadi iniziali (4). A partire dai primi anni ’90, l’introduzione dell’antigene prostatico specifico (PSA) ha determinato una profonda modificazione dello scenario clinico, permettendo l’identificazione del carcinoma prostatico
in fase precoce, ovvero ancora non clinicamente obiettivabile mediante l’esplorazione rettale (5-7). Il risultato netto dell’introduzione del PSA è stato quello di ridurre il numero di pazienti che ricevevano una diagnosi in stadio avanzato di malattia, e quindi con poche possibilità di usufruire di una terapia radicale, aumentando, invece, il numero di pazienti con un tumore di basso stadio e grado, quindi “curabile” (8). Questo risultato clinico, inizialmente incoraggiante, ha lasciato però il posto a un nuovo scenario. Sempre maggiore è stato il numero di uomini selezionati e avviati a eseguire una biopsia prostatica, sulla base del sospetto emerso dall’analisi del PSA, poi risultata negativa. È evidente che in questi pazienti il PSA elevato era ed è un falso positivo. Se da una parte valori molto bassi del PSA, inferiori a 1 ng/ml, o elevati, oltre 10 ng/ml, costituiscono un forte fattore predittivo in negativo (no tumore) e in positivo (tumore), nella fascia compresa fra 2 e 10 ng/ml il PSA mantiene una scarsa specificità. La letteratura riporta che il 65-75 per cento dei pazienti sottoposti a screening mediante PSA sono negativi, cioè non presentano cellule neoplastiche, alla biopsia (9–10). La percentuale di “falsi positivi” non cambia in Italia, dove, su circa 140.000 biopsie annue, il 65-70 per cento è negativo. Il PSA è oggi messo in discussione. RJ Ablin, il ricercatore che circa 40 anni fa lo ha scoperto, in un’intervista rilasciata nel marzo del 2010 al New York Times, ha definito la sua scoperta come “the great prostate mistake” (grande errore),
alimentando lo scetticismo della popolazione americana sull’affidabilità del PSA. Nell’ottobre del 2011 un’importante agenzia americana, la U.S. Preventive Services Task Force (USPSTF), ha rilasciato una raccomandazione contro l’uso del PSA per lo screening prostatico, sebbene nel marzo del 2012 uno studio europeo multicentrico, pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine, abbia confermato la riduzione di mortalità nei pazienti sottoposti a screening con PSA (11). Alla luce di questi dati è forte la necessità di dare delle risposte concrete mediante il superamento dei limiti attuali e l’introduzione di nuovi biomarcatori che siano più specifici e accurati del PSA. Un marcatore oncologico ideale, lo ricordiamo, deve essere scientificamente plausibile, non o minimamente invasivo, possedere un’elevata accuratezza clinica e avere un buon rapporto costo-beneficio. Nello specifico del carcinoma prostatico, un marcatore ideale dovrebbe essere capace non solo di condividere quanto precedentemente detto, ma anche di discriminare i malati portatori di una neoplasia indolente, da quelli che invece hanno una neoplasia clinicamente significativa, ovvero che andrà incontro a una sicura progressione clinica. Tale marcatore dovrebbe inoltre guidare la strategia terapeutica, permettendo di selezionare adeguatamente i malati da avviare a una sorveglianza attiva, quelli con un tumore a basso rischio di progressione, oppure un trattamento attivo (chirurgia o radioterapia), quelli con intermedio o alto rischio di progressione.
w Un nuovo marcatore Recenti pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato come una frazione del PSA libero, quello non legato a proteine sieriche, chiamata [-2]proPSA, determinabile attraverso un semplice esame del sangue, e due suoi derivati, quali la percentuale di [-2]proPSA sulla quota totale di PSA libero (%[-2]proPSA) e l’Indice di salute prostatica (PHI, Prostate Health Index), che si ottiene da una formula matematica [phi = (p2PSA/fPSA ) * √ tPSA], siano più accurati del PSA e del PSA libero nella
Figura 1
Accuratezza diagnostica dei marcatori per Ca. prostatico
Note: le curve esprimono l’accuratezza diagnostica del PHI: tanto più una curva si discosta dalla diagonale, tanto maggiore sarà la sua accuratezza diagnostica. Nello specifico si vede che la curva del PSA è quasi sovrapponibile alla diagonale, mentre è significativamente più lontana quella riferita al PHI. Fonte: M. Lazzeri, dati presentati all’AUA 2012.
diagnosi precoce (12-20). Le prime rilevanti pubblicazioni scientifiche, che documentano l’applicazione del PHI in un contesto clinico, sono del 2010 (21-22). Tutti questi lavori dimostravano una netta superiorità della capacità del PHI, rispetto al PSA, di identificare precocemente malati con carcinoma della prostata, specialmente in quel gruppo di pazienti con un PSA nella fascia grigia compresa fra valori di 2 e 10 ng/ml. La maggior parte di questi primi lavori era stata condotta in maniera retrospettiva, utilizzando sieri archiviati precedentemente per altri studi, mancava di un protocollo bioptico uniforme e l’analisi anatomopatologica dei campioni era stata effettuata da patologi differenti senza una revisione centralizzata. Nel 2011 due nuovi studi, uno americano (23) e l’altro italiano, condotto presso il Dipartimento di Urologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano (24), hanno confermato la maggiore specificità del PHI verso
i marcatori standard. Nel lavoro americano l’indice PHI aumentato era associato a un rischio 4,7 volte superiore di tumore e si correlava con l’aggressività tumorale. I ricercatori italiani hanno condotto uno studio osservazionale prospettico su 268 soggetti con un PSA totale compreso tra 2 e 10 ng/mL e una esplorazione rettale negativa. Tutti i malati hanno ricevuto una biopsia di saturazione con 18-24 prelievi, al fine di ottimizzare la “detection rate”, e la biopsia è stata analizzata da un uro-patologo esperto. Questo studio ha confermato che i migliori predittori di carcinoma prostatico sono la %p2PSA e il PHI ed entrambi si correlano con il Gleason score, indice di aggressività tumorale. Lo stesso gruppo ha recentemente presentato al Congresso annuale dell’American Urological Association (Atlanta, USA, 2012) un aggiornamento della propria casistica. Su 812 malati sottoposti a una biopsia prostatica il PHI si dimostra il
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Urologia oncologica Tabella 1
Cut-off per il PHI a diversi valori di sensibilità e specificità Cut-off
Sensibilità
Specificità
PPV
NPV
≥31,3
90,1
28,2
42,6
82,8
≥43,2
65,2
65,3
52,7
76,0
≥60,6
31,1
90
64,8
68,8
PHI
Note: PPV e NPV identificano il valore predittivo positivo e negativo, rispettivamente, dei diversi cut-off da impiegare nella pratica clinica. Fonte: M. Lazzeri, dati presentati all’AUA 2012.
marcatore più accurato per fare diagnosi precoce di carcinoma sia in pazienti che vengono sottoposti per la prima volta a una biopsia prostatica sia in quelli che avevano precedentemente ricevuto una biopsia risultata negativa, ma nei quali permaneva un sospetto clinico di tumore (Figura 1). La tabella 1 riporta i valori di cut-off per le diverse sensibilità e specificità e i valori predittivi positivi e negativi che potrebbero essere impiegati nella pratica clinica. Attualmente è in corso uno studio europeo multicentrico prospettico (PROMEtheuS: PRO-PSA Multicentric European Study), che coinvolge 5 Nazioni, Italia, Germania, Inghilterra Francia e Spagna, per confermare su scala internazionale i risultati ottenuti fino a oggi dai singoli gruppi. I risultati sono attesi per l’autunno del 2012. Un recente lavoro (marzo del 2012), sempre dal gruppo italiano dell’Ospedale San Raffaele di Milano, ha inoltre dimostrato come il PHI possa svolgere anche un ruolo predittivo in quei pazienti che vengono sottoposti a un intervento chirurgico (25). In particolare il PHI si è dimostrato capace di predire lo stadio e il Gleason score patologico definitivo e il rischio che quest’ultimo sia maggiore (up-grading), quindi il tumore più aggressivo, di quanto scoperto in corso di biopsia prostatica diagnostica. È quindi estremamente importante riconoscere a questo nuovo marcatore un ruolo anche nel guidare un trattamento attivo. I pazienti che alla luce della biopsia presentano un basso rischio, ma hanno valori di PHI elevati dovrebbero essere riclassificati come a intermedio/alto rischio
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di progressione clinica di malattia e quindi ricevere trattamenti sanitari più aggressivi. A conferma di questo dato va interpretato un lavoro del 2011 in cui i pazienti con un carcinoma della prostata organo confinato e a basso rischio, arruolati in sorveglianza attiva e che al follow-up sviluppavano una progressione di malattia tale da richiedere un trattamento attivo, presentavano al momento dell’arruolamento un valore di PHI maggiore rispetto a malati che invece non sviluppavano alcuna progressione (26).
CONCLUSIONI Alla luce delle evidenze scientifiche di cui sopra, si può quindi concludere che l’indice di salute prostatica (PHI) è in grado di garantire non solo una più accurata identificazione del tumore prostatico, ma anche una migliore definizione dell’indice di aggressività dello stesso. La possibilità di identificare con maggiore precisione quelle forme neoplastiche che diventeranno clinicamente significative potrebbe quindi consentire, oltre alla diagnosi precoce, una maggiore personalizzazione del percorso clinico a seconda delle caratteristiche del singolo soggetto, individuando i pazienti per i quali si impone un trattamento curativo rispetto a quelli da avviare a un programma di sorveglianza attiva. Questo definisce un cambiamento radicale nell’approccio diagnostico e terapeutico di questa patologia. Il trasferimento di queste conoscenze nella pratica clinica quotidiana potrebbe consentire di ridurre considerevolmente il numero delle biopsie
prostatiche inutili. Si stima che la riduzione del numero di biopsie non necessarie, utilizzando cut-off ad alta sensibilità (PHI 28), possa essere compresa fra il 20 e il 30 per cento, senza che questo ci esponga al rischio di perdere malati con neoplasia clinicamente significativa. Infine, si calcola che l’utilizzo del [-2] proPSA e dei suoi derivati, oltre che a ridurre i trattamenti non necessari e la frequenza dei controlli al follow-up, possa avere indubbi vantaggi sia per la qualità della vita del paziente sia per la spesa pubblica (27).
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Gastroenterologia
Stipsi cronica Inquadramento clinico, diagnosi e terapia Questo disturbo, molto diffuso, può ridurre significativamente la qualità di vita di chi ne soffre. In caso di fallimento delle strategie non farmacologiche e dei lassativi tradizionali, adeguati benefici sono offerti dall’impiego di agenti procinetici
L
a stipsi è un disturbo di frequente riscontro nella pratica clinica, interessa infatti dal 2 al 27 per cento della popolazione generale a seconda della definizione utilizzata (1,2). Si tratta probabilmente di prevalenze sottostimate, poiché almeno il 65 per cento dei pazienti affetti da stipsi non ricorre alle cure del proprio medico o dello specialista, ma tende ad automedicarsi utilizzando lassativi da banco (1,3). Gli anziani (>65 anni) rappresentano circa il 30-40 per cento dei soggetti stitici (4), ma anche l’età pediatrica deve essere attentamente valutata: fino al 29 per cento dei bambini può presentare stipsi (5). Questo disturbo colpisce prevalentemente il sesso femminile, con un rapporto fino a 3:1 rispetto al sesso maschile (4).
Lara Bellacosa, Ilenia Pareo, Anita Fucili, Marco Marcello Marcellini, Eugenio Ruggeri, Alexandra Antonucci, Veronica Gabusi, Chiara Frisoni, Rosanna Cogliandro, Vincenzo Stanghellini Dipartimento di Malattie dell’Apparato Digerente e Medicina Interna, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico S.Orsola-Malpighi
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La stipsi può essere un disturbo cronico e grave con una compromissione della qualità di vita paragonabile ad altre patologie croniche come l’osteoartrosi, il diabete mellito, le allergie (6). I pazienti spesso manifestano un elevato indice di insoddisfazione della terapia con lassativi tradizionali e ciò è dovuto alla mancanza di efficacia e/o a spiacevoli effetti indesiderati (3,7). In un’indagine europea condotta su 744 pazienti con stipsi cronica, quasi la metà dichiarava di utilizzare trattamenti alternativi come l’agopuntura o l’omeopatia (7).
FISIOPATOLOGIA La stipsi può essere primaria (idiopatica), o secondaria ad altre condizioni (8,9).
w Stipsi primaria (idiopatica o funzionale) La stipsi primaria può essere distinta in tre sottotipi: con normale transito colico, con rallentato transito, da disordini della defecazione (9). Stipsi con normale transito. La stipsi con normale transito colico è probabilmente la forma più comune in ambito cli-
nico, ma non è stata formalmente studiata né adeguatamente differenziata dalla variante stitica della sindrome dell’intestino irritabile (8,10). Essa è caratterizzata da un normale tempo di transito delle feci lungo il colon con una frequenza dell’alvo che può essere nella norma, tuttavia i pazienti riferiscono difficoltà a evacuare, gonfiore addominale, dolore o fastidio addominale e feci dure (11,12). Alcuni pazienti possono presentare un’aumentata compliance rettale, una ridotta sensibilità rettale o entrambe (10). Stipsi da rallentato transito. Nei pazienti con stipsi da rallentato transito colico si osserva un’alterazione della motilità propulsiva intestinale (13). Un transito rallentato rende le feci dure e piccole, ciò contribuisce a una riduzione della pressione rettale che risulta essere inefficace per innescare il riflesso della defecazione. Spesso la pressione rettale richiesta è maggiore nei pazienti con rallentato transito rispetto ai soggetti con transito colico normale (14,15). Come dimostrato da vari studi, l’alterazione della motilità colica può essere causata da una serie di fattori. Le onde pressorie che si propagano lungo il colon, note come contrazioni propagate di elevata ampiezza (HAPCs), sono potenti contrazioni che originano in punti variabili del colon e si propagano verso il retto. Diversi studi hanno dimostrato che le HAPCs sono significativamente ridotte, sia per frequenza che per intensità, nei pazienti stitici (16,17). Una possibile causa di tali disturbi sono le anomalie del plesso mioenterico, caratterizzate da una riduzione del numero dei neuroni argirofili, e da un aumento del numero dei nuclei di dimen-
sione variabile nei gangli (18). Anche le cellule interstiziali di Cajal giocano un ruolo importante in quanto gli studi dimostrano che il loro volume è significativamente ridotto nei pazienti con stipsi da rallentato transito (19). Le cellule interstiziali di Cajal sono necessarie per generare le onde elettriche lente del muscolo liscio e rappresentano, quindi, veri e propri pace-makers del canale alimentare. In assenza di tali onde l’attività contrattile è ridotta e irregolare, con conseguente rallentamento del transito intestinale (19). L’acetilcolina è un neurotrasmettitore delle giunzioni sinaptiche all’interno del sistema nervoso enterico. Il suo rilascio da parte dei neuroni post-sinaptici colinergici stimola l’attività contrattile spontanea della muscolatura liscia intestinale (20). La distensione radiale della parete intestinale, dovuta alla presenza di feci, attiva un arco riflesso per cui i motoneuroni enterici eccitatori causano contrazione muscolare a monte della massa fecale mediante la liberazione di acetilcolina, invece i motoneuroni inibitori provocano rilasciamento a valle per mezzo di mediatori come l’ossido nitrico e il peptide intestinale vasoattivo. La coordinata sequenza di contrazioni muscolari a monte e rilasciamenti a valle consente il transito del contenuto endoluminale lungo il colon (21). Rispetto ai soggetti sani, i pazienti stitici presentano un’alterata risposta motoria alla stimolazione colinergica nel colon discendente (20). La serotonina [5-idrossitriptamina (5-HT)], rilasciata dalle cellule enterocromaffini del tratto gastrointestinale, gioca un ruolo fondamentale nell’avviare i riflessi peristaltici e secretori mediante il legame a specifici recettori di tipo 4 (5-HT4 R) espressi sia dai neuroni sensitivi sia dai motoneuroni del sistema nervoso enterico (21). È stato dimostrato che la via di segnalazione mediata da 5-HT è alterata nei disordini della motilità intestinale (22), tuttavia non ne è ancora chiaro il meccanismo (23). È stato suggerito, ma non anatomicamente dimostrato, che un danno neuronale secondario, per esempio a interventi di chirurgia pelvica o al parto, riduce la motilità del colon e può essere alla base di alcuni casi di stipsi da rallentato
Tabella 1
Criteri di Roma III per la diagnosi di stipsi cronica* Presenza di ≥2 dei seguenti sintomi: • Sforzo in almeno il 25% delle evacuazioni • Feci aride o dure in almeno il 25% delle evacuazioni • Sensazione di evacuazione incompleta in almeno il 25% delle evacuazioni • Sensazione di ostruzione o blocco ano-rettale in almeno il 25% delle evacuazioni • Manovre manuali in almeno il 25% delle evacuazioni • <3 evacuazioni/settimana Feci liquide raramente presenti in assenza dell’uso di lassativi Insufficienti criteri per la diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile Note: *criteri soddisfatti per almeno 3 mesi e con inizio dei sintomi almeno 6 mesi prima della diagnosi. Fonte: Longstreth GF et al. Gastroenterol 2006.
transito (24). Sebbene la relazione tra ormoni sessuali e stipsi cronica non sia chiara, tuttavia un ridotto livello di ormoni steroidei secreti dalle ovaie e dalle ghiandole surrenali sembra essere associato alla stipsi (25). Talvolta il rallentato transito può essere secondario a un disturbo della defecazione, pertanto trattando quest’ultimo (per esempio, mediante il biofeedback) si ottiene una normalizzazione dei tempi di transito (26).
Disturbi della defecazione. In un certo numero di pazienti affetti da stipsi cronica è stato riscontrato un difetto espulsivo. Questa disfunzione può essere dovuta a un’alterata contrazione del retto, a una contrazione anale paradossa, o a un inadeguato rilasciamento anale (27). La mancata coordinazione, o dissinergia, dei muscoli coinvolti nella defecazione è la causa più probabile (28), ma un’alta percentuale di pazienti può anche presentare una ridotta sensibilità rettale (27). In molti
Figura 1
Scala delle feci di Bristol e correlazione con il tempo di transito intestinale 1 2
4
Score della variazione della forma delle feci
2
3 4 5
0
-2 r = -0,65
6 7
-4 -100
-50
0
50
100
Variazione del tempo di transito (TT in ore) intestinale totale Legenda: r, coefficiente di correlazione; 1, feci caprine (difficili da espellere); 2, a forma di salsiccia, a grumi uniti tra loro; 3, a forma di salsiccia, ma con crepe sulla sua superficie; 4, a forma di salsiccia, liscia e morbida; 5, pezzi separati, morbidi, con bordi come tagliati/spezzati (facili da evacuare); 6, pezzi flocculari con bordi frastagliati, feci morbide; 7, nessun pezzo solido, completamente liquida. Fonte: modificato da Lewis & Heaton. Scand J GE 1997.
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Gastroenterologia pazienti la disfunzione del pavimento pelvico può contribuire alla stipsi con o senza rallentato transito, e studi recenti hanno dimostrato che la terapia con biofeedback (educare il paziente a riconoscere e assecondare lo stimolo) è efficace in questi casi (29-31). Anomalie strutturali pelviche sono frequenti nei pazienti con stipsi cronica e comprendono: prolasso rettale e/o intussuscezione, rettocele ed eccessiva discesa del piano perineale. Esse possono costituire un ostacolo ai normali processi espulsivi, se anatomicamente rilevanti, ma spesso rappresentano la conseguenza di ponzamenti accentuati cui sono costretti i pazienti con stipsi di qualunque origine e la loro correzione chirurgica non porta quindi alla soluzione del problema clinico.
Figura 2 Paziente con stipsi cronica (evacuazione non frequente o feci dure o con difficoltà di passaggio)
Educazione; misure su stile di vita e dieta
Anamnesi ed esame obiettivo
Segnali d’allarme?
NO
SÌ
DIAGNOSI La durata e le caratteristiche dei sintomi riferiti dal paziente consentono di distinguere una stipsi transitoria, solitamente dovuta a cambiamenti delle abitudini alimentari e dello stile di vita, da una vera stipsi cronica. Inoltre bisogna sospettare
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Stipsi cronica funzionale (criteri di Roma III)
SÌ Interrompere i farmaci se possibile
Indagini strumentali come indicato
w Stipsi secondaria Le cause di stipsi secondaria sono: y organiche (es. stenosi neoplastiche, infiammatorie, ischemiche o chirurgiche, compressione ab-estrinseco), y endocrine o metaboliche (es. diabete mellito, ipotiroidismo, ipercalcemia, porfiria, insufficienza renale cronica, panipopituitarismo, gravidanza), y neurologiche (es. lesioni spinali, malattia di Parkinson, sclerosi multipla, malattia di Hirschsprung, pseudo-ostruzione intestinale cronica), y miogeniche (es. distrofia miotonica, dermatomiosite, sclerodermia, amiloidosi, pseudo-ostruzione intestinale cronica), y anorettali (es. proctite, ragadi), y farmaci (es. oppiacei, antipertensivi, antidepressivi triciclici, antiepilettici, composti contenenti ferro, anticolinergici, agonisti dopaminergici), y dietetiche e di stile di vita (es. dieta povera di fibre, ridotto apporto idrico, sedentarietà).
NO
Farmaci che inducono costipazione?
Beneficio adeguato?
NO
SÌ
Rilevate anomalie?
NO
Stipsi da farmaco
SÌ Patologia organica con stipsi, trattare di conseguenza
Algoritmo diagnostico-terapeutico della stipsi cronica Fonte: Tack J et al. Neurogastroenterol Motil. 2011.
la presenza di forme secondarie di stipsi cronica mediante un’accurata anamnesi, l’esame obiettivo e, quando necessario, indagini laboratoristiche e strumentali. Il sistema di classificazione Roma III, l’unico riconosciuto e standardizzato, basato sui sintomi, fornisce i criteri diagnostici per i disturbi funzionali gastrointestinali, compresa la stipsi cronica (Tabella 1) (32). Un valido aiuto visivo per la valutazione dei pazienti con stipsi è rappresentato
dalla Bristol Stool Form Scale (33). Questa è stata creata con lo scopo di classificare la forma e la consistenza delle feci, che vengono distinte in sette categorie, ed è facilmente comprensibile dai pazienti. La forma delle feci dipende dal tempo di transito lungo il colon, pertanto questa scala risulta un indiretto indicatore del tempo di transito intestinale (Figura 1). In caso di stipsi cronica è raccomandata l’esecuzione della colonscopia dopo i 50 anni di età (8,34) o in presenza di “cam-
cronica con transito rallentato e stipsi con transito normale. In caso contrario, si può formulare la diagnosi di disordine funzionale della defecazione e può risultare utile l’esecuzione della defecografia al fine di definire eventuali anomalie anatomiche (Figure 2 e 3) (9).
Aggiungere lassativo
TERAPIA NO
Beneficio adeguato?
SÌ
Gestione di lungo periodo
NO Aggiungere/cambiare lassativo
Beneficio adeguato?
SÌ
Gestione di lungo periodo
SÌ
Gestione di lungo periodo
NO Interrompere lassativo e cominciare farmaco per la motilità intestinale (prucalopride)
Beneficio adeguato? NO Stipsi refrattaria
Rimandare a test aggiuntivi secondo le Linee guida Roma per la stipsi refrattaria e la difficoltà di defecazione
panelli d’allarme” (35), quali: y calo ponderale y sangue nelle feci y anemia y febbre y VES aumentata y familiarità per cancro del colon-retto o malattia infiammatoria intestinale. In assenza di tali segni/sintomi d’allarme e di condizioni o farmaci che possano essere causa della stipsi, è possibile formulare la diagnosi di stipsi cronica funzionale,
in accordo con i criteri di Roma III, e iniziare un trattamento dietetico-comportamentale e farmacologico (9). In caso di stipsi refrattaria si possono effettuare indagini strumentali quali la manometria ano-rettale, il test di espulsione del palloncino dal retto e lo studio dei tempi di transito intestinale. In particolare, se la manometria ano-rettale e l’espulsione del palloncino risultano nella norma, è possibile, mediante lo studio dei tempi di transito intestinale, la distinzione tra stipsi
w Lassativi I lassativi tradizionalmente usati agiscono riducendo la consistenza della massa fecale e/o stimolando indirettamente la motilità colica (Tabella 2) (36,37). Sono tuttavia pochi i trial clinici ben disegnati che dimostrano la loro efficacia o la superiorità di un lassativo rispetto a un altro. La maggior parte degli studi comparativi suggerisce che il lattulosio e il polietilenglicole (PEG) hanno efficacia paragonabile, ma con una minore incidenza di vomito e flatulenza associata al PEG (38,39). In una recente metanalisi solo il PEG, peraltro, raggiunge un elevato livello di evidenza scientifica in termini di efficacia. Le fibre indigeribili richiamano acqua nel lume riducendo la consistenza delle feci. Vecchi studi suggeriscono che le fibre aumentano il numero dei movimenti intestinali (37), ma più recentemente è stato dimostrato come sia poco probabile che i pazienti con stipsi da rallentato transito e/o disordine della defecazione traggano beneficio dalla loro assunzione (40). I lassativi stimolanti agiscono aumentando la secrezione intraluminale e, a contatto con la mucosa, stimolano indirettamente le terminazioni nervose e quindi la motilità propulsiva (36,37). Esiste evidenza che essi provocano dolore addominale (41), mentre gli iniziali timori di una possibile associazione tra l’uso cronico di antrachinonici, l’inertia coli e il cancro del colon non hanno trovato conferma (42,43). Recenti studi hanno dimostrato l’efficacia del biofeedback nella stipsi cronica da disordini della defecazione in circa il 50 per cento dei casi trattati (29,31). Per questo tipo di trattamento è importante che il paziente comprenda il concetto e lo scopo del biofeedback ed è necessario che la procedura sia effettuata sotto la guida di un fisioterapista esperto.
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Gastroenterologia Figura 3
Stipsi refrattaria che non migliora con dieta ricca di fibre, lassativi e prucalopride
Valutazioni fisiologiche: manometria anorettale, espulsione pallone rettale e transito colico
SÌ
Manometria anorettale ed espulsione pallone rettale entrambi normali?
NO
NO
Stipsi funzionale con transito rallentato
SÌ
Transito colico rallentato?
NO
Stipsi funzionale con transito normale
Entrambi i test anomali?
Defecografia con bario o RM
SÌ
Disturbi funzionali della defecazione SÌ Transito colico lento?
NO
La defecografia evidenzia disordini della defecazione?
SÌ
NO Disturbi funzionali della defecazione con transito normale
SÌ
Algoritmo diagnostico-terapeutico della stipsi refrattaria e disordini funzionali della defecazione Fonte: Tack J et al. Neurogastroenterol Motil. 2011.
w Nuovi farmaci Agonisti 5-HT4. La serotonina è un mediatore fondamentale per la regolazione della motilità gastrointestinale, la sensibilità viscerale e la secrezione intestinale. Agisce legandosi ai recettori 5-HT4 espressi principalmente sugli interneuroni del sistema nervoso enterico. La scarsa selettività recettoriale dei primi agonisti serotoninergici (cisapride e tegaserod) ne ha limitato l’impiego. In particolare la cisapride è stata ritirata dal commercio nel 2000 in seguito a eventi cardiaci
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dose-dipendenti, incluso l’allungamento del tratto QT, in pazienti con fattori predisponenti (44). Si ritiene che tale effetto fosse dovuto alla sua interazione con i canali del potassio hERG ampiamente espressi a livello cardiaco (45). Anche il tegaserod, agonista parziale dei recettori 5-HT4 e 5HT1, antagonista dei recettori 5-HT2 e inibitore dei trasportatori di dopamina e noradrenalina (46), è stato ritirato per un possibile aumento del rischio di eventi cardiovascolari. La più recente prucalopride è un agonista
Disturbi funzionali della defecazione con transito rallentato
Tempo di transito normalizzato dopo correzione dei disordini della defecazione
NO
altamente selettivo dei recettori 5-HT4 (46,47) e non lega con altri recettori a dosi anche >150 volte a quelle terapeutiche: perciò è particolarmente sicuro ed è stato immesso in commercio in Europa dal 2009 e in Italia dal 2012. Tra i vari studi clinici svolti, tre hanno avuto il medesimo disegno sperimentale con prucalopride o placebo somministrati per 12 settimane su 1.977 pazienti, prevalentemente donne, con stipsi cronica severa (definita come ≤2 movimenti intestinali spontanei e completi/settimana). I risultati confermano un
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Gastroenterologia Tabella 2
Farmaci comunemente usati nel trattamento della stipsi cronica Tipo di lassativo
Esempi
Meccanismo d’azione
Limiti
Fibre/agenti formanti massa • Crusca • Psyllio • Metilcellulosa
Aumentano la massa fecale e ne riducono la consistenza richiamando acqua nel lume
Flatulenza e distensione addominale Fecalomi (raro) Non raccomandati nei pazienti fragili o immobilizzati
Lassativi osmotici Disaccaridi indigeribili e alcoli di zucchero
Lattulosio, Sorbitolo
Richiamano acqua nel lume mediante un gradiente osmotico
Gonfiore addominale e flatulenza
Macromolecole sintetiche
PEG
Richiamano acqua nel lume
Gonfiore addominale
Richiamano acqua nel lume Aumentano la secrezione di fluidi
Alterazioni elettrolitiche (cautela nei pazienti con funzione renale o cardiaca compromessa)
Sali di magnesio Sali Sodio-fosfato
Lassativi stimolanti Derivati del difenilmetano
Antrachinonici
Bisacodile, Picosolfato di sodio Senna, Aloe, Cascara
significativo miglioramento della funzione intestinale e della qualità di vita in circa il 70 per cento dei pazienti che assumevano la dose raccomandata di 2 mg/die (4850). Inoltre la prucalopride allevia un ampio spettro di sintomi correlati alla stipsi (48-51). Uno studio in aperto durato 2,6 anni ne ha dimostrato anche l’efficacia a lungo termine (52). Gli effetti indesiderati più comuni sono cefalea, nausea, diarrea e dolore addominale, ma si tratta di sintomi di modesta entità e di solito limitati al primo giorno di trattamento (53). Inoltre i dati confermano l’assoluta mancanza di cardiotossicità (54). Lubiprostone. Il lubiprostone attiva i canali del cloro (55), ma l’esatto meccanismo d’azione non è ancora chiaro. I canali
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Agiscono localmente stimolando la motilità colica e riducendo l’assorbimento di acqua a livello del grosso intestino
Dolore addominale
Dolore addominale
del cloro sono importanti nel trasporto dei fluidi e nel mantenimento di volume e pH cellulare, in particolare nelle cellule dell’epitelio intestinale (56). Ne sono stati identificati nove tipi, tra questi il ClC-2 è particolarmente interessante poiché la sua attivazione stimola la secrezione intestinale (57), con modificazione della consistenza fecale. È stato approvato dalla FDA nel 2006 per il trattamento della stipsi cronica idiopatica nell’adulto e nel 2008 per la terapia della sindrome dell’intestino irritabile con alvo stitico, ma in Europa non è disponibile (solo in Svizzera). Linaclotide. Agonista dei recettori della guanilato ciclasi-C, stimola la secrezione e il transito intestinale, ma non è ancora utilizzabile in Europa.
Antagonisti oppioidi. Agiscono antagonizzando i recettori µ periferici. Tre di essi sono in fase di studio per il trattamento della stipsi indotta da oppiacei (58,59) e dell’ileo post-chirurgico (60), ma risultati preliminari suggeriscono che non sono efficaci nella stipsi idiopatica (61).
CONCLUSIONI La stipsi è un disturbo molto comune nella popolazione generale ed è associata a una serie di sintomi che possono ridurre in maniera significativa la qualità di vita dei pazienti. Inoltre il trattamento è spesso empirico e insoddisfacente. In caso di fallimento delle strategie non farmacologiche (modificazione delle abitudini alimentari e dello stile di vita) e dei lassativi tradizionali, è possibile ottenere un adeguato beneficio sia sulle funzioni intestinali che sui sintomi che si associano alla stipsi cronica mediante l’impiego di agenti procinetici come la prucalopride, che aumenta la motilità colica legandosi selettivamente ai recettori 5-HT4.
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Stenosi aortica degenerativa Una revisione sulle prospettive della terapia ipolipemizzante La stenosi aortica è la più comune malattia delle valvole cardiache nei soggetti adulti dei paesi occidentali. L’attuale trattamento della stenosi aortica è la sostituzione chirurgica della valvola. La possibilità di un trattamento medico che possa rallentare la progressione di questa malattia ha suscitato molto interesse negli ultimi anni
L
a stenosi aortica è la terza patologia cardiaca più frequente dopo la malattia coronarica e l’ipertensione, con un’incidenza nella popolazione europea, di età superiore ai 75 anni, di circa il 5 per cento per la forma moderata, e del 3 per quella grave (1). È una malattia cronica progressiva, caratterizzata da una lunga fase asintomatica. Tuttavia la comparsa di sintomi modifica pesantemente la prognosi, che peggiora rendendo necessaria la sostituzione chirurgica della valvola anche in pazienti anziani (2). Questa strategia rappresenta l’unica possibilità terapeutica per la stenosi aortica, perché
Giuseppina Novo*, Sonia Dell’Oglio*, Fabrizia Centineo*, Dario Mancuso*, Fabiana Castellano*, Khalil Fattouch°, Salvatore Novo* *Cattedra e Divisione di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università di Palermo, Italia ° Cattedra e Divisione di Cardiochirurgia, Università di Palermo, Italia
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ancora non esiste una terapia medica alternativa. Numerosi dati scientifici hanno dimostrato che la stenosi aortica degenerativa e la malattia aterosclerotica sono simili sia per le caratteristiche istologiche (3) che per la presenza di fattori di rischio comuni (4) . Inoltre, queste due patologie spesso coesistono (5), tanto che la stenosi aortica degenerativa (DAS) può essere considerata, da un punto di vista eziologico, come un equivalente aterosclerotico. Su questa base è possibile ipotizzare che un trattamento con statine, farmaci efficaci nella malattia aterosclerotica, possa rallentare la progressione della DAS grazie al loro effetto sul colesterolo, sul processo infiammatorio e sul metabolismo osseo (6). La possibile esistenza di una terapia medica è un’ipotesi interessante e ha importanti implicazioni cliniche. Sono stati effettuati molti studi per dimostrare l’efficacia delle statine nel rallentare la progressione della malattia. Tuttavia, la DAS e la malattia aterosclerotica hanno anche caratteristiche che influenzano diversamente il loro sviluppo (7).
Stenosi aortica degenerativa e aterosclerosi Storicamente, la stenosi aortica calcifica è stata considerata secondaria a un prolungato meccanismo di “usura”. Tuttavia recenti evidenze suggeriscono che potrebbe essere il risultato di un processo infiammatorio attivo che coinvolge fattori biochimici, umorali e genetici. La valutazione microscopica di valvole stenotiche, sia con stenosi moderate che severe, dimostra che la lesione contiene fibre collagene disorganizzate, cellule infiammatorie, lipidi, proteine della matrice ossea extracellulare e minerali ossei. Le suddette caratteristiche istologiche sono simili a quelle che si vedono nella malattia aterosclerotica e sono fortemente indicative di un processo infiammatorio cronico (8). Il primo processo con cui ha inizio il danno può causare danni endoteliali a causa di sollecitazioni meccaniche. Infatti, la superficie delle cuspidi aortiche, specialmente di quelle non coronariche, corrisponde a un’area di maggiore stress elastico che viene coinvolta precocemente. Così come nelle lesioni aterosclerotiche le lipoproteine tra cui, il colesterolo LDL (C-LDL) e la lipoproteina A, si infiltrano e subiscono processi ossidativi. Queste lipoproteine ossidate sono altamente citotossiche e sono in grado di stimolare una risposta infiammatoria oltre che l’attività di mineralizzazione (8). Nelle lesioni iniziali e avanzate della degenerazione delle valvole troviamo anche macrofagi e linfociti T attivati. Una volta che le cellule infiammatorie penetrano nel sub-endotelio rilasciano i loro enzimi, come per esempio le metalloproteasi che degradano il collagene della matrice, l’elastina e i proteoglicani delle cuspidi
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Cardiologia valvolari aortiche (8). Anche la mineralizzazione è una caratteristica sia delle lesioni aterosclerotiche che delle lesioni valvolari aortiche, anche se in queste ultime, la mineralizzazione è più precoce ed estesa e studi istologici hanno mostrato la presenza di differenze significative tra i vari elementi cellulari e minerali dei due diversi tipi di lesioni (7). Tra i fattori di rischio della valvulopatia aortica degenerativa, abbiamo: l’ipercolesterolemia, le lipoproteine a bassa densità (LDL), la lipoproteina (a), l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, il sesso maschile, il fumo, un basso valore di indice di massa corporea, l’età, l’insufficienza renale, l’osteoporosi, il morbo di Paget e, più recentemente, l’omocisteina, la proteina C reattiva e la polmonite da Chlamydia. Tra tutti gli studi eseguiti per verificare le somiglianze tra i fattori di rischio dell’aterosclerosi e quelli della sclerosi e/o stenosi valvolare aortica, uno dei più rappresentativi è il Cardiovascular Health Study (9), che ha analizzato in modo prospettico i dati clinici ed ecocardiografici di 5.201 soggetti (età più rappresentata >65 anni). I dati ecografici di pazienti con sclerosi aortica (n =1.609) o stenosi (n =92) sono stati confrontati con quelli di un gruppo controllo (n =3.500). L’analisi multivariata ha mostrato che la malattia valvolare aortica è associata a età avanzata, sesso maschile, abitudine al fumo, ipertensione arteriosa, bassa statura, elevati livelli di lipoproteina (a) e di C-LDL. Questi fattori rimangono significativi anche dopo aggiustamento per malattia coronarica. Diversi studi retrospettivi (10-11-12) hanno documentato un aumento del tasso di progressione della stenosi aortica in presenza di fumo, obesità, disfunzione renale, ipocalcemia, ipercolesterolemia; in particolare, una colesterolemia >200 mg/dl avrebbe comportato una progressione doppia rispetto ai soggetti con colesterolemia normale, anche se non ne ha rappresentato un predittore indipendente. L’individuazione di una particolare forma di stenosi aortica severa in bambini con ipercolesterolemia familiare omozigote suggerisce che le lipoproteine non sono solo un fattore di rischio per la malattia coronarica, ma anche per la valvulopatia aortica (13-14).
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Inoltre, diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che sclerosi e stenosi della valvola aortica sono associate a eventi CV ischemici o malattia aterosclerotica in altri distretti. Il Cardiovascular Health Study ha dimostrato che la sclerosi aortica aumenta il rischio di eventi CV del 50 per cento circa, il rischio di morte per tutte le cause del 21,9 per cento e quello di morte CV del 10,1 per cento; il rischio resta elevato (rischio relativo 1,52) anche con aggiustamento per le variabili cliniche (età, lipidi plasmatici, fumo) associate alla sclerosi aortica. Nello studio della County di Olmsted (15), 381 soggetti sono stati studiati con ecocardiografia transtoracica e transesofagea: l’aterosclerosi aortica (in particolare dell’aorta ascendente) è stata associata nella popolazione generale con le anomalie della valvola omonima, indipendentemente da età, sesso e altri fattori di rischio. Comunque ci sono anche alcune differenze tra l’aterosclerosi e la DAS: la malattia coronarica e la stenosi aortica valvolare sono spesso associate, ma non sempre coesistono, infatti, meno della metà dei pazienti sottoposti a sostituzione valvolare aortica ha malattia coronarica e solo una piccola percentuale ha bisogno contemporaneamente di un bypass coronarico. Inoltre, la loro storia naturale è diversa: la stenosi aortica è una malattia lentamente progressiva, l’aterosclerosi vascolare è caratterizzata da un decorso cronico episodicamente aggravato da trombosi acuta secondaria alla rottura di placca; la calcificazione compare nei primi mesi nella stenosi aortica valvolare, più tardi nell’evoluzione della placca aterosclerotica. L’ipotesi più plausibile è che ci sia un processo patogenetico comune (probabilmente l’infiammazione e la deposizione del colesterolo), ma che nella DAS l’evoluzione sia regolata da diversi fattori, che includono prevalentemente l’infiammazione e la predisposizione genetica.
Terapia farmacologica ipolipemizzante w Studi retrospettivi Diversi studi clinici retrospettivi hanno confermato che le statine rallentano la progressione emodinamica della valvu-
lopatia aortica umana. Uno studio ecocardiografico condotto su 131 anziani con ipercolesterolemia moderata e stenosi aortica (62 pz. trattati con statine) in un follow-up di 2,8 anni, ha suggerito un’associazione positiva tra l’uso di statine e la riduzione della progressione della valvulopatia aortica. Il Doppler ha mostrato un più alto gradiente valvolare nei 69 pazienti non trattati rispetto a quelli trattati (6,3 vs. 3,4 mmHg, p <0,0001), ma il beneficio del trattamento è risultato indipendente rispetto ai livelli plasmatici di C-LDL raggiunti (16). In un altro studio retrospettivo, Pohle et al. hanno mostrato che il punteggio di calcio sulle valvole aortiche di 104 pazienti asintomatici, valutato mediante TC a fascio di elettroni, in un follow-up di 10-36 mesi, era legato ai livelli di colesterolo, ma non ad altri fattori di rischio come ipertensione, diabete, fumo ed età. In effetti, la progressione annuale di calcificazione in pazienti con livelli plasmatici di C-LDL <130 mg/dl è risultato 9,1 ± 22 per cento, mentre era 43,2 ± 44 per cento nei pazienti con valori >130 mg/dl (p <0,001) (17). L’uso delle statine non ha influenzato la regressione della calcificazione, ma invece ha ridotto i livelli di C-LDL sotto 130 mg/ dl. Più significativamente, è stata osservata una riduzione della progressione annuale di calcificazione (10,1 per cento nei soggetti con livelli di C-LDL >130 mg/dl vs. quelli con C-LDL <130 mg/dl, p =0,02) (17). Questi risultati sono stati confermati da Shavelle et al. studiando a posteriori in vivo la progressione della valvola aortica calcifica mediante TC nei pazienti trattati con statine. Dopo un lungo follow-up di 2,5 anni nei pazienti trattati sono stati trovati una più bassa probabilità (62 per cento, p =0,006) di accumulo di calcio e di progressione della valvulopatia aortica (11,1 vs. 32 per cento/anno, p <0,006) (18). Bellamy et al. con uno studio prospettico non randomizzato hanno confrontato 38 pazienti con stenosi aortica, trattati con statine (con diverse formulazioni e dosaggi differenti di farmaco), e 118 pazienti non trattati, per valutare il rischio di progressione della valvulopatia aortica, dopo un follow-up di 3,7 anni. La progressione stu-
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Cardiologia diata con ecocardiografia nei pazienti non trattati, è risultata indipendente dal livello plasmatico di colesterolo totale e delle sue frazioni, mentre è stata significativamente inferiore nei pazienti trattati con statine (p = 0,04) anche dopo aggiustamento per età, sesso, valore di colesterolo e valore valvolare iniziale (19). Questi risultati sono stati confermati da Rosenhek et al. su 211 pazienti con diversi gradi di stenosi aortica. Nei pazienti trattati con statine (di tipo diverso) è stata osservata una minore progressione della valvulopatia, con una riduzione del 50 per cento di progressione annuale (0,10 vs. 0,39, p = 0,0001); la riduzione è stata efficace nella stenosi lieve, moderata e severa. D’altra parte gli ACE-inibitori, associati alle statine non hanno influenzato la progressione della valvulopatia (p =0,81) (20). Il meccanismo coinvolto nella stabilizzazione della sclerosi e/o stenosi aortica non è chiaro, e la riduzione dei livelli plasmatici di C-LDL è stata osservata solo in due studi. Tuttavia, secondo le prove proposte da Pohle et al. è necessario ridurre il valore di LDL <130 mg/dl per conseguire una significativa riduzione dell’evoluzione della valvulopatia. Una revisione degli effetti delle statine sulla struttura e la funzione vascolare ha dimostrato che questi farmaci possono rallentare la progressione e far regredire il processo aterosclerotico, ma non fanno ottenere una corrispondente riduzione di eventi CV (21). Tuttavia, non è possibile escludere che l’azione utile delle statine nella valvulopatia aortica sia indipendente dall’azione ipolipemizzante (effetti pleiotropici, come l’attività antinfiammatoria, la riduzione dei livelli plasmatici della proteina C-reattiva e l’inibizione dell’espressione delle molecole di superficie dei leucociti e il ritardo di calcificazione extraossea). Antonini-Canterin et al. hanno pubblicato uno studio su 1.046 pazienti asintomatici con sclerosi della valvola aortica (anormale ispessimento irregolare della valvola aortica con una velocità di picco aortico [Vmax] ≥1,5 e <2 m/s), in particolare sclerosi lieve (Vmax ≥2 e < 3 m/s) e moderata (Vmax ≥3 e <4 m/s); 309 erano trattati con statine. La progressione
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della sclerosi aortica è stata più lenta nei pazienti trattati rispetto ai non trattati (0,04 +/- 0,09 vs. 0,07 +/- 0,10 m/s/ anno, p =0,01) nella sclerosi lieve (0,09 +/- 0,15 vs. 0,15 +/- 0,15 m/s/anno, p =0,001), ma non in quella moderata (0,21 +/- 0,18 vs. 0,22 +/- 0,15 m/s/ anno, p =0,70). Nell’analisi multivariata solo la terapia con statine, Vmax iniziale, e la dialisi sono risultati indipendentemente correlati alla progressione della malattia della valvola aortica. Sulla base di questi risultati, gli Autori suggeriscono di trattare i pazienti con statine nelle prime fasi di questa malattia, perché la lesione della valvola è modulabile e modificabile solo nei primi stadi di valvulopatia (22).
w Studi prospettici Studi retrospettivi suggeriscono l’utilità delle statine per rallentare la progressione della stenosi aortica, ma in realtà hanno generato ipotesi che devono essere verificate da studi prospettici. Nel SALTIRE, 155 pazienti con stenosi aortica calcifica (area valvolare media 1,03 cm2) sono stati trattati con atorvastatina (ATV) 80 mg (77 pazienti) o placebo (78 pazienti), per un follow-up medio di 25 mesi (23). I pazienti che, secondo le Linee guida internazionali, avrebbero un’indicazione al trattamento con statine per ipercolesterolemia sono stati esclusi dallo studio. I pazienti inclusi invece avevano un valore medio di C-LDL di 134 mg/dl, solo pochi erano diabetici e solo una minoranza di loro aveva una malattia coronarica o altra malattia vascolare. L’entità della stenosi aortica stimata dalla velocità del gradiente transvalvolare è stata valutata mediante ecocardiografia Doppler, e il grado di calcificazione della valvola è stato misurato mediante TC spirale. L’area valvolare media all’inizio dello studio era di 1 cm², e il grado di calcificazione stimato con la TC è stato elevato. Alla fine dello studio per quanto riguarda il grado di progressione della malattia non sono state trovate differenze statisticamente significative tra il gruppo di pazienti trattati e quelli non trattati, nonostante si sia ottenuta una riduzione del 50 per cento dei valori di C-LDL (23). La riduzione media dell’area nei due gruppi è
stata 0,008 cm2/anno, e questo valore è simile a quello osservato negli studi sulla storia naturale della stenosi aortica, in cui è stato registrato un rischio medio di progressione di 0,1 cm²/anno. In un altro studio, l’effetto del trattamento è stato analizzato in sottogruppi di pazienti con stenosi aortica sulla base del picco di velocità aortica di 4 m/sec e anche in base alla durata del follow-up. Anche se i pazienti con stenosi severa avevano una progressione di malattia significativamente più veloce di quelli con stenosi aortica meno grave, le statine non hanno influenzato il rischio di progressione nei singoli gruppi. Gli endpoint secondari come morte, la necessità di sostituzione della valvola oppure ospedalizzazione sono risultati più frequenti nel gruppo di controllo, ma non statisticamente significativi. Successivamente si è concluso che la terapia ipolipemizzante intensiva non ferma l’aumento del gradiente transvalvolare aortico, nè arresta la progressione della calcificazione valvolare aortica. Gli Autori, nel tentativo di spiegare questo “fallimento” hanno suggerito che anche se l’ipercolesterolemia è un fattore di rischio per la stenosi aortica, la sua progressione può dipendere da altri fattori, come le dinamiche sollecitazioni meccaniche che interessano i lembi della valvola (23). In un secondo studio (RAAVE), 121 pazienti (età media 74 anni) con DAS asintomatica moderata o grave sono stati divisi in 2 gruppi: 61 con alti livelli di CLDL sono stati trattati con rosuvastatina (ROSUVA) 20 mg/die e 60 pazienti con normali livelli di C-LDL non sono stati trattati. L’area valvolare aortica media nei due gruppi era 1,23 cm². La riduzione annuale dell’area valvolare nei pazienti trattati è stata 0,05 cm²/anno contro 0,1 cm² nei non trattati. Lo studio ha mostrato una riduzione significativa del tasso di progressione della stenosi aortica nel gruppo di pazienti trattati con ROSUVA (24). Questi dati sono stati anche associati con un miglioramento di tutti i marcatori infiammatori analizzati (IL-6, proteina C reattiva, ligando CD40 solubile) e con una reale riduzione dei livelli plasmatici di lipidi (24). Le differenze tra i due studi possono dipendere dalle diverse popola-
zioni esaminate. Rispetto a quelli del RAAVE, i pazienti del SALTIRE avevano un grado più avanzato di stenosi aortica, non solo in termini di area valvolare aortica, ma anche per quanto riguarda il grado di calcificazione della valvola e per questo motivo probabilmente erano meno suscettibili all’effetto del trattamento con statine. Inoltre nel SALTIRE, i pazienti con alti livelli di colesterolo sono stati esclusi dallo studio, e secondo le linee guida avrebbero dovuto ricevere un trattamento ipolipemizzante; d’altra parte nel RAAVE, i pazienti sono stati trattati perché i loro livelli di C-LDL erano superiori a 130 mg/dl. È quindi possibile che le statine siano efficaci soprattutto nei pazienti con ipercolesterolemia, mentre nei restanti la progressione della malattia valvolare aortica è modulata da fattori che non interferiscono con il metabolismo dei lipidi. Una limitazione è la piccola dimensione del campione e per quanto riguarda il RAAVE, il disegno dello studio (non randomizzato in doppio cieco). Recentemente il SEAS study, un trial randomizzato in doppio cieco, ha testato l’efficacia di un trattamento intensivo con ezetimibe (EZE) 10 mg+simvastatina (SIMVA) 40 mg rispetto al placebo in 1.873 pazienti con stenosi aortica lievemoderata seguiti per un periodo medio di 52,2 mesi. Sono stati esclusi dallo studio per consentire il trattamento con placebo (25) i pazienti con precedente diagnosi di CAD, malattia arteriosa periferica, malattie cerebrovascolari, diabete mellito o altre condizioni che avessero richiesto un trattamento con statine. L’area valvolare media è stata di 1,29±0,48 cm2 nel gruppo trattato e di 1,27±0,46 cm2 nel gruppo dei non trattati, mentre il picco della velocità transaortica è stato rispettivamente 3,09±0,55 m/s e 3,10±0,54 m/s. L’endpoint primario composito comprendeva i principali eventi ischemici CV correlati alla malattia della valvola aortica. Gli endpoint secondari erano eventi CV legati alla valvola o eventi ischemici. Il trattamento non ha offerto una significativa variazione annuale della velocità transaortica (0,15 ±0,1 m/s vs. 0,16 ±0,01 m/s) e dell’area valvolare (0,03 ±
0,01 cm2 in entrambi i gruppi), non ha ridotto l’endpoint composito primario, e ha ridotto significativamente gli eventi CV ischemici, ma non quelli relativi alla valvulopatia aortica (25). In questo studio sono state utilizzate dosi convenzionali di statine che, in accordo con i trial sulla progressione della malattia aterosclerotica, non sono in grado di ridurre la progressione dell’aterosclerosi. In realtà il trial ASAP aveva già dimostrato che una terapia ipolipemizzante aggressiva (ATV 80 mg) può indurre una regressione dell’aterosclerosi, mentre la terapia convenzionale (SIMVA 40 mg) non può (26). Inoltre lo studio ENHANCE ha mostrato che l’aggiunta di EZE (10 mg) a SIMVA (80 mg) in pazienti con ipercolesterolemia familiare eterozigote non ha influenzato la variazione media dello spessore mediointimale carotideo, anche se ha permesso di ottenere una significativa riduzione dei livelli di C-LDL (27). È stato ipotizzato che EZE produce cambiamenti quantitativi piuttosto che qualitativi delle LDL, con piccoli effetti netti sulla distribuzione delle sottoclassi LDL, e quindi riduce i livelli di LDL, senza influenzare il tipo di dislipidemia più o meno aterogena. E questo, potrebbe spiegare ulteriormente i risultati negativi del SEAS. In uno studio osservazionale prospettico su 50 pazienti, sono stati messi a confronto 26 soggetti trattati con statine e 24 non trattati. In un follow-up di 25 mesi il gruppo dei trattati non ha mostrato una differenza significativa nella progressione della stenosi aortica rispetto ai non trattati. Tuttavia, un’analisi dei dati ha mostrato che nei pazienti con coesistente cardiopatia ischemica (CAD), noti per avere una progressione più aggressiva della valvulopatia, il trattamento con statine ha reso la progressione comparabile a quella dei pazienti senza CAD (dati non pubblicati). Questa scoperta e i dati favorevoli del RAAVE che, rispetto ad altri studi prospettici, aveva incluso nel gruppo trattato un numero maggiore di pazienti con diabete, ipertensione e alti livelli plasmatici di C-LDL, ci portano a pensare che coloro i quali possano trarre beneficio dalla terapia con statine sono solo quei pazienti che hanno di per sé, indipendentemente
dalla presenza di DAS, l’indicazione alla terapia con statine. Recentemente una risposta conclusiva è stata ottenuta dallo studio ASTRONOMER. Il trial randomizzato in doppio cieco e controllato con placebo ha valutato l’efficacia della ROSUVA 40 mg/die vs. placebo, in pazienti asintomatici con lieve o moderata AS e nessuna indicazione clinica per la terapia ipolipemizzante: 134 pazienti sono stati trattati con ROSUVA 40 mg/die e 135 pazienti con placebo. Nonostante una riduzione significativa dei livelli di lipidi e di CPR, il trattamento non era associato a una riduzione della progressione annuale del gradiente della DAS valutato all’ecocardiogramma, in un follow-up medio di 3,5 anni (28). È noto che l’insufficienza renale è un fattore di rischio per la progressione della stenosi aortica, e che la terapia con statine non può proteggere dall’aterosclerosi i pazienti con malattia renale avanzata, per questo motivo nei principali trial prospettici, i pazienti con significativa disfunzione renale (livelli di creatinina sierica sopra 200 μmol/l) sono stati esclusi (29).
Conclusioni La possibilità di un trattamento medico che possa fermare o almeno rallentare la progressione della stenosi aortica ha suscitato grande interesse nella comunità scientifica, poichè la patologia sta diventando sempre più frequente oltre che gravata da un’elevata mortalità nel momento in cui si manifestano i sintomi. Sebbene la malattia aterosclerotica coronarica e la stenosi della valvola aortica siano simili, presentano comunque delle differenze. L’ipotesi più plausibile è che ci sia un substrato patogenetico comune, ma che l’andamento sia condizionato da diversi fattori, che potrebbero spiegare perché gli effetti favorevoli delle statine sulla progressione dell’aterosclerosi non si siano avuti anche sulla DAS. Ci sono alcuni studi in corso volti a spiegare l’efficacia della terapia con statine in termini di riduzione della progressione della stenosi aortica. L’AORTICA è uno studio prospettico in doppio cieco, ran-
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Cardiologia domizzato, controllato con placebo, che ha confrontato l’efficacia di fluvastatina 80 mg/die vs. placebo nel ridurre il gradiente transvalvolare aortico, la proteina C-reattiva e i livelli sierici di altri biomarcatori dell’infiammazione (30). Lo STAAT è uno studio prospettico, in doppio cieco, randomizzato, controllato con placebo che ha messo a confronto l’effetto della fluvastatina 40 mg/die da aumentare a 80 mg/die/2 anni rispetto al placebo nel ridurre il gradiente valvolare aortico e il tasso di eventi CV (31). Lo STOP-AS sta testando l’ATV 40mg/ die/2 anni rispetto al placebo per ridurre la velocità aortica e il gradiente transaortico (32). Tutti questi studi valutano pazienti con DAS lieve o moderata. L’Autore dello studio ASTRONOMER ritiene che, dato il risultato concorde negativo di tre studi prospettici (SALTIRE, SEAS e ASTRONOMER) la terapia ipolipemizzante non influenzi la progressione della DAS: del resto anche altri studi con disegno simile hanno fallito nel dimostrare l’efficacia di questa terapia nel rallentarne la progressione. Quindi, il trattamento con statine non è indicato nei pazienti con stenosi valvolare aortica e senza indicazioni convenzionali per il trattamento ipolipemizzante. Studi futuri circa la terapia medica per arrestare la progressione della stenosi aortica degenerativa dovrebbero prefiggersi lo scopo di testare l’efficacia di un trattamento specifico, capace di interferire con il processo di calcificazione.
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SEGNALAZIONI dalle aziende
Sclerosi multipla L’importanza del trattamento precoce Rocco Totaro
Centro Sclerosi Multipla, Clinica neurologica, Università degli Studi di L’Aquila, L’Aquila
La ricerca nell’ambito della sclerosi multipla (SM), una delle patologie neurologiche con maggiore carico di disabilità, ha compiuto importanti progressi nel corso di questi anni. Sembra ormai ben delineato il fatto che tanto più precocemente si arriva alla diagnosi, tanto più è possibile rallentare l’evoluzione della patologia. E questo perché, una diagnosi precoce consente di mettere in atto una strategia terapeutica tempestiva, in grado di rallentare lo sviluppo e la comparsa di nuove lesioni, sintomi e disabilità. La terapia dovrebbe essere iniziata dunque, fin dai primissimi esordi, la cosiddetta fase CIS (Sindrome clinicamente isolata), senza aspettare che la patologia evolva in SM clinicamente definita. Abbiamo rivolto alcune domande al dott. Rocco Totaro, del Centro Sclerosi Multipla dell’Università degli Studi di L’Aquila per capire meglio le implicazioni nella pratica clinica quotidiana della diagnosi precoce e del conseguente trattamento Medico e Paziente Cosa ha cambiato nella sua pratica clinica l’introduzione dei nuovi criteri per la diagnosi della SM? Rocco Totaro La diagnosi di sclerosi multipla non è, generalmente, un evento immediato. Non dipende dal riscontro di un singolo sintomo, segno o reperto strumentale, ma segue un percorso complesso, emergendo da un insieme di elementi clinici e strumentali i quali devono fornire dati compatibili con la presenza di SM ed escludere ogni altra possibile causa di malattia. Negli ultimi vent’anni, nuovi strumenti diagnostici, in particolare la
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risonanza magnetica (RM), hanno reso più facile e più veloce arrivare a una diagnosi di SM in modo che l’intervallo di tempo tra l’esordio dei primi sintomi e la diagnosi si è ridotto a pochi mesi. I nuovi criteri diagnostici, formulati nel 2010, hanno ulteriormente enfatizzato il ruolo della RM in modo che spesso è possibile fare diagnosi di SM anche al primo episodio. La necessità di porre diagnosi velocemente, ma in maniera accurata, è indispensabile perché oggi disponiamo di terapie che rallentano il decorso della malattia tanto più quanto precocemente iniziate. MeP Quale crede possa essere il ruolo del neurologo dei prossimi anni nella gestione di pazienti SM, alla luce dei nuovi criteri diagnostici? Totaro Non penso che i nuovi criteri diagnostici possano avere una ripercussione sul ruolo del neurologo nella gestione sia diagnostica che terapeutica della malattia. Il neurologo rimane comunque la figura di riferimento per il malato di SM. Le tecniche di RM, potenziali evocati ed esame del liquor da soli non bastano per fare diagnosi di SM. È necessario che qualcuno, e quindi il neurologo, faccia un’integrazione di tutti i dati e ponga la diagnosi di SM. Inoltre, il neurologo rimane la figura principale di riferimento all’interno di un team multidisciplinare che prende in carico il malato di SM e coordini gli interventi delle altre figure. MeP Esiste, secondo lei, una “finestra terapeutica” nel trattamento di pazienti affetti da SM? Totaro Fino a qualche anno fa c’è stata la tendenza a trattare i malati di SM quando presentavano attività clinica di malattia in maniera importante. Negli ultimi anni, i dati degli studi clinici hanno dimostrato che i farmaci utilizzati hanno un maggiore beneficio quanto più precocemente impiegati. Da qui è nato anche per la SM il concetto di “finestra terapeutica”. Un periodo di tempo in cui i trattamenti possono essere più efficaci nel prevenire l’attività infiammatoria e di conseguenza modificare la storia naturale della malattia. Poiché tale periodo può essere limitato è importante sfruttarlo al meglio. Le forme di SM recidivanti-remittenti o le forme secondarie pro-
Figura 1. Estensione dello studio BENEFIT a 8 anni: tempo alla conversione in SM clinicamente definita Proporzione di pazienti con CDMS (%)
gressive hanno un inizio di malattia con prevalente attività infiammatoria. Poiché i farmaci che noi utilizziamo attualmente esplicano la loro azione principalmente prevenendo l’infiammazione è evidente che è opportuno utilizzare tali farmaci proprio nella fase prevalentemente infiammatoria, quindi i primi anni di malattia piuttosto che nelle fasi tardive quando il processo è degenerativo e non più di tipo infiammatorio. Quindi, i primi anni di malattia possono essere considerati come “finestra terapeutica” più ottimale, quando c’è più attività infiammatoria e soprattutto quando la disabilità del paziente è nulla o molto limitata.
numero di pazienti a rischio*
Trattamento precoce Trattamento tardivo
La CDMS viene ritardata di 3,7 anni oppure 1.345 giorni al 50° percentile
anno di studio
MeP Quali dei risultati dello studio BENEFIT nella sua estensione a 8 anni hanno destato il suo maggiore interesse? Note: il trattamento precoce con Betaferon al primo episodio clinico riduce il rischio di conversione in SM clinicamente definita dell’ordine del 32 per cento ( HR =0,678, CI 95 per cento Totaro L’estensione a 8 anni dello studio 0,525-0,875; p =0,0029); *rischio all’analisi di regressione, aggiustato per età, sesso, uso di BENEFIT ha dato un notevole contributo steroidi, lesioni in T2, e lesioni captanti gadolinio; CDMS, SM clinicamente definita alla verifica dell’impatto della terapia preFonte: modificata da Edan et al. ECTRIMS 2011, P925 coce nella SM nel lungo termine. Ci sono molti aspetti che sono da considerare importanti. Prima di tutto, quello che anche a distanza di anche un modesto ritardo comporterà l’impossibilità a 8 anni i pazienti trattati precocemente hanno un rischio recuperare ciò che si perde. Lo studio BENEFIT, come più basso, rispetto ai pazienti trattati tardivamente, di svigli altri studi effettuati nei pazienti CIS, hanno enfatizzato luppare una forma clinicamente definita e che tale rischio il concetto che occorre curare la malattia il prima possiè del 32 per cento più basso (Figura 1). bile, spesso quando è ancora nella fase CIS, proprio per La riduzione del rischio si traduce nel fatto che la conimpedire che si manifesti clinicamente. versione a sindrome clinicamente definita è ritardata di 3,7 anni. Inoltre, il tasso annualizzato di ricadute si manMeP Considerando i nuovi farmaci che si stanno affacciantiene basso in tutte e due i gruppi, ma significativamente do nel trattamento della SM, quanto crede sia importante, più basso nel gruppo di pazienti trattati precocemente. soprattutto in fase precoce di malattia e nei pazienti CIS, Ancora, il numero medio di lesioni black hole permagarantire un profilo di sicurezza ottimale? nenti è significativamente più basso nei pazienti trattati Totaro In un qualsiasi atto medico, in particolare nella preprecocemente. scrizione di farmaci, specialmente nell’impiego di farmaci Questi dati evidenziano un punto importante dell’utilità in trattamento cronico, l’obiettivo da perseguire è sì l’efdel trattamento precoce: bastano solamente due anni di ficacia, ma non ci si dovrebbe dimenticare che “primum ritardo nell’inizio del trattamento e si determina un gap non nocere”. Quindi, la corretta valutazione del rapporto con i pazienti trattati precocemente difficile da recuperare. rischio/beneficio è importante nei pazienti con SM che iniziano il trattamento nella fase CIS o precoce di SM. MeP Come crede che i risultati dello studio BENEFIT e In queste fasi tale rapporto può essere a favore di farmaci della sua estensione a 8 anni possano cambiare la sua potenzialmente meno efficaci, ma certamente più sicuri, quotidiana pratica clinica? lasciando l’impiego dei farmaci più efficaci e con un Totaro Più che un reale cambiamento nella pratica clinica, profilo di sicurezza meno favorevole ai casi con forme danno un ulteriore importante contributo alla necessità di particolarmente aggressive o in caso di insuccesso dei non ritardare il trattamento dei pazienti con SM perché farmaci di prima linea.
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80° Congresso European Atherosclerosis Society – 25-28 maggio – Milano
Riformulare, non abbandonare, l’“ipotesi HDL” per la prevenzione cardiovascolare Non è ancora giunto il momento di abbandonare la cosiddetta “ipotesi HDL”, centrata sulla capacità di questa frazione lipidica di svolgere un ruolo nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Si tratta di uno dei “topic” più attuali affrontati nel corso del Congresso della Società europea di aterosclerosi (EAS), che quest’anno si è svolto a Milano
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e patologie cardiovascolari (CV) rappresentano la principale voce di “carico di malattia” in Europa e sono responsabili di circa la metà di tutti i decessi ogni anno. Nel corso di una sessione plenaria del Congresso si è affrontato questo problema. Un aspetto enfatizzato riguarda la contrapposizione tra i progressi nella gestione clinica compiuti in Europa (occidentale), e la pandemia di obesità e patologie cardio-metaboliche che ne inficiano le potenzialità. Il prof. Børge Nordestgaard, dell’Università di Copenhagen (Danimarca), ha presentato dati altamente esemplificativi, ricavati da studi di popolazione e caso-controllo su oltre 75mila individui: per ogni incremento dell’IMC di 4 kg/m2 si verifica un aumento del 26 per cento nel rischio di ischemia cardiaca, che arriva al 52 per cento se si includono gli effetti di specifici geni associati all’obesità. Analogo trend per la glicemia post-prandiale: il rischio cardiaco aumenta del 24 per cento per ogni suo aumento di 1 mmol/l. Il prof. Giuseppe Mancia, dell’Ospedale S. Gerardo di Monza, ha sottolineato la necessità di implementare l’applicazione clinica delle Linee guida, con particolare attenzione ai soggetti a medio e alto rischio. Egli ha poi illustrato il critico coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche: l’analisi sulle prescrizioni
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in Lombardia ha permesso di identificare la mancata aderenza come uno dei principali ostacoli al raggiungimento dei risultati; per esempio, il 60 per cento dei soggetti trattati con statine mostra un’aderenza da bassa a molto bassa e questi dati sono coerenti con quelli di altre realtà mondiali. Dal momento che ciò comporta un aumento del tasso di eventi clinici e di costi correlati, diventa importante individuare il perché della bassa aderenza. Proprio per arrivare ai risultati, infine, sta assumendo un sempre più definito ruolo “l’approccio collaborativo”, che coinvolga cioè cittadini, clinici e decisori, uniti nell’intento di ridurre il carico delle patologie CV. La dott. Aila Rissanen, dell’Università di Helsinki (Finlandia), ha illustrato il “North Karelia Project”, che ha puntato sull’adozione da parte della popolazione di stili di vita orientati alla prevenzione e ha implicato la collaborazione tra cittadini, sistema sanitario e decisori politici, ottenendo una drastica e sostenuta riduzione nel tasso di eventi CV. Quale significato per il C-HDL? Una sessione è stata dedicata al ruolo del C-HDL, attualmente sotto i riflettori a causa di trial che ne stanno mettendo in discussione il significato al quale anche la stampa “laica” ha dato ampio risalto.
Secondo alcuni esperti, tra i quali Philip Barter, dell’Heart Research Insitute di Sydney (Australia), uno dei massimi a livello mondiale, la teoria di un ruolo terapeutico dell’innalzamento dei livelli di C-HDL è ancora valida e non dev’essere abbandonata, ma, piuttosto, riformulata. A favore vi sono, per esempio, le numerose e forti evidenze epidemiologiche, la scoperta dell’apoA1-Milano, una variante dell’HDL complex associata alla diminuzione del rischio di patologie CV e alla regressione dell’aterosclerosi e, ancora, la dimostrata efficacia dell’HDL nel promuovere la fuoriuscita di colesterolo dalle cellule. Uno dei punti chiave della questione è l’esistenza di diversi sottotipi di HDL, che non si è ancora riusciti a discriminare nei trial; questi ultimi hanno invece puntato sempre su un suo incremento generico. Altro aspetto fondamentale riguarda le molteplici azioni che l’HDL è in grado di svolgere: alla capacità di “svuotare” i macrofagi, questa frazione lipidica somma quella di inibire l’ossidazione dell’LDL e promuovere i processi di rigenerazione endoteliale, oltre ad avere proprietà antidiabetiche, antinfiammatorie e antitrombotiche. Non si è ancora stabilito a quali di queste azioni siano dovuti gli effetti clinici positivi, così non si sa quali di queste valutare anche negli studi. Si
CONGRESSI può anche ipotizzare che ciascuna di esse sia importante in momenti diversi. Tra i trial che hanno posto dubbi sul ruolo dell’HDL compaiono quelli sui CETPinibitori, una classe di molecole che agisce inibendo la proteina di trasferimento degli esteri del colesterolo, mediatrice del trasferimento del colesterolo e dei trigliceridi tra le particelle di lipoproteina, con conseguente aumento dei livelli di HDL. Il fallimento dell’importante trial con torcetrapib è plausibilmente attribuibile alla tossicità “out of target” della molecola e quest’ambito di ricerca non deve essere abbandonato. Nello studio dal-OUTCOMES, invece, condotto con dalcetrapib, si è ottenuto un incremento dell’HDL (del 30 per cento), ma non un decremento dell’LDL. È in corso un trial con il CETP-inibitore anacetrapib (studio REVEAL), che incrementa i livelli di HDL (fino al 140 per cento) e diminuisce l’LDL dal 35 al 45 per cento e sta per iniziarne un altro con evacetrapib, molecola dal profilo similare.
Un altro grande trial è in corso, inoltre, per risolvere le domande sulla niacina, rimaste senza risposta nel trial AIMHIGH. Rimane la certezza che, tra le tante ipotesi sul tavolo, i nuovi studi offriranno elementi per comporre meglio il quadro, ma non daranno risposte definitive, perché tutte le molecole in studio hanno effetti sulle lipoproteine aterogene, e non sul solo innalzamento dell’HDL. Potrebbero offrire maggiori risposte sull’“ipotesi HDL”, com’è stato esposto dal dottor Kausik Ray della St. George’s University di Londra, approcci già in studio, tra i quali la “delipidazione” dell’HDL, attraverso un trattamento su grandi quantità di sangue prelevati e poi reinfusi, o l’infusione di un’apoA1 ricombinante in grado di originare nell’organismo HDL. Infusione di HDL: potenzialità nella SCA Un accenno, infine, ai dati positivi presentati su un agente orale in fase II di
sperimentazione, il CSL-112, in studio per il trattamento dei pazienti affetti da sindrome coronarica acuta (SCA). Il CSL-112 è costituito da apolipoproteina A1 (apoA-1) umana ricostituita e purificata per l’infusione e.v., in grado di formare HDL. Questa strada si propone come alternativa a quella attualmente in uso che prevede l’utilizzo di statine, ma che, per i tempi d’azione, è giudicata inadatta a fronteggiare la criticità soprattutto dei primi 60 giorni dopo l’evento acuto, quando il rischio di recidiva è maggiore del 5 per cento. Il suo razionale, oltre alle evidenze sperimentali sull’efficacia dell’HDL nel rimuovere il colesterolo dalle cellule, sta nell’osservazione che un innalzamento dell’apoA-1, senza abbassamento dei livelli di apoB, determina una regressione delle placche entro una settimana. In modelli animali l’infusione di CSL112 ha causato un immediato aumento nella capacità di efflusso del colesterolo dalle cellule, guidato da un sostenuto aumento dell’apoA-1.
V Congresso nazionale ANIRCEF – 31 maggio - 2 giugno – Napoli
LE CEFALEE: il dolore come necessità
A
cavallo fra maggio e giugno si è svolta presso l’Hotel Royal Continental di Napoli la quinta edizione del congresso nazionale dell’Anircef, l’Associazione dei neurologi italiani che si occupano di cefalee all’interno della Sin, la Società italiana di neurologia. Il titolo scelto per il convegno riprende l’ipotesi fiosiopatogenetica secondo cui l’emicrania sarebbe una risposta evolutiva dell’organismo per sfuggire a situazioni nocicettive esterne o interne, così come la terribile cefalea a grappolo, la forma tristemente nota come mal di testa da suicidio, sarebbe la risposta a un dolore ineluttabile con comportamenti di tipo attacco/fuga sviluppatisi per una migliore sopravvivenza. Ma perché dopo tanti secoli non abbiamo ancora superato questa necessità evolutiva? “L’analisi dell’emicrania, della cefalea a grappolo e delle cefalee primarie, cioè delle forme non conseguenti ad altre patologie –ha dichiarato il presidente del congresso e presidente onorario Anircef, il prof. Vincenzo Bonavita, dell’Università di Napoli– ci fa reinterpretare l’emicrania come un’alterazione ricorrente dell’omeostasi psicofisica con il conseguente impegno dell’organismo per ristabilirla. Questa interpretazione sovverte i filoni di ricerca sulle cause, in particolare genetiche, del dolore emicranico definito prima-
rio, cioè senza determinanti note”. Ma secondo Roberto De Simone, stretto collaboratore di Bonavita e dirigente del Centro Cefalee del Nuovo Policlinico presso l’Università Federico II di Napoli, si stanno scoprendo anche cefalee primarie che invece primarie non sono: in un’ampia quota (oltre il 50 per cento) di emicranici cronici farmacoresistenti, finora ritenuti affetti da forme primarie non responsive ai trattamenti, la responsabilità della cronicizzazione sarebbe conseguenza di un’aumentata pressione intracranica evidenziabile dall’edema papillare visibile con un semplice esame del fundus oculi, ma di cui finora nessuno si era reso conto. Al congresso Anircef è stato presentato uno studio su 43 pazienti nei quali sono stati usati due protocolli d’intervento: puntura lombare con sottrazione di modeste quantità di liquor, oppure posizionamento di una derivazione valvolare permanente per il controllo della pressione intracranica. Nella metà dei pazienti la remissione si è verificata nell’arco di 2 mesi e l’assenza di dolore si è mantenuta fino a 4 mesi nel 37 per cento dei casi, quando prima nessun farmaco era mai riuscito a ottenere alcun effetto. Cesare Peccarisi
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C O NGRESSI
Congresso annuale EULAR – 6-9 giugno – Berlino
Artrite reumatoide: effetti positivi dei “biologici” sul rischio CV e sulla mortalità complessiva
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l meeting annuale dell’European League Against Rheumatism (EULAR) è l’appuntamento più atteso per la reumatologia europea. Quest’anno l’elegante architettura della capitale tedesca ha fatto da cornice all’evento, che tra l’altro si è tenuto in concomitanza con quello della Paediatric Rheumatology European Society. Come accade ormai da diversi anni, il meeting è una piattaforma per fare il punto sullo stato della ricerca clinica e di base nell’ambito delle malattie reumatiche e per facilitare lo scambio di informazioni tra i diversi operatori. Infatti, il meeting ha visto la partecipazione di numerosi medici specialisti, rappresentanti delle associazioni di pazienti, medici di Medicina generale ed esponenti del mondo dell’industria farmaceutica. Uno degli obiettivi di quest’anno è stato quello di sensibilizzare sull’importanza delle malattie reumatiche in Medicina generale, al fine di facilitare ed estendere l’iter diagnostico in questo ambito. Per motivi di spazio non possiamo esaurire i numerosi argomenti trattati, e quindi dedichiamo questo spazio alle novità nel campo dell’artrite reumatoide (AR), una patologia particolarmente disabilitante il cui impatto negativo ha un peso significativo a livello sanitario, economico e sociale. Segnaliamo innanzitutto i risultati di una ricerca retrospettiva olandese, secondo cui il trattamento con anti-TNF comporta una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari in pazienti con AR. In particolare l’entità della riduzione osservata, tempo-dipendente, è stata del 24, 42 e 56 per cento per un uso di antiTNF rispettivamente di uno, due e tre anni. Il modello utilizzato nell’analisi e basato sui dati di oltre 109mila pazienti,
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ha dimostrato nei soggetti trattati con questa classe di farmaci rispetto ai non trattati, una riduzione significativa del rischio CV per ogni sei mesi aggiuntivi di terapia (infarto miocardico, ictus/TIA, angina instabile, scompenso cardiaco HR =0,87, p =0,005). Ponendo l’attenzione su alcuni gruppi di pazienti, per ogni sei mesi aggiuntivi di terapia gli effetti positivi a livello CV sono stati particolarmente significativi nei soggetti di età ≥50 anni (HR =0,86, p =0,07) e in quelli mai trattati con metotressato (MTX) (HR =0,85, p =0,022). Questi dati sono di enorme importanza, specie se si pensa all’origine comune dell’AR e delle patologie CV; l’infiammazione sistemica osservata nell’artrite reumatoide potrebbe promuovere l’insorgenza di patologie CV e anche il decesso per eventi cardio-relati. Attualmente gli anti-TNF rappresentano il trattamento di elezione per i pazienti con risposta inadeguata al MTX, e questi nuovi dati sugli effetti positivi in termini CV rappresentano un ulteriore “plus” per questa classe di farmaci. Dati altrettanto positivi, ma questa volta in termini di mortalità globale e aumento dell’aspettativa di vita, derivano da uno studio tedesco che è stato condotto in quasi 9mila pazienti con AR. Dall’analisi condotta è emerso come i soggetti in trattamento con un “biologico” hanno un rischio di mortalità significativamente inferiore rispetto a quanto osservato in quelli in terapia con un DMARDs tradizionale (HR aggiustato 0,61). Il trend è stato confermato indipendentemente dal meccanismo d’azione del “biologico” impiegato (anti-TNF o rituximab). Il tasso di mortalità è sceso da 20,6 dei pazienti trattati con DMARDs non biologici a 10,6 in quelli esposti a terapia
con anti-TNF, e a 12,7 in quelli trattati con rituximab. L’aspettativa di vita dei pazienti con AR è minore rispetto a quella stimata nella popolazione generale (per uomini e donne AR, in media 5,2 anni inferiore rispetto ai controlli sani), e avere a disposizione un trattamento in grado di ridurre il rischio di mortalità complessiva è certamente un importante traguardo. Al Congresso di Berlino, la ricerca medico-scientifica italiana nel campo delle malattie reumatiche è stata rappresentata dalla SIR (Società italiana di reumatologia) che fa parte del network EULAR. Tra i numerosi contributi presentati, è importante segnalare lo studio KING, un’indagine multicentrica sulla gotta che ha evidenziato le conseguenze negative sulle articolazioni di questa malattia, sempre più frequente. L’invito della SIR è quello di mantenere alta l’attenzione verso la gotta, che spesso viene diagnosticata con grande ritardo e ha effetti invalidanti sui pazienti.
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Daiichi Sankyo
Novartis
Ancora dubbi sulla sicurezza di bevacizumab “off label” nell’AMD
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ono stati presentati di recente i dati a due anni di CATT, studio di non inferiorità condotto per confrontare bevacizumab e ranibizumab (Lucentis, Novartis) nel trattamento intravitreale della degenerazione maculare neovascolare legata all’età (AMD). Lo studio ha confermato, come similmente già mostrato dai risultati a un anno, un rischio significativamente maggiore di eventi avversi sistemici seri con bevacizumab non autorizzato rispetto a ranibizumab (p=0,004). CATT ha anche evidenziato casi di eventi aterotrombotici, emorragie sistemiche, insufficienza cardiaca congestizia, eventi trombotici venosi, ipertensione e decesso vascolare, più frequenti nel gruppo bevacizumab rispetto a quello ranibizumab (p=0,07); ancora, si è verificato un numero significativamente superiore di disturbi gastrointestinali nei pazienti trattati con bevacizumab rispetto a ranibizumab (p=0,005). Questi dati si aggiungono alle crescenti evidenze sul profilo di sicurezza di bevacizumab non autorizzato per via intravitreale, che hanno fatto rilevare anche un rischio di infiammazioni oculari dell’80 per cento superiore nei pazienti trattati con bevacizumab rispetto a ranibizumab. Ranibizumab è autorizzato in più di 100 Paesi per il trattamento della degenerazione maculare neovascolare legata all’età, in oltre 60 per il trattamento della diminuzione visiva conseguente a edema maculare diabetico (DME) e della diminuzione visiva conseguente a edema maculare dovuto a occlusione venosa retinica (RVO).
Con la triplice associazione fissa migliora l’aderenza nell’ipertensione
L’
aderenza alla terapia è centrale nel paziente iperteso. Un nuovo studio presentato in occasione dell’Hypertension Care Day (17 maggio) ha dimostrato che la terapia in associazione fissa consente, oltre alla migliore aderenza, un miglior controllo pressorio e un risparmio dei costi. Lo studio, condotto da Lorenzo Terranova, dell’Università La Sapienza di Roma, ha mostrato, in particolare, un potenziale risparmio complessivo di 1,8 milioni di euro/anno per ogni 10mila ipertesi grazie al passaggio dalla combinazione estemporanea di due antipertensivi alla loro associazione fissa. I dati sono significativi specie se si pensa che, nell’ipertensione, in molti casi è necessario associare almeno due o tre farmaci per arrivare al target pressorio. Rappresenta dunque un passo avanti l’indicazione aggiuntiva per la quale l’associazione triplice fissa antipertensiva, composta da olmesartan medoxomil, amlodipina e idroclorotiazide, ha ottenuto il parere positivo dalle autorità regolatorie e che sarà presto disponibile in Italia: in pazienti adulti con pressione non adeguatamente controllata attraverso la combinazione doppia fissa olmesartan medoxomil e amlodipina. Daiichi Sankyo ha inoltre rafforzato ulteriormente il suo impegno in questo campo terapeutico con il sito HypertensionCare.it, che fornisce servizi di aggiornamento per i medici.
ibsa
Migliore qualità di vita per chi soffre di ipotiroidismo
È
stata presentata al recente Congresso internazionale di endocrinologia, svoltosi a Firenze (5-9 maggio), una nuova formulazione di levotiroxina sodica liquida in flaconcini monodose (Tirosintâ, IBSA). La levotiroxina rappresenta la terapia più efficace per l’ipotiroidismo e deve essere assunta la mattina a digiuno: rispetto alla formulazione in compresse, che necessita di un’attesa successiva di 30-60 minuti prima di fare colazione, la nuova formulazione liquida ha dimostrato in uno studio presentato a Firenze di raggiungere la massima concentrazione ematica 30 minuti prima, perché non
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necessita della fase di dissoluzione. La maggiore velocità fa sì che il rischio d’interazione con alimenti o altri farmaci, per esempio gli inibitori di pompa, che innalzano il pH gastrico interferendo con il suo corretto assorbimento, sia ridotto. Grazie alla prontezza d’assorbimento, la nuova formulazione liquida raggiunge e mantiene i valori di TSH desiderati; a questo indubbio vantaggio, segue la ridotta necessità di ricorrere ai dosaggi ormonali di controllo oggi spesso necessari per assicurarsi che la terapia sia efficace. È una svolta per questi malati, oltre 2,5 milioni solo nel nostro Paese e
soprattutto donne; tuttavia, nonostante i numeri, la patologia è poco conosciuta, diagnosticata con 1 anno in media di ritardo dai primi sintomi e sottovalutata. Eppure, ha evidenziato una ricerca DOXA, un paziente su tre dichiara di soffrire di importanti disagi fisici. Anche per dare più voce a queste persone, invitandole a raccontare le proprie esperienze, IBSA farmaceutici in collaborazione con le associazioni di pazienti, ha promosso e avviato il progetto IPO-POP (ipotiroidismo e popolazione), che toccherà diverse città italiane per seminari scientifici e incontri con i cittadini/pazienti.
Nathura
La melatonina “purissima” per un sonno senza risvegli
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iverse condizioni possono alterare il ritmo circadiano che fisiologicamente è regolato dalla melatonina, sostanza prodotta con una tipica ciclicità nell’arco delle 24 ore. L’invecchiamento, lo stress, l’assunzione di alcuni farmaci e alcune malattie possono creare disturbi del ciclo sonno/veglia con risvegli frequenti. Per ripristinare in modo fisiologico i livelli di melatonina, recuperando una buona qualità del sonno, è efficace l’assunzione di questa sostanza in forma di integratore. Armonia Retard (Nathura) è l’unico integratore di melatonina di purezza certificata nella speciale formulazione a rilascio controllato: dal 2011 è stata infatti conseguita un’esclusiva certificazione di prodotto che ne garantisce un grado di purezza non inferiore al 99,9 per cento. Armonia Retard, in compresse da 3 mg, è formulata in modo che 1 mg di melatonina venga rilasciato immediatamente dopo l’assunzione e i 2 mg ulteriori solo dalla seconda alla sesta ora successive: in questo modo è assicurata una “copertura” notturna continua, che evita i risvegli notturni.
MSD
Sitagliptin in dosaggi ad hoc per i diabetici con nefropatia
U
n importante passo è stato compiuto nella terapia dei pazienti affetti da diabete e insufficienza renale moderata o grave, oppure da malattia renale terminale. È infatti disponibile nel nostro Paese sitagliptin a un dosaggio ridotto (50 mg/die o 25 mg/die) che può essere utilizzato anche in questa popolazione di pazienti diabetici. Sitaglipitin è indicato (ed è rimborsato dal SSN) sia in associazione all’insulina, unica opzione per i pazienti con insufficienza renale moderata o grave, che in monoterapia nei casi in cui la metformina non è appropriata o tollerata; un’evenienza quest’ultima di frequente riscontro nei soggetti con nefropatia. Come è stato sottolineato dal prof. Roberto Pontremoli, dell’Università di Genova, nell’incontro per la stampa, che si è tenuto a Roma lo scorso 9 maggio “…il paziente nefropatico è estremamente difficile da controllare, e spesso l’armamentario terapeutico si riduce. Avere una molecola come sitagliptin da usare in associazione o in monoterapia, più che utile è indispensabile”.
Medico e Paziente
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Stallergenes
La terapia che va incontro alle esigenze dei pazienti
L’
immunoterapia allergenica sublinguale (SLIT) vanta un’ampia letteratura a supporto della sua efficacia e sicurezza Nelle ultime decadi il numero di pazienti con allergie respiratorie è cresciuto, specie per l’aumento dei soggetti con rinite allergica, tanto da farne stimare una prevalenza di circa 500 milioni nel mondo, il 15-25 per cento dei quali affetti da forme gravi. Rispetto alla più tradizionale terapia sottocutanea, quella sublinguale, cha ha fatto la sua comparsa iniziale nella formulazione in gocce ed è ora disponibile anche in compresse, è certamente più maneggevole e gradita ai pazienti. Come hanno mostrato i risultati di una survey condotta in 5 Paesi europei, tra cui l’Italia, presentati al recente Congresso annuale dell’European Academy
of Allergy and Clinical Immunology su 975 pazienti affetti da rino-congiuntivite indotta da polline di graminacee e con forte impatto sulla qualità di vita, la formulazione in compresse e i protocolli di terapia stagionale rappresentano un fattore che motiva significativamente a portare avanti o al potenziale avvio di un’immunoterapia allergenica. La grande maggioranza dei pazienti ha mostrato interesse per la terapia con una compressa/ die, un fatto che acquista un significato di rilievo, in quanto, almeno in tre Paesi partecipanti allo studio, la maggioranza dei pazienti considerati ha rifiutato la terapia sottocutanea: la SLIT è dunque un’opzione importante. L’aderenza rappresenta un fattore fondamentale per l’efficacia del trattamento e
Pfizer OTC
L’integratore a misura di genere
L
’universo maschile e quello femminile rappresentano due mondi completamente diversi, in ogni singolo aspetto della quotidianità, dei gusti, delle passioni e dell’alimentazione. Uomini e donne hanno soprattutto esigenze nutrizionali diverse. Le più recenti raccomandazioni europee in ambito nutrizionale confermano tale diversità e sottolineano che per soddisfare le specifiche necessità, uomini e donne hanno bisogno di diversi livelli dei nutrienti essenziali. La linea Multicentrum è da tempo sempre molto attenta alle richieste dei consumatori. Ne è testimonianza per esempio lo sviluppo di prodotti specifici per ogni fascia di età. Ora, viene compiuto un ulteriore passo avanti, con il lancio di una linea differenziata in base al genere. I nuovi prodotti (Multicentrum Uomo e Multicentrum Donna) sono formulati con quantitativi di vitamine e minerali bilanciati per i due sessi, in modo tale da soddisfare le richieste nutrizionali e poter offrire specifici benefici. L’integratore per la donna contiene calcio, ferro (utile per far fronte alle perdite ematiche periodiche legate al ciclo mestruale), acido folico (fondamentale per le donne in età fertile e per contrastare stanchezza e fatica). La “linea uomo” contiene magnesio (utile per muscoli e cuore) e vitamine del gruppo B, che supportano il metabolismo energetico.
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riconoscere e saper soddisfare le esigenze dei pazienti è dunque un aspetto che fa parte integrante della terapia. I vantaggi della SLIT sono stati ulteriormente confermati da tre studi condotti in Germania con Oralair compresse, composto da 5 diversi pollini di graminacee (Stallergenes), che ne hanno evidenziato un profilo di sicurezza molto buono per pazienti e sperimentatori (per l’87 e 90 per cento, rispettivamente), con una tollerabilità da buona a molto buona, efficacia sui sintomi nella maggior parte dei pazienti e una diminuzione della necessità di trattamenti sintomatici dall’84,7 al 54,3 per cento negli adulti e dall’88,7 al 34,6 nei bambini. È ora in fase di sviluppo una nuova SLIT per allergia agli acari della polvere.
Merck Serono
Un anticorpo mirato per i tumori avanzati di testa e collo
N
egli ultimi dieci anni, si è assistito in tutto il mondo a un aumento significativo dell’incidenza dei tumori della testa e del collo. Si tratta di tumori poco conosciuti: la sintomatologia è aspecifica e i fattori di rischio sono rappresentati da fumo, alcol, infezione da HPV, esposizione al sole, età (>40 anni) e sesso, con gli uomini più colpiti, anche se sono in aumento tra le donne. La terapia di questi tumori dipende dallo stadio e dalla localizzazione. Accanto alle più tradizionali tecniche di radioterapia, chirurgia e chemioterapia, negli ultimi anni sono state sviluppate numerose terapie mirate. Tra queste, gli anticorpi monoclonali possono essere più efficaci e più tollerabili di altri trattamenti poiché attaccano specificamente le cellule tumorali. Cetuximab è un anticorpo monoclonale che colpisce il fattore di crescita epidermico (EGFR), inibendo di conseguenza la proliferazione cellulare, la sopravvivenza, la mobilità, la diffusione e l’angiogenesi del tumore. È la sola terapia mirata ad aver mostrato un’attività antitumorale e a essere stata approvata dalle autorità sanitarie per il trattamento dei tumori della testa e del collo localmente avanzati e recidivanti/metastatici.
professione
La gestione del dolore in Medicina generale: come la categoria si avvia ad applicare la Legge 38/2010 Il consumo di oppiacei in Italia sta crescendo: segno del recepimento della Legge 38/2010? l Nonostante il consumo di oppiacei sia solo un macro-indicatore, esso in qualche modo, come ha sottolineato anche l’Organizzazione mondiale della Sanità, è un indice della sensibilità dei medici da una parte e della propensione della popolazione dall’altra a far uso di oppiacei; l’aumento dei consumi può rispecchiare una nuova sensibilità verso il dolore e la sua cura. Si tratta comunque di uno fra i tanti indicatori utilizzabili e osservando i dati con attenzione vediamo che il consumo in percentuale è aumentato in misura considerevole, ma il suo volume assoluto resta ancora molto basso. La Legge 38 inoltre tratta una materia ben più ampia del solo trattamento farmacologico del dolore. Finalmente fa chiarezza su due argomenti diversi tra loro, cioè le cure palliative e la medicina del dolore. In questo senso, l’indicatore che si basa sul consumo di oppiacei non è certamente sufficiente per valutarne lo stato di applicazione. Fatte queste premesse si può tuttavia affermare che qualcosa sta veramente cambiando e l’attenzione nei confronti delle problematiche concernenti il dolore è particolarmente viva, sia a livello di pubblica opinione che di società scientifiche, ordine dei medici, ospedali. In queste valutazioni bisogna anche tener presente che due anni, dall’approvazione della Legge, possono sembrare lunghi (la legge è stata approvata nel marzo del 2010), ma la “38”
ha dettato come giusto una “cornice” con i principi, molto innovativi, mentre rimanda alle Regioni l’obbligo di darne un’applicazione pratica. Infatti, dopo la sua approvazione si sono susseguiti atti normativi molto importanti ai fini della sua attuazione: il 16 dicembre dello stesso anno sono state approvate dalla Conferenza Stato Regioni le Linee guida, elaborate dai gruppi tecnici di lavoro, per la Commissione ministeriale sulla terapia del dolore e le cure palliative: esse rappresentano un importante documento che ha permesso agli esperti dei sottogruppi della Commissione di elaborare un articolato documento sugli aspetti operativi della Medicina del dolore e delle Cure palliative che le Regioni debbono ottemperare. Ora questo documento è stato presentato, dopo ampia discussione e rimodellamento, alla Conferenza Stato Regioni che nella seduta del 27 giugno si auspica possa approvarlo in via definitiva. Questo documento quindi è fondamentale e conclude l’iter legislativo: riguarda i requisiti per accreditare strutture e processi nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore e riporta i passi che le singole Regioni dovranno compiere per arrivare alla piena attuazione della Legge 38. È finita l’epoca dell’analisi del problema e della scrittura dei documenti: ora si deve “fare”.
Quanto è conosciuta la legge? l Questi due anni sono serviti ad aumentare la sensibilità sulla lotta al dolore: quello oncologico, ma anche quello dovuto ad altre condizioni, che riguarda certamente un numero mag-
Abbiamo rivolto al dottor Pierangelo Lora Aprile, Segretario scientifico nazionale e responsabile dell’area clinica delle Cure palliative e Medicina del dolore della SIMG, alcune domande per capire come i MMG stanno affrontando la “rivoluzione culturale” che la Legge 38 comporta. Il dottor Lora Aprile ha partecipato ai due sottogruppi della Commissione Nazionale Dolore e Cure Palliative che si sono occupati di redigere i documenti di indirizzo sui requisiti per l’accreditamento delle strutture e dei processi relativi all’applicazione a livello regionale della Legge
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professione A che punto siamo con le aggregazioni funzionali territoriali (AFT)? Non sappiamo ancora come saranno le AFT, anche se come società scientifica siamo molto più interessati a cosa debbano “contenere” le AFT piuttosto che al “contenitore”. È necessario ribaltare la logica che vuole definire prima i modelli organizzativi e poi centrare questi sui bisogni (del cittadino, della collettività ecc.). È il bisogno che definisce il tipo di servizio e quest’ultimo definisce le modalità organizzative più efficienti di erogazione. SIMG di questo si sta occupando per quanto, per esempio, concerne la Legge 38: dolore e cure palliative. Nei prossimi mesi partirà un Progetto in cui i primi 22 MMG “con particolare interesse” per la Terapia del dolore e le Cura palliative svolgeranno i loro compiti in 20 Regioni d’Italia, coinvolgendo circa 440 medici in gruppi di circa 20 MMG.
giore di pazienti. Tutti i medici sanno per grandi linee di cosa si occupa la Legge 38, ma occorre svolgere una buona attività di comunicazione per far sì che essa sia conosciuta più a fondo; in questo senso un grosso contributo può essere portato dall’informazione a qualunque livello: nei congressi, nelle riviste specializzate, tramite l’aggiornamento. Anche i cittadini non conoscono la Legge, anche se sancisce un diritto che mai prima d’ora era stato così esplicitato: il diritto di non soffrire e ricevere le cure appropriate. I cittadini rappresentano ancora una “barriera” all’applicazione della Legge, per esempio con la reticenza verso gli oppioidi, cioè verso un trattamento efficace del dolore. Nei confronti di questi farmaci persistono molti preconcetti, come la convinzione che siano correlati solo alle fasi terminali, quando non c’è più niente da fare, che diano
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dipendenza o abbiano effetti sul SNC. Questo aspetto è stato messo in luce nei nostri focus group: i medici sottolineano che il cittadino si spaventa e oppone una sorta di rifiuto quando gli viene proposto un oppioide. L’efficace lavoro di informazione deve dunque essere indirizzato a entrambe le parti. E va da sé che i Medici hanno una grande responsabilità nella comunicazione e nell’informazione: prima di prescrivere un oppioide, i medici devono capire cosa il paziente sa di questi farmaci, di cosa ha paura e, di conseguenza, dare le necessarie informazioni: per esempio, che si tratta di farmaci sicuri e molto efficaci che, se usati con appropriatezza, espongono meno di altri a rischi.
Un tema importante è quello della formazione/ aggiornamento: di quali strumenti dispongono i medici e, in particolare, il MMG al quale la Legge stessa attribuisce un ruolo di primo piano? l Si tratta certamente di un aspetto fondamentale. I concetti espressi dalla Legge 38 sono altamente innovativi e richiedono una vera rivoluzione culturale per il modo in cui affrontano le tematiche di gestione del dolore. Anche nel documento “La gestione del dolore cronico in Medicina generale”, che è stato elaborato dal nostro gruppo di lavoro ministeriale, il tema è svolto in modo molto diverso da quello tradizionale, secondo nuovi approcci. Affinché questo nuovo approccio possa essere recepito, abbiamo ritenuto che sia necessario un iter formativo “sul campo”. Abbiamo ipotizzato di puntare su medici appassionati di questa materia, esperti, sul modello di figure professionali presenti nel Servizio sanitario inglese già dal 2003, i General practitioners with special interest, che abbiamo tradotto come MMG “con particolare interesse”. Questi possono rappresentare il punto di riferimento formativo per gruppi di medici, fungendo anche da
interfaccia con le strutture Specialistiche (Spoke, Hub, équipe specialistiche di cure palliative). L’utilità di queste figure nasce dall’osservazione che per la Medicina generale, nel caso delle cure palliative, manca un core curriculum, cioè un elenco dei compiti che il MMG è tenuto a svolgere. Per questo, la Società italiana di Medicina generale (SIMG) e la Società italiana di Cure palliative (SICP) hanno elaborato il core curriculum sia per il MMG che per il MMG “con particolare interesse”. Il prossimo passo è condividere questo documento con le altre società scientifiche (della MG, della Medicina specialistica, oncologi AIOM per esempio, e terapisti del dolore) e con le istituzioni affinché possano diventare la guida di riferimento per la formazione. Da ultimo, ma non meno importante, la formazione ha necessità di nuovi strumenti operativi per la valutazione di come il singolo professionista lavora, di quanto si discosta dai comportamenti ritenuti appropriati, in modo che ognuno possa correggere la rotta verso l’eccellenza (Auditing). SIMG ha messo a punto un sofisticato sistema che permette sia un’auto-valutazione del singolo medico (self-audit), sia la valutazione del comportamento di gruppi di medici (audit di gruppo). Questo strumento informatico (Mille GPG®), che può essere integrato nella cartella di gestione che abitualmente utilizza il medico (Millewin®), è stato alla base di un ambizioso progetto formativo sulla terapia del dolore in Medicina Generale (Progetto COMPASS®), che peraltro è stato insignito di uno speciale premio dalla Pubblic Affair al Senato nel giugno del 2011, in cui per la prima volta i medici hanno dimostrato di poter tipizzare il dolore e valutarne gli esiti in ragione dei loro comportamenti prescrittivi. Infine, ma non meno importante, è in fase di stampa l’edizione aggiornata del volume “Gestione del dolore cronico in MG” (la prima è del 2010), che l’AGENAS si occuperà di distribuire a tutti i Medici di Medicina generale.