Medico e Paziente 4-5 15

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLI n. 4-5 - 2015

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Cefalee inquadramento delle forme primitive e secondarie nell’anziano Nefrologia dieta ipoproteica e insufficienza renale cronica Angiologia gestione clinica dell’arteriopatia obliterante periferica Epatite C la rivoluzione delle terapie antivirali

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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64° AAN ANNUAL MEETING

Le novità dal Congresso dei neurologi americani

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I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

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Medico e Paziente + La Neurologia Italiana

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Medico e paziente n. 4-5 anno XLI - 2015 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio

in questo numero

sommario

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Guido Arpaia Giancarlo Bilancio Monia Celano Massimo Cirillo Folco Claudi Massimo Colombo Alfredo Costa Riccardo Cremascoli Ennio Pucci

Foto di copertina 123RF.com /Pavel Losevsky

p 6

speciale congressi

Meeting annuale ASCO

29 maggio-2 giugno, Chicago (Illinois, USA)

❱ ❱ ❱ ❱ ❱

Gli oncologi statunitensi guardano al futuro delle nuove terapie immunologiche Progressi nel trattamento del tumore al polmone Mieloma multiplo multiresistente. Daratumumab racchiude le potenzialità per una monoterapia efficace e ben tollerata Melanoma metastatico. Un regime di associazione a base di nivolumab “rivoluziona” le prospettive terapeutiche per le forme avanzate e inoperabili della malattia Carcinoma mammario HER2-positivo. I vantaggi offerti da pertuzumab nel trattamento neoadiuvante delle forme precoci

Meeting annuale EASD

Diabete e mortalità cardiovascolare. “Storici” risultati per empagliflozin in aggiunta alla terapia ipoglicemizzante standard nei pazienti ad alto rischio CV

Meeting annuale ESC

14-18 settembre, Stoccolma (Svezia)

29 agosto-2 settembre, Londra (Regno Unito)

❱ Prevenzione cardiovascolare secondaria Un ruolo chiave per i nuovi anticoagulanti orali e gli inibitori PCSK9

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

Come abbonarsi a medico e paziente

MEDICO E PAZIENTE

Meeting annuale ECTRIMS

7-10 ottobre, Barcellona (Spagna)

❱ Up to date sulla sclerosi multipla. Dal meeting catalano le principali novità nella terapia

p 16 neurologia

CEFALEE nell’ANZIANO Inquadramento clinico delle forme primitive e secondarie

introito di proteine con la dieta e insufficienza renale cronica Indicazioni pratiche per il Medico di Medicina generale

Massimo Cirillo, Giancarlo Bilancio, Monia Celano

p 28 i quaderni di medico e paziente Epatite C Una battaglia da vincere

Pubblichiamo un’anticipazione del primo Quaderno che Medico e Paziente ha dedicato all’epatite C. Oltre alla presentazione di questa nuova iniziativa editoriale, abbiamo selezionato l’intervista al professor Massimo Colombo che bene illustra il panorama terapeutico attuale alla luce dei nuovi farmaci antivirali

p 34 Angiologia

Arteriopatia obliterante periferica Diagnosi e gestione della terapia Guido Arpaia

p 39

Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it

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Ennio Pucci, Riccardo Cremascoli, Alfredo Costa

p 22 nefrologia

Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00

Numeri arretrati € 10,00

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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

www.medicoepaziente.it

info@medicoepaziente.it


CO N GRE SSI Meeting annuale ASCO, 29 maggio-2 giugno, Chicago (Illinois, USA)

Gli oncologi statunitensi guardano al futuro delle nuove terapie immunologiche Il 51mo congresso annuale dell’American

malattie croniche. Per altre forme di

Society of Clinical Oncology si è

neoplasia, più aggressive e caratterizzate

contraddistinto non solo per il numero

da prognosi infausta i progressi comunque

delle presentazioni, ma soprattutto per la

si registrano, specialmente in termini di

ricchezza di contenuti.

sopravvivenza libera da malattia, grazie

La ricerca in un ambito come quello

all’introduzione di farmaci “immunoterapici”

oncologico avanza costantemente, e sono

sempre più mirati. Dedichiamo queste

stati compiuti passi da gigante specialmente

pagine alle presentazioni che riteniamo più

per alcuni tipi di tumore, tanto da renderli

significative e interessanti

Progressi nel trattamento del tumore al polmone Afatinib più efficace di erlotinib nel carcinoma polmonare a cellule squamose Il trattamento con afatinib dei pazienti con carcinoma polmonare assicura un’efficacia maggiore rispetto a erlotinib in termini di sopravvivenza complessiva, con un miglioramento significativo anche dei sintomi correlati alla malattia, quali tosse e dispnea. Sono questi i risultati presentati all’ASCO, dello studio clinico di fase III denominato LUX-Lung 8, disegnato per confrontare, in pazienti con carcinoma polmonare a cellule squamose (SCC) avanzato e in progressione dopo trattamento di prima linea con chemioterapia, i profili di efficacia e

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sicurezza di erlotinib, sviluppato da Genentech, e afatinib, sviluppato da Boehringer Ingelheim, che appartengono entrambi alla categoria degli inibitori del fattore di crescita epidermico (EGFR). In particolare, la percentuale di pazienti trattati con afatinib ancora in vita dopo un anno è risultata del 36,4 per cento, con una sopravvivenza mediana di 7,9 mesi, mentre in quelli trattati con erlotinib tali valori sono risultati pari al 28,2 per cento e 6,8 mesi, rispettivamente. Nel complesso afatinib ha ridotto la mortalità del 19 per cento rispetto a erlotinib. Per quanto riguarda la sintomatologia, le percentuali di miglioramento riferito dai pazienti sono state in favore di afatinib sia per la tosse (43,4 contro 35,2 per cento di erlotinib) sia per la dispnea (51,3 contro

44,1 per cento) sia infine per le condizioni generali e la qualità della vita (35,7 contro 28,3 per cento). Complessivamente, la percentuale di eventi avversi gravi nei pazienti trattati con afatinib è stata del 57,1 per cento, non discostandosi molto quindi da erlotinib (57,5 per cento). I dati disaggregati mostrano però un vantaggio di afatinib per quanto riguarda diarrea e stomatite, e di erlotinib per rash e acne.

Positivi i risultati dello studio AURA su AzD9291, nuovo inibitore dell’EGFR L’81 per cento dei pazienti liberi da progressione della malattia dopo 9 mesi e 73 per cento di risposta globale: sono queste le percentuali che dimostrano l’efficacia di AZD9291, farmaco sviluppato da AstraZeneca, nel trattamento del carcinoma polmonare positivo alla mutazione dell’EGFR. I pazienti con questa mutazione risultano


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particolarmente sensibili all’azione degli inibitori dell’EGFR già approvati, denominati gefitinib o erlotinib, che sono in grado di bloccare le vie di trasduzione del segnale cellulare implicate nella crescita delle cellule tumorali. Tuttavia, gli stessi soggetti, a lungo andare, sviluppano una resistenza alla terapia dovuta a una mutazione secondaria, la T790M. AZD9291 è un inibitore dello stesso tipo irreversibile e altamente selettivo sia della mutazione sensibilizzante dell’EGFR sia della T790M, che preserva l’attività dell’EGFR wild type. Attualmente il farmaco viene sperimentato in diverse linee di terapia, sia in monoterapia sia in combinazione con altri farmaci immunoterapici. I dati, presentati all’ASCO di Chicago, riguardano le coorti di espansione del trattamento in prima linea dello studio di fase I denominato AURA, in cui 60 pazienti con questo tipo di neoplasia polmonare in fase avanzata sono stati trattati con 80 mg o 160 mg di AZD9291 una volta al giorno, con follow-up, rispettivamente, di 11 e 8,5 mesi. Gli eventi avversi segnalati in entrambe le coorti sono stati il rash cutaneo e la diarrea. “I dati preliminari dimostrano il potenziale di AZD9291 nei pazienti con NSCLC avanzato con mutazioni EGFR naïve al trattamento”, ha spiegato Suresh S. Ramalingam, direttore della divisione di Oncologia medica dell’Emory University School of Medicine di Atlanta, in Georgia, in occasione dell’ASCO. “Questi risultati promettenti saranno studiati ulteriormente nel contesto di prima linea nell’ambito di uno studio di fase III attualmente in corso, denominato FLAURA”.

MEDI4736 e tremelimumab, “funziona” la terapia immunologica di combinazione Se la terapia immunologica appare come una delle più promettenti in campo on-

cologico, la combinazione di due farmaci in grado di stimolare l’azione del sistema immunitario contro il tumore sembra dare un vantaggio aggiuntivo: è quanto emerge dai risultati degli studi condotti sull’associazione di MEDI4736 e tremelimumab, due molecole sviluppate da AstraZeneca, nel trattamento del tumore del polmone. Complessivamente, circa la metà dei 63 pazienti coinvolti ha raggiunto una risposta parziale o una stabilizzazione della malattia. MEDI4736 è un anticorpo monoclonale, già sperimentato con successo in diversi tipi di tumori, diretto contro il ligando 1 di morte cellulare programmata (PD-L1), i cui segnali consentono alle cellule cancerose di evitare di essere riconosciute dal sistema immunitario del soggetto. Tremelimumab si lega invece alla proteina CTLA-4, espressa sulla superficie dei linfociti T, potenziando l’azione di questi ultimi nei confronti delle cellule tumorali. Le due molecole, in sintesi, agiscono sinergicamente per bloccare due diverse vie di fuga per il tumore. I dati dello studio dose escalation di fase Ib, presentati all’ASCO, dimostrano l’efficacia di questa terapia di combinazione nel trattamento del carcinoma polmonare non a piccole cellule in stadio avanzato, sia nei pazienti positivi al biomarker PD-L1 sia in quelli negativi. Nel caso di questi ultimi in particolare, che rappresentano circa il 70 per cento dei soggetti colpiti da questa neoplasia e che rispondono meno alla monoterapia con anti PD-L1, l’attività clinica e la tollerabilità del trattamento risultano particolarmente significative: il tasso di risposta globale è risultato del 27 per cento, mentre il tasso di controllo della malattia, definito come risposta completa, risposta parziale o malattia stabile per il follow up di oltre 16 settimane, è stato del 48 per cento. Gli eventi avversi più frequentemente registrati nello studio sono stati: colite, diarrea, aumento della lipasi e aumento degli indici di funzionalità epatica. Tutti sono risultati gestibili e generalmente reversibili

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utilizzando le linee guida per il trattamento standard.

Efficace e ben tollerato l’inibitore di ALK alectinib Positivi i risultati di efficacia del farmaco alectinib, sviluppato da Roche, nel trattamento del carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) ALK-positivo, frequente nei pazienti più giovani non fumatori o con una storia di fumo leggero: secondo quanto annunciato nel corso dell’ASCO, i tassi di risposta globale in due studi registrativi, indicati con le sigle NP28673 e NP28761, sono stati del 50 per cento e del 47,8 per cento, rispettivamente. Inoltre, nei casi di diffusione al sistema nervoso centrale, che si registra in circa la metà dei pazienti colpiti da questo tipo di neoplasia, il tasso di risposta globale è risultato del 57,1 per cento e del 68,8 per cento, rispettivamente. Alectinib agisce interferendo con il cammino di segnalazione della chinasi del linfoma anaplastico, noto anche come recettore tirosin-chinasico ALK, codificata dal gene omonimo, situato sul secondo cromosoma. Le sue mutazioni sono associate a diversi tipi di neoplasie, quali carcinoma polmonare non a piccole cellule, il neuroblastoma e il linfoma a grandi cellule anaplastico. Tra gli eventi avversi più frequentemente segnalati nei due studi registrativi vi sono l’incremento delle concentrazioni ematiche di creatinfosfochinasi e degli enzimi epatici, e dispnea. Tutti rientrano comunque in un profilo di sicurezza accettabile. “Tra gli inibitori della tirosin-chinasi che agiscono sulla proteina ALK, alectinib si conferma come uno dei farmaci più promettenti in termini di efficacia, costo-beneficio e di minor tossicità”, ha spiegato Lucio Crinò, direttore della Struttura complessa di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera di Perugia. “Da non dimenticare poi l’eccellente attività di alectinib nelle lesioni del sistema ner-

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CO N GRE SSI Meeting annuale ASCO, 29 maggio-2 giugno, Chicago (Illinois, USA)

voso centrale in quei pazienti che hanno un’inversione dell’oncogene EML4–ALK: in questi soggetti la diffusione di metastasi nel sistema nervoso centrale rappresenta infatti la principale causa di fallimento della terapia tradizionale. Grazie alla sua attività e ai suoi importanti benefici, alectinib costituisce una delle opzioni terapeutiche più innovative e importanti nel panorama del trattamento del tumore al polmone non a piccole cellule con mutazione ALK”.

Tumore del polmone non a piccole cellule: sopravvivenza raddoppiata con atezolizumab I farmaci anti PDL-1 (programmed-deathligand-1, ligando 1 di morte cellulare programmata) si confermano come i più promettenti per una svolta nel trattamento del tumore del polmone non a piccole cellule. Lo dimostrano i risultati, presentati al meeting di Chicago, di un’analisi ad interim di uno studio globale randomizzato di fase II denominato POPLAR sulla molecola sperimentale atezolizumab di Roche, indicata anche con la sigla MPDL3280A, somministrata in pazienti con questo tipo di neoplasia precedentemente trattata. Rispetto al chemioterapico docetaxel, la probabilità di sopravvivenza è raddoppiata nel sottogruppo di pazienti con tumori con il massimo livello di espressione di PDL1, ma ha subito un notevole incremento anche in soggetti con livelli di espressione più bassi. Sempre nel sottogruppo di pazienti più responsivi, la mediana della sopravvivenza libera da malattia è stata di 7,8 mesi contro i 3,9 di docetaxel. Il farmaco inoltre, si è dimostrato ben tollerato, con eventi avversi confrontabili con quelli di studi precedenti. “Si tratta di dati molto promettenti che sarà importante confermare e approfondire attraverso nuove analisi, come per esempio lo studio di fase III randomizzato

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denominato OAK, che sto portando avanti insieme al mio gruppo”, ha commentato Filippo de Marinis, direttore della Divisione di Oncologia toracica dello IEO di Milano. Il PDL-1 si candida a essere un biomar-

catore utile per individuare i pazienti che hanno più probabilità di ottenere risultati clinici significativi con il trattamento con atezolizumab in monoterapia o in combinazione con altre molecole. n

Mieloma multiplo multiresistente Daratumumab racchiude le potenzialità per una monoterapia efficace e ben tollerata

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uove speranze per i pazienti affetti da mieloma multiplo (MM) resistente alle terapie attualmente disponibili arrivano dall’anticorpo sperimentale daratumumab che in questo studio di fase II tuttora in corso, ha mostrato un’attività duratura e ha ritardato la progressione della malattia. Il trial multicentrico internazionale è suddiviso in due parti. Nella prima, sono stati arruolati 34 pazienti affetti da mieloma multiplo già trattati con almeno tre linee di terapia, tra cui un inibitore del proteasoma e un agente immunomodulante, o che non avevano risposto né al più recente inibitore del proteasoma né all’immunomodulatore. I pazienti sono stati randomizzati al trattamento con daratumumab 8 mg/kg o 16 mg/kg ogni settimana per 8 settimane, seguite dal trattamento ogni 2 settimane per 16 settimane e quindi ogni 4 settimane, al fine di selezionare la dose più efficace, che è risultata pari a 16 mg/kg. Con questo dosaggio sono stati trattati altri 90 pazienti (seconda parte dello studio). Delle risposte ottenute, tre sono state complete, 10 sono state definite come ottime risposte parziali e 18 sono state parziali. La durata mediana della risposta è stata di 7,4 mesi. La progressione è avvenuta dopo una mediana di 3,7 mesi. La sopravvivenza globale mediana non

era stata ancora raggiunta al momento dell’ultima analisi dei dati, ma da una stima, la percentuale a un anno è risultata pari al 65 per cento. Soddisfacenti sono stati anche i risultati sul fronte della sicurezza e tollerabilità (in riferimento al dosaggio di 16 mg/kg): il 4,7 per cento (5 pazienti) ha interrotto il trattamento a causa di eventi avversi; tuttavia, nessuno di questi è stato ritenuto correlato al farmaco. Inoltre, si sono verificate frequentemente (nel 42,5 per cento dei pazienti) reazioni lievi (di grado 1 o 2) nella sede dell’infusione, che nella maggior parte dei casi sono avvenute durante la prima infusione e che sono state gestite con le terapie standard. Gli Autori del lavoro (Lonial S, Weiss BM, Usmani SZ et al.) sottolineano come in questa popolazione di pazienti pesantemente pretrattati, daratumumab in monoterapia ha prodotto risposte complessive “senza precedenti” che sono aumentate nel corso del tempo. I risultati ottenuti fino a questo punto dunque, evidenziano il potenziale di daratumumab come nuova monoterapia, ben tollerata, in varie fasi del trattamento di questa neoplasia. Daratumumab è una molecola che appartiene a una nuova classe di farmaci diretti contro la proteina di superficie CD38. n


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Melanoma metastatico Un regime di associazione a base di nivolumab “rivoluziona” le prospettive terapeutiche per le forme avanzate e inoperabili della malattia

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na pietra miliare nel trattamento del melanoma avanzato. Così sono stati definiti i risultati dello studio CheckMate -067. Nel trial che è stato condotto su 945 pazienti, la combinazione di due farmaci immuno-oncologici, nivolumab+ipilimumab ha dimostrato di aumentare la sopravvivenza libera da progressione in maniera significativa. La mediana di sopravvivenza libera da progressione è stata di 11,5 mesi con nivolumab+ipilimumab e di 6,9 mesi

con nivolumab rispetto a 2,9 mesi con ipilimumab in monoterapia. La riduzione del rischio di progressione della malattia è stata del 58 per cento con la combinazione rispetto a ipilimumab e del 43 per cento con nivolumab rispetto a ipilimumab. “Questi dati ottenuti con il regime di combinazione nivolumab e ipilimumab nel melanoma avanzato sono senza precedenti e mostrano risultati di efficacia mai osservati prima con farmaci immuno-oncologici – ha commentato Paolo Ascierto,

Carcinoma mammario HER2-positivo: i vantaggi offerti da pertuzumab nel trattamento neoadiuvante delle forme precoci

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rattare il cancro al seno in fase iniziale, localmente avanzata, è l’obiettivo da perseguire per impedire l’evoluzione della malattia. In questa direzione vanno i risultati dello studio di fase II NeoSphere e relativi all’impiego dell’anticorpo monoclonale pertuzumab nel contesto neoadiuvante, in donne con Ca. mammario HER2-positivo, in fase precoce. Nello specifico, pertuzumab in associazione a trastuzumab e chemioterapia riduce di circa il 40 per cento la probabilità di

metastasi a distanza o di decesso per tumore mammario a tre anni dalla diagnosi iniziale e dalla terapia neoadiuvante. Lo studio inoltre, sembra confermare che la scomparsa completa del tumore dopo chemioterapia neoadiuvante possa essere predittiva di un beneficio a lungo termine. Si tratta dunque di dati importanti che rappresentano un ulteriore passo verso la cura definitiva del Ca. mammario. Nello studio sia la sopravvivenza libera da progressione (PFS) sia la sopravvivenza libera

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dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione “G. Pascale” di Napoli. “Con l’associazione abbiamo registrato tassi di risposta molto più alti e duraturi nel tempo, oltre a una significativa riduzione del volume tumorale, rispetto sia alla monoterapia con ipilimumab che a quella con nivolumab. Le risposte osservate nello studio CheckMate -067 dimostrano il potenziale di questo regime nei pazienti con melanoma metastatico. E questi risultati rafforzano le nostre convinzioni che le future terapie consisteranno nella combinazione di più farmaci immuno-oncologici, in grado di modulare il sistema immunitario per offrire ai pazienti con tumore opzioni di maggiore efficacia, più di quanto si possa ottenere con le attuali terapie”. di tumore”. Lo scorso 22 giugno, la Commissione europea ha approvato nivolumab per il melanoma avanzato, non operabile o metastatico, sia in prima linea che precedentemente trattato, indipendentemente dallo stato della mutazione BRAF. n

da malattia (DFS) sono state valutate a tre anni. Le donne trattate con il regime con pertuzumab prima dell’intervento chirurgico avevano una riduzione del 31 per cento del rischio di andare incontro a un peggioramento della malattia, recidiva o decesso (PFS HR =0,69; 95 per cento CI 0,34-1,40) rispetto alle pazienti che avevano ricevuto trastuzumab e chemioterapia. Inoltre, le donne arruolate nello studio “neoadiuvante” hanno ricevuto un anno di terapia adiuvante con trastuzumab dopo l’intervento associato a ulteriore chemioterapia. Questi risultati (descrittivi) indicano che le pazienti che non avevano tessuto tumorale rilevabile al momento dell’intervento chirurgico nella mammella e nei linfonodi locali interessati hanno una maggiore probabilità in tutti i bracci dello studio di essere vive e libere da malattia a tre anni di distanza (PFS HR=0,54; DFS HR =0,68). n

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CO N GRE SSI Meeting annuale EASD, 14-18 settembre, Stoccolma (Svezia)

Diabete e mortalità cardiovascolare “Storici” risultati per empagliflozin in aggiunta alla terapia ipoglicemizzante standard nei pazienti ad alto rischio CV

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ante le segnalazioni e i temi del congresso annuale dell’European Association for the Study of Diabetes (EASD), ma quello che ha suscitato maggiore interesse e di cui più si è parlato riguarda indubbiamente lo studio relativo a empagliflozin, antidiabetico appartenente alla famiglia degli SGLT-2 inibitori, che si è mostrato in grado di abbattere la mortalità cardiovascolare (CV) addirittura del 38 per cento. Per la prima volta uno studio su pazienti con diabete di tipo 2 e ad alto rischio CV ha dimostrato che un farmaco può avere effetti sulla mortalità di “questa portata”. Lo studio EMPA-REG OUTCOME si candida a rivoluzionare dunque la terapia del diabete, tanto che alla presentazione uno dei relatori, Hertzel Gerstein, dell’Università di McMaster e dell’Hamilton Science Center in Ontario, ha ipotizzato questo trattamento come intervento di prima linea per tutti i pazienti di mezza età con DT2 e a rischio di eventi CV. Uno studio quindi, che a breve potrebbe anche cambiare le linee guida per il diabete. Ma vediamolo un po’ più in dettaglio. Il trial, randomizzato in doppio cieco e controllato contro placebo è stato condotto su 7.020 pazienti con DT2, arruolati in tutto il mondo. L’età media dei partecipanti era di 63 anni e il loro BMI (indice di massa corporea) di circa 30. L’emoglobina glicata al basale era intorno all’8 per cento. Metà dei pazienti aveva una durata di diabete superiore a 10 anni. I partecipanti mostravano un discreto controllo pressorio con valori in media di 135/76 mmHg. L’obiettivo era esaminare gli effetti a lungo termine

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di empagliflozin, in aggiunta alla terapia ipoglicemizzante standard, sulla morbilità e mortalità CV nei pazienti con DT2 ad elevato rischio di eventi CV. I farmaci antidiabetici più utilizzati erano metformina (circa il 74 per cento), sulfoniluree (oltre il 42 per cento), insulina (quasi metà della popolazione). Empagliflozin è stato somministrato in due dosaggi, 10 e 25 mg. Metà dei partecipanti aveva una storia di infarto e il 10 per cento presentava scompenso cardiaco. Oltre il 95 per cento era in terapia antipertensiva, e inoltre 3 soggetti su 4 erano in terapia con statine e oltre l’80 per cento con aspirina. La durata media del trattamento era di 2,6 anni, e il follow up di 3,1 anni. Mortalità CV, infarto miocardico non fatale e ictus non fatale costituivano l’endpoint composito dello studio. Al termine, nel gruppo trattato con empagliflozin tale endpoint è risultato ridotto del 14 per cento rispetto al gruppo controllo, e le differenze tra i due gruppi sono emerse già dopo soli 3 mesi di trattamento. L’incidenza cumulativa di mortalità cardiovascolare, nel gruppo trattato con empagliflozin è risultata ridotta del 38 per cento (p <0,0001), mentre le ospedalizzazioni per scompenso sono diminuite del 35 (p =0,0017) per cento. Da notare anche i dati relativi alla mortalità per tutte le cause, ridotta del 32 per cento (p = 0,0001). “È la prima volta nella mia carriera che un trial sulla mortalità cardiovascolare in una popolazione di diabetici ad alto rischio conduce a risultati di questa portata”, ha commentato Silvio Inzucchi, dello Yale Diabetes Center di New Haven (Connecticut), senior author

del trial, dopo aver presentato i risultati “storici” di EMPA-REG OUTCOME e al quale la platea ha tributato un lunghissimo applauso. Non sono state riscontrate differenze significative per quel che riguarda il rischio di infarto miocardico non fatale (HR è 0,87). Per l’ictus non fatale invece l’HR è risultato 1,24. A questo riguardo, gli Autori hanno esaminato gli eventi ictali fatali e non (popolazione intent-to-treat: HR 1,18) e sono arrivati alla conclusione che la differenza numerica fosse stata prodotta da eventi occorsi almeno 30 giorni dopo la sospensione del trattamento. A questo punto, escludendo gli eventi occorsi >30 giorni dopo l’ultima assunzione del farmaco in studio e i pazienti che avevano assunto empagliflozin per meno di 30 giorni, ovvero conducendo un’analisi on treatment, il valore di hazard ratio è diminuito a 1,04. Alla luce dei risultati ottenuti con empagliflozin, si aprono dunque nuovi orizzonti nella terapia del diabete di tipo 2, e anche nuovi quesiti. Innanzitutto si cercherà di capire meglio come funziona il farmaco. Come è stato sottolineato al meeting di Stoccolma, emagliflozin, e presumibilmente le altre molecole della classe, hanno tanti piccoli benefici, ma nessuno di questi da solo spiegherebbe i risultati “impressionanti” ottenuti in questo trial. Infine, vanno fatte anche considerazioni sui costi, elevati, di questi farmaci, che però andrebbero forse valutati in termini di potenziali risparmi derivanti dalla riduzione delle ospedalizzazioni e degli infarti, nonché della mortalità. n


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Meeting annuale ESC, 29 agosto-2 settembre, Londra (Regno Unito)

Prevenzione cardiovascolare secondaria Un ruolo chiave per i nuovi anticoagulanti orali e gli inibitori PCSK9

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l congresso dell’European Society of Cardiology (ESC) anche in questa edizione si conferma come l’occasione più importante per mettere a confronto le conoscenze acquisite in ambito cardiologico. Un tema portante è stato l’ambiente e il rischio cardiovascolare. L’impatto dell’inquinamento atmosferico e acustico sulla salute del cuore è stato evidenziato da molteplici studi. Tra le morti premature correlate all’inquinamento atmosferico, circa l’80 per cento è causato dall’insorgenza di malattie cardiovascolari (CV), mentre si stima che l’inquinamento acustico in Europa ogni anno contribuisca ad almeno 10.000 decessi precoci legati a patologie cardiache e ictus. È stato presentato uno studio che mostra chiaramente come i giovani e gli adolescenti che vivono in un ambiente cittadino abbiano livelli di marker infiammatori (proteina C reattiva, omocisteina e fibrinogeno) più elevati rispetto a quanto riscontrato tra i residenti di aree meno inquinate e con traffico meno intenso. Sono arrivate poi, ulteriori conferme del ruolo degli inquinanti dell’aria sul rischio di infarto. L’aumento di 10 mcg/m3 di particolato correla con un aumento del 2,8 per cento del rischio di STEMI, mentre l’aumento di 10 mcg/m3 di ossido d’azoto aumenta il rischio CV negli uomini di oltre il 5 per cento. Questo lavoro si è basato sui dati dell’Agenzia per l’ambiente belga, e ha valutato l’esposizione agli inquinanti in ogni parte del Paese aggiustata per densità di popolazione. Il dato interessante, e su cui bisognerebbe riflettere è che la correlazione tra inquinamento e rischio

CV è stata evidenziata nonostante i livelli di inquinamento fossero nei limiti europei consentiti.

Combattere la fibrillazione atriale nel “mondo reale” Per quel che riguarda l’ambito terapeutico, le classi di farmaci introdotte di recente (nuovi anticoagulanti orali -NAO, anticorpi monoclonali anti-PCSK9) continuano a ricoprire un ruolo centrale sulla scena cardiologica. In particolare, c’è attenzione in questo momento ai dati provenienti dal “real world” su popolazioni di pazienti sempre più estese in trattamento con i NAO. È stato presentato a Londra il razionale dei nuovi registri ETNA, i due studi non interventistici sull’uso di edoxaban nel “mondo reale”, che coinvolgeranno più di 15.000 pazienti europei affetti da fibrillazione atriale (FA) e/o tromboembolismo venoso (TEV), con un follow up fino a 4 anni. Edoxaban in monosomministrazione giornaliera è stato approvato in Europa nel giugno 2015 per la prevenzione dell’ictus e dell’embolismo sistemico in pazienti adulti con FANV (FA non valvolare) che presentano uno o più fattori di rischio, quali insufficienza cardiaca congestizia, ipertensione, età uguale o superiore a 75 anni, diabete mellito e precedenti di ictus o attacchi ischemici transitori, così come per il trattamento e la prevenzione delle recidive di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare, nei pazienti adulti. A spiegare nei dettagli l’originalità e il razionale dei due nuovi

studi è stato Jan Steffel, del Dipartimento di cardiologia del Policlinico di Zurigo. “L’obiettivo del programma ETNA è dimostrare che gli ottimi risultati del trial ENGAGE AF-TIMI 48 su cui si basa l’approvazione di edoxaban possono essere replicati nella pratica clinica quotidiana e nel mondo reale. Non a caso - ha precisato Steffel - oltre ai dati su efficacia e sicurezza del farmaco, i registri raccoglieranno feedback basati su altri importanti parametri quali, per esempio, la soddisfazione di medici e pazienti e l’utilizzo delle risorse nei sistemi sanitari dei Paesi che lo adottano”. Per il registro ETNAAF-Europe, che analizza il trattamento con edoxaban in monosomministrazione giornaliera per la prevenzione dell’ictus nella FANV, i dati saranno raccolti su 13.000 pazienti, di 1.450 centri distribuiti in 12 Paesi europei; per il registro ETNA-VTE sul trattamento con edoxaban in monosomministrazione giornaliera per tromboembolismo venoso acuto, saranno invece arruolati 2.700 pazienti, di 660 centri distribuiti in 11 Paesi europei.

Ipercolesterolemia: nuove evidenze sull’efficacia di alirocumab Tra i farmaci a effetto ipocolesterolemizzante in fase di studio o di sviluppo clinico si inseriscono i nuovi anticorpi monoclonali inibitori di PCSK9, una proteina che accelera la degradazione lisosomiale del recettore delle LDL, riducendo quindi la densità recettoriale sulla superficie degli

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CO N GRE SSI epatociti. Numerosi inibitori di PCSK9 sono in studio, ma attualmente le evidenze maggiori provengono dai trial su alirocumab, che hanno dimostrato un’estrema efficacia della molecola sulla riduzione di C-LDL associata a un buon profilo di tollerabilità. Evidenze sull’efficacia di alirocumab in prevenzione secondaria e primaria, nei soggetti a rischio alto e molto alto, in aggiunta alle statine o in alternativa a esse nei pazienti intolleranti, oltre che nei pazienti con forme familiari di ipercolesterolemia sono già emerse nel corso della passata edizione del Congresso. Ulteriori dati sono stati illustrati quest’anno, provenienti da una nuova pooled analysis condotta su pazienti con HeFH (ipercolesterolemia familiare eterozigote) inclusi nel programma ODYSSEY. Questa analisi ha valutato fino a 18 mesi di follow-up (i precedenti risultati erano a 6 mesi) l’efficacia e la sicurezza di alirocumab rispetto al placebo in 1.257 pazienti, ovvero il più ampio gruppo di pazienti con HeFH mai studiato in un programma di fase III. Sono stati inclusi nell’analisi i dati dei quattro studi del programma di fase III ODYSSEY: LONG TERM (solo pazienti con HeFH), HIGH FH, FH I e FH II. In questi studi i pazienti affetti da HeHF con livelli di C-LDL non a target sono stati randomizzati a trattamento con alirocumab o placebo, entrambi somministrati in aggiunta alla terapia standard raccomandata, statine al massimo dosaggio tollerato con o senza altre terapie ipolipemizzanti, come ezetimibe. In ODYSSEY FH I e FH II, i pazienti sono stati trattati con alirocumab 75 mg (n=490) somministrato ogni 2 settimane con un’iniezione singola di 1 ml o con placebo (n=245). I pazienti che dopo 8 settimane non avevano raggiunto il target di C-LDL, a 12 settimane passavano a un dosaggio di 150 mg ogni 2 settimane con un’iniezione singola di 1 ml. A 24 settimane è stata documentata una riduzione del 56 per cento dei livelli di C-LDL che si è mantenuta a 52 settimane (-58 per cento) e a 78 settimane (-56 per cento). In ODYSSEY LONG TERM e HIGH FH, i pazienti sono stati trattati con un dosaggio di 150 mg (n=348) somministrato ogni 2

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settimane con un’iniezione singola di 1 ml o con placebo (n=174). A 24 settimane è stata documentata una riduzione del 57 per cento dei livelli di C-LDL che si è mantenuta a 52 (-60 per cento) e a 78 settimane (-63 per cento). In questo gruppo la riduzione è stata maggiore rispetto a quella dei pazienti ODYSSEY FH I e II perché partivano da valori basali di C-LDL più elevati. In generale, a 24 settimane, quando è stato raggiunto l’endpoint primario di efficacia, gli 838 pazienti trattati con alirocumab hanno ottenuto una riduzione significativa (p <0,0001) dei livelli di C-LDL rispetto ai pazienti del gruppo placebo (n =418). Sono state rilevate riduzioni dei livelli medi di C-LDL inferiori a 85 mg/dl

già dalla quarta settimana, mantenute poi per tutta la durata della terapia, fino a 78 settimane. L’incidenza di eventi avversi nel gruppo in trattamento attivo è risultata sovrapponibile a quella osservata nel gruppo placebo. Le premesse e i risultati finora ottenuti sembrano essere promettenti, e confermano le potenzialità di questa emergente classe di farmaci ipocolesterolemizzanti. La disponibilità degli inibitori di PCSK9 consentirà alla maggior parte dei pazienti in trattamento di raggiungere e superare gli obiettivi di riduzione dei livelli lipidici raccomandati dalle attuali linee guida, sebbene non costituiscano ancora farmaci di prima scelta nell’ambito della terapia dell’ipercolesterolemia. n

Meeting annuale ECTRIMS, 7-10 ottobre, Barcellona (Spagna)

Up to date sulla sclerosi multipla Dal meeting catalano le principali novità nella terapia

S

i è da poco conclusa la 31ma edizione del congresso ECTRIMS (European Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis), un appuntamento fondamentale per fare il punto sullo stato della ricerca e della clinica nell’ambito della sclerosi multipla (SM). I progressi compiuti nel corso di questi ultimi anni sul fronte della terapia e della diagnosi sono stati davvero enormi. Numerose molecole dal profilo d’azione innovativo sono state rese disponibili, arricchendo così l’armamentario terapeutico e permettendo sempre più di attuare un approccio personalizzato. In parallelo la messa a punto di metodiche diagnostiche sempre più sofisticate ha aperto la strada

verso una diagnosi sempre più precoce. Gli specialisti neurologi che si occupano di sclerosi multipla concordano ormai sul fatto che, per rallentare l’evoluzione del danno neuronale indotto dalla sclerosi multipla, la terapia dovrebbe essere instaurata fin dalle primissime manifestazioni di malattia (i cosiddetti CIS ovvero sindrome clinicamente isolata), e dunque la diagnosi precoce e la caratterizzazione della malattia costituiscono un caposaldo dell’approccio clinico e terapeutico. I farmaci innovativi ci sono, e via via stanno affiancando quelli tradizionali-interferoni e glatiramer acetato- nell’ottica di indirizzare il trattamento di ogni singolo paziente sulla base dei rischi-benefici in-


dividuali. Un target emergente della terapia è il rallentamento della perdita di volume cerebrale o atrofia. L’atrofia cerebrale è il risultato di processi patologici distruttivi che si verificano nelle persone con SM. Si manifesta fin dagli esordi della malattia e porta a un deterioramento neurologico e cognitivo irreversibile. E proprio a questo riguardo, citiamo i risultati presentati a Barcellona, e relativi allo studio di fase III TEMSO, in cui teriflunomide, rispetto a placebo, è stato in grado di rallentare significativamente per oltre due anni l’atrofia nei pazienti affetti dalla forma recidivante (SMR). Teriflunomide è un immunomodulatore con proprietà antinfiammatorie, a somministrazione orale. Sebbene l’esatto meccanismo d’azione non sia stato ancora completamente compreso, esso determinerebbe una riduzione del numero di linfociti attivati nel sistema nervoso centrale (SNC). La valutazione della variazione del volume cerebrale rispetto al basale è stata condotta in pazienti trattati con teriflunomide 14 mg o 7 mg, oppure placebo, attraverso risonanza magnetica (RMN). Ed ecco i risultati ottenuti. La riduzione percentuale mediana del volume cerebrale dal basale al mese 12, è risultata - nei gruppi trattati con, rispettivamente, teriflunomide 14 mg, 7 mg, e placebo - dello 0,39, 0,40, e 0,61. Questa variazione è stata inferiore in entrambi i gruppi trattati con teriflunomide rispetto a placebo: del 36,9 per cento nel gruppo trattato con 14 mg (p =0,0001), e del 34,4 per cento in quello trattato con 7 mg (p =0,0011). La significativa differenza nella riduzione dell’atrofia cerebrale è stata mantenuta con teriflunomide vs placebo fino al mese 24. La riduzione percentuale mediana del volume cerebrale rispetto al basale - nei gruppi trattati con teriflunomide 14 mg, 7 mg, o placebo - è stata di 0,90, 0,94, e 1,29. Questa variazione è stata inferiore in entrambi i gruppi trattati con teriflunomide rispetto a placebo: del 30,6 per cento nel gruppo trattato con 14 mg (p =0,0001), e del 27,6 per cento in quello trattato con 7 mg (p =0,0019). “Il controllo o la prevenzione dell’atrofia cerebrale sono obiettivi importanti nel trattamento della sclerosi multipla”, ha sottolineato Ludwig

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CO N GRE SSI Kappos, dell’Ospedale Universitario di Basilea (Svizzera). “Questi dati forniscono ulteriori indicazioni sui potenziali effetti di teriflunomide nelle persone con sclerosi multipla recidivante”.

Alemtuzumab: l’estensione degli studi dimostra il mantenimento dell’effetto terapeutico a 5 anni Alemtuzumab, farmaco di recentissima introduzione (in Italia è disponibile dallo scorso aprile), è un anticorpo monoclonale che si lega in modo selettivo alla proteina CD52, presente in grandi quantità sulla superficie delle cellule T e B. Il trattamento con alemtuzumab determina la deplezione delle cellule T e B circolanti, ritenute responsabili del dannoso processo infiammatorio tipico della SM. La molecola esercita un effetto minimo sulle altre cellule immunitarie. L’effetto antinfiammatorio acuto di alemtuzumab è seguito immediatamente dalla comparsa di una fase di ripopolamento delle cellule T e B che si protrae nel tempo, ristabilendo l’equilibrio del sistema immunitario con modalità che riducono potenzialmente l’attività della malattia. A Barcellona sono stati presentati i risultati di estensione a cinque anni degli studi pivotal CARE-MS I e CARE-MS II con alemtuzumab in pazienti affetti da sclerosi multipla recidivante remittente (SMRR). Si tratta di studi pivotali randomizzati della durata di 2 anni che hanno messo a confronto il trattamento con alemtuzumab con interferone beta-1a ad alto dosaggio in pazienti con SMRR. I pazienti dovevano presentare una forma attiva della malattia ed essere naïve (CARE-MS I) oppure aver avuto recidive con la terapia precedente (CARE-MS II). Lo studio di estensione ha coinvolto oltre il 90 per cento dei pazienti trattati con alemtuzumab negli studi di Fase III. Tali pazienti potevano ricevere, durante la fase di estensione, un ulteriore trattamento con alemtuzumab, nel caso avessero pre-

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sentato almeno una recidiva o almeno due lesioni nuove o più estese a livello cerebrale o del midollo spinale. I nuovi risultati confermano sostanzialmente gli effetti del trattamento osservati nei primi due anni degli studi CARE-MS I e CARE-MS II. In particolare, il basso tasso annualizzato di ricadute osservato nei pazienti che hanno ricevuto alemtuzumab in CARE-MS I (0,18) e CARE-MS II (0,27) si è mantenuto anche dal terzo (0,19 e 0,22) al quinto anno (0,15 e 0,18). Al quinto anno, rispettivamente l’80 e il 76 per cento dei pazienti trattati negli studi CARE-MS I e CARE-MS II, non hanno registrato un peggioramento della progressione della disabilità sostenuta a sei mesi, secondo la scala EDSS (Expanded Disability Status Scale). Inoltre al quinto anno, i pazienti in trattamento con alemtuzumab negli studi CARE-MS I e II hanno presentato una riduzione dell’atrofia cerebrale. Nel corso del quinto anno, l’incidenza della maggior parte degli eventi avversi emersi durante lo studio di estensione è stata comparabile o inferiore rispetto agli studi pivotali. La frequenza di eventi avversi tiroidei ha registrato una maggiore incidenza al terzo anno, per diminuire successivamente. “I risultati dello studio di estensione dimostrano che la maggior parte dei pazienti trattati con alemtuzumab ha continuato a presentare una riduzione dell’attività della malattia, pur non essendo stata sottoposta a ulteriori cicli di trattamento” ha commentato Eva Havrdová, dell’Università Charles di Praga (Repubblica Ceca). “È incoraggiante poter constatare che gli effetti significativi del trattamento sono stati mantenuti nel corso dei cinque anni sui differenti outcomes”. Alemtuzumab dunque si delinea come un’ulteriore alternativa terapeutica per i pazienti affetti da sclerosi multipla.

Un farmaco sperimentale efficace nella SMpP La forma primariamente progressiva di sclerosi multipla (SMPP) colpisce circa il

10 per cento dei soggetti e presenta un andamento caratterizzato da un costante peggioramento delle funzioni neurologiche, fin dall’esordio. Si tratta di una forma che porta inesorabilmente il paziente ad altissimi gradi di disabilità e anche al decesso. Per questa grave forma di sclerosi multipla, fanno ben sperare i risultati presentati all’incontro catalano, dello studio ORATORIO, una delle comunicazioni più attese, che è stato condotto su ocrelizumab, una molecola in fase attuale di sperimentazione. Lo studio di fase III ha raggiunto il suo endpoint primario, dimostrando che il trattamento con ocrelizumab ha ridotto significativamente la progressione della disabilità clinica sostenuta per almeno 12 settimane rispetto al placebo, come misurato all’EDSS. ORATORIO è un trial randomizzato, in doppio cieco, multicentrico condotto per valutare l’efficacia e la sicurezza di ocrelizumab (600 mg somministrato per infusione endovenosa ogni sei mesi) rispetto al placebo in 732 persone affette dalla forma primaria progressiva. Oltre ai positivi risultati in termini di rallentamento della progressione della disabilità, la molecola ha mostrato anche un buon profilo di sicurezza, sovrapponibile al placebo. Ocrelizumab (R1594) è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro l’antigene di membrana CD20. Le cellule CD20- B positive sono un tipo specifico di cellule immunitarie che si ritiene rappresentino un fattore chiave per il danno alla mielina e all’assone che si osserva nelle persone con SM e che può portare a disabilità. Ocrelizumab si lega alle proteine di superficie delle cellule CD20 espresse su alcune cellule B, ma non sulle cellule staminali o sulle cellule del plasma. Pertanto, la possibilità di produrre nuove cellule B è conservata nelle persone trattate con la molecola. Ocrelizumab è il primo farmaco in fase di sperimentazione a mostrare un effetto clinicamente rilevante e statisticamente significativo sulla progressione in questa forma di malattia. n


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neurologia

CEFALEE nell’ANZIANO Inquadramento clinico delle forme primitive e secondarie Sebbene in linea generale la cefalea tenda a diminuire

Epidemiologia

con l’età, alcune forme primarie sono più comuni

La prevalenza della cefalea nella popolazione generale in 1 anno è stata stimata intorno al 46 per cento, con una prevalenza nel corso della vita del 64 per cento (8). Esiste tuttavia solo un numero limitato di studi riguardo la prevalenza negli anziani (9-13). Rispetto ai maschi, le femmine tendono ad avere più mal di testa in tutte le fasce d’età e, di conseguenza, tra gli anziani di età superiore a 75 anni, la prevalenza della cefalea è risultata essere del 55 per cento nelle donne rispetto al 22 per cento nei maschi (1,14). Come atteso, i tassi di prevalenza più elevati sono stati segnalati tra la popolazione più giovane e con alta prevalenza femminile (66 per cento femmine e 55 per cento nei pazienti maschi di età compresa tra 55-74 anni; femmine 92 e 74 per cento maschi, in giovani adulti di età compresa tra 21-34 anni). In studi riguardanti la popolazione anziana il sesso femminile e la minore età sono stati indicati quali fattori di rischio per la cefalea; l’emicrania e le forme secondarie sono state associate a ipertensione, la cefalea tensiva e le secondarie con il diabete e la cefalea di tipo tensivo con l’ischemia miocardica (15). Anche se il mal di testa di solito inizia in giovane età, la comparsa de novo nella popolazione sopra i 65 anni può essere osservata nel 5,4 per cento dei pazienti (12). Inoltre, tutti i sottotipi di cefalea si osservano tra gli anziani. Tuttavia, l’emicrania si verifica meno frequentemente (4,6 per cento) rispetto alla cefalea di tipo tensivo (16-27 per cento) (1,11). Diversi fattori demografici e sociali influenzano la prevalenza del mal di testa. La prevalenza della cefalea nelle zone rurali dell’Ecuador è risultata

negli anziani, quali per esempio la cefalea ipnica, l’aura senza emicrania, l’arterite a cellule giganti. Non esistono linee guida per il trattamento, ma vi è accordo sul fatto che la terapia debba essere personalizzata

L

a cefalea è una delle patologie più comuni in medicina generale così come in clinica neurologica. È sempre stata considerata come un disturbo frequente e disabilitante nei giovani. Infatti la prevalenza del mal di testa declina sicuramente con l’avanzare dell’età, soprattutto oltre i 60 anni (1), ma non è comunque raro che i pazienti anziani presentino tale patologia (2,3). Il 10 per cento delle donne e il 5 per cento degli uomini riferisce ancora forti mal di testa all’età di 70 anni (4). Non solo la prevalenza, ma anche l’eziologia e la presentazione della cefalea

A cura di Ennio Pucci1,2, Riccardo

Cremascoli2, Alfredo Costa1,2

1. Centro per lo studio delle cefalee – Consorzio universitario per lo studio dei disordini adattativi e cefalee (UCADH). IRCCS Fondazione Istituto neurologico nazionale “C. Mondino”, Pavia; 2. Dipartimento di Scienze del Sistema nervoso e del comportamento, Università di Pavia, Pavia

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variano con l’età, il che spiega la necessità di un’attenzione particolare per le cefalee secondarie o inusuali, tipiche dei pazienti anziani, caratterizzate da possibile prognosi peggiore (5). Un mal di testa di nuova insorgenza o un cambiamento del pattern di cefalea in questa fascia di età comporta un alto indice di sospetto per malattie organiche. Inoltre, la frequente presenza di malattie croniche concomitanti e l’eccessivo uso di analgesici possono aggravare un presistente mal di testa o dare origine a nuova cefalea, complicando ulteriormente la gestione clinica dei pazienti anziani (6). Devono essere fatte attente considerazioni diagnostiche e un’ampia diagnosi differenziale. Cefalee secondarie possono originare da malattie organiche sottostanti come l’arterite a cellule giganti, lesioni espansive cerebrali, malattie cerebrovascolari o anomalie metaboliche (7). È anche importante ricordare che esistono cefalee non comuni, sia primarie che secondarie, che si presentano più comunemente nella popolazione anziana.


sensibilmente inferiore (6,8 per cento tra gli anziani) rispetto alla letteratura Tabella 1. Le cause più comuni occidentale (16). I dati relativi al mal di cefalee secondarie nell’anziano di testa tra gli anziani nel sud-est asiatico mostrano che la cefalea di Arterite a cellule giganti (GCA) tipo tensivo rappresentava il più co- Malattie cardio-cerebrovascolari mune sottotipo (45,7 per cento) tra Lesioni occupanti spazio gli anziani, mentre l’emicrania senza aura (54,7 per cento) era più comune Farmaci nei giovani adulti. Inoltre, i pazienti Nevralgia del trigemino più anziani soffrivano maggiormente di cefalea cronica quotidiana rispet- Cefalea a eziologia metabolica to ai pazienti più giovani (17). Allo Spondilosi cervicale scopo di verificare se il declino della prevalenza con l’età fosse associato Malattie oculari con l’eliminazione di fattori legati al dei casi, gli attacchi di emicrania senza lavoro, all’aumento di altri problemi di aura progressivamente diminuiscono in salute o all’uso concomitante di farmaci durata, intensità e frequenza fino a scomantidolorifici, alcuni Autori hanno condotparire in età avanzata (22). Allo stesso to uno studio su un campione di 5.000 tempo, l’emicrania senza aura assume adulti (18). La prevalenza della cefalea è sempre più le caratteristiche di una cefastata simile nei lavoratori e nei pensionati lea di tipo tensivo, il che rende più difficile intervistati, a seconda della fascia di età. la diagnosi differenziale. Nelle femmine, Chi soffre di mal di testa era più propenso ma non nei maschi, aumentano la durata a consultare il proprio Medico di medicina del mal di testa, la prevalenza di dolore generale per qualsiasi motivo (oltre il mal unilaterale e pulsante, fotofobia e fonofodi testa) rispetto a chi non ne era affetto, bia mentre l’aggravamento con l’attività e questo era vero per ogni fascia d’età. fisica diminuisce con l’età (23). Gli emicraGli Autori hanno concluso che né il pennici più anziani riferiscono crisi di intensionamento dal lavoro né la presenza di sità medio-lieve della durata di 4-12 ore, altri problemi di salute erano in grado di mentre solo pochi pazienti hanno nausea, spiegare il declino della prevalenza della senza vomito (24). L’emicrania con aura cefalea con l’età. è rara negli anziani (1-2 per cento), ma i Oltre alla cefalea episodica, anche la cefapazienti con diagnosi di questo tipo dulea cronica si può riscontrare negli anziani. rante la loro gioventù possono sviluppare In un recente studio sono stati valutati fenomeni benigni, chiamati inizialmente mediante apposito questionario aspetti psi“emicrania acefalalgica” e successivamencologici, cognitivi e riguardanti la qualità te “equivalenti emicranici” (25), tali per della vita di pazienti anziani con cefalea cui in età avanzata non compare la fase cronica (19). Sembrerebbe che la frequendi dolore, ma solo l’aura (di solito la forma za del mal di testa abbia un impatto sulla nota come aura tipica senza emicrania qualità di vita legata alla salute negli ansecondo la classificazione dell’Internatioziani, e che l’intensità del dolore al collo, nal Headache Society-ICHD-III beta) (26). e la disabilità che ne deriva, è un fattore Possono verificarsi per la prima volta nel importante da considerare nella gestione 75 per cento dei pazienti con emicrania delle persone anziane con cefalea cronica. con aura dopo i 65 anni. La maggior parte delle persone presentano aura visiva con o Cefalee primarie nell’anziano senza altri tipi di sintomi auratici. Le aure visive sono più solite presentarsi da sole, Tutti i tipi di cefalee primarie si osservano descritte come linee a zig-zag scintillanti, tra gli anziani. L’emicrania è sempre più luci scintillanti oppure offuscamento della frequente nelle donne rispetto agli uomini vista. Il successivo sintomo più comune (3:1), ma il rapporto diminuisce gradualdell’aura geriatrica sono le parestesie, mente a 2:1 (20,21). Nella maggior parte

seguite da afasia e disartria. Questi fenomeni devono essere distinti da attacchi ischemici transitori (TIA), così come da altri disturbi transitori quali l’embolia, le malformazioni artero-venose, le crisi epilettiche parziali, la transitoria perdita visiva monoculare a causa di fenomeni vascolari o di altro tipo, le vasculiti (26,27). Accertamenti in presenza di sintomi sospetti per aura di nuova insorgenza dovrebbero includere una neuroimmagine del cervello e delle arterie carotidi, monitoraggio Holter, ecocardiogramma ed eventualmente il pannello coagulativo e l’elettroencefalogramma. Mentre un attacco emicranico può verificarsi per la prima volta solo in pochi pazienti anziani (28), una cefalea secondaria deve sempre essere sospettata (Tabella 1). Una comparsa preferenzialmente notturna di crisi è documentata per l’emicrania senza aura a tutte le età, suggerendo una relazione tra emicrania e meccanismi del sonno; questa relazione aumenta con l’età, senza predilezione di sesso, suggerendo il possibile coinvolgimento di un deterioramento dei meccanismi cronobiologici della regolazione del sonno (29). Come accennato in precedenza, la cefalea tensiva è la forma primaria più frequente negli anziani, interessando il 18,3-51,8 per cento degli individui (30). La cefalea episodica di tipo tensivo diminuisce con l’età mentre la forma cronica aumenta intorno ai 60 anni per poi diminuire nell’età più avanzata (10). Riguardo la forma tensiva con l’aumentare dell’età sono stati riportati un aumento della frequenza della crisi e della loro durata, un aumento della variabilità nella sede del dolore, una maggiore frequenza di nausea e un aumento del consumo di analgesici (31). In una significativa percentuale di anziani, l’insorgenza della cefalea di tipo tensivo segue eventi avversi psicologici (difficoltà economiche, problemi di salute, morte di un parente, pensionamento) (31). La cefalea a grappolo (CH) è rara negli anziani, soprattutto dopo la sesta decade, ma può iniziare occasionalmente a questa età in entrambi i sessi (5,30). Sembrerebbe che le caratteristiche cliniche della CH

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neurologia siano simili negli anziani e nei giare la testa su un cuscino, può pazienti più giovani (12). Tabella 2. I sintomi più frequenti nell’arterite esacerbare il dolore. Sebbene la La forma cronica di CH di solito maggior parte dei medici associ a cellule giganti (GCA) si verifica più tardi nella vita; in la GCA con il dolore temporale, alcuni casi può essere sintoma- Cefalea il mal di testa può essere diffuso tica, o comorbida, con malattie o localizzato a qualsiasi regione comuni dell’età avanzata, come la Febbre elevata della testa compresa la regione dissecazione carotidea, aneurismi VES elevata occipitale. Sintomi visivi come arteriosi, malformazioni vascolaamaurosi, diplopia e perdita della Anemia ri, meningiomi, adenomi ipofisari vista sono le più significative, e o di altro tipo, lesioni espansive, Altri sintomi: fatica, mialgia, artralgia, depressione, claupotenzialmente gravi, manifestaglaucoma o uveite (2). La cefalea dicatio muscoli lingua/deglutizione, tosse/raucedine, sensizioni precoci di GCA. Polimialgia ipnica è una rara forma di cefalea bilità scalpo regione temporale, anoressia, calo ponderale, reumatica, con dolore muscolare, primaria che colpisce le donne sudorazione, dolore intenso regione temporale claudicatio della mandibola e ripiù che gli uomini. È tipica delle gidità articolare, è presente nel persone anziane, compare infatti quasi 25 per cento dei pazienti. Una sintesi dei frequenza di condizioni dolorose come esclusivamente in soggetti oltre i 60 anni, sintomi più frequenti di GCA è riportata l’artrite, l’osteoporosi, la neuropatia diacon una prevalenza di circa lo 0,1 per in Tabella 2. betica, la fibromialgia, problemi muscolocento tra tutte le cefalee primarie (6,7). scheletrici, i disturbi oromandibolari e la Il reperto di laboratorio più consistente nevralgia erpetica (36). è la VES elevata mentre tensione e indurimento delle arterie temporali sono frew Comorbidità e trasformazione quenti riscontri clinici. La biopsia dell’artedelle cefalee primarie negli anziani Cefalee secondarie comuni ria temporale, attualmente gold standard negli anziani La comorbidità è un problema rilevante diagnostico, deve essere eseguita entro 48 della cefalea, in particolare per l’emicraore dall’inizio del trattamento con steroidi, nia, a tutte le età; tuttavia pone particolari Ci sono numerose cause di cefalea sesolitamente molto efficace (37). problemi nella gestione clinica del mal di condaria; oltre 100 sono elencate nella testa negli anziani (32). Le comorbidiseconda edizione della Classificazione Intà più importanti sono rappresentate da ternazionale delle Cefalee-ICHD-III beta w Malattie cardio-cerebrovascolari disturbi cardio-cerebrovascolari, distur(26); molte di queste cause possono essere L’incidenza della cefalea in individui con bi psichiatrici ed epilessia. Negli anziani, trovate negli anziani. ipertensione non è superiore rispetto a l’emicrania non sembra essere associata controlli non ipertesi (38). Tuttavia, una con ipertensione e non è associata con un cefalea diffusa, che dura diverse ore, può w Arterite a cellule giganti (GCA) aumentato rischio di malattie cardiache; essere causata dall’ipertensione grave La GCA è un’arterite necrotizzante granuinoltre, l’emicrania non è un fattore di (pressione diastolica superiore a 130 lomatosa sistemica che colpisce le arterie rischio per ictus e l’associazione di emimmHg). Mal di testa si verifica in circa il craniali di media e grande dimensione, in crania e ictus può essere considerata una 25 per cento dei casi di ictus ischemico, particolare dell’albero carotideo. Essa si coincidenza nella maggioranza dei casi specialmente nel caso di infarti corticali o verifica prevalentemente in individui di (33). La depressione negli anziani può infarti di grandi dimensioni; è meno coetà media e avanzata (3-9 per cento ogni anche influire sull’evoluzione dell’emimune negli infarti lacunari, e può precede100.000 pazienti; rapporto femmine: macrania, facilitando la sua trasformazione re l’evento ischemico di giorni o settimane schi 3:1), con un’età media di insorgenza in una cefalea cronica quotidiana (CDH) (2). Il dolore tende a essere unilaterale e di 70 anni (37). L’associazione con l’aploe influenzando le strategie terapeutiche omolaterale al lato della lesione. La fisiotipo HLA-DR4 e gli alleli del locus HLA(34). La prevalenza della CDH negli anpatologia non è chiara, ma la cefalea può DRB1 e la segnalazione di GCA in più ziani sembra essere di circa il 4 per cento, essere considerata secondaria alla vasomembri di una stessa famiglia mostrano simile a quella della popolazione generale, dilatazione di vasi sensibili al dolore, con che fattori genetici possono svolgere un indicando che la prevalenza di questa liberazione di sostanze vasoattive quali ruolo importante. I meccanismi alla base condizione non diminuisce con l’età; nei la sostanza P, citochine, ossido di azoto di questa malattia sono probabilmente impazienti anziani con CDH la presenza di e bradichinine che portano alla stimolamunologici, cellulo-mediati, “antigene-dricaratteristiche emicraniche suggerisce una zione di afferenze nocicettive trigeminoven” in risposta a un antigene autologo. La peggior prognosi rispetto a forme con cavascolari. L’incidenza di cefalea in corso cefalea è il sintomo iniziale più frequente ratteristiche tensive (35). Un fattore noto di ictus emorragico è di circa il 40-60 per e comune (70-90 per cento dei pazienti) per facilitare la cronicizzazione del mal di cento. Essa si verifica più frequentemen(2). Il dolore può essere intermittente o testa è l’uso eccessivo di analgesici, che è te nei pazienti con ematomi cerebellari, costante. La compressione locale, come ad molto frequente tra gli anziani vista l’alta occipitali e lobari di grandi dimensioni. esempio indossare un cappello o appog-

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La frequenza della cefalea causata da un TIA è molto variabile. La cefalea è spesso associata negli anziani a ematomi subdurali, con un’incidenza crescente in rapporto alla durata del mal di testa. Cefalea si verifica in più dell’80 per cento dei pazienti con ematomi subdurali cronici. L’esatta incidenza di infarto miocardico acuto che si presenta esclusivamente con mal di testa è sconosciuta, ma è probabilmente più comune di quanto ritenuto in precedenza. L’infarto miocardico acuto dovrebbe essere considerato nella diagnosi differenziale di un improvviso, forte, mal di testa in un paziente anziano senza storia di cefalea cronica.

Tabella 3A. Trattamenti

farmacologici che sono causa di cefalea

Nitrati (nitroglicerina, nitroprussiato di sodio, nitrato di amile) Calcioantagonisti (nimodipina, nifedipina) Bloccanti recettori istamina Teofillina e broncodilatatori (aminofillina) Isosorbide mono e dinitrato Antibiotici (trimetoprim-sulfametossazolo, tetracicline) Amantadina Levodopa Dipiridamolo, atropina Antiaritmici (digossina, amiodarone)

w Lesioni occupanti spazio Gli anziani hanno una maggiore incidenza di patologie intracraniche rispetto ai giovani adulti (2). Mal di testa come unica manifestazione di un tumore encefalico si verifica solo nell’1 per cento dei pazienti con tale patologia. Si verifica come presentazione fino alla metà dei pazienti con tumori cerebrali e si sviluppa nel corso della malattia nel 60 per cento dei casi. La cefalea può comparire con o senza elevazione della pressione endocranica e indipendentemente dalla velocità di crescita delle lesioni. Il dolore è solitamente diffuso, ma può sovrapporsi alla sede del tumore. Meccanismi ipotizzati coinvolti nello sviluppo della cefalea includono la trazione su vasi cerebrali sensibili al dolore, ernia transitoria del giro ippocampale, trazione su nervi cranici o aumento della pressione intracranica. Più comunemente, il dolore derivante da un tumore encefalico ricorda una forma di tipo tensivo ed è descritto come “dolore sordo” o costrittivo-gravativo; raramente ricorda l’emicrania. Il “classico” mal di testa da neoplasia dell’encefalo, una cefalea mattutina grave associata a nausea e vomito, si verifica solo nel 17 per cento dei pazienti. Con

Chemioterapici (tamoxifene, ciclofosfamide) Ormoni (estrogeni, progestinici) Mannitolo, idralazina Agenti erettogeni (sildenafil) Barbiturici Disulfiram Cimetidina, ranitidina Ormoni tiroidei Steroidi Caffeina Fenotiazina, litio, imipramina

Farmaci e sostanze il cui uso eccessivo è associato a MOH

Tabella 3B.

Analgesici Oppiacei Caffeina Stupefacenti Note: Questi farmaci determinano una cefalea da uso eccessivo di farmaci (MOH) secondo i criteri IHS, presente anche nei soggetti anziani. Gli stessi farmaci che possono causare cefalea sono anche alla base di una possibile trasformazione in cefalea cronica quotidiana (CDH). CDH: 4% soggetti anziani (simile alla popolazione generale)

lesioni occupanti spazio diverse dai tumori al cervello, come ematomi subdurali e ascessi cerebrali, la cefalea è più frequente e intensa, e si verifica spesso nelle fasi iniziali (2).

w Farmaci Il mal di testa può essere un effetto avverso di diversi farmaci o essere causato da un loro uso eccessivo. Gli anziani hanno spesso patologie coesistenti che richiedono un trattamento con più farmaci, alcuni dei quali possono causare cefalea con caratteristiche non specifiche (36). I farmaci più frequentemente causa di cefalea (2) comprendono principalmente i nitrati e poi calcioantagonisti, bloccanti dei recettori dell’istamina, teofillina e broncodilatatori, FANS, antibiotici (trimetoprim-sulfametossazolo, tetracicline), sedativi, stimolanti, amantadina, levodopa, dipiridamolo, beta-bloccanti, antiaritmici, chemioterapici (ad esempio, tamoxifen, ciclofosfamide), ormoni (estrogeni e progestinici) e agenti erettogeni (Tabella 3A). Vale la pena ricordare che i pazienti anziani non sono immuni dalla cefalea da uso eccessivo di farmaci (MOH). Questa è una forma di mal di testa distinta e riconosciuta dai criteri ICHD IIIbeta (26) e comprende cefalea associata a uso eccessivo di caffeina, analgesici, oppiacei, stupefacenti (Tabella 3B).

w Nevralgia del trigemino La nevralgia del trigemino è comune negli anziani, con un’età media di esordio di circa 50 anni e un rapporto femmine:maschi di 2:1. La maggioranza dei pazienti con nevralgia del trigemino “idiopatica” presenta una compressione della radice del trigemino da parte di un’arteria (cerebellare superiore o cerebellare anteriore-inferiore) o di una vena. Altre cause di nevralgia del trigemino secondaria sono più frequenti nei pazienti con una più bassa età di esordio.

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neurologia Pur in assenza di linee guida sul trattamento delle cefalee primarie nell’anziano, vi è accordo sul fatto che il trattamento dei pazienti anziani debba essere individualizzato. Questo sia perché vi è frequente presenza di patologie concomitanti, sia perché l’invecchiamento produce cambiamenti fisiologici che riducono la tolleranza ai farmaci e aumentano la probabilità di effetti collaterali w Cefalea a eziologia metabolica La IHS definisce “metabolica” una forma di cefalea che si verifica durante un disturbo del metabolismo e scompare entro 7 giorni dopo il trattamento adeguato dello stesso (26). Un mal di testa “metabolico” può essere secondario a malattia polmonare ostruttiva cronica con ipercapnia e ipossia, insufficienza renale cronica, anemia, insufficienza cardiaca e apnea del sonno ostruttiva o centrale (2). La dialisi può anche portare cefalea, probabilmente attraverso un meccanismo osmotico.

w Spondilosi cervicale La cefalea cervicogenica è probabilmente sovrastimata quale eziologia di cefalea negli anziani, anche perché i cambiamenti radiografici da spondilosi cervicale sono comuni in questa fascia d’età. Le caratteristiche principali di questo mal di testa includono dolore occipitale e nucale, limitazione articolare del movimento del collo e lo spasmo dei muscoli cervicali.

necessaria in presenza di dolore oculare o frontale di nuova insorgenza, soprattutto se il disturbo è associato a occhi rossi, calo del visus transitorio/costante o diplopia (2). Oltre al glaucoma, spesso associato a cefalea acuta o cronica a volte molto intensa, anche la neurite ottica va considerata come possibile causa di cefalea negli anziani.

Mal di testa insoliti negli anziani w Nevralgie autonomico-trigeminali Le nevralgie autonomico-trigeminali (TAC) sono un gruppo di cefalee primarie caratterizzate da attacchi unilaterali di dolore a livello cranico, intenso, di breve durata con associate caratteristiche craniche autonomiche come iniezione congiuntivale, lacrimazione, congestione nasale, rinorrea e/o edema palpebrale (26). Una forma comune è la CH, la cui incidenza negli anziani è stata menzionata in precedenza. Le TAC non comuni che più spesso colpiscono la popolazione anziana sono caratterizzate da attacchi unilaterali di breve durata, con cefalea neuralgiforme, iniezione congiuntivale e lacrimazione (SUNCT) o con caratteristiche craniche autonomiche (SUNA). L’età media di insorgenza è di circa 50 anni, ma casi di sindrome SUNCT sono stati riportati in soggetti sia anziani che molto anziani (38). I maschi sono colpiti più spesso (1,5 M: 1 F). Il dolore è forte, unilaterale, acuto, lancinante, localizzato prevalentemente in sede orbitaria, sovraorbitaria o alle regioni temporali. Gli attacchi possono avvenire anche in gruppi di coltellate (fino a 200 attacchi al giorno) e di solito durano da 5 a 240 secondi. Quando nei pazienti manca sia l’iniezione congiuntivale che la lacrimazione il termine usato è SUNA piuttosto che SUNCT, ma sono probabilmente la stessa malattia. SUNCT/SUNA vengono regolarmente confuse con la nevralgia del trigemino a causa della breve durata e della qualità del dolore.

w Cefalea da tosse primaria w Malattie oculari Le malattie oculari sono frequenti negli anziani e una valutazione oculistica è

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La cefalea da tosse primaria è caratterizzata da brevi parossismi di dolore a seguito di colpi di tosse o altre manovre

di Valsalva (26). Il dolore aumenta rapidamente e poi diminuisce gradualmente nel giro di 1-30 s. La cefalea da tosse primaria è generalmente un disturbo dei pazienti anziani, mentre la cefalea da tosse secondaria tende a presentarsi nei pazienti più giovani. Più giovane è il paziente tanto maggiore deve essere la preoccupazione per una causa secondaria. Cause secondarie, che devono essere sempre ricercate, sono il più delle volte lesioni della fossa cranica posteriore, la più comune delle quali è la malformazione di Chiari con o senza idrocefalo. Altre cause includono idrocefalo acuto ostruttivo, ipertensione endocranica idiopatica (pseudotumor cerebri), aumento secondario della pressione intracranica da tumore, ascesso o ematoma subdurale, irritazione meningea da sangue subaracnoideo, infiltrato infiammatorio, cancro, ipotensione intracranica spontanea o iatrogena, aneurismi e malattia arteriosa dei vasi extra- o intracranici (7). La diagnosi necessita della tomografia computerizzata (CT) dell’encefalo, di un’angiografia TC venosa mirata a evidenziare una malattia dei seni venosi del cranio e una risonanza magnetica con e senza gadolinio per lo studio dei vasi intraed extracranici. In genere queste forme di mal di testa sono di durata limitata e guariscono spontaneamente. Tuttavia l’indometacina e la sottrazione di un alto volume tramite puntura lombare sembrano essere trattamenti efficaci in quanto capaci di ridurre la pressione intracranica.

Conclusioni Sebbene in generale la cefalea diminuisca con l’età, certe forme primarie sono più comuni negli adulti anziani. Queste includono l’aura tipica senza emicrania, la cefalea ipnica, la SUNCT, l’arterite a cellule giganti e la cefalea da tosse primaria. Le cefalee secondarie diventano di maggior preoccupazione nella popolazione geriatrica e il mal di testa può comparire nei casi di trauma cranico, ictus, tumori cerebrali e anomalie metaboliche. Non esistono linee guida per il trattamento delle cefalee primarie nell’anziano. Tut-


tavia vi è un consenso generale che l’approccio al trattamento dei soggetti anziani dovrebbe essere individualizzato, non solo a causa della frequente presenza di malattie concomitanti, ma anche perché l’invecchiamento produce cambiamenti fisiologici che riducono la tolleranza ai farmaci e aumentano la probabilità di effetti collaterali.

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nefrologia

INTROITO di PROTEINE con la DIETA e INSUFFICIENZA RENALE CRONICA Indicazioni pratiche per il MMG La dieta ipoproteica è da anni un caposaldo della terapia dell’insufficienza renale cronica in assenza però di dati univoci e conclusivi sul rapporto benefici/rischi di tale dieta, cioè sui possibili effetti favorevoli sul rene e i possibili effetti sfavorevoli su obiettivi non-renali

E

siste un consenso pressoché unanime sull’idea che l’introito di proteine con la dieta rappresenti un modulatore fondamentale delle funzioni del rene (1). L’idea si basa su risultati di moltissimi studi come dimostrato dal motore di ricerca PubMed che per le parole chiave dieta, proteine e rene elenca oltre 14.000 diverse voci bibliografiche, la prima apparsa poco meno di 100 anni or sono (2). La principale implicazione pratica possibilmente derivante dalle informazioni sui rapporti tra proteine nella dieta e funzione renale è l’uso di diete con ridotto contenuto di proteine per rallentare la velocità del declino della funzione

A cura di Massimo Cirilloab, Giancarlo

renale nel tempo, cioè per rallentare la progressione delle malattie renali croniche verso lo stadio terminale dell’insufficienza renale che necessita di trattamento sostitutivo mediante dialisi o trapianto di rene. Questo articolo non desidera fornire un’ennesima revisione più o meno critica dei dati in favore o contro l’uso della dieta ipoproteica nella malattia renale, ma ha lo scopo di offrire al lettore elementi utili alla comprensione generale del problema e, si spera, utili anche a una razionale pratica medica. L’articolo non affronta i possibili rapporti dell’introito di proteine con la dieta con le complicanze metaboliche dell’insufficienza renale né condizioni specifiche quali l’insufficienza renale in età pediatrica, l’insufficienza renale acuta, la dieta del paziente in dialisi ecc.

Bilancioab, Monia Celanob

Nutrienti e salute

a. Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Salerno b. Azienda Ospedaliera Universitaria di Salerno

I nutrienti -sia i macronutrienti che i micronutrienti -possono essere definiti come

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componenti della dieta indispensabili allo sviluppo e/o al mantenimento dell’integrità di struttura e/o di funzione dell’organismo. Per ogni dato nutriente è teoricamente possibile immaginare che i rapporti tra introito abituale con la dieta e salute possano essere descritti da una curva a U schematizzata in Figura 1. La parte sinistra della curva mostra che la severa riduzione o la mancanza di un dato nutriente nell’introito dietetico abituale induce in tutti gli individui disordini secondari a stati carenziali e che la frequenza di tali disordini diminuisce fino a scomparire man mano che l’introito del nutriente si avvicina al fabbisogno minimo necessario. In modo simmetrico e opposto, la parte destra della curva mostra che l’elevazione dell’introito abituale di quel nutriente al di sopra di una certa soglia induce disordini secondari a condizioni di sovraccarico o accumulo progressivamente più frequenti al crescere dell’introito abituale del nutriente. La parte intermedia della curva, quindi, mostra che solo un introito abituale compreso in uno specifico range si associa a buone condizioni di salute, cioè all’assenza di disordini da carenza e di disordini da stati di sovraccarico/ accumulo (3). In quello specifico range, si troveranno importanti valori di riferimento per l’introito dietetico quali il fabbisogno minimo, l’introito giornaliero raccomandato (in inglese RDA, recommended daily allowance), il massimo introito tollerabile (in inglese UL, tolerable upper intake level).


Figura 1

Rapporti teorici tra introito di nutrienti e salute

Fonte: modificata da dysphagia.com

Esistono obiettive difficoltà etiche e pratiche per un’accurata e affidabile definizione di questi valori di riferimento per ogni singolo nutriente. Si aggiungano poi le specificità, e quindi le difficoltà, necessarie a questa definizione separatamente nei due sessi e in neonati, bambini, adolescenti, adulti di età giovane, di mezz’età, età avanzata ecc. Tali difficoltà spiegano perché questi valori di riferimento siano in molti casi mal definiti, discutibili e, comunque, in continuo aggiornamento e verifica. Il medico, inoltre, dovrà tenere presente la sostanziale differenza tra introito abituale e introito occasionale e quindi non dovrà estrapolare all’introito occasionale evidenze e i dati relativi all’introito medio abituale. Un ultimo, ma fondamentale punto da considerare nella valutazione quantitativa dell’introito di nutrienti con la dieta è il ruolo della taglia corporea (antropometria) e l’uso del peso come indice antropometrico. È intuitivo che il fabbisogno dietetico vari con le dimensioni del corpo e che un introito dietetico adeguato debba essere diverso tra un adulto alto 1,90 m con peso 90 kg e un adulto di pari età, ma alto 1,50 m con peso 50 kg. Per rispondere

a questa necessità, l’introito dietetico va espresso per kg di peso senza dimenticare che la corretta espressione del dato è per kg di peso ideale e non per kg di peso reale (3). Un fabbisogno dietetico calcolato trascurando la differenza tra peso ideale e peso reale risulterà spesso grossolanamente errato per la presenza di sovrappeso o, più raramente, di magrezza patologica. Per rendere meglio comprensibili gli errori dei calcoli basati sul peso reale, l’esempio che segue fa riferimento prima al fabbisogno calorico e poi al fabbisogno proteico. Per le calorie, il fabbisogno dietetico desiderabile è circa 35 cal per kg di peso, cioè un fabbisogno di 2.500 cal circa in una persona di 70 kg (35 cal x 70 kg =2.450). Si calcolerà ora il fabbisogno calorico in una persona in severo sovrappeso, alta 1,70 m con peso di 150 kg e poi, per contrasto, in una persona di pari sesso, età e altezza, ma con magrezza patologica e peso di 40 kg. Se il calcolo sarà basato sul peso reale si avrà come inevitabile conseguenza che il fabbisogno calcolato risulterà superiore a 5.000 cal nella persona in sovrappeso (35 cal x 150 kg = 5.250) mentre sarà pari a 1.400 cal nella persona malnutrita

(35 cal x 40 kg = 1.400). Per le proteine, il fabbisogno dietetico desiderabile è 0,8 g di proteine per kg di peso, valore che, basando il calcolo sul peso reale, corrisponderà a un fabbisogno giornaliero di 56 g nella persona con peso di 70 kg (0,8 g x 70 kg =56), di 120 g nella persona con peso di 150 kg (0,8 x150 kg = 120) e di 32 g nella persona di 40 kg (0,8 x 40 =32). In altre parole, basando i calcoli sul peso reale, si sarà realizzato un tragicomico paradosso per il quale si considererà desiderabile una dieta ipercalorica ed iperproteica per la persona in sovrappeso e una dieta ipocalorica e ipoproteica per la persona malnutrita. L’esempio sopra citato è teoricamente valido ed estensibile a qualsiasi nutriente, e chiarisce perché il peso reale di una persona sottopeso per magrezza patologica o di una persona in sovrappeso per eccesso di massa adiposa oppure per edema non può e non deve essere considerato nel calcolo del fabbisogno dietetico. Dal punto di vista pratico, il peso ideale di un adulto si ottiene con una semplice operazione matematica in cui si moltiplica 22 per il quadrato dell’altezza della persona. Nel caso dell’esempio riportato, il peso ideale per un’altezza di 1,70 m risulterà pari a 63,6 kg sia per la persona in sovrappeso che per la persona malnutrita (22 x1,70 x1,70 = 63,58 kg) e il fabbisogno dietetico calcolato in base al peso ideale sarà in entrambi i casi pari a 2.225 per le calorie (35 cal x 63,58 kg =2.225 cal) e a 51 g per le proteine (0,8 g x63,58 kg =50,9). È utile ricordare che il coefficiente 22 usato per il calcolo del peso ideale è il valore di indice di massa corporea associato ai migliori tassi di morbilità e mortalità (4).

Proteine della dieta, iperfiltrazione renale e urea Un giusto introito dietetico di proteine con la dieta è indispensabile allo sviluppo e al mantenimento dell’integrità di struttura e di funzione dell’organismo. In un adulto sano e in equilibrio, si raccomanda un introito di proteine con la dieta non inferiore a 0,8 g di proteine al giorno per kg di peso ideale mentre non

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nefrologia Esiste un consenso pressoché unanime sull’idea che l’introito di proteine con la dieta costituisca un modulatore fondamentale delle funzioni renali. Idea questa che si basa sui risultati di moltissimi studi. La principale implicazione pratica derivante dalle informazioni sui rapporti tra proteine nella dieta e funzione renale è l’uso di diete a ridotto contenuto proteico per rallentare il declino della funzione renale nel tempo

esiste accordo sul limite massimo tollerabile (3). L’introito di proteine con la dieta induce vari effetti nelle funzioni renali, ma l’effetto considerato più importante è la stimolazione dell’emodinamica renale con conseguente aumento della filtrazione glomerulare che persiste per ore dopo l’ingestione di un pasto contenente proteine (1,5). I meccanismi alla base della risposta iperfiltrante del rene non sono ben definiti, ma l’esistenza di tale risposta è uno degli elementi in supporto dell’idea di effetti favorevoli di una dieta ipoproteica nella malattie renali croniche. Si ipotizza infatti che la cronica o ripetuta attivazione di una risposta iperfiltrante da parte del rene costituisca un elemento favorente una progressione più rapida della malattia renale (6). Nella risposta iperfiltrante del rene secondaria all’ingestione di proteine è stato invocato un ruolo chiave anche per l’urea, cioè per il prodotto finale del catabolismo delle proteine. L’urea è generata nel fegato ed è eliminata per il 70-80 per cento dal rene con le urine e per la restante par-

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te dall’intestino. La generazione epatica di urea aumenta dopo l’ingestione di proteine con la dieta e l’escrezione urinaria di urea è un marcatore semplice, economico e affidabile per stimare la quantità di proteine introdotte con la dieta. In un campione italiano della popolazione generale si è osservato che in media l’escrezione urinaria di urea era pari a circa 24 g/24 ore, valore corrispondente a un introito proteico di 70 g/dì in valore assoluto e di 1,2 g/dì per kg di peso ideale (7).

Dieta ipoproteica nelle malattie renali croniche: gli studi clinici di intervento I risultati degli studi clinici sull’efficacia della dieta ipoproteica nelle malattie renali croniche non hanno risultati univoci e favoriscono il disaccordo tra i sostenitori dell’uso della dieta ipoproteica e coloro che invece sottolineano l’inutilità o addirittura i rischi di tale dieta (6,8). Ancora meno chiari sono i dati relativi all’ipotetica differenza di effetti renali tra proteine animali e proteine vegetali. Per la dieta ipoproteica, lo studio clinico controllato con il maggiore potere statistico, cioè lo studio con la casistica più numerosa e la maggiore durata, è quello noto con la sigla MDRD (9). Lo studio MDRD ha analizzato il declino della funzione renale di 585 pazienti nefropatici randomizzati a una dieta cosiddetta normale contenente circa 1,3 g di proteine/kg di peso/dì oppure a una dieta ipoproteica contenente 0,6 g di proteine/kg di peso/dì. Dopo oltre due anni di follow-up il declino della funzione renale non era significativamente diverso tra i due tipi di dieta. Non esistono studi perfetti e anche lo studio MDRD è stato oggetto di numerose critiche e revisioni che ne hanno evidenziato alcune ombre. A prescindere da queste polemiche, sembra ragionevole concludere che l’eventuale effetto favorevole della dieta ipoproteica nella malattia renale è, nella migliore delle ipotesi, tanto modesto da essere difficilmente apprezzabile persino nello studio con il più alto potere statistico come lo studio MDRD. Una valutazione obiettiva degli studi clinici in questo campo non può prescindere

da due dati di fatto. La maggior parte di questi studi ha avuto una durata inferiore a due anni e ha focalizzato l’attenzione solo sulla velocità del declino della funzione renale nel tempo. Non v’è dubbio che un accelerato declino della funzione renale rappresenti un obiettivo significativo nelle malattie renali croniche. Va però aggiunto che i dati raccolti nell’ultimo decennio in milioni di persone di varie aree geografiche provano che le malattie renali croniche presentano complicazioni non-renali spesso anche più gravi e più frequenti del declino della funzione renale. È infatti provato che gradi anche lievi di insufficienza renale si associano a un eccesso di mortalità e morbilità non-renali indipendentemente da sesso, età e altri fattori di rischio noti (10-11). Tali complicazioni possono essere così frequenti che, per le fasce di età media e avanzata, cioè per la maggior parte dei pazienti con malattia renale cronica, il rischio di mortalità è maggiore rispetto al rischio di peggioramento della insufficienza renale fino all’uremia. Se si inquadra il complesso mosaico delle malattie renali croniche in questa ottica più moderna, diventa evidente che studi clinici limitati nel tempo e focalizzati sui soli effetti renali non possono fornire conclusioni affidabili per una seria e adeguata valutazione degli effetti clinici complessivi a lungo termine della dieta ipoproteica, cioè del reale rapporto tra i benefici e i rischi di questa terapia. Esistono infatti osservazioni scientifiche che segnalano il rischio di malnutrizione e pericolosi effetti sfavorevoli non-renali nei pazienti con malattia renale trattati con dieta ipoproteica (12-13). In conclusione, lo stato attuale delle conoscenze non permette di stabilire se l’uso sistematico e prolungato della dieta ipoproteica implichi o meno: 1. Una sostanziale riduzione della necessità di terapie sostitutive (dialisi o trapianto); 2. Una maggiore incidenza di complicanze o decessi per cause non-renali determinate o favorite dalla stessa dieta. Uno studio clinico controllato in grado di fornire risposte adeguate a entrambi i punti non è disponibile oggi e difficilmente lo sarà in futuro per l’assenza di interesse da parte delle industrie del settore e per


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Come ricevere i Quaderni uaderni di Medico e Pazient Paziente te A tutti gli abbonati che hanno un abbonamento alla rivista Medico e paziente in corso, il Quaderno verrà allegato gratuitamente a un numero della rivista di prossima uscita Chi sottoscrive entro la fine dell’anno 2015 un abbonamento cumulativo alle riviste Medico e Paziente e La Neurologia italiana, al costo di 25 euro, riceverà gratuitamente il Quaderno In assenza di abbonamento, è possibile richiedere il primo Quaderno versando un contributo di Euro 9,00 comprensivo di spese di spedizione postale Le modalità di pagamento sono le seguenti:

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nefrologia l’assenza di iniziative in questo campo da parte delle società medico-scientifiche.

Introito proteico e funzione renale: gli studi osservazionali Lo studio olandese PREVEND, lo studio statunitense Nurses’ Health e lo studio italiano Gubbio hanno riportato dati epidemiologici osservazionali sui possibili rapporti tra introito dietetico di proteine e funzione renale (14-16). Tutti e tre gli studi sono di tipo epidemiologico, cioè non si basano su casistiche cliniche, ma su dati raccolti in campioni di popolazione generale comprendenti migliaia di individui. Con il termine osservazionale si definisce uno studio che non prevede un intervento, nel caso specifico un intervento dietetico, ma quindi uno studio che analizza le differenze normalmente esistenti nella dieta abituale tra un individuo e un altro. Gli studi PREVEND e Gubbio hanno utilizzato misure dell’urea urinaria, cioè un indice oggettivo di introito proteico, mentre lo studio Nurses’ Health si è basato su questionari dietologici, cioè su informazioni fornite dal partecipante e quindi forse meno oggettive. Lo studio PREVEND non ha osservato relazioni significative dell’introito proteico con il declino della funzione renale nel tempo dopo circa 6 anni di follow-up. In contrasto, sia lo studio Nurses’ Health che lo studio Gubbio hanno osservato che il declino della funzione renale dopo followup di 12 anni circa era significativamente accelerato nelle persone con introito proteico elevato, ma risultava invece simile tra le persone con introito proteico basso e le persone con introito proteico vicino a quello raccomandato di 0,8 g/dì per kg di peso. In altre parole, i dati dello studio Nurses’ Health e dello studio Gubbio indicano entrambi un rovesciamento dei termini storici dei possibili rapporti tra proteine della dieta e rene. Non sarebbe cioè la dieta ipoproteica a proteggere la funzione renale, ma sarebbe piuttosto la dieta iperproteica a danneggiarla. Dato aggiuntivo e non secondario riportato solo dallo studio di Gubbio era che nelle persone con elevato introito proteico la

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Tabella 1. Proteine nella dieta e rene: sommario delle conoscenze disponibili

1. Il fabbisogno dietetico di proteine va calcolato ed espresso in funzione del peso ideale, non del peso reale.

2. Il fabbisogno dietetico consigliato per un adulto sano è 0,8 g di proteine al giorno per kg di peso ideale.

3. I dati clinici sono contrastanti sui possibili effetti renali della dieta

ipoproteica nel

paziente nefropatico.

4. La dieta ipoproteica può avere effetti sfavorevoli sulle comorbilità non-renali del paziente nefropatico.

5. I dati epidemiologici indicano che la funzione renale non è protetta da una dieta ipoproteica, ma è danneggiata da una dieta iperproteica.

6. È possibile monitorare l’introito dietetico di proteine misurando l’urea nelle urine delle 24 ore.

funzione renale all’inizio del follow-up era sostanzialmente più alta così come atteso per la su ricordata risposta iperfiltrante del rene indotta dall’ingestione di proteine. I dati dello studio Gubbio quindi suggerivano che una dieta caratterizzata da un elevato contenuto di proteine si associa a una più alta funzione renale nelle ore successive all’ultimo pasto ricco in proteine, ma predice e probabilmente determina un più rapido declino della funzione renale a lungo termine.

Conclusioni Il fabbisogno dietetico di nutrienti in genere e di proteine in particolare deve essere espresso in funzione del peso ideale e non del peso reale per evitare errori di sovrastima del fabbisogno in caso di sovrappeso e/o edema ed errori di sottostima del fabbisogno in caso di magrezza eccessiva. L’introito proteico oggi raccomandato per un adulto sano è 0,8 g di proteine per kg di peso ideale al giorno. I dati degli studi clinici controllati relativi agli effetti di diete ipoproteiche sul declino della funzione renale non sono univoci e lo studio più grande in questo campo non ha riportato effetti significativamente favorevoli. In aggiunta, alcuni dati indicano che le diete ipoproteiche possono peggiorare il rischio di morbilità e mortalità per cause non-renali, rischio già elevato nei

pazienti affetti da malattia renale cronica. I dati degli studi osservazionali su campioni di popolazione generale non supportano l’idea di un ruolo protettivo sul rene della dieta ipoproteica, ma sottolineano invece il possibile effetto sfavorevole di una dieta troppo ricca in proteine. Complessivamente, secondo gli Autori di questo articolo, i dati disponibili riassunti in Tabella 1 non suggeriscono la prescrizione sistematica di diete a contenuto proteico inferiore alla soglia di 0,8 g/kg di peso ideale in tutti i pazienti affetti da malattie renali croniche. Allo stato attuale delle conoscenze, una dieta contenente 0,8 g di proteine per kg di peso ideale appare la migliore anche nel paziente nefropatico per ridurre sia i rischi di diete troppo ricche in proteine (e in particolare il rischio di un accelerato declino della funzione renale) che i rischi di diete troppo povere in proteine (malnutrizione e comorbilità non-renali). Una dieta contenente 0,8 g di proteine per kg di peso ideale- cioè ad esempio una dieta contenente 56 g di proteine al giorno per un adulto con peso ideale di 70 kg- potrà apparire spesso come una restrizione dell’abituale introito dietetico di proteine poiché la larga maggioranza delle persone nella società italiana e in quella degli altri Paesi industrializzati ha introiti dietetici di proteine ben al di sopra della soglia di 0,8 g/kg di peso ideale. Non esistono


oggi motivi ragionevoli o presentabili per i quali la prescrizione di una dieta contenente 0,8 g di proteine per kg di peso ideale – cioè di una dieta a contenuto di proteine normale – debba comportare delle spese per il Sistema Sanitario Nazionale dovute ai costi di alimenti sintetici a contenuto proteico ridotto o nullo. Un ulteriore aggiustamento del fabbisogno dietetico di proteine basato su competenze specialistiche sarà necessario nei casi in cui coesistono disordini caratterizzati da un’eccessiva perdita di proteine come in alcune malattie intestinali o nelle sindromi nefrosiche severe. L’eventuale prescrizione di diete con contenuto proteico inferiore alla soglia di 0,8 g/kg di peso ideale, cioè di diete ipoproteiche, dovrebbe essere sempre accompagnata da una corretta e completa informazione del paziente sui possibili rischi secondari alla pratica di tali diete a lungo termine e sulla necessità del monitoraggio di opportuni indicatori nutrizionali. Infine, il medico deve ricordare che è possibile valutare la quantità di proteine introdotte con la dieta in modo oggettivo, semplice ed economico. Il metodo più diffuso consiste nella misura dell’escrezione urinaria di urea nelle 24 ore. Una volta nota l’escrezione urinaria di urea sarà possibile stimare l’introito proteico di quel giorno ricordando che 1 g di urea nelle urine delle 24 ore corrisponde a circa 3 g di proteine nella dieta di quel giorno.

Referenze 1. King AJ, Levey AS. Dietary protein and renal function. J Am Soc Nephrol 1993; 3: 1723 –1737. 2. Lewis DS. On the influence of a diet with high protein content on the kidney. Can Med Assoc J 1921; 11: 682-683. 3. Dietary Reference Intakes for Energy, Carbohydrates, Fiber, Fat, Protein, and Amino Acids (Macronutrients). Washington, D.C: The National Academies Press, Institute of Medicine of the National Academies of Sciences; 2002/2005. 4. Prospective Studies Collaboration Whitlock G, Lewington S, Sherliker P et al. Body-

mass index and cause-specific mortality in 900000 adults: collaborative analyses of 57 prospective studies. Lancet 2009; 373: 1083 – 1096. 5. De Santo NG, Cirillo M, Anastasio P, Spitali L. Renal response to an acute oral protein load in healthy humans and in patients with renal disease or liver cirrhosis. Semin Nephrol 1995; 15: 433 - 448. 6. De Santo NG, Perna A, Cirillo M. Low protein diets are mainstay for management of chronic kidney disease. Front Biosci (Schol Ed). 2011; 3: 1432 - 42. 7. Cirillo M, Zingone F, Lombardi C, Cavallo P, Zanchetti A, Bilancio G. Population-based dose-response curve of glomerular filtration rate to dietary protein intake. Nephrol Dial Transplant 2015; 30: 1156-62. 8. Kovesdy CP, Kopple JD, Kalantar-Zadeh K. Management of protein-energy wasting in non-dialysis-dependent chronic kidney disease: reconciling low protein intake with nutritional therapy. Am J Clin Nutr 2013; 97: 1163-77. 9. Klahr S, Levey AS, Beck GJ, Caggiula AW, Hunsicker L, Kusek JW, Striker G. The effects of dietary protein restriction and bloodpressure control on the progression of chronic renal disease. Modification of Diet in Renal Disease Study Group. N Engl J Med 1994; 330: 877 - 884. 10. Mahmoodi BK, Matsushita K, Woodward M, Blankestijn PJ, Cirillo M, Ohkubo T, Rossing P, Sarnak MJ, Stengel B, Yamagishi K, Yamashita K, Zhang L, Coresh J, de Jong PE, Astor BC, for the Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium. Associations of kidney disease measures with mortality and end-stage renal disease in individuals with and without hypertension: a meta-analysis. Lancet 2012; 380: 1649–1661. 11. Nitsch D, Grams M, Sang Y, Black C, Cirillo M, Djurdjev O, Iseki K, Jassal SK, Kimm H, Kronenberg F, Øien CM, Levey AS, Levin A, Woodward M, Hemmelgarn BM, for the Chronic Kidney Disease Prognosis Consortium. Associations of estimated glomerular filtration rate and albuminuria with mortality and renal failure by sex: a meta-analysis. BMJ 2013; 346: f324. 12. Shinaberger CS, Greenland S, Kopple JD, Van Wyck D, Mehrotra R, Kovesdy CP, Kalantar-Zadeh K. Is controlling phosphorus by decreasing dietary protein intake

I dati degli studi clinici controllati sugli effetti di diete ipoproteiche sul declino della funzione renale non sono univoci. Alcuni dati indicano che questo tipo di diete possano peggiorare il rischio di morbilità e mortalità per cause non renali. Anche i dati degli studi osservazionali non supportano l’idea di un ruolo protettivo sul rene della dieta ipoproteica, ma sottolineano il possibile effetto sfavorevole di una dieta iperproteica

beneficial or harmful in persons with chronic kidney disease? Am J Clin Nutr 2008; 88: 1511 – 1518. 13. Menon V, Kopple JD, Wang X, Beck GJ, Collins AJ, Kusek JW, Greene T, Levey AS, Sarnak MJ. Effect of a very low-protein diet on outcomes: long-term follow-up of the modification of diet in renal disease (MDRD) Study. Am J Kidney Dis 2009; 53: 208-217. 14. Knight EL, Stampfer MJ, Hankinson SE et al. The impact of protein intake on renal function decline in women with normal renal function or mild renal insufficiency. Ann Intern Med 2003; 138: 460 – 467. 15. Halbesma N, Bakker SJL, Jansen DF et al. for the PREVEND study group. High protein intake associates with cardiovascular events but not with loss of renal function. J Am Soc Nephrol 2009; 20: 1797–1804. 16. Cirillo M, Lombardi C, Chiricone D, De Santo NG, Zanchetti A, Bilancio G. Protein intake and kidney function in the middle-age population: contrast between cross-sectional and longitudinal data. Nephrol Dial Transplant 2014; 29: 1733 -1740.

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I QUADERNI di Medico & Paziente

Epatite C

Una battaglia da vincere Nelle pagine che seguono pubblichiamo un’anticipazione del primo Quaderno che Medico e Paziente ha dedicato all’epatite C. Oltre alla presentazione di questa nuova iniziativa editoriale, abbiamo selezionato l’intervista al professor Massimo Colombo che bene illustra il panorama terapeutico attuale alla luce dei nuovi farmaci antivirali

La

cura dell’epatite C sta conoscendo attualmente una fase di incredibile progresso, grazie alla disponibilità di una nuova generazione di farmaci che consentono l’eradicazione del virus in una percentuale vastissima di casi, anche nei pazienti considerati “difficili”, con infezione cronica da molti anni, epatopatia in fase avanzata, comorbilità e complicanze. Si tratta di una situazione unica nell’intero panorama delle malattie infettive, che ha trasformato radicalmente i percorsi terapeutici, limitando fortemente il ricorso alla terapia convenzionale a base di interferone peghilato e ribavirina, e le prospettive dei pazienti, in termini sia di guarigione sia di qualità della vita. In un quadro complessivamente positivo, con incoraggianti prospettive per il futuro nel breve come nel medio-lungo termine, non mancano tuttavia le criticità. La prima, in termini generali, è che l’infezione da HCV ha ancora una diffusione importante nel nostro Paese, con una prevalenza valutabile intorno a un punto percentuale sulla popolazione generale, anche se per effetto della mancanza di screening diffusi non è possibile

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stimare con certezza la numerosità della popolazione attualmente affetta. Questa situazione permane nonostante l’implementazione delle misure per evitare il rischio d’infezione nelle pratiche mediche e chirurgiche a partire dalla fine degli anni Ottanta, e le campagne d’informazione che si sono succedute nel tempo. Per quanto riguarda invece le terapie di recente generazione, i problemi hanno riguardato sostanzialmente l’accesso alle cure. Le nuove molecole, comprensibilmente, hanno un costo elevato, e per le attuali condizioni finanziarie del Sistema sanitario nazionale non sarebbe sostenibile garantire la cura ottimale a tutti i soggetti con epatite cronica. L’AIFA pertanto ne ha limitato l’accesso ai soli casi in pericolo di vita, compresi in ben definite categorie di gravità della malattia epatica, con una scelta comprensibile dal punto di vista economico ed etico, ma forse un po’ meno dal punto di vista clinico. La situazione è comunque in continuo mutamento, e già nell’arco di un paio di anni potrebbero esserci importanti novità, in parte per il calo dei prezzi e in parte per l’esaurimento delle liste di attesa dei pazienti più critici.

Questo quaderno nasce dalla volontà di andare incontro alle esigenze di aggiornamento dei Medici di Medicina generale, in termini sia di conoscenza generale del nuovo quadro terapeutico sia del loro ruolo di affiancamento dello specialista epatologo, così come definito recentemente da un documento di consenso congiunto della Società italiana di Medicina generale (SIMG) e dell’Associazione italiana per lo studio del fegato (AISF). Non manca peraltro il punto di vista dei pazienti, rappresentati dall’Associazione EPAC – Onlus.


La RIVOLUZIONE delle TERAPIE ANTIVIRALI La disponibilità di nuovi trattamenti molto efficaci e ben tollerati per l’infezione cronica da epatite C ha cambiato radicalmente l’approccio clinico al paziente, anche se i regimi di rimborsabilità scelti da AIFA negli ultimi mesi hanno sollevato qualche perplessità. Abbiamo chiesto di chiarire il quadro della situazione a MASSIMO COLOMBO, professore ordinario di Gastroenterologia dell’Università degli Studi di Milano e direttore del Dipartimento delle Units multispecialistiche e dei trapianti Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico del capoluogo lombardo Prof. Colombo, il trattamento dell’infezione da HCV sta conoscendo una vera rivoluzione per effetto dello sviluppo e della commercializzazione degli antivirali di nuova generazione. Quali sono le molecole attualmente prescrivibili e quali le rimborsabili? ❱❱ In Europa sono registrati, e quindi prescrivibili sul territorio italiano, diversi regimi terapeutici tutti orali per l’epatite virale C. Sovaldi, cioè sofosbuvir, da somministrare con ribavirina; Harvoni, composto da sofosbuvir e ledipasvir, che non necessariamente richiede ribavirina, e Viekirax e Exviera, regime composto da 3 farmaci anti-epatite C ad attività diretta, privo di analoghi nucleotidici che inibiscono la polimerasi virale, da somministrare con ribavirina nei pazienti più difficili. Sono anche prescrivibili Daklinza (daclatasvir) e Olysio (simeprevir), che da soli non sono sufficienti per la cura dell’epatite C, ma lo diventano

se somministrati in combinazione tra loro o con Sovaldi e ribavirina. Attualmente in Italia, soltanto Sovaldi e Olysio sono rimborsati dal Sistema sanitario nazionale. Questi sono estremamente efficaci in combinazione nella cura di pazienti con modeste lesioni epatiche, che non hanno l’indicazione per il rimborso, e nei pazienti cirrotici ben compensati. Per i pazienti più fragili a rischio di severe complicanze, come il decompensato o il trapiantato, questo regime terapeutico ha limiti di uso e sicurezza, limiti che saranno superati da Harvoni, che tra breve sarà reso rimborsabile dal nostro SSN con costi probabilmente paragonabili o inferiori a quelli di Sovaldi. Per questo, in tutta Italia i centri di trattamento dell’HCV stanno mettendo in lista di attesa i pazienti meno gravi che potranno essere trattati con tutta sicurezza ed efficacia tra qualche mese. Possiamo riassumere brevemente i vantaggi in termini di efficacia rispetto alla terapia tradizionale basata sull’associazione interferone peghilatoribavirina? ❱❱ I vantaggi dei nuovi trattamenti sono eclatanti. Efficacia pressoché assoluta, somministrazione orale, brevi cicli terapeutici (12 o 24 settimane), somministrabili in tutte le categorie di pazienti, compresi quelli che non erano trattabili con interferone come i pazienti con scompenso clinico, i trapianti d’organo e con severe malattie di altri organi. I vantaggi di queste terapie risiedono anche nella loro assoluta sicurezza e pressoché totale mancanza di effetti collaterali. In che cosa si differenziano le varie molecole? ❱❱ Sovaldi (sofosbuvir) è un inibito-

re diretto dell’enzima polimerasi del virus dell’epatite C che agisce interrompendo la catena di replicazione, poiché è simile ai nucleotidi che compongono il DNA del virus, e per questa ragione appartiene alla classe degli analoghi nucleotidici. Poiché la polimerasi garantisce la vitalità del virus, il trattamento con Sovaldi non è praticamente mai associato a comparsa di resistenze genetiche del virus clinicamente significative. Nelle rare istanze in cui queste sono comparse, infatti, i virioni erano incapaci di sopravvivenza e, fatto molto importante, eliminabili con un ritrattamento con lo stesso farmaco. Olysio (simeprevir) è invece un inibitore della proteasi virale e quando somministrato in monoterapia seleziona rapidamente i mutanti genetici del virus che pre-esistono al trattamento in ogni paziente con epatite cronica virale C. Poiché questo evento causa il fallimento della cura e impedisce l’utilizzo di altri farmaci appartenenti alla stessa classe di inibitori delle proteasi, Olysio va sempre somministrato in combinazione con un farmaco antivirale diretto come Sovaldi o Daklinza, oppure interferone associato a ribavirina. Mentre Sovaldi è attivo con variabili tassi di guarigione in tutti i genotipi dell’HCV in combinazione con ribavirina, Daklinza è decisamente potenziato dall’associazione con simeprevir, fornendo importanti tassi di guarigione nei pazienti con genotipo 1 e 4 dell’HCV. Entrambi i farmaci possono essere somministrati in associazione con interferone e ribavirina, ma questa modalità di cura tuttavia è percepita come superata dai pazienti ed è temuta a causa dei frequenti effetti di intolleranza causati dall’associazione interferone+ribavirina, in modo particolare l’anemia. La combinazione tutta orale Sovaldi-Olysio

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I QUADERNI di Medico & Paziente è stata invece oramai testata in più di 80.000 pazienti nel mondo, con tassi di successo superiori al 90 per cento anche in pazienti con cirrosi, o precedenti fallimenti a cure con interferone. Il limite di questa combinazione tuttavia sta nel fatto che Olysio tende ad accumularsi in pazienti con più grave disfunzione epatica causando reazioni tossiche a livello della cute e del midollo, e di conseguenza essa non può essere utilizzata nei pazienti più fragili e che necessitano di cura immediata come i pazienti cirrotici in scompenso clinico e cioè con ittero e ascite. Questi pazienti possono essere trattati con assoluta efficacia e sicurezza con una combinazione di Sovaldi e Daklinza, oppure con Harvoni, entrambi tuttavia non ancora resi rimborsabili dal Sistema sanitario nazionale. (In seguito all’intervista rilasciata dal prof. Colombo, Sovaldi e Harvoni sono stati resi rimborsabili dal SSN. L’accordo tra AIFA e Gilead Sciences è stato reso noto lo scorso 21 maggio, NdR).

Quali sono le altre molecole in via di sviluppo di cui potremo disporre a breve, con quali genotipi sono efficaci e con quali regimi terapeutici? ❱❱ Tra alcuni mesi anche il regime terapeutico Viekirax e Exviera sarà probabilmente rimborsabile da parte del SSN. A fronte di questa allargata offerta terapeutica occorre però puntualizzare alcune differenze di azione e sicurezza tra i regimi terapeutici. Olysio rappresenta un’arma vincente contro l’epatite C nel genotipo 1 e 4 quando associato a Sovaldi, ma è di limitato impiego nei pazienti con scompenso clinico. L’impiego della combinazione Sovaldi-Olysio nel trattamento di pazienti con infezione più lieve sarà certamente possibile solo quando il costo di queste medicine verrà radicalmente ridotto. L’asso-

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ciazione di Sovaldi con ribavirina e Harvoni ha uno spettro d’azione che copre i genotipi 1, il prevalente in Italia, 2 ,3 e 4. L’associazione Sovaldi con Daklinza è indicata per la cura dell’infezione sostenuta da genotipo 1 e 3 mentre l’associazione Sovaldi-Olysio è formalmente indicata per il trattamento delle epatiti da genotipo 1 e 4, quest’ultima piuttosto rara in Italia. Il regime Viekirax e Exviera è registrato solo per la cura del genotipo 1, non può essere somministrato a pazienti con scompenso clinico per ragioni simili a quelle che impediscono in questi pazienti la somministrazione di Olysio e richiede attento monitoraggio clinico nei pazienti in trattamento con altri farmaci per frequenti interazioni farmaco-farmaco che i componenti di questo regime terapeutico hanno dimostrato di possedere. Entro un anno avremo in Europa disponibilità di altri due regimi terapeutici entrambi basati su combinazioni di inibitori delle proteasi virali, inibitori di NS5A del virus e inibitori della polimerasi virale non nucleotidici, dotati di assoluta efficacia e sicurezza con uno spettro d’azione pangenotipico. Nell’arco di 2 o 3 anni avremo a disposizione regimi terapeutici composti da 2 o 3 farmaci capaci di guarire l’infezione in pazienti non cirrotici in sole 6 settimane, e probabilmente dotati di azione pangenotipica. AIFA ha definito la prescrivibilità dei nuovi farmaci a carico del SSN solo per le categorie di pazienti più gravi e con infezione di grado più avanzato. Come giudica questo approccio? E come potrà cambiare con l’arrivo di nuovi farmaci? ❱❱ Per ragioni di disponibilità economica AIFA ha limitato la rimborsabilità dei trattamenti orali dell’epatite C ai soli pazienti con più avanzata ma-

lattia epatica, cioè pazienti con cirrosi, tumore del fegato, trapianto d’organo o scompenso clinico. Questa strategia “salvavita” appare sicuramente la più ragionevole e moralmente plausibile soluzione all’attuale limitazione nell’accesso alle cure, tuttavia non si palesa come il migliore investimento possibile poiché la maggior parte dei pazienti con malattia epatica guarita dall’infezione rimane esposta a rischio di complicanze come tumore del fegato e trapianto e quindi continua a necessitare di sorveglianza e trattamenti medici. Invece, l’eradicazione del virus nei pazienti con infezioni giovani e lievi epatopatie risulta in una definitiva guarigione anche della malattia epatica. Va tuttavia sottolineato che questa strategia “salvavita” offre ai pazienti più gravi notevoli benefici clinici, riducendo nei pazienti con scompenso clinico il rischio di morte per sepsi ed emorragia, e facilitando un trapianto di fegato privo di ricorrenza di epatite C. Lo stesso beneficio vale per i pazienti con coinfezione HIV, nei quali la persistenza della malattia epatica rappresenta ora la principale causa di morte. I tassi di guarigione in questi pazienti sono praticamente assoluti e la scelta tra i diversi trattamenti anti-epatite C permette di bypassare problemi di interazione con i diversi regimi antiHIV assunti dai pazienti. La presenza sul mercato di più aziende produttrici e di regimi terapeutici di breve durata dovrebbe determinare una consistente riduzione del costo del trattamento orale dell’epatite virale C, che potrebbe finalmente permettere di allargare il trattamento di pazienti infetti anche alle categorie con minor danno epatico. Possiamo fare l’identikit dei pazienti italiani affetti da epatite C? ❱❱ Nel centro che io dirigo, abbiamo registrato oltre 5.300 pazienti con


epatite cronica virale C, frutto dell’accumulo di pazienti nell’arco di molti decenni. Il centro ha vissuto tutte le fasi della storia della malattia dalla scoperta dell’epatite C, inizialmente definita epatite non A e non B, sino alla cura dei pazienti con interferone da noi offerta ad almeno 3.000 pazienti con un terzo guarito. Abbiamo perciò accumulato una serie di pazienti “delicati” non guariti: cirrotici che non hanno reagito alla cura con interferone, pazienti inizialmente in buone condizioni che negli anni sono progrediti in cirrosi, e centinaia di pazienti gravi salvati con un trapianto di fegato. Teniamo conto che questa cronologia ha prodotto una coorte storica di soggetti tendenzialmente anziani che si sono infettati a partire dagli anni Cinquanta con siringhe o trasfusioni infette, e una seconda coorte, numericamente inferiore, più giovane, che si è infettata con comportamenti a rischio. Le due popolazioni hanno problemi clinici diversi: la prima è ricca di cirrotici e di patologie legate alla senescenza; la seconda con malattia epatica più giovane, ha un tasso inferiore di cirrosi e più problemi legati ai comportamenti a rischio, incluso fumo e alcol.

lazione malata, cioè quella con più grave malattia epatica. Il problema maggiore dal punto di vista clinico è gestire la fascia di pazienti infetti riluttanti a sottoporsi alla terapia con interferone, che però attendono da noi una risposta.

Quali sono i criteri di trattamento di questi pazienti alla luce dei nuovi farmaci ammessi recentemente alla rimborsabilità?

Quale impatto avranno i nuovi farmaci sul trapianto di fegato?

❱❱ Tra i nostri pazienti circa 800 rispondono ai criteri AIFA di cura immediata, ma abbiamo una vasta popolazione in una situazione intermedia e comunque in evoluzione clinica. Consideriamo che i pazienti registrati con epatite C cronica nel nostro Paese sono 375.000. Il SSN ha fatto di necessità virtù: avendo a disposizione risorse limitate e dovendo acquistare farmaci molto costosi, ha scelto di rimborsare la cura dei pazienti posizionati nella “parte alta” della popo-

E dovete chiedere al paziente di posticipare le cure... ❱❱ Certamente. In alcuni casi riusciamo a tranquillizzare il paziente, chiarendo che dopo aver curato entro un paio d’anni i pazienti più gravi, avremo accesso alla rimborsabilità dei farmaci per pazienti con malattia epatica più lieve. Questo però non ci toglie dall’imbarazzo: per fare un paragone, è come se, il paziente che scopre di avere ipertensione arteriosa si sentisse rispondere dal medico che esiste una cura sicura ed efficace, ma che può essere solo prescritta quando compaiono le complicanze dell’ipertensione, che so un attacco di ischemia cardiaca o cerebrale... In sintesi, l’attuale strategia di curare i pazienti con più grave malattia HCV non è la soluzione ottimale dal punto di vista clinico, ma è la più saggia e moralmente accettabile.

❱❱ A questa domanda mi faccia rispondere con una premessa per comprendere chi abbisogna di trapianto. In un centro come il nostro, metà dei trapianti sono effettuati in pazienti con tumore di fegato precocemente identificato, cioè in pazienti con cirrosi sottoposti a sorveglianza clinica periodica o in screening con ecografia ogni sei mesi. Questi pazienti possono rimanere in compenso clinico per molti anni senza disturbi clinici. In un’altra metà dei casi, il trapianto è offerto a pazienti nei quali il quadro clinico precipita per varie ragioni, co-

me progressione dell’epatite, sovrappeso, diabete o abuso di alcol, con l’insorgenza di ascite che può essere trattata efficacemente, o di ittero, eventi che in assenza di comorbilità accendono l’indicazione al trapianto epatico. Nei pazienti in lista di attesa per il trapianto, l’eradicazione dell’HCV migliora le condizioni cliniche al punto di rinviare il paziente dalla lista trapianto, che viene effettuato quando le condizioni cliniche deteriorano. Un’ultima domanda sull’epidemiologia: perché spesso si parla di proiezioni di milioni di possibili soggetti infettati dall’HCV,quando i registrati sono 375.000? ❱❱ In primo luogo, bisogna ricordare che nel territorio italiano, l’infezione HCV è “a pelle di leopardo”, cioè con prevalenza che varia da regione a regione, e pertanto in molti studi i dati di prevalenza non riflettono la media nazionale. Nello specifico, disponiamo di proiezioni costruite su stime epidemiologiche antiche, di molti anni fa, agli inizi degli anni Novanta, che andrebbero aggiornate. Come detto, il SSN registra “solo” 375.000 pazienti infetti, ma non può misurare il sottobosco di infetti costituito da un altrettanto grande numero di individui che dev’essere identificato da opportune campagne di screening. Sino a oggi in mancanza di cure efficaci, tollerate ed economiche abbiamo evitato lo screening di massa nella popolazione. Non disponiamo purtroppo di risorse economiche per trattare tutti i soggetti infetti identificati. Infine, un piccolo neo della terapia antivirale, non conferisce immunità protettiva e nelle comunità di pazienti più esposti a rischio parenterale e tra gli omosessuali maschi attivi, rimane elevato il rischio di reinfezione del virus dell’epatite C.

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angiologia

Arteriopatia obliterante periferica Diagnosi e gestione della terapia Un attento esame obiettivo e la valutazione dell’abi sono i cardini nella diagnosi dell’arteriopatia periferica obliterante. Uno dei target terapeutici è la riduzione del rischio vascolare globale

T

ra le varie espressioni cliniche della malattia vascolare aterosclerotica (ATS), l’arteriopatia obliterante periferica (AOP) ha sofferto per decenni la maggiore considerazione riconosciuta dal mondo scientifico e accademico per manifestazioni cliniche ritenute più nobili e clinicamente e socialmente rilevanti quali le patologie cerebro- e cardiovascolari. Non si può certo negare che ictus e infarto del miocardio abbiano un impatto psicologico e sociale più drammatico della cosiddetta “malattia delle vetrine”, la claudicatio intermittens dei nostri testi universitari, ma con gli anni questa patologia ha goduto di maggiore considerazione quando è emerso il suo ruolo predittivo di complicanze vascolari maggiori non solo qualora fosse compiutamente espressa a livello clinico, ma anche nel suo stadio preclinico di asintomaticità. Quanto descritto rende ragione del grande interesse che negli ultimi anni ha suscitato la ricerca delle malattie vascolari in fase subclinica, predittive di maggiore morbilità e mortalità vascolare.

A cura di Guido Arpaia

US Angiologia, Presidio di Vimercate, Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate

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La malattia vascolare periferica: quando sospettarla e ricercarla L’arteriopatia obliterante degli arti inferiori di origine aterosclerotica ha come sintomo principe la “claudicatio intermittens” o malattia delle vetrine. La persona affetta accusa dolore, di solito al polpaccio, più raramente alla natica o al piede, che insorge durante il cammino e può essere tale da costringerla a fermarsi in attesa della sua regressione che avviene solitamente in meno di un minuto, per poi ripresentarsi alla ripresa del cammino a intervalli regolari. Per questo viene definita “malattia delle vetrine” per l’abitudine che si sviluppa di fermarsi davanti a una vetrina per... ingannare l’attesa! La causa più comune è la malattia aterosclerotica che causa la formazione di placche all’interno delle arterie riducendone progressivamente il lume. Quando il disturbo emodinamico creato dalla placca impedisce l’arrivo a valle di sufficienti quantità di sangue durante l’esercizio, causando una discrepanza tra consumo e fabbisogno energetico, i muscoli entrano in carenza di ossigeno, il metabolismo muscolare passa da aerobio ad anaerobio con produzione di varie

sostanze tossiche tra cui l’acido lattico che provoca il dolore, tra l’altro da considerare protettivo perché impedisce di proseguire lo sforzo che potrebbe provocare un danno alle cellule muscolari. Numerosi studi hanno dimostrato che la presenza di una malattia vascolare in stadio subclinico rappresenta un fattore di rischio per complicanze vascolari maggiori (1) e che morbilità e mortalità per complicanze vascolari non sono differenti tra chi soffra di una claudicatio intermittens conclamata e chi invece sia solo portatore di un’arteriopatia asintomatica (2). Due esperienze dei primi anni 2000, gli studi PATHOS (3) e PANDORA (4), hanno dato un contributo fondamentale alla conoscenza dell’epidemiologia dell’arteriopatia asintomatica nella nostra popolazione. Sono state studiate due popolazioni differenti, la prima di pazienti ricoverati per infarto, angina, ictus o ischemia cerebrale transitoria, la seconda di pazienti seguiti da Medici di Medicina generale (MMG) portatori di almeno due fattori di rischio vascolare. Nel primo caso sono stati rilevati segni di AOP nel 35 per cento dei casi, nel secondo in oltre il 20 per cento (tra i partecipanti italiani). In entrambi i casi lo strumento usato per la ricerca della AOP asintomatica è stata la misura dell’indice caviglia braccio o ABI (Ankle-Brakial Index), esame di semplice esecuzione, dalla curva di apprendimento relativamente breve, che consiste nella misurazione delle pressioni sistoliche alle braccia (arteria brachiale) e alle caviglie (arterie tibiali anteriore e posteriore) mediante una sonda doppler portatile con la successiva valutazione del rapporto tra le pressioni tra caviglia e braccio. I fattori di rischio per AOP non


sono differenti rispetto a quelli noti per la malattia cardiovascolare (5): fumo di sigaretta, diabete, ipertensione ed elevati livelli di colesterolo sembrano rappresentare le situazioni maggiormente implicate nell’espressione della malattia vascolare periferica nel maschio oltre i 50 anni e nella popolazione anziana sopra i 70 anni, e sarebbe proprio in queste categorie che la condizione di AOP andrebbe ricercata sia nella forma sintomatica della claudicatio che in quella di portatore mediante la misurazione dell’ABI (Tabella 1) (6). Le linee guida ESC e AHA (7, 8) consigliano la misura dell’ABI in tutti quei casi in cui si sospetti una malattia vascolare periferica sintomatica, con ulcere di sospetta natura vascolare a evoluzione torbida e in tutti i pazienti di età superiore a 65 anni, specialmente se fumatori e/o diabetici; le precedenti del CEVF e della TASC (9, 10) consideravano anche i portatori di sindrome metabolica, in caso di anomalie dei polsi periferici all’esame clinico e nei portatori di malattie vascolari in altri distretti, anche se rilevate in maniera casuale.

L’esame obiettivo e la diagnosi differenziale È ovvio che non è possibile fare un ABI a tutti. Probabilmente la maggior parte dei pazienti dei MMG ha più di due o tre fattori di rischio, sarebbe una fatica improba! Ma anche in questo caso la cara vecchia -e spesso abbandonata- clinica ci può aiutare. Innanzitutto la storia. Il claudicante presenta dolore durante il cammino per tratti più o meno costanti. Non ha dolore a riposo, non ha “debolezza muscolare”, il dolore regredisce con il riposo. Poi la clinica: si possono ricercare segni di anemia come il pallore delle tasche palpebrali, del palmo delle mani, la perdita degli annessi cutanei alle gambe con cute sottile e secca e, soprattutto, si possono palpare i polsi periferici esattamente come si palpa il polso radiale. Nel magro si può facilmente palpare anche la pulsatilità aortica, pressoché in tutti i polsi femorali all’inguine, i poplitei dietro al ginocchio, i tibiali dietro al malleolo mediale alla caviglia, il pedidio sul dorso del piede. Quest’ultimo è il più ingannevole. In molti, l’arteria è piccola

o addirittura assente e il fatto non è di per se patologico (Figura 1) (11). Se i polsi sono facilmente palpabili soprattutto perifericamente le probabilità di un’arteriopatia asintomatica è relativamente bassa.La diagnosi differenziale deve considerare le caratteristiche del dolore che nei casi “classici” è sempre intermittente, presentandosi a riposo solo in caso di grave ischemia acuta o cronica. Le caratteristiche da indagare sono le seguenti: • Localizzazione del dolore; • Durata dei sintomi; • Peggioramento o miglioramento nel tempo; • Distanza di marcia libera da dolore e la massima percorribile;

Tabella 1. Principali

fattori di rischio per la malattia vascolare aterosclerotica • Familiarità • Età • Fumo di sigaretta • Diabete • Ipercolesterolemia • Ipertensione arteriosa • Sindrome metabolica • Sovrappeso e obesità

Figura 1

Localizzazione dei polsi indagabili

A. carotide

A. brachiale (o omerale)

A. renale

A. radiale A. iliaca A. femorale A. poplitea

A. pedidia (o tibiale e ant.)

A. tibiale e post.

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angiologia Figura 2

La misurazione dell’Ankle Brachial Index (ABI)

tamento rotuleo) presenta tumefazione e senso di tensione al poplite presenti anche a riposo; • Nell’artrite di anca il dolore è locale e non regredisce con il riposo; in caso di artrite della caviglia o del piede la sofferenza e il dolore sono locali e non regrediscono con il riposo. In questi casi possono anche esservi evidenti segni di flogosi.

Come si misura e valuta l’ABI

• Tempo necessario perché i sintomi regrediscano con il riposo; • Il dolore passa in posizioni particolari; • Il dolore si ripresenta con l’esercizio con le stesse caratteristiche. La claudicatio classica è di polpaccio ed è espressione di una patologia ATS che interessa le arterie femorali. La claudicatio di natica interessa i muscoli glutei e della coscia, ed è espressione di interessamento delle arterie iliache, mentre la claudicatio di piede è secondaria a interessamento delle arterie distali di gamba e dell’arcata plantare. L’esame clinico deve comprendere: • Misurazione della PA omerale bilaterale; • Ricerca soffi cardiaci e/o aritmie; • Ricerca soffi carotidei; • Auscultazione toracica alla ricerca di segni di BPCO; • Ricerca segni di anemizzazione (pallore cutaneo, vascolarizzazione congiuntivale; pliche palmari); • Ricerca segni di ischemia sulla cute degli arti inferiori (sottile, secca, perdita della peluria, riduzione grasso sottocutaneo, anomalie delle unghie...); • Palpazione sistematica di tutti i polsi

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indagabili. Ma non tutte le claudicatio sono da AOP. Sono numerose le situazioni che clinicamente possono dare una sintomatologia simile, ma molto frequentemente le caratteristiche dei sintomi possono orientare nella diagnosi differenziale. L’origine può essere anche vascolare, ma più frequentemente neurologica, muscolo-tendinea, scheletrica (10). • La claudicatio venosa può essere sospettata in caso di anamnesi positiva per una pregressa trombosi venosa profonda o una sindrome post-trombotica; • La stenosi del canale spinale usualmente è caratterizzata da sintomi come dolore e debolezza spesso bilaterali a glutei e cosce; • Nel caso della sindrome compartimentale cronica che del polpaccio l’ipertrofia muscolare e la dismetria possono essere suggestive; • Il dolore da compressione di radici nervose è usualmente presente anche a riposo, urente e invalidante; • Una cisti di Baker sintomatica, oltre agli eventuali segni di gonartrosi e/o di presenza di versamento articolare (ballot-

Una volta individuati i casi che con maggiore probabilità possono sottendere un’arteriopatia, l’utilizzo di un metodo strumentale semplice quale la determinazione dell’ABI (o anche Indice di Winsor) consente di individuare, mediante la misura delle pressioni sistoliche alle braccia e alle arterie tibiali posteriori e anteriori (pedidie), un numero da 2 a 7 volte maggiore di portatori di arteriopatia rispetto ai questionari clinici, con una sensibilità del 95 per cento e una specificità del 100 per cento per lesioni >50 per cento del lume vascolare rispetto all’angiografia, quando si utilizzi il cut-off ≤0,9 per determinare la condizione di arteriopatico (Figura 2). Come si è già rilevato, la condizione di arteriopatia asintomatica degli arti inferiori espone i portatori a un rischio vascolare globale non molto inferiore a quanti soffrano di ischemia avanzata o di claudicatio. La prevalenza di AOP nella popolazione cambia in maniera drammatica a seconda del punto di vista da cui si affronta il problema: la claudicatio sintomatica raggiunge percentuali comprese tra l’1 e il 10 per cento nelle varie classi di età, ma quando si utilizza un mezzo diagnostico più sensibile quale l’ABI, aumenta a valori compresi tra il 10 e il 20 per cento, e in popolazioni selezionate per fattori di rischio, questa condizione raggiunge il rilevante dato del 29 per cento (10). Sebbene vi siano evidenze in letteratura sulla possibilità di determinare l’ABI con la semplice palpazione dei polsi, questa procedura necessita di un adeguato addestramento e non può essere considerata di facile esecuzione. Diverso può essere il caso dello screening tra sano e possibile malato. Se i polsi periferici tibiali sono ben palpabili non sarà difficile misurare un ABI che se >0,9 potrà consentire di considera-


re il paziente non affetto da AOP. Più correttamente l’ABI può essere misurato con un doppler portatile. La procedura prevede la determinazione delle pressioni sistoliche (PS) all’arteria cubitale di entrambe le braccia, alle arterie tibiali posteriori (ATP) in regione retromalleolare e alle arterie tibiali anteriori (ATA), o pedidie, al passaggio tarso-metatarsale o al dorso del piede. Qualora la pressione delle braccia sia differente, verrà considerata per il rapporto la più elevata, presupponendo una possibile patologia vascolare al braccio controlaterale:

Tabella 2. ECD

arterioso degli arti inferiori: indicazioni

(NB: la diagnosi di arteriopatia dovrebbe sempre essere supportata da una misura dell'Indice Caviglia-Braccia o ABI: Ankle-Brakial Index) 

Sospetta ischemia acuta

 Claudicatio intermittens moderata (autonomia di marcia <200 m; capacità di salire meno di due rampe di scale; scomparsa del dolore in più di 2')  Claudicatio intermittens severa (autonomia di marcia <100 m; capacità di salire meno di una rampa di scale; scomparsa del dolore in più di 2')  Ischemia critica  Ulcera cutanea di sospetta natura vascolare  Sospetta arteriopatia diabetica con ABI <0,9 o >1,3

PS ATP/ATA --------------------- = ABI PS braccio dx/sx In alcuni casi, diabetici, pazienti con IRC avanzata, le arterie periferiche potrebbero risultare incomprimibili per la presenza di estese calcificazioni di parete. Un ABI che risulti ≥1,3 può esprimere questa condizione. Valori di ABI così elevati sono peraltro anch’essi correlati ad aumento della mortalità cardiovascolare. La misurazione dell’indice alluce-braccio consente in questi casi di ottenere un ABI surrogato in quanto le arterie digitali solitamente non sono interessate dalla calcinosi. La misura può essere effettuata, con difficoltà, anche con sonda doppler CW, ma più proficuo è l’utilizzo di pletismografi. Vi è anche necessità di disporre di un apposito manicotto conformato per il dito. In questo caso il valore di cut-off è considerato ≤0,6. Nei casi normali, il valore è intorno a 1 (uguale pressione tra braccia e gambe), in caso patologico i valori sono < 0,9 e progressivamente più bassi con il peggiorare della malattia. In alcuni casi si rilevano valori >1,3 in caso di calcificazioni della parete della arterie che ne impediscano la compressione (diabetici, portatori di insufficienza renale inveterata), anche questi patologici. In molti casi si hanno persone con un ABI patologico, ma non claudicatio, e anche questi sono da considerare ad alto rischio vascolare (12).

Il ruolo dell’eco-colordoppler Da quanto sin qui espresso, si deduce

 Riduzione improvvisa della distanza di marcia in noto claudicante  Masse pulsanti  In preparazione a chirurgia vascolare arteriosa  Concomitante malattia vascolare coronarica, dei TSA, aneurisma dell'aorta addominale o di altri distretti  Monitoraggio chirurgia vascolare AAII (TEA; By-Pass; Stenting)  1° controllo a tre mesi  2° controllo a sei mesi  3° controllo a un anno, poi annuale ECD ARTERIOSO ARTI INFERIORI INDICAZIONI NON APPROPRIATE  Algie arti inferiori in presenza di polsi palpabili  Algie arti inferiori non correlate col cammino  Claudicatio non vascolare (muscolo-scheletrica, neurologica)  Parestesie/neuropatie

che l’eco-colordoppler (ECD) delle arterie degli arti inferiori è da considerarsi esame di II livello, da riservare a casi selezionati e non allo screening dell’arteriopatia, soprattutto se asintomatica. In particolare è sempre indicato in caso di claudicatio moderata e severa (distanza di marcia libera da dolore <200 metri nel primo caso, <100 nel secondo) sempre in funzione di un’eventuale rivascolarizzazione (13). La tabella 2 elenca i casi in cui l’ECD è indicato.

Ipocolesterolemizzanti Le statine hanno dimostrato efficacia nella riduzione della mortalità e della morbilità cardiovascolari in grossi sottogruppi di pazienti con AOP, indipendentemente dai livelli di colesterolo totale. Effetti favorevoli sono inoltre evidenti nella prevenzione degli eventi periferici sia in pazienti claudicanti che della restenosi dopo chirurgia vascolare. Il target terapeutico nell’arteriopatico sia sintomatico che asintomatico è la riduzione dei livelli di colesterolo LDL al di sotto di 100 mg/dl.

La terapia Terapia antipertensiva La prevenzione e la riduzione del rischio vascolare globale rappresenta sicuramente il cardine della terapia dell’AOP.

Il target terapeutico deve essere per valori di PA inferiori a 140/90 e 130/80 mmHg nel diabetico. Non vi sono con-

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angiologia troindicazioni per l’uso di beta-bloccanti nei cardiopatici. Gli ACE-inibitori e segnatamente il ramipril, e sartani hanno dimostrato efficacia nella riduzione del rischio cardiovascolare globale sia nei sintomatici che negli asintomatici

Terapia antiaggregante piastrinica La terapia antiaggregante è fondamentale per la prevenzione del rischio cardiovascolare globale. Il farmaco di scelta è l’acido acetilsalicilico (ASA) a una dose compresa tra 75 e 325 mg/die. Il clopidogrel ha dimostrato efficacia superiore all’ASA nel sottogruppo di pazienti con AOP nello studio CAPRIE (riduzione del rischio del 23,8 per cento vs 8,7 della popolazione globale dello studio). Gli antiaggreganti sono efficaci anche nella prevenzione degli eventi locali legati alla malattia aterosclerotica (progressione di malattia, trombosi acuta). Fondamentali sono la cessazione del fumo di sigaretta e lo strettissimo controllo metabolico nei diabetici con indicazione alla riduzione dell’emoglobina glicosilata al di sotto del 7 per cento. Nel diabetico l’igiene del piede deve essere attenta e rivolta alla prevenzione delle lesioni cutanee.

Terapia della claudicatio È raccomandato l’esercizio fisico assistito per tutti i pazienti con claudicatio (3545 minuti tre volte la settimana per 12 settimane). Tra i farmaci, cilostazolo (100 mg x2 al dì) viene considerato il “farmaco per la claudicatio” con incremento della distanza di marcia (+ 40-60 per cento), ma non scevro di effetti collaterali e correlato a un incremento della mortalità in pazienti con scompenso congestizio in fase acuta. Pentossifillina, mesoglicano e sulodexide hanno dimostrato, in studi non recenti, efficacia nell’incremento della distanza di marcia libera da dolore.

Terapia chirurgica Tralasciando gli stati di scompenso acuto della malattia vascolare periferica, che si possono riferire agli stati di “ischemia critica”, l’approccio chirurgico emodinamico

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alla claudicatio è da considerarsi riservato a quelle situazioni di insuccesso sintomatologico o fallimento per progressione di malattia, della terapia fisica e farmacologica globale. Indicazione valida si ritiene lo stato di particolare invalidità determinato dalla malattia per precocità dei sintomi di claudicatio o per l’impedimento da parte degli stessi di un’attività lavorativa o fisica regolari. Influiranno sulla decisione eventuali patologie concomitanti che incrementino il rischio operatorio o una prognosi infausta per altre situazioni patologiche (14).

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Celgene

Pomalidomide, nuova terapia orale per il mieloma multiplo

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riplica la risposta, raddoppia la sopravvivenza libera da malattia e riduce la mortalità in modo significativo. Sono questi gli effetti di pomalidomide (Imnovid®), farmaco innovativo che è stato approvato in Italia, ottenendo la rimborsabilità a carico del SSN, per il trattamento del mieloma multiplo in associazione a desametasone in pazienti adulti refrattari e con malattia recidivata, già sottoposti ad almeno due regimi terapeutici comprendenti sia lenalidomide che bortezomib. Pomalidomide è un immunomodulante orale dotato di un meccanismo d’azione multimodale, ovvero azione diretta contro le cellule del mieloma, inibizione dello stroma e immunomodulazione. Se ne è parlato in un incontro che si è tenuto lo scorso 22 settembre a Roma. “La quasi totalità dei pazienti con mieloma multiplo è a rischio di recidiva, ovvero la loro malattia potrebbe progredire nonostante la risposta iniziale al trattamento, e molti manifestano resistenza a diverse terapie”, ha spiegato all’incontro Fabrizio Pane, presidente della Società italiana di ematologia. “Le numerose ricadute ren-

dono necessaria la disponibilità di nuove terapie per un miglior controllo della patologia, specie nelle sue forme refrattarie alle cure”. In questo contesto si inserisce pomalidomide. “L’aspetto interessante del farmaco”, ha sottolineato Antonio Palumbo, dell’AO Città della Salute e della Scienza di Torino “è il suo meccanismo d’azione che, insieme al beneficio clinico dimostrato in un gruppo di pazienti che non dispongono di valide alternative terapeutiche, ha fatto sì che la molecola sia stata definita innovativa dall’AIFA. Il farmaco agisce infatti su due fronti: da una parte sul tumore con un’attività tumoricida, dall’altra parte sul sistema immunitario, con un’attività immunomodulatoria, così da favorire la risposta immunitaria contro le cellule tumorali. Imnovid® ha dimostrato non solo una rilevante efficacia, ma soprattutto un buon profilo di tollerabilità anche in pazienti resistenti alla lenalidomide. La somministrazione orale e il suo impiego a domicilio permettono di migliorare sensibilmente la qualità di vita dei pazienti evitando frequenti accessi ospedalieri”.

Merck Serono

Amgen

Settimana europea di sensibilizzazione sui tumori testa-collo

Ipercolesterolemia “OK” europeo per evolocumab

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o scorso 21 luglio la Commissione europea ha concesso l’autorizzazione all’immissione in commercio di Repatha® (evolocumab), il primo inibitore del PCSK9 oggi disponibile per il trattamento dell’ipercolesterolemia non controllata. La molecola è un anticorpo monoclonale completamente umano che inibisce la proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9 (PCSK9), una proteina che riduce la capacità del fegato di eliminare il C-LDL. Evolocumab è stato approvato per l’ipercolesterolemia primaria (familiare eterozigote e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta in combinazione con statine o con altre terapie ipolipemizzanti nei pazienti in trattamento che non riescono a raggiungere i target di C-LDL con statine al massimo dosaggio tollerato, oppure in monoterapia o in combinazione con altre terapie ipolipemizzanti nei soggetti intolleranti alle statine o per i quali l’uso di statine è controindicato. È inoltre, approvato per la terapia di adulti e adolescenti dai 12 anni in poi con ipercolesterolemia familiare omozigote in combinazione con altre terapie ipolipemizzanti. Il farmaco si somministra con un’iniezione sottocute, e la dose raccomandata negli adulti con malattia primaria è di 140 mg ogni due settimane o di 420 mg una volta al mese.

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na buona notizia per i pazienti colpiti da tumori della testa e del collo: in Europa migliora la sopravvivenza di quanti sono colpiti da neoplasie cervico-facciali in tutte le sedi, anche in quelle non correlate al Papilloma virus (HPV) come, per esempio, l’orofaringe. Questi i risultati del progetto europeo EUROCARE che sono stati presentati lo scorso 16 settembre, in occasione del lancio della terza Settimana europea di sensibilizzazione sui tumori della testa e del collo. L’importanza della prevenzione è indubbia, come fondamentale è la diagnosi precoce. Nel nostro Paese purtroppo persistono alcuni “gap”. Lo studio RITA 2, realizzato dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dimostra che la metà dei pazienti giunge alla diagnosi quando la malattia è in fase avanzata, e in circa il 20 per cento dei casi non è possibile risalire allo stadio del tumore a causa di mancanze relative alle procedure di stadiazione. E ancora, più del 40 per cento dei pazienti viene sottoposto a trattamento dopo più di un mese dalla diagnosi. Il progetto RITA 2 evidenzia dunque, la necessità di migliorare la presa in carico dei pazienti con tumori della testa e del collo in tutte le regioni considerate.

MEDICO E PAZIENTE

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Novartis

teva

Terapia dell’asma e BPCO: un dispositivo a misura di paziente

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igliorare l’aderenza nei pazienti affetti da patologie respiratorie quali asma e BPCO è uno dei target della terapia. Al riguardo è importante segnalare la disponibilità anche in Italia di DuoResp Spiromax®, un dispositivo per inalazione contenente budesonide e formoterolo fumarato diidrato. Si tratta di un inalatore multidose di polvere secca che ha un meccanismo di erogazione intuitivo per il paziente, e che consente l’erogazione di una quantità costante di farmaco a ogni inalazione. Il risultato è una sensibile riduzione del rischio di errori nell’assunzione. In conseguenza si ottiene un migliore controllo della malattia e dei sintomi, a tutto vantaggio dell’aderenza terapeutica. La budesonide con la sua azione antinfiammatoria riduce i sintomi e le riacutizzazioni dell’asma, mentre il formoterolo fumarato diidrato (beta2-adrenocettore agonista) agisce con un effetto broncodilatatorio dosedipendente che si manifesta entro 1-3 minuti. Il dispositivo DuoResp Spiromax® si è aggiudicato il secondo posto all’edizione 2015 del Medical Design Excellence Award, un riconoscimento prestigioso che costituisce un’ulteriore conferma dei vantaggi offerti dall’inalatore in termini di miglioramento dell’assistenza al paziente affetto da malattie respiratorie.

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MEDICO E PAZIENTE

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Nasce la prima rivista italiana sulla medicina di genere

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XI edizione di The Future of Science, il convegno organizzato da Fondazione Umberto Veronesi, Fondazione Silvio Tronchetti Provera e Fondazione Giorgio Cini, è stata interamente dedicata a una nuova frontiera della ricerca e della prevenzione, ovvero la medicina di precisione. Si tratta di un nuovo paradigma che investe ogni aspetto della medicina e che combina i dati genetici con le informazioni sulle malattie per ottenere diagnosi sempre migliori e personalizzate. Uno dei capitoli più promettenti di questo filone è la medicina di genere, che si occupa di studiare l’impatto specifico del genere, maschile o femminile, sullo sviluppo e l’evoluzione delle malattie, con l’obiettivo di assicurare a uomini e donne il migliore trattamento possibile in base alle caratteristiche individuali. Al convegno è stata presentata ufficialmente “The Journal of Gender-Specific Medicine”, la prima rivista scientifica italiana dedicata al tema, pubblicata da Il Pensiero Scientifico Editore con il contributo di Novartis Italia. Si tratta di uno strumento dedicato a medici, ricercatori e decisori, ma che coinvolge anche i non addetti ai lavori, attraverso il sito www.gendermedjournal.it aperto a tutti.

Shionogi

Generazione “Young Old”, la sfida per il futuro della nostra società

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umentano i “giovani vecchi” attivi e in forma, e ciò comporta un cambiamento negli approcci alla salute. Partendo da questo spunto e dal volume “Ancora giovani per essere vecchi” di Giangiacomo Schiavi e Carlo Vergani (Grandi saggi del Corriere della Sera), si è svolto un seminario lo scorso 7 luglio a Roma, dal titolo “Sana Longevità. La ricerca medica tra Italia e Giappone” che è stato promosso dalla Fondazione Italia Giappone, con il contributo di Shionogi e il patrocinio dell’Ambasciata del Giappone. In Italia la vita media è di 83 anni, inferiore solo di un anno a quella del Giappone, considerato il Paese più vecchio del mondo. Per una sana longevità la componente genetica conta solo per il 30 per cento, il restante 70 dipende dallo stile di vita e dall’ambiente. E come ha sottolineato Carlo Vergani “Per questo motivo è necessario individuare un approccio olistico, bio-psico-sociale che tenga conto nel tempo di fattori personali, della razza, del genere, ma anche di quelli contestuali come l’ambiente fisico e sociale in cui si vive per ottenere un modello di salute che ci permetta di invecchiare bene”.

Abbvie

Epatite C, i nuovi antivirali efficaci e “sostenibili”

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nuovi antivirali rappresentano una svolta nella lotta all’epatite C. Sebbene si tratti di terapie dai costi elevati, uno studio stima i risparmi che potrebbero derivare dall’utilizzo di questi farmaci. Il modello dello studio, messo a punto da ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata, ha stimato una riduzione di oltre 156mila eventi HCV-correlati nel medio periodo (2014-2030), quali fibrosi F3,

cirrosi, epatocarcinoma, trapianti e decessi, e una riduzione dei costi sanitari (diretti e indiretti) tra €13 e 18.000 euro per paziente trattato con i nuovi farmaci. L’ultimo regime terapeutico approvato in Italia è quello a base di Viekirax® (ombitasvir/paritaprevir/ ritonavir compresse) + Exviera® (dasabuvir compresse), con o senza ribavirina, per i pazienti con HCV di genotipo 1 e 4.


Un strumento in pi첫 per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo


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