Medico e paziente 04 14

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XL n. 4 - 2014

4

oncologia progressi nella ricerca genetica sul tumore al seno Nefrologia la terapia ipoglicemizzante orale nel diabetico nefropatico Esofagite eosinofila indicazioni di diagnosi e trattamento Congressi dal meeting ASCO le novitĂ nella terapia dei tumori

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

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CLINICA

DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

MP

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

>s Domenico D’Amico

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anno XL - 2014 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino

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Medico e paziente n. 4

in questo numero

sommario

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XL n. 4 - 2014

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ONCOLOGIA progressi nella ricerca genetica sul tumore al seno NEFROLOGIA la terapia ipoglicemizzante orale nel diabetico nefropatico ESOFAGITE EOSINOFILA indicazioni di diagnosi e trattamento CONGRESSI dal meeting ASCO le novità nella terapia dei tumori

MP

Degranulazione degli eosinofili (rosa) con innervazione adiacente (marrone) nel duodedono di un paziente con dispepsia funzionale Fonte: Imperial College London (www1.imperial.ac.uk)

p 6

letti per voi

p 10 CLINICA

Gestione del paziente con dispepsia Indicazioni pratiche per il MMG

Il Medico di Medicina generale rappresenta generalmente il primo riferimento per il paziente con dispepsia. Oltre all’inquadramento clinico, in questo articolo gli Autori forniscono utili indicazioni per un approccio razionale, diagnostico e terapeutico, al paziente dispeptico

Hanno collaborato a questo numero:

Franco Bazzoli Roberta Caccaro Pasquale Fatuzzo Antonio Granata Stefano Rabitti Edoardo Savarino Amanda Vestito Rocco Maurizio Zagari

p 16 NEFROLOGIA

Rocco Maurizio Zagari, Stefano Rabitti, Amanda Vestito, Franco Bazzoli

Malattia renale cronica e diabete mellito tipo II Realtà e miti della terapia con ipoglicemizzanti orali Nel nefropatico diabetico la terapia ipoglicemizzante orale deve essere attentamente e periodicamente monitorata poiché il declino della funzione renale al di sotto dei 60 ml/min di filtrato glomerulare (GFR) può dar luogo ad alterazioni nella farmacocinetica tali da esporre il paziente a gravi effetti collaterali qualora non se ne consideri una prudente riduzione della dose o addirittura la sospensione

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Antonio Granata, Pasquale Fatuzzo

Medico e Paziente

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

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sommario

p 24 gastroenterologia

esofagite eosinofila, una patologia emergente Overview su fisiopatologia, diagnosi e terapia

L’esofagite eosinofila è una patologia cronica, immunomediata, caratterizzata da sintomi secondari alla presenza di una disfunzione esofagea e da un infiltrato infiammatorio a componente eosinofila

Roberta Caccaro, Edoardo Savarino

p 28

congressi

• Meeting annuale ASCO 30 maggio-3 giugno, Chicago (Illinois, USA) • Respiration Day 2014 30 maggio, Parma

p 30

Farminforma

p 32

Notizie dal web

• Livelli di vitamina D e sopravvivenza nel Ca. colorettale: esiste una relazione? • L’informazione “social” di Janssen Italia • Un sito web dedicato ai pazienti con problemi ortopedici

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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letti per voi Oncologia

La scoperta di una nuova mutazione genetica permette di individuare con maggiore sicurezza la predisposizione ad ammalarsi di tumore al seno, e apre la strada alla possibilità di quantificare il rischio £ Il tumore al seno resta un “big killer” nella nostra società, essendo ancora responsabile di circa il 16 per cento dei decessi per cause oncologiche. Negli ultimi anni si è verificato un aumento dell’incidenza, spcie tra le donne giovani, cioè nella fascia di età 35-50 anni, e nelle ultrasettantenni.

È importante segnalare quindi, questa ricerca internazionale alla quale hanno preso parte anche Centri italiani, in cui è stata scoperta una mutazione genetica che aumenta il rischio di tumore, specialmente nelle donne di età superiore ai 70 anni, permettendo così di individuare con più sicurezza la pre-

Cardiologia

disposizione di ammalarsi di tumore al seno. I soggetti che presentano varianti nel gene PALB2, sotto i 40 anni hanno un rischio che è superiore di 8-9 volte quello della popolazione generale. Il rischio in donne portatrici della mutazione è in media del 14 per cento intorno ai 50 anni, mentre sale al 35 per cento dopo i 70. I risultati sono stati ottenuti dopo aver analizzato il rischio di cancro al seno in 362 donne appartenenti a 154 famiglie, portatrici di mutazioni (truncating, splice, delezioni) nel gene PALB2. Rispetto alla popolazione generale e di pari età, le donne con PALB2 mutato presentano un rischio da 6 a 8 volte più alto nella fascia di età tra i 40 e i 60 anni e di

£ Nei pazienti ipertesi l’approccio terapeutico standard si fonda sul concetto del “lower is better”, e pertanto sull’adozione di misure comportamentali e strumenti di trattamento in grado di abbassare il più possibile i valori pressori. È noto dai dati presenti in letteratura, che per questa classe di pazienti valori di pressione sistolica (PAS) superiori a 115 mmHg comportano un aumento del rischio di patologie CV maggiori. Ciò che però resta poco chiaro al momento è, se per valori di PAS inferiori a 120 mmHg, vi sia un abbassamento di tale rischio. A dare alcune indicazioni al riguado è uno studio osservazionale, apparso su Jama Internal Medicine, condotto con l’obiettivo di analizzare in pazienti ipertesi la variazione del rischio CV in funzione di tre intervalli di PAS: PAS ≥ 140 mmHg (elevata), PAS compresa tra 120 e 139 mmHg (standard) e PAS <120 mmHg (bassa). Allo studio hanno preso parte 4.480 pazienti che sono stati scelti tra i partecipanti dell’Atherosclerosis Risk in Communities Study, ipertesi, ma senza prevalenza di patologie CV al basale. I pazienti sono stati seguiti per un follow up mediano di 21,8 anni. La misurazione della pressione è stata effettuata al basale, e successivamente in visite programmate, ogni tre anni. L’endpoint dello studio era l’incidenza di eventi maggiori, definiti come scompenso cardiaco, ictus ischemico, infarto del miocardio, o decesso per patologie coronariche. Alla fine del periodo di osservazione sono stati registrati 1.622 eventi. Chiaramente i soggetti con valori elevati di PAS mostravano un significativamente più alto rischio di andare incontro a eventi CV maggiori rispetto a quanto osservato tra quelli con valori bassi (HR aggiustato 1,46; CI 95 per cento 1,26-1,69). Il dato interessante riguarda il fatto che non vi erano differenze sostanziali in termini di rischio tra i soggetti appartenenti al range, definito come standard, di pressione, e quelli appartenenti al range basso, con PAS cioè inferiore a 120 mmHg (HR aggiustato 1,00; CI al 95 per cento 0,85-1,17). Il trend è stato confermato anche dopo aggiustamento per variabili quali età al basale, sesso, diabete, BMI (indice di massa corporea), colesterolemia, abitudine al fumo, assunzione di alcol e valori di pressione diastolica. Dunque questa analisi osservazionale conferma un aumento del rischio di eventi CV maggiori per valori pressori elevati, un dato quest’ultimo ben noto. Ciò che appare di interesse è il fatto che una volta che la PAS venga portata al di sotto dei 140 mmHg, tentare di abbassarla sotto i 120 mmHg potrebbe non apportare un beneficio aggiuntivo in termini di incidenza di eventi CV. In pratica, il range di pressione ottimale sarebbe 120-139 mmHg, per il quale è evidente il beneficio sulla riduzione del rischio CV, e dunque non sarebbe necessario andare al di sotto dei 120, perché non vi sarebbero effetti positivi aggiuntivi. Naturalmente trattandosi di uno studio osservazionale, i risultati necessitano conferme in trial clinici. A dare indicazioni dirimenti potrebbe essere lo studio SPRINT, attualmente in corso.

Nei pazienti ipertesi e senza patologie CV concomitanti, l’abbassamento della PAS sotto i 120 mmHg non comporterebbe benefici aggiuntivi in termini di riduzione del rischio CV: i risultati di uno studio osservazionale

Rodriguez CJ, Swett K, Agarwall SK et al. Jama Intern Med 2014; 174(8): 1252-61

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Medico e paziente

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12 – 15 Nov 2014

Antoniou AC, Casadei S, Heikkinen T et al. New Engl J Med 2014; 371:497-506; Sangaletti S, Tripodo C, Sandri S et al. Cancer Res 2014; 74(14): 4706-19

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circa 5 volte nelle donne “over 60”. Il rischio cumulativo (stima) è risultato del 14 per cento (CI 95 per cento, 9-20) fino ai 50 anni di età, e del 35 per cento (CI 95 per cento, 26-46) dopo i 70 anni. Nel caso del tumore al seno non va trascurata la storia familiare. In questo studio, le donne con mutazione PALB2 e provenienti da famiglie in cui non sono presenti casi di tumore al seno, a 70 anni hanno un rischio di malattia del 33 per cento (95 per cento CI, 25-44), mentre quelle provenienti da famiglie in cui vi sono stati casi di tumore al seno in due o più parenti di primo grado a esordio precoce (fino ai 50 anni), tale valore balza al 58 per cento. I risultati sono significativi soprattutto nell’ottica di una quantificazione del rischio di sviluppare il Ca. alla mammella e di una selezione delle pazienti che necessiterebbero di un monitoraggio attento e continuo. Sempre per quanto riguarda il tumore al seno, citiamo un altro studio, frutto di un gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, in cui è stata scoperta una proteina che favorisce le metastasi. Il lavoro individua un’insospettabile proteina, l’osteopontina, quale fattore chiave nel processo di metastasi tumorale. Il ruolo di questa proteina è duplice: se prodotta dalla cellula tumorale, ne garantisce la sopravvivenza in un ambiente ostile, mentre se trattenuta all’interno dei leucociti contribuisce a proteggere le cellule tumorali che stanno formando la metastasi dall’attacco del sistema immunitario. Gli studi sono stati condotti prima in un modello animale e poi sono stati estesi all’analisi delle metastasi polmonari in pazienti con Ca. al seno. L’importanza di questi risultati è duplice; da un lato, si aggiunge un tassello in più nella comprensione del complesso processo di metastatizzazione tumorale, e dall’altro apre alla prospettiva di individuare una cura più efficace.


letti per voi Neurologia

Essere vittime di bullismo e di comportamenti aggressivi in ambito scolare aumenta il rischio di cefalea tra gli adolescenti: le conferme da una metanalisi italiana di studi osservazionali £ La cefalea ricorrente è una delle più frequenti manifestazioni di dolore in età scolare e adolescenziale. Sembra inoltre, che la prevalenza della cefalea ricorrente sia in aumento nel corso degli ultimi decenni. Studi pubblicati in letteratura puntano l’attenzione sul ruolo di fattori sociali e psicologici, comprese le esperienze negative vissute a scuola, quali potenziali determinanti del rischio di cefalea ricorrente. In tale ambito si colloca anche questo studio secondo cui, aver vissuto episodi di bullismo durante l’età scolare espone a una serie di ripercussioni negative, tra cui problemi piscologici e somatici di diversa natura e gravità che possono manifestarsi anche a distanza

di molti anni. Obiettivo di questa metanalisi era determinare se l’essere vittime di bullismo costituisce un fattore di rischio per cefalea nella popolazione in età scolare. Allo scopo è stata condotta una ricerca della letteratura nel mese di settembre 2013 per individuare gli studi osservazionali che si occupavano dell’associazione vittime di bullismo-cefalea; sono stati poi determinati i valori di odds ratio (OR). Sono stati selezionati nel complesso 20 studi per un totale di 173.775 soggetti, e di questi, 14 riporatvano dati sulla prevalenza del mal di testa: in media 32,7 per cento (range 9,1-71,7 per cento) tra i ragazzi che avevano subito atti di bullismo e 19,1 per cento (range 5,3-46,1 per cento)

tra il gruppo controllo. Due differenti metanalisi sull’associazione vittime di bullismo-mal di testa sono state condotte sulla base dei dati provenienti da 3 studi longitudinali (OR 2,10 CI 95 per cento 1,19-3,71) e da 17 studi con disegno di tipo cross sectional (OR 2,00 CI 95 per cento 1,70-2,35), rispettivamente. I ragazzi che hanno subito episodi di bullismo presentano un rischio significativamente più alto di cefalea, rispetto ai coetanei “non vittime”. Negli studi cross sectional il “peso” dell’effetto diminuiva significativamente all’aumentare della quota di femmine partecipanti allo studio. Viene confermata dunque, un’associazione positiva tra l’essere vittime di bullismo e rischio di cefalea. Alla ricerca futura spetterà il compito di chiarire se vi possano essere (e quali) determinanti ambientali in grado di influenzare questa associazione. Gini G, Pozzoli T, Lenzi M et al. Headache 2014; 54(6): 976-86

Psichiatria

Il trattamento con antipsicotici e stabilizzanti dell’umore potrebbe essere utile anche nella riduzione del tasso di crimini violenti commessi dai pazienti psichiatrici: i dati di un’analisi svedese di farmacoepidemiologia £ Gli antipsicotici e gli stabilizzanti dell’umore sono farmaci ampiamente prescritti per molti disturbi psichiatrici. Nonostante vi siano chiare evidenze sulla loro efficacia nella prevenzione delle ricadute e nel miglioramento dei sintomi, gli effetti su altri eventi avversi, incluso il verificarsi di atti violenti, non sono del tutto chiariti. Infatti, la perpetrazione di violenza interpersonale e le sue conseguenze sono tra i più importanti esiti avversi nei pazienti psichiatrici. Dati recenti indicano che il rischio relativo di violenza contro altre persone è 4 volte superiore negli schizofrenici rispetto alla popolazione generale. In conseguenza la riduzione di tale rischio è una componente essenziale della terapia, ma al momento non vi è chiara evidenza di un efficace approccio nella gestione del rischio di violenza. Questo studio, condotto in Svezia tra il 2006 e il 2009, aveva l’obiettivo di stabilire l’effetto degli antipsicotici e degli stabilizzanti dell’umore sul tasso di crimini violenti commessi da pazienti psichiatrici. Sono stati raccolti i dati di 82.647 pazienti che assumevano tali farmaci, con diagnosi psichiatrica e successive condanne per comportamenti violenti. Sono stati prescritti antipsicotici o stabilizzanti dell’umore a 40.937 uomini, di cui il 6,5

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Medico e paziente

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per cento aveva ricevuto condanne per atti violenti, e a 41.710 donne, di cui l’1,4 per cento era stato condannato. Rispetto al periodo in cui i partecipanti non erano in terapia, il comportamento violento diminuisce del 45 per cento nei pazienti che ricevevano gli antipsicotici (HR 0,55, 95% CI 0,47–0,64) e del 24 per cento nei pazienti cui erano prescritti stabilizzanti dell’umore (HR 0,76, CI 0,62–0,93). Inoltre gli stabilizzanti dell’umore erano associati a un ridotto grado di crimini commessi solo nei pazienti con disturbo bipolare. Inoltre, una notevole riduzione dei crimini si osservava per le formulazioni “depot” a lento rilascio (HR aggiustato per concomitante somministrazione orale 0,60, 95 CI 0,39–0,92). In aggiunta alla prevenzione delle ricadute e al miglioramento dei sintomi psichiatrici, i benefici degli antipsicotici e degli stabilizzanti dell’umore possono anche includere una riduzione del tasso di crimini violenti commessi dai pazienti. Un effetto da tenere presente nella scelta della terapia più opportuna in questi pazienti. Fazel S, Zetterqvist J, Larsson H et al. The Lancet 2014; 384(9949): 1206-14


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clinica

Gestione del paziente con dispepsia Indicazioni pratiche per il MMG Il medico di medicina generale rappresenta generalmente il primo riferimento per il paziente con dispepsia. Oltre all’inquadramento clinico, In questo articolo gli Autori forniscono utili indicazioni per un approccio razionale, diagnostico e terapeutico, al paziente dispeptico

L

a dispepsia è una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di sintomi cronici e ricorrenti provenienti dal tratto digestivo superiore. La dispepsia è molto frequente nella popolazione generale, ed è responsabile di circa il 5 per cento delle visite effettuate dai medici di Medicina Generale (1). In Italia un recente studio epidemiologico ha stimato che circa il 15 per cento della popolazione adulta soffre di dispepsia (2). Sebbene siano state pubblicate numerose linee guida (3-5), la gestione del paziente con dispepsia non investigata – paziente non sottoposto a gastroscopia – così come quella del paziente con dispepsia funzionale è ancora oggi molto dibattuta. La dispepsia ha un sostanziale impatto economico, e un’appropriata gestione è

A cura di Rocco Maurizio Zagari, Stefano Rabitti, Amanda Vestito, Franco Bazzoli Unità Operativa di Gastroenterologia, Ospedale S. Orsola-Malpighi; Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche – DIMEC, Università di Bologna

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MEDICO E PAZIENTE

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essenziale per ridurre i costi (6). L’articolo qui presentato fornisce un’overview delle più recenti raccomandazioni internazionali, revisioni sistematiche e trial clinici allo scopo di dare le informazioni necessarie per una più corretta gestione dei pazienti con dispepsia nella pratica clinica del medico di Medicina Generale (MMG).

Qual è il paziente affetto da dispepsia Il termine dispepsia, che deriva dal greco “δνς-” (Dys-) =difficile e “πεψη” (pepsia) =digestione, viene usato per indicare una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di uno o più sintomi cronici localizzati in epigastrio e provenienti dal tratto digestivo superiore, in particolare dallo stomaco e dal duodeno. Secondo la più recente classificazione, sono quattro i sintomi tipici di dispepsia: il senso di ripienezza post-prandiale, la sazietà precoce, il dolore epigastrico e il bruciore epigastrico (Tabella 1) (4). ll paziente con dispepsia presenta uno o

più di questi sintomi almeno una volta alla settimana negli ultimi tre mesi, con un’insorgenza che risale ad almeno sei mesi prima della diagnosi (4). La nausea e il gonfiore addominale possono originare dal tratto digestivo superiore, ma possono anche provenire da altre sedi. La nausea può avere un’origine centrale (cervello) o provenire dall’intestino, così come il gonfiore addominale può essere un sintomo intestinale. Questi due sintomi, che spesso si associano ad altri sintomi dispeptici, se presenti da soli non dovrebbero essere considerati come sintomi tipici di dispepsia. I pazienti con concomitanti sintomi da reflusso gastroesofageo, come il bruciore retrosternale o il rigurgito acido, a meno che questi ultimi non siano presenti in forma lieve, dovrebbero essere esclusi dalla definizione di dispepsia, ed essere inizialmente considerati e trattati come pazienti con malattia da reflusso gastroesofageo (3-5).

Possibili cause dei sintomi dispeptici Da un punto di vista eziologico si distinguono due tipi di dispepsia, la dispepsia organica e la dispepsia funzionale. Si parla di dispepsia organica quando i sintomi dispeptici sono causati da patologie organiche del tratto digestivo superiore come la malattia da reflusso gastroesofageo con o senza esofagite, l’ulcera peptica gastrica o duodenale e le neoplasie dell’esofago e dello stomaco. Cause extra-gastrointestinali di dispepsia organica, come l’assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS),


la litiasi delle colecisti e le patologie pancreatiche sono infrequenti, ma importanti e dovrebbero essere sempre tenute in considerazione in un paziente con epigastralgia (Tabella 2). Tuttavia la causa più frequente di sintomi dispeptici è la dispepsia funzionale, che è una diagnosi di esclusione dopo gastroscopia. Nella maggior parte dei pazienti con dispepsia non viene riscontrata all’endoscopia nessuna apparente lesione organica. Uno studio di popolazione condotto in più di 1.000 abitanti di due paesi dell’Appenino Tosco-Emiliano, Loiano e Monghidoro, ha riportato che circa il 73 per cento dei soggetti con dispepsia presentava una dispepsia funzionale, mentre solo il 27 per cento dei soggetti aveva lesioni endoscopiche (dispepsia organica): il 10 per cento presentava un’esofagite o esofago di Barrett (1 per cento), il 9 per cento un’ulcera peptica gastrica o duodenale, il 6 per cento erosioni gastroduodenali e il 2 per cento una neoplasia maligna dello stomaco (2). Simili dati sono stati riportati da una recente revisione sistematica di nove studi che hanno incluso 5.389 soggetti con dispepsia. Circa l’80 per cento dei soggetti con dispepsia non aveva alcuna lesione endoscopica (dispepsia funzionale), il 13 per cento aveva una’esofagite erosiva, l’8 per cento un’ulcera peptica e lo 0,3 per cento aveva una neoplasia maligna dell’esofago o dello stomaco (7). È noto che l’esofagite erosiva è una complicanza della malattia da reflusso gastroesofageo, mentre l’ulcera peptica è causata nella maggior parte dei casi dall’infezione da H. pylori o dall’uso di FANS. L’eziologia della dispepsia funzionale rimane invece incerta, probabilmente multifattoriale (4). In un gruppo sostanziale di pazienti i sintomi sono associati ad alterazioni della motilità gastrica, come un rallentato svuotamento gastrico o una ridotta distensione del fondo gastrico durante i pasti, o a un’ipersensibilità gastrica o duodenale, in relazione a meccanismi ancora sconosciuti (4). Un rallentato svuotamento gastrico del cibo può essere causa del senso di ripienezza post-prandiale, mentre una ridotta distensione del fondo gastrico può

Tabella 1

Definizione di dispepsia – Criteri di Roma III Presenza di uno o più dei seguenti sintomi localizzati in epigastrio: l Dolore epigastrico (non si riduce con emissione di feci/gas) l Bruciore epigastrico l Senso di ripienezza post-prandiale l Sazietà precoce (impossibilità a finire il pasto) I sintomi devono essere presenti almeno un giorno alla settimana negli ultimi 3 mesi. I sintomi tipici da reflusso gastroesofageo, come il bruciore retrosternale e/o il rigurgito acido, dovrebbero essere assenti o presenti in forma lieve. Fonte: Tack et al., Gastroenterology 2006

essere causa del senso di sazietà precoce. L’ipersensibilità dei meccanorecettori gastrici e l’ipersensibilità duodenale all’acido posso invece essere responsabili del dolore o del bruciore epigastrico (4). I dati di recenti studi hanno suggerito che un’alterazione della risposta immunitaria nella mucosa dello stomaco e del duodeno, possibile conseguenza di un’infezione o di un’alterazione della normale flora batterica, potrebbe indurre alterazioni della motilità o della sensibilità gastro-

duodenale (8). I sintomi dispeptici non sono in genere pasto-specifici, anche se è stato riportato un aumento dei sintomi dopo assunzione di lipidi. I lipidi possono indurre un’aumentata liberazione di colecistochinina che può influenzare la motilità gastroduodenale (9). La correlazione tra fattori psicologici, come ansia e depressione, e dispepsia funzionale è stata ampiamente dimostrata (2,10). I fattori psicologici possono causare sintomi dispeptici sia indirettamente attraverso

Tabella 2

Cause organiche di dispepsia Tratto digestivo superiore Malattia da reflusso gastroesofageo con o senza esofagite Ulcera peptica gastrica o duodenale Neoplasie dell’esofago o dello stomaco (cancro, linfoma MALT ecc.) Cause extra-gastrointestinali Litiasi della colecisti e colecistite Pancreatite, cancro del pancreas Malattie delle vie biliari o neoplasie Cardiopatia ischemica Farmaci (aspirina, FANS, steroidi,calcioantagonisti e bisfosfonati)

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clinica un’alterazione della motilità o sensibilità gastroduodenale sia direttamente attraverso un’alterazione della percezione degli stimoli a livello centrale (11). È stata anche riportata un’associazione tra fumo (2), obesità (10) e dispepsia funzionale.

È possibile distinguere la causa della dispepsia sulla base dei sintomi? I singoli sintomi dispeptici o sottogruppi di tali sintomi sono scarsamente predittivi della patologia sottostante. Una metanalisi ha dimostrato che sia il MMG sia il gastroenterologo non riescono a distinguere attraverso la sintomatologia e l’esame obiettivo se un paziente ha una patologia organica o una dispepsia funzionale (12). La concomitante presenza di segni o sintomi di allarme come vomito ricorrente, perdita di peso, disfagia, anemia e sanguinamento gastrointestinale o di fattori di rischio per cancro dell’esofago o dello stomaco (Tabella 3), aumenta però in maniera significativa la probabilità che il paziente abbia un’ulcera peptica o una neoplasia maligna del tratto digestivo

superiore. Lo studio Loiano-Monghidoro prima citato ha riportato una prevalenza delle neoplasie maligne dello stomaco significativamente più alta nei soggetti dispeptici con sintomi o segni d’allarme, dove la prevalenza era del 9,1 per cento, che in quelli senza sintomi di allarme dove la prevalenza era solo dello 0,4 per cento (OR 25,51, 95 per cento CI: 4,62140,98) (13). Risultati simili sono stati riportati da un recente studio condotto su oltre 100.000 pazienti con dispepsia e sintomi di allarme in Cina (14).

Come investigare i pazienti con dispepsia Un’accurata anamnesi e un adeguato esame obiettivo del paziente possono aiutare a escludere cause non gastrointestinali di sintomi dispeptici come, ad esempio, l’uso di farmaci quali l’aspirina e i FANS. È bene tenere in considerazione anche lo stile di vita e la dieta. Il fumo, l’obesità, l’eccessiva assunzione di alcolici e di cibi grassi possono essere associati a sintomi dispeptici (6). Un esame emocromocitometrico completo può essere utile per confermare il

Tabella 3

Segni, sintomi d’allarme e fattori di rischio per cancro Segni e sintomi d’allarme Vomito persistente Perdita di peso non intenzionale

sospetto clinico di anemia, che è un segno di allarme. Il dosaggio delle transaminasi, degli indici di colestasi e degli enzimi pancreatici può permettere di rilevare una patologia epato-biliare o pancreatica. In questo caso è raccomandata l’esecuzione di un’ecografia addominale (6). L’esofagogastroduodenoscopia è il “gold standard” per investigare il tratto digestivo superiore. La sua accuratezza diagnostica è superiore al 95 per cento; durante la gastroscopia è anche possibile effettuare prelievi bioptici della mucosa per la diagnosi di infezione da H. pylori e di condizioni e lesioni precancerose come la gastrite atrofica, la metaplasia intestinale e la displasia, e confermare istologicamente la presenza di una neoplasia maligna (6). Tuttavia la gastroscopia non può essere usata per investigare tutti i pazienti affetti da dispepsia essendo un esame invasivo, costoso e con accesso limitato. La radiografia con pasto baritato è più facilmente accessibile, ma ha una sensibilità e specificità inferiori, in particolare per la diagnosi di neoplasie maligne in fase precoce, come l’early gastric cancer (6). Test non invasivi altamente accurati per la diagnosi di infezione di H. pylori, come il 13C-urea breath test (test del respiro) e il test fecale, possono essere utilizzati come metodo indiretto per identificare i pazienti con ulcera peptica. Diversi studi hanno infatti dimostrato che la positività di uno di questi test è un buon predittore di ulcera peptica in pazienti con dispepsia non investigata (13).

Disfagia Sanguinamento gastrointestinale

Endoscopia o terapia empirica?

Anemia sideropenica Massa epigastrica alla palpazione Fattori di rischio per cancro Storia familiare di I grado positiva per cancro gastrico Pregressa ulcera gastrica Pregressa gastroresezione Esofago di Barrett o gastrite atrofica/metaplasia intestinale Fonte: Zagari RM et al. BMJ 2008

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Secondo le linee guida i pazienti dispeptici con concomitanti segni o sintomi d’allarme (vomito, perdita di peso, anemia ecc.) e i pazienti con più di 45-50 anni con dispepsia di nuova insorgenza dovrebbero essere prontamente sottoposti a gastroscopia per escludere ulcere complicate o tumori maligni dell’esofago o dello stomaco (Figura 1) (3-6). I pazienti anziani hanno un aumentato rischio di avere una neoplasia maligna del tratto digestivo superiore e quindi


Figura 1

Gestione del paziente con dispepsia Età < 45-50 anni e senza segni e sintomi d’allarme

Età > 45-50 anni o presenza di segni e sintomi d’allarme

Modifiche stile di vita e assunzione di farmaci Fallimento

EGDS

H. pylori “ test and treat” Fallimento

Inibitori di pompa protonica per 1-2 mesi Fallimento

Rassicurazione, riconsiderare diagnosi. Considerare: procinetici, antispastici, ansiolitici

EGDS Fonte: Zagari et al. BMJ 2008

un’endoscopia precoce è indicata anche in assenza di segni d’allarme. I pazienti giovani, di età inferiore ai 45-50 anni, e senza segni o sintomi d’allarme dovrebbero invece essere gestiti inizialmente in maniera empirica (Figura 1) (3-6). Una metanalisi di trial controllati e randomizzati ha riportato che in questi pazienti un’iniziale endoscopia era superiore a una gestione empirica in termini di controllo dei sintomi a 12 mesi, ma non era costo-efficace (15). D’altra parte i tumori maligni del tratto digestivo superiore nei pazienti giovani sono rari e quando riscontrati spesso incurabili. Diversi studi hanno dimostrato che la prevalenza dei tumori maligni nei pazienti dispeptici giovani con meno di 50 anni e senza sintomi d’allarme è di circa lo 0,1 per cento, che significa 1 caso su mille (16). Uno studio retrospettivo condotto in Scozia su 3.293 soggetti dispeptici con un tumore maligno del tratto digestivo superiore, ha riportato che solo 21 (0,6 per cento) di questi avevano meno di 55 anni e non

presentavano sintomi d’allarme e solo due (0,1 per cento) avevano ricevuto un trattamento chirurgico curativo (17).

I trattamenti empirici Le linee guida internazionali raccomandano nei pazienti giovani con dispepsia non investigata e senza sintomi di allarme due strategie empiriche: il cosiddetto “test and treat”, che consiste nell’effettuare un test non invasivo per l’infezione da H. pylori, come il 13C-urea breath test o il test fecale, con eventuale trattamento antibiotico di eradicazione se il test è positivo, e una terapia empirica con farmaci antisecretori come gli inibitori di pompa protonica (IPP) per 1-2 mesi (3-6). Una revisione della Cochrane ha dimostrato che gli inibitori di pompa protonica sono tra i farmaci antisecretori quelli più efficaci nel trattamento dei pazienti con dispepsia non investigata (18). Le linee guida raccomandano il “test and treat”come strategia di prima linea e gli

IPP come trattamento di seconda linea nei pazienti con persistenza dei sintomi dopo l’eradicazione di H. pylori o nei pazienti H. pylori negativi (Figura 1) (3-6). Il principale vantaggio del “test and treat” rispetto agli IPP è che permette di curare definitivamente quel sottogruppo di pazienti dispeptici con un’ulcera peptica H. pylori correlata e un piccolo gruppo di pazienti con dispepsia funzionale. Tuttavia il recente calo nella prevalenza dell’infezione da H. pylori e dell’ulcera peptica sta mettendo in discussione l’appropriatezza del “test and treat” come strategia di prima linea. Una recente metanalisi di studi che hanno paragonato il “test and treat” vs la terapia empirica con IPP nella gestione dei pazienti con dispepsia non investigata non ha dimostrato una differenza significativa in termini di efficacia e costi tra le due strategie (19). Tenendo in considerazione il potenziale beneficio a lungo termine dell’eradicazione dell’H. pylori nel ridurre il rischio di cancro gastrico e nel prevenire l’ulcera peptica,

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clinica In Italia, secondo i dati di un recente studio, circa il 15 per cento della popolazione adulta soffre di dispepsia. Nonostante siano state pubblicate numerose linee guida, la gestione del paziente con dispepsia non investigata o con dispepsia funzionale è ancora oggi molto dibattuta. Un’appropriata gestione, ridurrebbe il “peso” economico di questa condizione

il “test and treat” rimane ancora oggi una valida strategia di prima linea nella gestione dei pazienti con dispepsia non investigata (3-6). Se entrambe queste strategie non hanno successo il paziente giovane e senza sintomi di allarme dovrebbe essere innanzitutto rassicurato che è poco probabile che i suoi sintomi siano dovuti a una lesione organica. Il MMG potrebbe considerare l’opportunità di usare altre terapie empiriche con farmaci procinetici o spasmolitici, o inviare il paziente dallo specialista gastroenterologo, prima di inviarlo direttamente a eseguire una gastroscopia (Figura 1) (3-6).

Cosa fare dopo la gastroscopia Quando si invia un paziente a effettuare una gastroscopia è sempre bene richiedere all’endoscopista di eseguire anche biopsie multiple a livello dell’antro e del corpo dello stomaco per escludere con ulteriore certezza la presenza dell’H. pylori. Gli IPP dovrebbero essere sospesi almeno due settimane prima poiché ri-

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ducono la sensibilità dell’esame istologico nella diagnosi di infezione da H. pylori con la conseguente possibilità di avere risultati falsamente negativi (6). Se la gastroscopia evidenzia un’esofagite erosiva e/o un’ulcera peptica, queste verranno trattate con IPP, in caso di esofagite o ulcera peptica FANS-correlata, e terapia antibiotica eradicante in caso di ulcera peptica H. pylori-correlata. Nei rari casi di neoplasia maligna dell’esofago o dello stomaco si eseguirà adeguata stadiazione e successiva rimozione endoscopica o chirurgica della lesione a seconda della sua invasività. Tuttavia nella maggior parte dei pazienti non si reperirà alcun tipo di lesione organica e si porrà quindi diagnosi di dispepsia funzionale.

Trattamento dei pazienti con dispepsia funzionale Il trattamento della dispepsia funzionale è ancora oggi un importante problema sia per il medico di Medicina Generale sia per lo specialista gastroenterologo. Le cause dei sintomi nei pazienti con dispepsia funzionale non sono ancora chiare e curare questi soggetti è spesso difficile e frustrante. La rassicurazione del paziente e la spiegazione della natura certamente benigna dei sintomi può essere talvolta il miglior trattamento, ed è sufficiente per risolvere i sintomi in un gruppo consistente di questi pazienti. Modifiche dello stile di vita e dietetiche come smettere di fumare, dimagrire e ridurre l’assunzione di grassi e alcol possono essere utili, anche se le evidenze scientifiche che queste misure possano indurre un sostanziale miglioramento dei sintomi non sono molto forti (20). Vi sono diversi trattamenti farmacologici efficaci, ma la loro efficacia si è dimostrata in genere modesta. La terapia di eradicazione dell’H. pylori è il trattamento di prima linea nei pazienti con dispepsia funzionale e infezione da H. pylori (3-6). In questi pazienti l’eradicazione dell’H. pylori è meno efficace che nei pazienti con ulcera peptica, ma è significativamente più efficace del placebo e permette di ottenere un beneficio a lungo termine. Una recente metanalisi di trial randomizzati e controllati ha riporta-

to un miglioramento dei sintomi dispeptici dopo eradicazione dell’H. pylori in 1 paziente ogni 13 trattati (21). Gli IPP dovrebbero essere utilizzati nei pazienti con dispepsia funzionale H. pylori negativi e in quelli, in cui i sintomi persistono dopo eradicazione dell’H. pylori. Una metanalisi di studi controllati e randomizzati ha riportato che gli IPP sembrano essere più efficaci nei pazienti con dolore o bruciore epigastrico che in quelli con senso di ripienezza postprandiale e/o sazietà precoce (22). Altri farmaci usati nel trattamento della dispepsia funzionale sono i procinetici, gli spasmolitici, le associazioni di spasmolitici e ansiolitici, e i farmaci antidepressivi. I farmaci procinetici, come la cisapride, che è un agonista del recettore della 5-idrossitriptamina, la metoclopramide e il domperidone, che sono antagonisti dei recettori della dopamina, aumentano la motilità gastroduodenale. Una metanalisi di 24 studi controllati ha dimostrato che i procinetici sono efficaci nel trattamento dei pazienti con senso di riepienezza post-prandiale e sazietà precoce (23). Tuttavia l’efficacia sembra essere limitata alla cisapride, che come è noto è stata ritirata dal commercio per severi effetti collaterali cardiaci. La maggior parte degli studi inclusi nella metanalisi usava infatti la cisapride, mentre solo un trial usava il domperidone e nessuno la metoclopramide. Sono comunque in fase di sperimentazione clinica nuovi farmaci procinetici come l’acotiamide, un promotore della liberazione di acetilcolina, e il buspirone che, come la cisapride, è un agonista dei recettori della 5-idrossitriptamina. I primi studi clinici condotti su questi farmaci hanno dato risultati promettenti. Un recente studio randomizzato, controllato e in doppio cieco condotto in 897 pazienti con dispepsia funzionale ha riportato che l’icotiamide era significativamente più efficace del placebo nei pazienti con senso di riepienezza post-prandiale e sazietà precoce (24). Nei pazienti ansiosi e depressi con sintomi refrattari alle precedenti terapie possono essere usati i farmaci antidepressivi a basse dosi. Diversi studi hanno riportato che gli


antidepressivi, e in particolare gli antidepressivi triciclici, hanno un significativo effetto nel ridurre i sintomi nei pazienti con dispepsia funzionale (25).

Conclusioni La maggior parte dei pazienti con dispepsia presenta una dispepsia funzionale. Le neoplasie maligne del tratto digestivo superiore sono rare nei pazienti con meno di 45-50 anni e senza sintomi di allarme. La gestione dei pazienti con dispepsia dovrebbe inizialmente essere empirica, e una pronta endoscopia essere riservata solo ai pazienti anziani e a quelli con segni o sintomi di allarme o con altri fattori di rischio per cancro del tratto digestivo superiore. Una combinazione di “H. pylori test and treat” e terapia con IPP è la migliore strategia empirica per la gestione della maggior parte dei pazienti con dispepsia non investigata. Il trattamento dei pazienti con dispepsia funzionale è ancora oggi difficile e spesso frustrante poiché i trattamenti disponibili, come l’eradicazione dell’H. pylori, gli IPP e i procinetici hanno tutti un’efficacia piuttosto modesta. Associazioni di antispastici e ansiolitici e farmaci antidepressivi triciclici possono essere utili nei pazienti con dispepsia funzionale refrattaria, mentre nuovi farmaci procinetici stanno fornendo risultati promettenti. Tuttavia la rassicurazione del paziente e la spiegazione della natura benigna dei sintomi può essere talvolta il miglior trattamento.

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nefrologia

Malattia renale cronica e diabete mellito tipo II Realtà e miti della terapia con ipoglicemizzanti orali Nel nefropatico diabetico la terapia ipoglicemizzante orale deve essere attentamente e periodicamente monitorata poiché il declino della funzione renale al di sotto dei 60 ml/min di filtrato glomerulare (GFR) può dar luogo ad alterazioni nella farmacocinetica tali da esporre il paziente a gravi effetti collaterali qualora non se ne consideri una prudente riduzione della dose o addirittura la sospensione

S

econdo i dati dell’OMS 347 milioni di persone nel mondo sono affette da diabete mellito (DM) di cui il 90 per cento da DM2 (1). In Italia la prevalenza del DM è del 5,5 per cento della popolazione con oltre 3 milioni di malati e in cui il DM2 costituisce oltre il 90 per cento dei casi con stime di circa 250.000 nuovi casi/anno (2). La nefropatia diabetica rappresenta una complicanza sempre più frequente sia nel DM1 che nel DM2, e si manifesta in genere a 20-25 anni dall’esordio in circa il 30 per cento dei pazienti, diventando la prima causa di

A cura di Antonio Granata1,

Pasquale Fatuzzo2

1. UOC di Nefrologia-Dialisi - Ospedale San Giovanni di Dio, Agrigento 2. Cattedra di Nefrologia - Scuola di Specializzazione in Nefrologia, AOU Policlinico-Vittorio Emanuele, Catania

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uremia terminale. In Italia la prevalenza dei diabetici in dialisi oscilla intorno al 14 per cento. Per limitare la progressione della malattia diabetica e l’insorgenza delle sue complicanze è riconosciuta l’efficacia di presidi di prima linea quali la dieta ipocalorica e l’esercizio fisico e in caso di insufficienza delle suddette misure, si rende necessario dapprima l’utilizzo dei farmaci ipoglicemizzanti orali (anche tra loro combinati) e in ultima istanza la terapia insulinica. Studi quali DCCT (3), UKPDS (4) e ADVANCE (5), hanno dimostrato il ruolo chiave dello stretto controllo glicemico nel ridurre rischio e/o progressione di danno renale nei pazienti diabetici, e nei diabetici in emodialisi un ridotto rischio di mortalità. Per tutti gli adulti diabetici è raccomandato almeno un monitoraggio annuale della funzione renale con la determinazione dei livelli di creatininemia, il calcolo del eGFR, utilizzando una delle formule disponibili

(MDRD-4 variabili o CKD-Epi; entrambe presentano buona performance per valori di GFR <60 ml/min/1,73m2 >20 ml/ min/1,73m2), e la determinazione del rapporto albuminuria/creatinuria. Il controllo glicemico è l’unico intervento terapeutico efficace per la prevenzione primaria della nefropatia diabetica in soggetti normoalbuminurici e normotesi. Nei soggetti con DM2, lo studio UKPDS (4) ha dimostrato che il trattamento ipoglicemizzante intensivo riduce l’incidenza e la progressione della microalbuminuria indipendentemente dal tipo di trattamento antidiabetico utilizzato. A oggi, non è possibile dimostrare se un determinato farmaco antidiabetico sia più efficace di un altro nel dar luogo a nefroprotezione. Il principale obiettivo è raggiungere valori di HbA1c <7 per cento assicurandosi che l’uso di un dato farmaco antidiabetico sia compatibile con la funzione renale.

Ipoglicemizzanti orali nella malattia renale cronica Il farmaco antidiabetico ideale dovrebbe ridurre la glicemia senza aumentare il rischio di ipoglicemia o di incremento ponderale (Tabella 1). Nei pazienti con eGFR <60 ml/min/1,73m2 (Tabella 2) alcuni antidiabetici orali sono formalmente controindicati, altri necessitano solo di una riduzione della dose (Tabella 3). Ciononostante, l’aggiustamento della dose viene effettuato raramente esponendo il paziente al rischio di ipoglicemia, rischio che aumenta con il peggioramento della funzione renale tant’è vero che l’ipoglicemia secondaria a terapia ipoglicemizzante è la quarta causa di ospedalizzazione per reazioni avverse ai farmaci tra gli anziani.


w Sulfaniluree Le sulfaniluree di prima generazione (clorpropamide, tolbutamide) sono state abbandonate a causa del rischio di ipoglicemia prolungata. Quelle di seconda generazione (glipizide, glibenclamide=gliburide, glimepiride e gliclazide) hanno una più breve emivita (5-15 ore), ma la loro durata d’azione può essere anche di 24 ore. Il rischio di ipoglicemia nella CKD è dovuto all’accumulo di metaboliti attivi. Altri fattori possono contribuire al rischio, come la dose, l’assenza di carboidrati nel pasto, la malnutrizione, l’eccessiva assunzione di alcol, l’insufficienza epatica, lo scompenso cardiaco e l’età avanzata mentre l’interazione delle sulfaniluree con altri farmaci (antidiabetici orali, ACE-I, chinolonici, β-bloccanti, salicilati, claritromicina ecc.) può aumentarne l’effetto ipoglicemizzante incrementando il rischio di ipoglicemia. Gli inibitori di pompa protonica ne favoriscono l’assorbimento a livello intestinale, mentre il warfarin e i FANS ne spiazzano il legame con le proteine plasmatiche potenziandone l’effetto. La loro eliminazione sia con l’emodialisi che con la dialisi peritoneale non è significativa. Glipizide (2,5-20 mg/die): è un farmaco a rapido assorbimento, rapida azione e metabolismo completamente epatico. Quest’ultima caratteristica associata all’inattività dei suoi metaboliti rende la glipizide un farmaco di scelta negli stadi CKD-3/5 poiché non incrementa il rischio di ipoglicemia e non necessita di aggiustamenti posologici neanche nel paziente dializzato (6). Poiché la farmacocinetica e/o farmacodinamica possono essere alterate in presenza di CKD è sempre necessaria particolare attenzione per evitare le ipoglicemie nei nefropatici cronici. Glibenclamide (=gliburide) (2,5-10 mg/ die): è metabolizzata dal fegato, ed è eliminata in uguale misura con la bile e con le urine. Alcuni suoi metaboliti sono attivi e possono accumularsi nella CKD sebbene l’eliminazione epatobiliare possa parzialmente compensare la ridotta eliminazione renale. Episodi di ipoglicemia possono essere severi e durare più di 24 ore in presenza di CKD. La glibenclamide può essere usata con cautela in pazienti con CKD-2 (eGFR 60-90 ml/min/1,73m2) ed

Tabella 1

Classi di farmaci ipoglicemizzanti orali Sulfaniluree (glibenclamide, glimepiride, glicazide, glipizide) Glinidi (repaglinide, nateglinide, mitiglinide) Biguanidi (metformina) Glitazoni (rosiglitazone, pioglitazone) Inibitori dell’α-glucosidasi intestinale (acarbose, miglitol, voglibose) Incretine : GLP-1 agonisti* (exenatide, liraglutide) DPP-4 inibitori (sitagliptin, vildagliptin, saxagliptin, linagliptin, alogliptin) Analoghi della amilina* (pramlintide) Agonisti del recettore della dopamina* (bromocriptina mesilato) Inibitori del trasportatore renale sodio-glucosio 2 (SGLT-2 inibitori): (dapaglifozin, canaglifozin, empaglifozin) Note: *somministrazione sc

è controindicata dalla CKD-3 stadio in poi (eGFR <60 ml/min/1,73m2). Glimepiride (1-8 mg/die): è metabolizzata dal fegato in due principali metaboliti, uno dei quali ha attività ipoglicemizzante. Nei pazienti con CKD, questi metaboliti possono accumularsi e malgrado la sua emivita sia di 5-7 ore, il farmaco può causare severi episodi di ipoglicemia che nei nefropatici possono persistere per più di 24 h. Un aggiustamento della dose è necessario nella CKD lieve mentre secondo le K-DOQI 2012 negli stadi CKD-3/5, non in dialisi, può essere impiegata partendo con la dose minima di 1 mg/die (6). Gliclazide (30-120 mg/die): è metabolizzata dal fegato in metaboliti inattivi, che

sono eliminati prevalentemente con le urine (80 per cento). Poiché i metaboliti non hanno effetto ipoglicemizzante presenta un minore rischio di ipoglicemia severa rispetto a glibenclamide e glimepiride e sebbene non siano disponibili dati in pazienti con CKD-5, diversi studi hanno dimostrato che non vi sono modifiche di farmacocinetica e non c’è rischio di ipoglicemia in pazienti con GFR >40 ml/min/1,73m2. Secondo le K-DOQI 2012 non sono richiesti aggiustamenti di dose per la gliclazide negli stadi CKD-3/5 non in dialisi (7).

w Glinidi A differenza delle sulfaniluree questi farmaci stimolano la secrezione insulinica in

Tabella 2

Stadi della malattia renale cronica GFR* (ml/min/1,73 m2)

Stadio

Descrizione

1

Danno renale con GFR normale o aumentato

2

Lieve riduzione del GRF

89-60

3

Moderata riduzione del GFR

59-30

4

Severa riduzione del GFR

29-15

5

IR terminale

≥ 90

<15

Note: *GFR= velocità di filtrazione glomerulare

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nefrologia Tabella 3

Dosetable degli ipoglicemizzanti orali in base alla funzione renale Classe

CKD stadio eGFR (ml/min)

I-II

IIIa

IIIb

IV

V

> 60

45-60

30-45

15-30

<15 - dialisi

Glibenclamide Sulfaniluree

Glimepiride Glicazide Glipizide Repaglinide

Glinidi

Nateglinide Mitiglinide Metformina

Glitazoni

Rosiglitazone Pioglitazone Acarbose

Inib. α-glucosid.

Miglitolo Voglibose

GLP-1 Agonisti

Exenatide Liraglutide Sitagliptin Vildagliptin

DPP-4 inibitori

Saxagliptin Linagliptin Alogliptin Pramlintide Bromocriptina* Insulina Dapaglifozin

SGLT-2 inibitori

Canaglifozin Empaglifozin

Legenda: linea continua = dose piena; linea tratteggiata= dose ridotta/cautela *Dopamine Receptor Agonist: nessuno studio è stato condotto nei pazienti con deficit della funzione renale

maniera rapida e di breve durata. Repaglinide, nateglinide e mitiglinide sono caratterizzate da rapido inizio, breve durata d’azione e minor potenza rispetto alle sulfaniluree. Vanno assunte solo prima di un pasto contenente carboidrati, e riducono efficacemente la glicemia postprandiale. Il rischio di ipoglicemia è più basso rispetto alle sulfaniluree. L’eliminazione sia con l’emodialisi che con la dialisi peritoneale non è significativa.

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Repaglinide (0,5-12 mg/die): è l’unico attualmente in commercio in Italia e agisce legandosi a un recettore della membrana della β-cellula che è diverso da quello delle sulfaniluree, ma ha un’attività simile e cioè stimola la secrezione di insulina. Sebbene l’insufficienza renale possa leggermente prolungarne l’emivita, l’uso di repaglinide non è controindicato nei pazienti con stadio CKD-3/5 o in trattamento dialitico. Dovrebbe essere somministrata una dose

pre-prandiale di 0,5-4 mg in accordo con la risposta della glicemia postprandiale, considerando che se il GFR è minore di 30 ml/min/1,73 m2 si consiglia una dose di partenza di 0,5 mg con i pasti (6). Nateglinide (60-360 mg/die): è metabolizzata dal fegato con un’emivita di 1,2-1,8 ore. Il farmaco originario o alcuni metaboliti attivi possono accumularsi in caso di CKD per cui il suo impiego in tale contesto clinico deve essere effettuato con cautela.


Mitiglinide (7,5-30 mg) presenta un rapido effetto ipoglicemico e un’altrettanta veloce scomparsa dal circolo con scarsa eliminazione renale. A partire da valori di GFR <60 ml/min/1,73 m2 si realizza un raddoppio dell’emivita del farmaco per cui ne è consigliata una riduzione posologica. A basse dosi non ne sarebbe controindicato l’impiego in dialisi dove si è dimostrato non solo capace di ridurre i livelli di HbA1c e le glicemie a digiuno, ma anche l’incremento ponderale interdialitico e i livelli di trigliceridi (7).

w Biguanidi Questa classe di farmaci comprende la fenformina e la metformina, quest’ultima è l’unica utilizzata in Italia. A differenza di altri antidiabetici, non determinano un aumento di rilascio di insulina per cui non causano ipoglicemia. Metformina (500-3.000 mg/die). È il farmaco di prima scelta per il trattamento del DM2. Ha il vantaggio di ridurre efficacemente i livelli di glicemia e favorire la perdita di peso, senza aumentare il rischio di ipoglicemia. Una volta somministrato viene assorbito per circa il 50-60 per cento ed eliminato immodificato per via renale attraverso la filtrazione glomerulare e la secrezione tubulare. In caso di CKD esiste il rischio di accumulo del farmaco, e in questo contesto l’acidosi lattica è un’evenienza rara (circa 6,3 casi ogni 100.000 pazienti/anno), ma potenzialmente fatale (8). L’acidosi lattica è spesso favorita dalla presenza di altre condizioni quali lo scompenso cardiaco, l’insufficienza epatica, l’età avanzata, l’eccessiva assunzione di alcol, la somministrazione di mezzo di contrasto iodato, l’ipossiemia e lo shock. Nella pratica clinica l’acidosi lattica si riscontra solitamente nell’anziano in terapia con metformina che si presenta disidratato e con CKD. La metformina va sospesa in caso di vomito, diarrea, o altre cause di disidratazione come anche esami strumentali con mdc iodato. Consigliamo, dunque, di usare con cautela il farmaco e aggiustare la dose sulla base di una valutazione della funzione renale più di una volta l’anno nei pazienti con GFR compreso tra 45 e 60 ml/min/1,73m2 e di sospendere il trattamento non appena il GFR scenda sotto i

45 ml/min/1,73m2. Questo approccio è più restrittivo, ma anche più sicuro, del limite di 30 ml/min/1,73m2 proposto da Lipska [9], che per valori di GFR tra 45 e 30 consiglia di non iniziare una nuova terapia con metformina, ma se il paziente già lo fosse, si potrebbero dimezzare i dosaggi, monitorando ogni 3 mesi la funzionalità renale. L’emodialisi a differenza della dialisi peritoneale rimuove il farmaco.

w Glitazoni Sono potenti insulino-sensibilizzanti usati nel DM2 da oltre un decennio. L’effetto metabolico deriva dal miglioramento dell’insulino-sensibilità nel fegato, nel tessuto adiposo e nel muscolo, conducendo a un controllo glicemico duraturo. Il loro arrivo nel mercato statunitense era stato accolto con entusiasmo, portando a una diffusa prescrizione nonostante l’evidenza dell’efficacia a lungo termine fosse ancora carente. Il rischio di ritenzione idrosalina, aumentato dalla CKD e dalla terapia insulinica, fu individuato solo dopo la loro commercializzazione. Questo rischio, interessa circa il 5-15 per cento dei pazienti trattati con rosiglitazone o pioglitazone (15-45 mg/die). La recente identificazione di un possibile rischio di tumore della vescica con il pioglitazone ha condotto alla raccomandazione di evitarne l’uso nei pazienti con anamnesi positiva per neoplasia vescicale e di usarlo con cautela in presenza di fattori di rischio per neoplasia vescicale. La farmacocinetica del pioglitazone non è alterata in caso di CKD moderata o severa che non richiede dialisi, per cui negli stadi 3-5 non sembra necessario un aggiustamento della dose (7). Nonostante il vantaggio che il pioglitazone non induca ipoglicemia, il farmaco dovrebbe essere utilizzato con cautela nella CKD a causa del rischio di ritenzione idrosalina e di scompenso cardiaco. Appare pertanto prudente raccomandare cautela nell’uso del pioglitazone in tutti i pazienti con eGFR <60 ml/min/1,73m2.

w Inibitori dell’alfa-glucosidasi Acarbose, miglitol, voglibose rallentano l’assorbimento intestinale di carboidrati attraverso l’inibizione dell’enzima intestinale alfa-glucosidasi. La loro efficacia

ipoglicemizzante è bassa, ed effetti collaterali come flatulenza e diarrea ne limitano l’utilizzo. Sebbene meno del 2 per cento di una dose orale di acarbose venga assorbita come farmaco attivo, i pazienti con severa insufficienza renale (CrCl <25 ml/min) raggiungono un picco di concentrazione che è circa 5 volte maggiore dei soggetti con normale funzione renale. Poiché non sono stati condotti trials clinici a lungo termine in diabetici con insufficienza renale significativa, l’uso di acarbose (50-300 mg/die), l’unico in commercio in Italia, non è raccomandato nei nefropatici 3 stadio mentre è controindicato se GFR <30 ml/min/1,73m2.

w Agonisti del recettore per il GLP-1 e inibitori del DPP-IV Il meccanismo d’azione degli agonisti del recettore per il GLP-1 e degli inibitori dell’enzima DPP-IV si basa sulla fisiopatologia delle incretine. L’ormone GLP-1 gioca un ruolo centrale nell’omeostasi del glucosio. È secreto dalle L-cellule della mucosa intestinale in risposta all’introduzione di cibo. Il GLP-1 riduce i livelli di glicemia postprandiale stimolando la produzione e secrezione di insulina con modalità glucosio-dipendente. Questa stimolazione si verifica solo in presenza di elevati livelli di glucosio plasmatico. Il rischio estremamente basso di ipoglicemia associato a questi farmaci è un aspetto importante quando si consideri il loro uso in pazienti con CKD. Oltre a stimolare la secrezione di insulina, il GLP-1 riduce la secrezione di glucagone e quindi la produzione epatica di glucosio. Gli agonisti del recettore per il GLP-1, in particolare quelli a breve durata d’azione (exenatide) rallentano considerevolmente lo svuotamento gastrico e aumentano la sazietà con una ridotta introduzione di cibo (Tabella 4).

Agonisti del recettore per il GLP1. Gli agonisti del recettore del GLP-1 costituiscono un’opzione terapeutica per pazienti che non riescono a raggiungere un adeguato controllo glicemico con la metformina da sola o con più antidiabetici orali. Questi farmaci sono particolarmente utili quando l’obiettivo non è solo migliorare il trattamento del diabete, ma anche favorire la perdita di peso, soprattutto in

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nefrologia Tabella 4

Caratteristiche farmacocinetiche delle varie classi di ipoglicemizzanti orali e loro impiego nei vari Classe

Sulfaniluree

Glinidi

Biguanidi

Glitazoni

Inibitori alfa-glucosidasi

Farmaco

Emivita/Durata azione

Glibenclamide

6–10 h/18–24 h

Gliclazide

6–15 h/18–24 h

Glimepiride

5–7 h/ >24 h

Glipizide

Riduzione Hb glicata (%)

1,5

GFR < 60

1,5

GFR < 60 >15

1,0 – 1,5

GFR <60>15

3-4h/2-4h

1,0

GFR <60>15

Mitiglinide

1,5h/2-4h

1,0

GFR <60

Nateglinide

1,2–1,8 h /4 h

0,9

GFR <30

Repaglinide

0,6–1,8 h/4–6 h

Metformina

4–9 h

Rosiglitazone

RITIRATO dal commercio

Pioglitazone

3–7 h/ Metaboliti attivi e inattivi: 16–24 h

Acarbose

2h/14-24h

0,5–0,8

GFR <60 >30 GFR < 30

Miglitolo

2h

0,4-0,6

GFR < 25

Voglibose

Non assorbita

0,4

GFR <60 >30

Exenatide

2,4 h/lunga

1,3

GFR < 60 >30 GFR < 30

Liraglutide

13 h/lunga

Sitagliptin

8–24 h

Vildagliptin

1,5–4,5 h

0,6-0,8

GFR >50 GFR <50

Saxagliptin

2–4 h

0,7-0,8

GFR >50 GFR <50 >30

1,0-1,5

GFR <60>30 GFR < 30

1,5

GFR > 60 GFR <60 >45

1,1

GFR < 60

Incretine GLP-1 agonisti

Incretine DPP-4 inibitori

Uso CKD stadio 3-5

1,1-1,3 0,5 – 0,9

GFR < 60 GFR > 50 GFR <50 >30 GFR < 30

GFR: <30 >15

Analoghi dell’amilina SGLT-2 inibitori

Linagliptin

10–40 h

0,5-0,7

GFR >50 GFR <50

Alogliptin

12-21h

0,4-0,6

GFR <50 >30 GFR < 30

Pramlintide

48’

0,4-0,6

GFR <50 >20

Dapaglifozin

12,9h

0,9-1,0

GFR <60 >30

Canaglifozin Empaglifozin

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stadi di CKD non dialisi

Uso CKD stadio 5 dialisi

Note

No

No

Sì con cautela

Tutti possono interagire con azione inibente o induttiva sul CYP2C9.

Cautela. Iniziare a 1 mg/die

No

Sì. Riduzione dose

Cautela. Iniziare a 5 mg ai pasti

Cautela. Iniziare 60 mg ai pasti

No

Sì Cautela. Iniziare 0,5 mg ai pasti

Sì, con cautela

Sì Cautela considerando fattori di rischio per acidosi lattica

No

Attenzione in presenza di età avanzatadisidratazione franca-insuff. cardiaca-insuff. epatica-impiego mdc e alcol

Cautela per rischio di ritenzione idrosalina per segnalazione oncogenicità (Ca. vescicale)

Esperienza limitata: impiego con cautela

- non richiesti aggiustamenti di dose - cautela in scompenso cardiaco - attenzione in presenza di età avanzata-fumochemioterapici

Seconda scelta No

No

No

No

In Giappone non è previsto alcun aggiustamento posologico

Negli USA non è raccomandato. In Giappone non è previsto alcun aggiustamento posologico

Cautela per esperienza limitata No

No

somm. parenterale; rallenta svuotamento gastrico; possibili notevoli effetti collaterali gastroenterici. somm. parenterale

No

No

100 mg/die 50 mg/die 25 mg/die esperienza limitata

25 mg/die e cautela per esperienza limitata

50 mg x2/die 50 mg/die

No

Sì 2.5 mg/die

No

non richiesti aggiustamenti di dose

esperienza limitata Sì Sì, cautela per esperienza limitata

Cautela per esperienza limitata

12,5 mg/die 6,25 mg/die

6,25 mg/die

non è previsto alcun aggiustamento posologico

non sono disponibili risultati

somm. parenterale

Sì, cautela per esperienza limitata.

No

Perdita di efficacia al ridursi della funzione renale . Significativo calo ponderale (2,5 -3,0 Kg) dopo 24 settimane. Aumentato rischio di infezioni delle vie urinarie specie da candida.

No No

Non richiesti aggiustamenti di dose

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nefrologia obesi a rischio di ulteriore aumento ponderale in caso di inizio di terapia insulinica. Exenatide (5-20 mcg/die): viene somministrata sc a dose di 5-10 mcg due volte/ die e riduce l’HbA1c dallo 0,7 al 1,5 per cento a seconda del suo valore basale. L’exenatide viene escreta prevalentemente attraverso la filtrazione glomerulare. Nei pazienti con CKD lieve la clearance dell’exenatide è leggermente ridotta rispetto ai soggetti con normale funzione renale (- 13 per cento), mentre nella CKD moderata/severa il dato assume maggiore entità con riduzioni sino al 36 e 64 per cento rispettivamente per GFR sino a 45 ml/min/1,73m2 e al di sotto di 30 ml/ min/1,73m2. Nei pazienti con CKD-5 o nei dializzati, la clearance si riduce dell’84 per cento e sono stati riportati casi di insufficienza renale acuta o di peggioramento della funzione renale associati all’impiego di exenatide. L’exenatide non è raccomandata nei pazienti con GFR <30 ml/min/1,73m2. Nei pazienti con CKD-3, dovrebbe essere utilizzata con grande cautela e a dose più bassa, poiché l’incidenza e l’intensità degli effetti collaterali GI potrebbe aumentare (6). L’esperienza clinica in questi pazienti è molto limitata e se ne sconsiglia l’uso nei trapiantati di rene. Liraglutide (0,6-1,8 mg/die): è somministrata con iniezioni sc e la sua efficacia nel ridurre i livelli di HbA1c è lievemente superiore a quella degli analoghi a breve durata d’azione (exenatide), mentre l’effetto sul peso è sovrapponibile (10). A differenza di exenetide, la liraglutide non presenta un incremento dell’emivita e quindi non va incontro a riduzione della clearance nei pazienti con lieve, moderata, o anche severa insufficienza renale. I pazienti con CKD1-2 non richiedono aggiustamento della dose. L’esperienza con la liraglutide è comunque molto limitata nei pazienti con CKD-3/4, ma a oggi nessun problema di sicurezza è stato segnalato in pazienti con insufficienza renale. La disfunzione renale non è stata trovata essere responsabile di un’aumentata esposizione alla liraglutide e i nefropatici diabetici possono essere trattati con i regimi standard, anche se l’azienda produttrice ne sconsiglia l’uso al di sotto dei 60 ml/ min/1,73m2 di GFR.

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Inibitori del DPP-IV. Gli inibitori dell’enzima DPP-IV (gliptine) non costituiscono un’omogenea classe di farmaci; hanno differenti proprietà chimiche e farmacocinetiche, ma hanno lo stesso meccanismo d’azione. Le gliptine sono in media meno efficaci degli agonisti del recettore per il GLP-1 in quanto inducono una riduzione della HBA1c dallo 0,6 all’1,0 per cento. Entrambi sono usati in combinazione con la metformina o come terapia aggiuntiva a una combinazione di due antidiabetici. Sitagliptin (25-100 mg/die): viene eliminato prevalentemente immodificato attraverso le urine (87 per cento) e le feci (13 per cento). Nei pazienti con CKD lieve, moderata o severa e nei dializzati, l’aumento dei livelli plasmatici di sitagliptin è rispettivamente di 1,7, 2,3, 3,8 e 4,5 volte maggiore se comparato ai normofunzione renale. Pertanto, nei pazienti con CKD l’emivita è aumentata e correlata con il grado di deficit della funzione renale. Non è necessario alcun aggiustamento della dose nei pazienti con GFR >50 ml/ min/1,73 m2. In pazienti con GFR da >30 a <50 ml/min/1,73 m2 la dose consigliata è di 50 mg/die, mentre nei nefropatici con GFR < 30 ml/min/1,73 m2 o che necessitano del trattamento dialitico la dose è di 25 mg/die. Durante una seduta standard di emodialisi solo il 13 per cento della dose di sitagliptin viene eliminato. L’esperienza clinica sull’uso di sitagliptin negli stadi avanzati di disfunzione renale è ancora molto limitata (11). Vildagliptin (50-100 mg/die): circa l’85 per cento della dose del farmaco viene eliminato con le urine e il 15 per cento con le feci. Può essere usato senza aggiustamento di dose nei pazienti con GFR >50 ml/min/1,73 m2. Sebbene sia, in linea di principio, controindicato in pazienti con CKD3-4, un recente studio di 24 settimane suggerisce che 50 mg di vildagliptin siano efficaci e ben tollerati. Saxagliptin (2,5-5 mg/die): è escreto prevalentemente dal rene. Nei pazienti con CKD1-2 l’esposizione al saxagliptin e ai suoi maggiori metaboliti è rispettivamente di 1,2 e 1,7 volte maggiore rispetto ai normofunzione renale. I valori nei pazienti con CKD-3 erano di 1,4 e 2,9 volte maggiori e in quelli con CKD-4 da 2,1 a 4,5

volte. Non è necessario alcun aggiustamento della dose per i pazienti con CKD1-2, mentre un dimezzamento è necessario per pazienti con CKD-3. Saxagliptin non è raccomandato per pazienti con CKD-4 anche se dati recenti suggeriscono elevata efficacia e buona tolleranza in questa classe di pazienti a dosi non superiori a 2,5 mg/die. Linagliptin (5 mg/die): viene principalmente escreto attraverso le feci. Poichè l’eliminazione renale del linagliptin è estremamente bassa (circa 1 per cento), non è richiesto alcun aggiustamento della dose nell’insufficienza renale (12). Alogliptin (6,25-25 mg/die): non disponibile in Italia, viene rapidamente assorbito (1-2 h) ed eliminato lentamente soprattutto attraverso le urine. Nei pazienti con insufficienza renale vi è maggiore esposizione all’effetto del farmaco quantificabile in 1,7, 2,1, 3,2 e 3,8 volte rispettivamente in CKD lieve, moderata, severa e terminale. Sono consigliati aggiustamenti posologici nei pazienti con CKD a partire dallo stadio 3 (13). In ultima analisi, suggeriamo cautela circa l’utilizzo degli inibitori del DPP-4 in situazioni metabolicamente complesse come la CKD-4/5.

w Analoghi dell’amilina L’amilina è un piccolo ormone peptidico che viene messo in circolo dalle cellule β pancreatiche assieme all’insulina per contrastare i picchi iperglicemici postprandiali. Così come l’insulina anche l’amilina è carente nei pazienti diabetici. Pramlintide (15 mcg-240 mcg/die): è l’analogo sintetico dell’amilina ed è stato autorizzato per il trattamento del DM1-2 in sinergia con l’insulina. Proprio come quest’ultima, la pramlintide dev’essere somministrata per iniezione sc, dato che una volta ingerita sarebbe completamente inattivata. Agisce rallentando lo svuotamento gastrico, riducendo la secrezione del glucagone e aumentando il senso di sazietà determinando calo ponderale, che è proporzionale alla dose somministrata (da 0,4 a 1,8 Kg). I pazienti con CKD3-5 non mostrano modificazioni significative nella farmacocinetica del pramlintide rispetto ai normofunzione. Non sono disponibili dati relativi ai nefropatici in CKD-5 o in


trattamento dialitico e in questi pazienti, pertanto non ne è consigliato l’uso (14).

w Agonisti del recettore dopaminergico La bromocriptina mesilato potrebbe costituire un nuovo trattamento per gli adulti con DM2. In Italia non è approvata per tale indicazione. Il meccanismo d’azione attraverso il quale tale farmaco migliora la glicemia non è noto, ma si sa che aumenta l’attività dopaminergica a livello ipotalamico. Quando aggiunta ad altri farmaci antidiabetici orali riduce l’HbA1c dello 0,6 allo 0,9 per cento rispetto al placebo, e troverebbe indicazione in particolar modo negli adulti che non sono adeguatamente controllati con la dieta, l’esercizio fisico, la metformina, le sulfoniluree o i tiazolidinedioni (14). Nessuno studio ha valutato la sicurezza della bromocriptina nei nefropatici diabetici e pertanto non se ne consiglia la somministrazione.

w Inibitori del trasportatore renale sodio-glucosio 2 (SGLT-2 inibitori) Il rene gioca un ruolo fondamentale nell’omeostasi del glucosio, sia per la gluconeogenesi, che per la filtrazione glomerulare e il riassorbimento del glucosio nei tubuli prossimali. Il trasporto del glucosio dai tubuli alle cellule tubulari epiteliali avviene mediante i co-trasportatori sodioglucosio (SGTLs), specialmente gli SGLT2 che sono trasportatori ad alta capacità e bassa affinità. Questi SGLT2 sono responsabili del riassorbimento di circa il 90 per cento del glucosio. Gli inibitori di SGLT2 sono una classe di nuovi farmaci ipoglicemizzanti, che hanno come target il rene e che agiscono bloccando il riassorbimento del glucosio filtrato e quindi portando alla glicosuria. Questo meccanismo d’azione sembra molto promettente non solo in termini di riduzione dell’HbA1c, ma anche come benefici in termini di riduzione di peso corporeo e dei valori della pressione arteriosa. Il dapaglifozin (5–10 mg) è lo SGLT-2 inibitore con il maggior numero di dati clinici a oggi disponibili. Gli altri SGLT-2 inibitori (canaglifozin, 300 mg ed empaglifozin da 10 a 25 mg) sono nella fase finale di studio. Tra questi uno studio volto a valutare l’efficacia e la si-

curezza di empaglifozin, somministrato per 52 settimane a diabetici con insufficienza renale progressiva ha riportato una significativa riduzione dell’HbA1c nei pazienti in trattamento con empaglifozin, anche se l’efficacia diminuiva al progredire dell’insufficienza renale, per annullarsi nei pazienti in stadio CKD-4 (15). Gli effetti collaterali erano simili al placebo per gli stadi CKD-2/3, mentre erano maggiori nei pazienti in CKD-4. L’effetto benefico sul peso e sulla riduzione dei valori pressori erano invece presenti in tutti gli stadi della malattia renale cronica. Per cui gli Autori concludono che questo farmaco potrebbe essere una nuova opzione terapeutica nei pazienti diabetici in CKD-2/3.

Conclusioni Con l’aumentata incidenza della malattia renale cronica nei pazienti affetti da DM2, sono sempre più importanti il monitoraggio regolare della funzione renale e l’aggiustamento della terapia con antidiabetici orali in accordo con il grado di deficit di funzione renale e con i dati di farmacocinetica. Poiché mancano grandi studi sulla sicurezza degli ipoglicemizzanti orali nell’insufficienza renale, queste raccomandazioni dovranno essere regolarmente aggiornate in base ai risultati di studi randomizzati su popolazioni più vaste e con un periodo più lungo di followup. Per il momento, tranne nei casi in cui la sicurezza dell’ipoglicemizzante orale è stata ampiamente dimostrata, si consiglia estrema prudenza nella prescrizione specie nei casi di CKD avanzata o in dialisi.

Bibliografia 1. World Health Organization Data – Fact Sheet n 312, Reviewed October 2013 disponibile su http://www.who.int/mediacentre/factsheets/ fs312/en/. 2. Istat. Annuario statistico italiano 2012 Capitolo 3 “Sanità e salute “ disponibile su http:// www3.istat.it/dati/catalogo/20121218_00/ contenuti.html. 3. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group. The effect of intensive treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications in insulin-

dependent diabetes mellitus. N Engl J Med. 1993 Sep 30; 329(14): 977-86. 4. UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group. Intensive blood-glucose control with sulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk of complications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). The Lancet 1998; Sep 12; 352(9131): 837-53. 5.The ADVANCE Collaborative Group. Intensive Blood Glucose Control and Vascular Outcomes in Patients with Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2008; Jun 12; 358(24): 2560-72. 6. Nelson RG et al. KDOQI Clinical Practice Guideline for diabetes and CKD: 2012 update. Am J Kidney Dis 2012; Nov; 60(5): 850-86. 7. Abe M et al. Antidiabetic Agents in Patients with Chronic Kidney Disease and End-Stage Renal Disease on Dialysis: Metabolism and Clinical Practice. Current Drug Metabolism 2011; 12: 57-69. 8. Nye HJ, Herrington WG. Metformin: the safest hypoglycaemic agent in chronic kidney disease? Nephron Clin Pract 2011; 118: c380–83. 9. Lipska KJ et al. Use of metformin in the setting of mild-to-moderate renal insufficiency. Diabetes Care 2011; 34: 1431–37. 10.Pratley RE et al. Liraglutide versus sitagliptin for patients with type 2 diabetes who did not have adequate glycaemic control with metformin: a 26-week, randomised, parallel-group, open-label trial. Lancet 2010; 375: 1447–56. 11.Eligar VS, Bain SC. A review of sitagliptin with special emphasis on its use in moderate to severe renal impairment. Drug Des Devel Ther. 2013; 30: 893-03. 12. Graefe-Mody U et al. Effect of renal impairment on the pharmacokinetics of the dipeptidyl peptidase-4 inhibitor linagliptin. Diabetes Obes Metab 2011; 13: 939–46. 13. Partley RE. Alogliptin: a new highly selective dipeptidyl peptidase- 4 inhibitor for the treatment of type 2 diabetes. Expert Opin Pharmacother 2009; 10: 503-12. 14. Grunberger G. Novel therapies for the management of type 2 diabetes mellitus: part 1. pramlintide and bromocriptine-QR. J Diabetes 2013; 5: 110-17. 15. Barnett AH et al, on behalf of the EMPAREGRENAL trial investigators. Efficacy and safety of empagliflozin added to existing antidiabetes treatment in patients with type 2 diabetes and chronic kidney disease: a randomised, doubleblind, placebo-controlled trial. Lancet Diabetes Endocrinol 2014; Published Online January 24.

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Gastroenterologia

Esofagite eosinofila, una patologia emergente Overview su fisiopatologia, diagnosi e terapia L’esofagite eosinofila È una patologia cronica, immunomediata, caratterizzata da sintomi secondari alla presenza di una disfunzione esofagea e da un infiltrato infiammatorio a componente eosinofila

che in assenza di reflusso acido. In questi casi è opportuno parlare di “Eosinofilia esofagea responsiva agli IPP”: si tratta di pazienti con sintomi tipici di EoE, senza evidenza documentata di MRGE e con risposta clinica (ovvero capacità di risolvere i sintomi associati all’EoE) agli IPP.

Quadro Clinico

D

alla sua prima descrizione negli anni Novanta, l’incidenza dell’EoE (eosinophilic esophagitis) è progressivamente aumentata, e attualmente la prevalenza nei Paesi occidentali è stimata attorno a 43-55 casi/100.000 abitanti. I giovani maschi sembrano essere più a rischio di EoE, specie in presenza di disfagia.

Cenni di fisiopatologia Flogosi. L’esposizione ad allergeni (inalanti e alimentari) sembra essere un trigger fondamentale, determinando l’attivazione delle cellule epiteliali esofagee a produrre il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFα) ed eotassina 3 (sotto lo stimolo di IL-13), che a loro volta esercitano una potente azione chemiotattica sugli eosinofili. Nel processo infiammatorio intervengono anche linfociti, mastociti e cellule dendritiche che tutti insieme collaborano al rimodellamento dell’epitelio squamoso esofageo

A cura di Roberta Caccaro1,

Edoardo Savarino1

1. UOC di Gastroenterologia, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche, Università degli Studi di Padova, Padova

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(per deposizione di matrice extracellulare e fibrosi sub-epiteliale), responsabile dei disturbi ascrivibili alla disfunzione esofagea. Allergie. È oramai consolidato il ruolo degli allergeni nello sviluppo dell’EoE, e questo è stato evidenziato non solo in modelli animali, ma anche nell’uomo. Nel 70 per cento degli adulti con EoE sono presenti disordini allergici (es. asma, rinite, congiuntivite, angioedema). Nei pazienti pediatrici l’EoE sembra maggiormente legata all’esposizione ad allergeni alimentari; negli adulti invece sembra maggiormente implicata la sensibilizzazione ad antigeni inalanti, con caratteristiche esacerbazioni stagionali. Genetica. La presenza di una concordanza tra gemelli nello sviluppare EoE e l’identificazione di diversi loci di suscettibilità suggerisce il ruolo di una predisposizione genetica. Ma ulteriori studi sono necessari per confermare queste ipotesi. Malattia da reflusso gastroesofageo ed eosinofilia. La MRGE è in grado di indurre un’esofagite anche con un importante infiltrato eosinofilo, che può tuttavia regredire con l’assunzione di inibitori di pompa protonica (IPP). Alcuni dati suggeriscono che gli IPP potrebbero essere efficaci nel trattamento dell’eosinofilia esofagea, an-

I sintomi più tipici e frequenti sono: disfagia, impatto o arresto del bolo alimentare a livello dell’esofago, pirosi retrosternale e dolore toracico (Tabella 1). La presentazione clinica può inoltre differire a seconda dell’età d’esordio. Negli adulti, la disfagia per i solidi è il sintomo tipico (nel 25-100 per cento dei pazienti) e l’impatto o arresto del bolo alimentare a livello esofageo rappresenta la modalità più frequente e severa di presentazione della disfagia stessa. Infatti, la necessità di un’endoscopia in urgenza per la rimozione del bolo alimentare è stata riportata nel 35-50 per cento degli adulti con EoE. Non è infrequente che questi pazienti modifichino le abitudini alimentari (masticazione più prolungata, ingestione di cibi solidi assieme ai liquidi per facilitarne la progressione), con attenuazione della disfagia e conseguente ritardo nella diagnosi e per questo maggiore rischio di complicanze a breve (perforazione) o a lungo termine (stenosi). Il dolore retrosternale è presente solo in una minoranza di pazienti, più spesso associato all’ingestione di cibi particolarmente asciutti o di un pasto ingerito troppo velocemente. L’EoE può altrimenti manifestarsi con nausea, vomito, dolore addominale, talvolta anche diarrea e calo ponderale. Nei bambini inferiori ai 2 anni


di età si riscontrano più spesso disordini alimentari (come il rifiuto ad alimentarsi, problemi nella masticazione, sintomi da soffocamento dopo l’ingestione di cibi solidi o liquidi) e ritardo di crescita. Nei bambini fino ai 12 anni i sintomi più comuni sono vomito, nausea, dolore addominale, pirosi retrosternale e rigurgito (sintomi simili a quelli presenti nei pazienti conMRGE; tra il 5-82 per cento dei casi). Disfagia, impatto del bolo alimentare, dolore retrosternale e diarrea sono descritti anche nei bambini, con frequenza crescente all’aumentare dell’età. L’EoE si può manifestare anche con i sintomi atipici della MRGE, quali asma, raucedine, tosse, rinosinusite e altri sintomi otorinolaringoiatrici e disturbi respiratori notturni (nel 10-25 per cento dei casi). Nessun sintomo isolato è specifico di EoE. Indipendentemente dall’età, la comparsa di sintomi simili a quelli presenti nei pazienti con MRGE non responsivi alla terapia medica o chirurgica dovrebbero indurre il sospetto di EoE. Raramente l’EoE può manifestarsi d’emblée con lo sviluppo di complicanze, quali la perforazione spontanea dell’esofago, transmurale (Sindrome di Boerhaave) o parziale, o le stenosi esofagee, che possono interessare l’esofago prossimale, medio e distale e comportare un peggiore outcome dal punto di vista clinico.

Diagnosi Endoscopia ed esame istologico. L’EGDS con mappaggio bioptico esofageo è l’esame principe, specie nei pazienti che presentano disfagia. Anche dal punto di vista endoscopico, oltre che sintomatologico, la modalità di presentazione dell’EoE può essere estremamente variabile. L’esofago può essere esente da lesioni mucosali o presentare i segni di infiammazione attiva (tipicamente edema, essudato, solchi) o di infiammazione cronica con conseguente rimodellamento tissutale (formazione di anelli con aspetto a trachea dell’esofago, stenosi, aspetto a carta crespa). Di recente è stata proposta una classificazione endoscopica per standardizzare e stratificare le lesioni esofagee (EREFS Classification: Endoscopic Reference Score For EoE;

Tabella 1

Sintomi di presentazione dell’EoE Sintomi Gastrointestinali

Sintomi Atipici

Disfagia

Dolore toracico

Impatto del bolo alimentare

Asma

Pirosi retrosternale

Raucedine

Rigurgito

Tosse

Dolore addominale

Rinosinusite

Nausea

Dermatite atopica

Vomito

Disturbi respiratori notturni

Diarrea Calo ponderale Disordini alimentari (bambini <2 anni) Ritardo di crescita (bambini <2 anni)

Tabella 2); rimane ancora da stabilire se tale classificazione possa essere utilizzata per valutare la risposta alla terapia. Le differenti lesioni endoscopiche possono coesistere nello stesso paziente, ma non sono sufficientemente sensibili né specifiche di EoE. È fondamentale eseguire un campionamento bioptico adeguato (per numero e per sede di prelievo) per consentire la diagnosi di EoE: 2-4 biopsie in esofago cervicale e 2-4 biopsie in esofago distale. Attualmente il riscontro di almeno 15 eosinofili/hpf è universalmente considerato il valore soglia per la diagnosi di EoE. Esistono tuttavia dei casi di EoE caratterizzati da un numero di eosinofili <15/hpf, associato però ad altri elementi caratteristici di una flogosi a prevalente componente eosinofila (microascessi eosinofili, stratificazione superficiale degli eosinofili, granuli eosinofilici extracellulari, iperplasia delle cellule basali, dilatazione degli spazi intercellulari, fibrosi della lamina propria). Per poter parlare di EoE è fondamentale che altre cause di eosinofilia esofagea siano state escluse e che l’infiltrato eosinofilo sia presente esclusivamente in sede esofagea. Vanno quindi escluse anche le diagnosi di gastroenterite eosinofila, malattia di Crohn ed acalasia. In corso di EGDS è raccomandato un accurato mappaggio bioptico anche a livello gastrico e duodenale, specie nei bambini. Test allergologici. È consigliabile indirizzare il paziente a una valutazione aller-

gologica, visti gli alti tassi di concomitanti manifestazioni allergiche (asma, rinite, eczema, allergie alimentari). Il dosaggio delle IgE sieriche e i prick-test sono utili per l’identificazione delle forme mediate da allergeni alimentari, e di recente sono stati consigliati anche per gli allergeni inalanti. Il loro valore predittivo rimane tuttavia piuttosto scarso. pH-metria esofagea. Il monitoraggio del pH esofageo è importante per distinguere le forme di eosinofilia esofagea indotte dall’iperacidità nel paziente con MRGE dall’EoE propriamente detta e dall’eosinofilia esofagea responsiva agli IPP (senza MRGE). Altri metodi diagnostici. L’Rx tubo digerente con pasto baritato è utile per definire la lunghezza e l’entità delle stenosi esofagee e valutare la risposta al trattamento. L’ecoendoscopia permette di escludere altre cause di stenosi esofagea (specie neoplastiche) e consente di misurare lo spessore degli strati della parete esofagea, la cui utilità clinica rimane tuttavia ancora da stabilire. La manometria esofagea è stata proposta per valutare il grado di disfunzione esofagea. È stato tuttavia dimostrato da studi di manometria ad alta risoluzione che i disordini motori esofagei sembrano egualmente distribuiti nei pazienti con EoE e MRGE; nei soggetti con EoE (rispetto ai soggetti con MRGE e controlli sani) è stata

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Gastroenterologia Tabella 2

Caratteristiche endoscopiche dell’EoE (EREFS Classification) Lesioni (possibili descrizioni)

Essudati (punti/placche bianche)

Anelli (anelli concentrici, esofago corrugato, trachealizzazione)

Edema (pallore mucosale, perdita/riduzione della vascolarizzazione) Solchi (linee verticali) Stenosi (riduzione di calibro)

Grado

0

Assenti

1

Lieve (<10% della superficie)

2

Severo (>10% della superficie)

0

Assenti

1

Lieve (sottili creste circonferenziali)

2

Moderato (anelli distinti che non intralciano la progressione dell’endoscopio standard)

3

Severo (anelli distinti che impediscono la progressione dell’endoscopio standard)

0

Assente

1

Presente

0

Assente

1

Presente

0

Assente

1

Presente

più frequentemente riscontrata una precoce pressurizzazione pan-esofagea, compatibile con una ridotta compliance esofagea. Tale reperto è presente tuttavia solo nel 17 per cento dei pazienti con EoE. L’impedenziometria sta emergendo come metodica promettente nel management dell’EoE, permettendo di valutare con accuratezza la distensibilità esofagea e la presenza di stenosi; potrebbe diventare quindi utile per valutare la risposta alla terapia medica.

opzioni di terapia Un possibile algoritmo terapeutico è proposto in Figura 1. IPP. Esiste un fenotipo di EoE responsivo agli IPP: attualmente l’eosinofilia esofagea responsiva agli IPP è universalmente considerata come un’entità distinta sia dalla MRGE che dall’EoE. L’efficacia degli IPP sembra essere imputabile alla loro capacità di inibire la produzione di eotassina-3 da parte delle cellule epiteliali esofagee. In considerazione di questi dati, è indicato un

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Caratteristiche

tentativo terapeutico di prima linea con un ciclo di IPP a dosaggio pieno per almeno 8 settimane con successivo controllo endoscopico per valutare l’effettiva scomparsa dell’infiltrato eosinofilo a livello esofageo. Corticosteroidi. Trattandosi di una patologia infiammatoria, i corticosteroidi rappresentano un trattamento cardine dell’EoE. Fluticasone propionato (440880 ug x2/die) e budesonide (1-2 mg/ die) somministrati localmente (sotto forma di spray o soluzioni orali viscose) sono i farmaci di scelta, in grado di controllare la sintomatologia e di ridurre l’infiltrazione eosinofila esofagea, sia negli adulti che nei bambini. Le formulazioni topiche hanno efficacia sovrapponibile alle formulazioni sistemiche, tuttavia con minori effetti collaterali. La formulazione orale viscosa sembrerebbe garantire migliori risultati per la sua miglior capacità di aderire alla mucosa esofagea. È importante quindi istruire i pazienti sulla corretta assunzione di tali farmaci per ottimizzarne il contatto con la mucosa: è indicato risciacquare la bocca con acqua ed evitare di mangiare

o bere per almeno 30 minuti dopo l’assunzione. La durata del trattamento non è ben definita: attualmente l’indicazione è di proseguire per 6-12 settimane. È stato riportato che l’EoE recidiva nel 90 per cento dei pazienti entro 9 mesi dalla sospensione della terapia; tuttavia i dati di efficacia della terapia steroidea a lungo termine a bassi dosaggi non sembrano incoraggiarne un utilizzo cronico. L’evento avverso più frequentemente riscontrato (fino al 32 per cento dei pazienti) è la candidosi esofagea. Altri trattamenti farmacologici. Il trattamento con montelukast (antagonista del recettore leucotrienico D4) ha dimostrato di essere solo parzialmente efficace nel controllo dei sintomi e incapace di mantenere la risposta clinica e istopatologica indotta dagli steroidi. L’utilizzo di farmaci biologici anti-IL5 (mepolizumab/reslizumab) sembra maggiormente efficace sia nel ridurre l’eosinofilia che nel controllo dei sintomi. Sono stati riportati alcuni casi trattati con tiopurine, con precoce recidiva dell’eosinofilia alla sospensione del trattamento. Dietoterapia. Vi sono diverse proposte di modulazione della dieta. La dieta elementare include aminoacidi, carboidrati semplici e trigliceridi a catena media. Ha dato ottimi risultati nella popolazione pediatrica, solo discreti negli adulti, probabilmente per una loro minor aderenza. Infatti si tratta di una dieta poco palatabile, che può avere ripercussioni sulla qualità di vita, oltre a essere costosa e richiedere talvolta la nutrizione mediante sondino. La dieta di eliminazione prevede l’esclusione di allergeni alimentari identificati dai test allergologici (targeted diet) e ha dimostrato buoni risultati nella popolazione pediatrica (55-75 per cento), mentre negli adulti i dati sono più contrastanti e meritano ulteriori studi. L’applicabilità è limitata dalla difficoltà nel selezionare accuratamente gli specifici allergeni alimentari. Pertanto è stato proposto un approccio empirico, basato sull’eliminazione dei 6 allergeni alimentari più comuni (latte, uova, grano, frutti di mare, nocciole e soia; six-food elimination diet). Tale dieta, condotta per 6 settimane, si è dimostrata efficace sia nel ridurre i sintomi che nel migliorare le


Figura 1

Algoritmo terapeutico nell’EoE Pazienti con • ≥15 eosinofili/hpf • Sintomi suggestivi di EoE

IPP a dosaggio pieno per 8 settimane

Risoluzione dei sintomi

Sintomi non risolti

MRGE oppure Eosinofilia esofagea responsiva agli IPP

EoE

Steroidi topici per 6-12 settimane (fluticasone/budesonide)

Miglioramento Monitoraggio durante il trattamento cronico con IPP

Dietoterapia 6-8 settimane • Dieta elementare • Targeted diet • 6-food elimination diet

Non miglioramento

Monitoraggio oppure terapia di mantenimento

Miglioramento

≥15 eosinofili/hpf sintomi non risolti

Terapie alternative: • Dilatazione endoscopica se stenosi • Prednisone • Switch steroidi-dieta o vice versa • Immunomodulanti? Antiallergici?

alterazioni istopatologiche (nel 94 e 64 per cento degli adulti studiati). La successiva reintroduzione dei cibi ha permesso di identificare il latte e il grano come gli allergeni maggiormente implicati. La dietoterapia (in pazienti motivati e dietro counseling dietistico) può essere considerata una valida alternativa alla terapia steroidea, anche se non esistono studi di comparazione tra le due strategie. Dilatazione endoscopica. È riservata alle complicanze dell’EoE: in urgenza in caso di impatto del bolo alimentare, e in elezione per la dilatazione delle stenosi esofagee. Tale approccio è volto ad alleviare i sintomi, ma non ha alcun impatto sulla storia naturale della malattia.

Reintroduzione del cibo

Monitoraggio oppure terapia di mantenimento

Conclusioni

Bibliografia

L’EoE è una patologia emergente, sia perché maggiormente riconosciuta, sia per un reale incremento di incidenza. Nella patogenesi, un ruolo importante rivestono gli allergeni alimentari e inalanti; tuttavia, i test allergologici sembrano attualmente rivestire un ruolo marginale nell’identificazione dei pazienti maggiormente responsivi alla terapia, forse per l’intercorrere di altri fattori patogenetici. La ricerca avrà pertanto un ruolo cruciale nell’identificare i meccanismi eziopatogenetici e i fattori predittivi di risposta al trattamento, per guidare lo specialista nella scelta dell’approccio più appropriato.

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C O NGRESSI Meeting annuale ASCO – 30 maggio-3 giugno, Chicago (Illinois, USA)

Progressi nella terapia dei tumori Farmaci personalizzati anche per le neoplasie più rare

L

a ricerca sulla diagnosi e cura delle neoplasie non si arresta, e i risultati finora ottenuti fanno ben sperare. Questo è uno dei messaggi chiave del 50° Meeting annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), l’appuntamento più importante del settore. “Mai come quest’anno abbiamo motivo per sperare nella ricerca contro i tumori e nelle terapie – ha sottolineato il presidente dell’ASCO, Clifford A. Hudis. “Le sperimentazioni cliniche stanno mantenendo la promessa di rendere disponibili farmaci personalizzati, per i tumori più diffusi e per quelli rari. E noi medici stiamo trovando diversi modi, relativamente semplici da mettere in pratica, per migliorare la qualità di vita dei pazienti durante i trattamenti”. Come ogni anno i contributi scientifici sono stati numerosissimi (oltre 5mila abstract, quest’anno), e pertanto non è possibile esaurire tutti gli argomenti in poche pagine. Cercheremo di seguito di sintetizzare le novità più significative. Cominciamo con il tumore alla prostata. Per questa neoplasia non sono stati presentati nuovi farmaci, quanto piuttosto un nuovo schema di terapia che potrebbe rivoluzionare l’attuale approccio nel tumore avanzato metastatico e ormonosensibile. Secondo i dati dello studio denominato ECOG E3805 CHAARTED, la somministrazione della chemioterapia in concomitanza con la terapia di deprivazione androgenica (ADT), invece che aspettare a dare il trattamento citotossico fino alla comparsa della progressione, migliora la sopravvivenza globale negli

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uomini affetti da questa forma di tumore. In questo studio, i pazienti trattati contemporaneamente con l’ADT e con il chemioterapico docetaxel hanno mostrato una sopravvivenza a 3 anni del 69 per cento contro una sopravvivenza del 52,5 per cento nei pazienti della stessa popolazione trattati con la sola ADT. Al Meeting di Chicago, il coordinatore dello studio Christopher Sweeney ha sttolineato come questi risultati siano di una tale portata da poter cambiare la pratica clinica. “Abbiamo una forte evidenza scientifica che i pazienti con un tumore alla prostata metastatico negli stadi più avanzati traggono vantaggio da un’aggiunta precoce di docetaxel all’ADT, senza aspettare che il tumore riprenda a crescere dopo la terapia ormonale. I risultati di questo studio sono importanti sia per migliorare le cure attuali sia per la progettazione di nuovi studi clinici volti a migliorare ulteriormente la vita degli uomini colpiti da un carcinoma della prostata metastatico”. I risultati ottenuti sono un importante esempio di come la combinazione di due trattamenti approvati e disponibili possa essere in grado di produrre un significativo miglioramento nel risultato clinico. Il trial è stato condotto in 790 uomini colpiti da un carcinoma della prostata metastatico che sono stati sottoposti al trattamento con la sola ADT oppure con ADT più docetaxel (75 mg/m2) ogni 3 settimane per un totale di 6 cicli. Nell’arco di un follow up di 29 mesi, si è registrato un beneficio netto in termini di sopravvivenza (57,6 vs 44,0 mesi rispettivamente con ADT+docetaxel e ADT

da sola; HR 0,47, P =0,0003). Inoltre è stato osservato come i pazienti con maggiore probabilità di trarre beneficio dalla terapia di combinazione erano 520 soggetti con malattia particolarmente estesa, per i quali si è registrato un aumento della sopravvivenza di 17 mesi (49,2 vs 32,2 mesi). Negli uomini che hanno un cancro alla prostata metastatico, la tipica sequenza di trattamento è un’ADT iniziale e poi, dopo la progressione, nuove terapie ormonali, e infine dopo l’ulteriore progressione, si aggiunge la chemioterapia. Dato che sia docetaxel sia l’ADT sono terapie approvate dall’autorità regolatoria, i medici non dovranno aspettare il via libera dallo Fda per poter utilizzare la nuova strategia. Tuttavia l’uso di questa combinazione andrebbe valutato scrupolosamente e riservato, solo dopo un’attenta selezione dei pazienti, ai soggetti con metastasi molto estese, dal momento che la chemioterapia è gravata da tossicità.


CONGRESSI Le nuove opportunità offerte dall’immunoterapia Il tumore differenziato della tiroide è una forma relativamente poco diffusa, che tuttavia si riscontra nell’85 per cento dei casi di tumore tiroideo diagnosticati negli USA. Circa il 90 per cento dei pazienti risponde bene alla terapia con radio-iodio, ma vi è un 10 per cento che sviluppa una forma resistente, caratterizzata da rapida progressione. Per questi pazienti fino a qualche tempo fa non vi erano opzioni di terapia. Solo recentemente è stato approvato dallo Fda sorafenib, e a Chicago sono stati presentati risultati incoraggianti relativi all’inibitore orale della tirosin-chinasi lenvatinib, in fase di sviluppo da parte di Eisai. I dati presentati indicano un effetto molto promettente della molecola: circa i 2/3 dei pazienti (quasi il 65 per cento) trattati hanno risposto alla terapia, e il farmaco è stato in grado di rallentare la progressione del tumore. I risultati derivano dallo studio SELECT in cui 392 pazienti, di età media intorno ai 65 anni, sono stati randomizzati in rapporto 2:1 a lenvatinib (24 mg/ die in cicli da 28 giorni) o placebo. In tutti i casi vi era una progressione documentata della malattia nell’arco di 13 mesi, nonostante diversi regimi di trattamento. La sopravvivenza libera da malattia è stata nettamente superiore con lenvatinib (18,3 vs 3,6 mesi; HR 0,21, P <0,0001). I benefici in termini di sopravvivenza libera da progressione sono stati osservati sia in pazienti che avevano ricevuto una precedente terapia VEGF, sia in quelli che non l’avevano ricevuta. Sotto il profilo della sicurezza, sono stati segnalati eventi avversi quali ipertensione (68 per cento), diarrea (59 per cento), perdita di appetito (50 per cento) e di peso (46 per cento), e nausea (41 per cento). Una riduzione del dosaggio è stata necessaria nel 78,5 per cento dei casi, mentre il 14,2 per cento dei pazienti ha dovuto interrompere il trattamento a causa di eventi avversi. Lo

studio SELECT è attualmente in corso, e i pazienti sono monitorati: fino a questo momento il tasso di mortalità è stato inferiore nel gruppo lenvatinib rispetto al placebo (27,2 vs 35,9 per cento). Risultati molto incoraggianti sono stati presentati anche per quel che riguarda il melanoma metastatico, e sono relativi a un’immunoterapia di associazione tra ipilimumab (Bristol-Myers Squibb) e l’anticorpo sperimentale nivolumab (BristolMyers Squibb). La combinazione testata ha portato ad avere risultati in termini di tasso di sopravvivenza eclatanti: 85 per cento a 1 anno, e 79 per cento a 2 anni, in uno studio di fase I. La mediana della sopravvivenza è stata di 40 mesi, nei 53 pazienti trattati. I partecipanti avevano un melanoma non operabile, in stadio III o IV, e avevano ricevuto almeno tre precedenti terapie. Infine, citiamo i risultati ottenuti con un farmaco sperimentale, panobinostat (LBH-589, Novartis), che usato in combinazione con bortezomib e daxametasone, in pazienti con mieloma multiplo resistente

ha migliorato la sopravvivenza senza progressione della malattia, rispetto a quanto ottenuto con la terapia a base di bortezomib+dexametasone. Panobinostat è un inibitore dell’istone-deacetilasi, un enzima chiave nel processo di carcinogenesi. Lo studio di fase III ha coinvolto 768 pazienti, e sostanzialmente ha mostrato come l’aggiunta di panobinostat abbia portato a un aumento di circa 4 mesi del periodo libero da progressione e peggioramento della malattia. Vale la pena di sottolineare che nel caso di questa forma di tumore, i pazienti spesso diventano non responder alla terapia, e quindi più che mai vi è la necessità di nuove opzioni. Il nuovo farmaco, per il quale è stata chiesta alle autorità regolatorie USA una procedura di revisione accelerata, con designazione di “fast track”, si candida a diventare dunque uno strumento importante nella lotta al mieloma multiplo, e in regime di associazione potrebbe diventare l’opzione di scelta per i pazienti che diventano resistenti alle terapie di prima linea.

Respiration Day 2014 - 30 maggio, Parma

Le malattie respiratorie compromettono le facoltà cognitive

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n occasione della X edizione del Respiration Day, un convegno internazionale promosso dalla Fondazione Chiesi, sono stati presentati i dati di uno studio italiano, coordinato da Roberto Del Negro, del CESFAR di Verona, secondo cui vi è una stretta relazione tra bronchite cronica, BPCO e decadimento cognitivo. Il lavoro sostanzialmente dimostra come rispetto alla gravità del disturbo respiratorio, il decadimento delle capacità cognitive si aggrava al peggiorare della condizione clinica. Quindi il deficit cognitivo è maggiore nei soggetti con BPCO (deficit conclamato riscontrato in oltre il 45 per cento dei casi) rispetto ai soggetti con bronchite cronica (circa nel 30 per cento). Non solo, ma anche i fumatori asintomatici sono esposti alla compromissione delle funzioni cognitive (riscontrata in oltre il 2 per cento dei casi). Inoltre il danno cognitivo peggiora con l’avanzare dell’età. Per esempio un soggetto fumatore di 80 anni è più deficitario a livello cognitivo rispetto a un soggetto sano, non fumatore, di pari età. I dati sono significativi se si considerano i 50enni, i quali manifestano una compromissione delle facoltà cognitive peggiore di quella dei 70enni sani. Lo studio ha avuto una durata di 24 mesi e ha coinvolto più di 400 soggetti.

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AstraZeneca

Un anticorpo monoclonale apre nuove prospettive di cura per la “sindrome mista asma-BPCO”

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uando parliamo di asma e BPCO, tuttora quello che colpisce sono i “numeri” di queste due patologie: oltre mezzo milione di malati nel mondo e più di tre milioni di decessi. Il trend è in crescita, con un aumento della mortalità che potrebbe essere addirittura del 30 per cento nei prossimi 10 anni. Se finora queste patologie venivano considerate entità cliniche separate, oggi sempre più si sta consolidando il binomio asma-BPCO. Circa un terzo dei pazienti con BPCO presenta una componente asmatica. L’asma infatti si può sviluppare in un soggetto fumatore affetto da BPCO oppure si può trasformare in BPCO il quadro di asma in un fumatore. Si parla in questi casi di “sindrome mista asma-BPCO”. Tale condizione necessita di un trattamento integrato delle due componenti (steroidi inalatori

in associazione a broncodilatatori). Sul fronte della terapia è importante segnalare lo sviluppo di nuove molecole, che hanno come bersaglio gli eosinofili. Se ne è parlato in occasione dell’ultimo congresso dell’American Thoracic Society, e anche nell’ambito di un incontro, lo scorso 17 giugno a Milano. Se presenti in numero elevato nelle vie aeree e nel sangue, gli eosinofili possono portare a gravi situazioni di asma, tanto che le stime indicano come il 40-60 per cento degli asmatici abbia anche una persistente eosinofilia delle vie aeree. In parallelo gli studi più recenti evidenziano una correlazione tra i livelli di eosinofili nel sangue e un aggravamento della BPCO. “I nuovi dati che abbiamo a disposizione” ha sottolineato all’incontro milanese Leonardo Fabbri, dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia “so-

Daiichi-Sankyo – Lilly

Humanitas Cardio Center

Progressi nella chirurgia per la sostituzione della valvola aortica

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a stenosi aortica è una patologia in aumento; specialmente tra gli anziani “over 65” l’incidenza è dell’ordine del 2-3 per cento. A oggi non esiste un trattamento farmacologico in grado di rallentare la progressione della stenosi, e pertanto l’unico approccio è rappresentato dalla chirurgia con sostituzione della valvola aortica. In questo ambito è d’obbligo sottolineare gli enormi progressi ottenuti presso il Cardio Center dell’Humanitas, diretto da Mattia Glauber, applicando un approccio di chirurgia mininvasiva, in grado di ridurre di circa un terzo i tempi operatori e la permanenza in terapia intensiva, e del 15 per cento circa la durata del ricovero. La nuova procedura “soft” prevede la sostituzione con una valvola biologica, senza suture, che garantisce eccellenti risultati nel tempo. Rispetto alle protesi aortiche meccaniche, questo nuovo tipo di valvole non prevede la necessità di una terapia continua con anticoagulanti. Un vantaggio quest’ultimo che va tenuto in considerazione soprattutto nel caso dei pazienti anziani.

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no particolarmente incoraggianti e fanno ben sperare per lo sviluppo delle nuove terapie per il trattamento personalizzato di asma e BPCO”. Di particolare interesse in questo ambito è benralizumab, un anticorpo monoclonale in grado di ridurre il livello degli eosinofili grazie alla sua capacità di legarsi al recettore dell’IL-5, responsabile dell’insorgenza e della gravità dell’asma e delle sue riacutizzazioni. Ma sembra anche efficace nel trattamento della BPCO, essendo in grado di abbassare gli eosinofili sia nel sangue che nel muco, migliorando i sintomi respiratori e riducendo le riacutizzazioni. Inoltre viste le somiglianze biologiche e la coesistenza tra asma e BPCO, nel caso di pazienti con eosinofilia persistente resistente agli steroidi questa nuova molecola potrebbe rivelarsi un’utile opzione di trattamento.

Up to date sulle sindromi coronariche acute

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n meeting internazionale e di alto valore scientifico in ambito cardiologico si è tenuto lo scorso 1 luglio, presso l’Ospedale San Donato di Arezzo. Il tema dell’incontro, che è stato promosso da Daiichi-Sankyo ed Eli Lilly, è stata la rivascolarizzazione miocardica, e in particolare si è discusso dell’aggiornamento delle Linee guida europee, e dell’impatto della sindrome coronarica acuta (SCA) alla luce dei nuovi dati epidemiologici, delle tecnologie e dei trattamenti. È stato anche analizzato un position paper dell’ANMCO/ SICI-GISE di recente pubblicazione (De Luca L et al. G Ital Cardiol 2013; 14 (12) sulla terapia antiaggregante nelle SCA. Alla stesura del documento hanno partecipato numerosi specialisti italiani di diversi centri, tra i quali anche il prof. Leonardo Bolognese, del Dipartimento Cardiovascolare e Neurologico dell’Ospedale San Donato di Arezzo, che tra l’altro ha presieduto l’incontro aretino, e ha dato la possibilità di visitare il reparto cardiologico, un centro all’avanguardia e di eccellenza.


Lilly

roche

Una campagna nazionale di sensibilizzazione sul tumore al seno

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arlare di tumore al seno e imparare a conoscerlo sono due strumenti fondamentali nell’ambito della prevenzione di questo “big killer”. Una malattia che nel 2013 ha causato circa 11mila decessi, secondo i dati del Registro dei tumori AIRTUM, e che conta circa 45mila nuovi casi l’anno. Un tumore dunque che non si arresta, e la cui incidenza aumenta specialmente nelle donne giovani, cioè nella fascia di età inferiore ai 45 anni, e soprattutto nell’Italia settentrionale. Un’area geografica però in cui si registra anche il maggiore accesso agli strumenti “classici” della prevenzione, mammografia ed ecografia. Nel Sud del Paese invece sono davvero poche le donne che si sottopongono agli esami di prevenzione di routine. Conoscere il tumore è una delle armi per sconfiggerlo, ed è anche l’obiettivo della campagna nazionale “Il futuro ha bisogno di tempo” che durerà per tutto l’anno. L’iniziativa è realizzata dal portale alfemminile.com, con il contributo non condizionato di Roche, e in collaborazione con Salute Donna Onlus. Conoscere la malattia è il presupposto per sviluppare una cultura della prevenzione e della diagnosi precoce, che possono davvero salvare la vita. Sul sito www.alfemminile.com/ilfuturohabisognoditempo vi sono contenuti speciali relativi al tumore al seno che potranno aiutare tutte le donne.

Si amplia il sito produttivo di Sesto Fiorentino

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no dei più grandi poli biotecnologici europei e una realtà di eccellenza in Italia: il sito produttivo di Lilly, a Sesto Fiorentino, punta ancora più in alto con l’inaugurazione (a metà dello scorso giugno) della seconda linea di produzione, e con l’intenzione di investire 70 milioni di euro necessari per portare una terza linea produttiva, interamente dedicata alle insuline. Il piano dell’azienda è quello di espandere il polo italiano affinché diventi un centro di riferimento mondiale per la produzione di nuovi farmaci biotecnologici, attualmente in fase di sviluppo. Lilly dunque ha creduto nel sistema italiano, tracciando il futuro dell’industria del farmaco nel nostro Paese coniugando salute, ricerca e sviluppo economico.

Istituto Auxologico Italiano

La quarta edizione del Rapporto sull’ictus

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frutto di due anni di lavoro da parte di trenta specialisti dell’Irccs Auxologico di Milano, il Rapporto sull’ictus (Il Pensiero Scientifico editore), giunto alla sua quarta edizione. Dopo l’ictus: integrazione e continuità delle cure, questo il tema su cui è centrato il manuale e che sintetizza le attuali conoscenze mediche per la prevenzione, cura e riabilitazione di quella che viene definita senza esitazioni, come la prima causa di invalidità e dipendenza nel mondo.

Nathura

Per le ferite superficiali e profonde da oggi c’è un “lieto fine”

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a pelle ci protegge da stimoli meccanici di varia natura. Questa caratteristica è dovuta al suo stato di turgore e alla presenza, nel derma, di fibre elastiche e di collagene che garantiscono alla cute stessa una certa elasticità. Quando c’è una ferita, il nostro organismo si attiva per riparare il danno. Lietofix®, il dispositivo medico di Nathura a base di acido ialuronico e arricchito con colostro, è indicato come coadiuvante dei processi riparativi sia di ferite superficiali, come abrasioni, escoriazioni, scottature, screpolature, piccoli tagli e ragadi al seno, sia di ferite più profonde che ledono il derma, come ad

esempio le ulcere. L’acido ialuronico è naturalmente presente nel derma, in cui svolge una funzione strutturale donando tonicità ed elasticità ai tessuti. In Lietofix® è ad alto peso molecolare ed è stato ottenuto attraverso tecniche di sintesi biotecnologica. L’acido ialuronico è coinvolto nelle diverse fasi che caratterizzano la cicatrizzazione: stimola “l’innesco” della fase infiammatoria, necessaria per attivare l’intero processo della cicatrizzazione; promuove la proliferazione e la migrazione cellulare durante la fase di granulazione; interviene nella fase di rimodellamento della ferita. In Lietofix® vale la sinergia

d’azione dell’acido ialuronico con altri particolari e preziosi ingredienti. Il colostro, di origine bovina, è una sostanza nota fin dai tempi antichi per le sue proprietà cicatrizzanti e antinfettive; è costituito infatti, da fattori di crescita, immunoglobuline e lattoferrina. L’Aloe barbadensis gel e l’alginato di sodio conferiscono proprietà lenitive e protettive. Grazie alla buona tollerabilità Lietofix® è adatto a tutta la famiglia. Già dalla prima applicazione favorisce il benessere della pelle ed è utile per il trattamento di ferite superficiali e profonde. Il prodotto è disponibile in farmacia, in due formati, nel tubo da 15 ml e in quello da 40 ml, è facile da applicare, non unge, non contiene parabeni ed è testato per il nichel (inferiore a 1 ppm).

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notizie dal web www.vitaminad.it Livelli di vitamina D e sopravvivenza nel Ca. colorettale: esiste una relazione? II pazienti affetti da cancro colorettale (CRC) con alti livelli di vitamina D nel sangue hanno maggiore probabilità di sopravvivere alla malattia. Sono queste le conclusioni di uno studio (Zgaga L et al. J Clin Oncol 2014; July 7; doi: 10.1200/ JCO.2013.54.5947) recensito sul sito www.vitaminad.it, e che aveva l’obiettivo di approfondire l’esistenza di un legame tra i livelli di vitamina D e la mortalità per CRC. In passato è stata evidenziata la difficoltà nello stabilire una relazione tra l’incidenza di CRC e la carenza di vitamina D a causa dell’esistenza di diversi fattori di rischio associati a entrambe le condizioni; è stata inoltre, osservata un’interazione tra i livelli di vitamina D e le variazioni genetiche a livello del locus del recettore della vitamina D (Vdr) che influenza il rischio di CRC. Nello studio sono stati esaminati in maniera prospettica 1.598 pazienti con diagnosi di CRC in stadio I-III, reduci da intervento chirurgico. Lo studio si è focalizzato sulla ricerca dell’associazione tra livelli sierici di 25(OH)D e la sopravvivenza fase-specifica, ed è stata analizzata l’interazione tra 25(OH)D e le variazioni genetiche a livello del locus Vdr. I polimorfismi Vdr (rs1544410, rs10735810, rs7975232, rs11568820) sono stati genotipizzati e gli aplotipi sono stati dedotti mediante il software BEAGLE. I risultati hanno evidenziato una forte associazione tra le concentrazioni plasmatiche di 25(OH)D e la mortalità CRC-specifica (p =0,008) e per tutte le cause (p = 0,003). Il rapporto del rischio (HR) per mortalità CRC-specifica era pari a 0,68 (95 per cento CI, 0,50-0,90) e 0,70 (95 CI, 0,55-0,89) per tutte le cause nel terzile di 25(OH)D più alto vs quello più basso; tale effetto era particolarmente evidente nello stadio II di malattia (HR 0,44, p =0,004 per la mortalità specifica). La mortalità specifica per CRC raggiungeva il 10 per cento dopo 2,5 anni nei pazienti del terzile più basso, e dopo 6,6 anni nei pazienti del terzile più alto. Non vi erano associazioni tra la sopravvivenza e i singoli polimorfismi del gene Vdr, ma sono state rilevate interazioni gene-ambiente tra la concentrazione di 25(OH)D e la mortalità CRC-specifica per il genotipo rs11568820 (p =0,008) e per tutte le cause (p =0,022), il punteggio degli alleli protettivi, e l’aplotipo GAGC al locus Vdr per la mortalità per tutte le cause. Nei pazienti con CRC stadio I- III, la vitamina D plasmatica postoperatoria è associata con differenze clinicamente importanti negli outcome di sopravvivenza, e i livelli più alti correlano con un miglior risultato. Trattandosi di uno studio osservazionale, servono comunque trial clinici randomizzati, prima di poter confermare l’utilità di una supplementazione con vitamina D nei pazienti con cancro colorettale.

www.chirurgiarticolare.it

Un sito web dedicato ai pazienti con problemi ortopedici Uno spazio interamente dedicato a tutte le persone che cercano informazioni on line in ambito ortopedico. È il sito www.chirurgiarticolare.it, curato dal dott. Lorenzo Castellani, specialista in ortopedia e traumatologia. Si occupa dei traumi dello sportivo e della chirurgia ricostruttiva delle articolazioni; opera e visita presso diversi centri a Milano e Firenze. All’interno del sito vi sono sezioni dedicate ad aree di interesse quali la riabilitazione, gli interventi chirurgici, l’anca, la spalla, il ginocchio, corredate da schede in cui i pazienti possono trovare tutte le informazioni utili. Il sito rispecchia pienamente la filosofia di cura del dott. Castellani, che si basa su un approccio di coinvolgimento attivo del paziente nell’ambito del percorso terapeutico. Per questo motivo la formazione (e l’informazione) del paziente è un prerequisito essenziale e assume un ruolo determinante nell’iter diagnostico e terapeutico. Quando il paziente capisce il suo problema e le opzioni terapeutiche, è già pronto a prendere decisioni sulla sua salute.

www.youtube.com/user/janssenitaly/featured L’informazione “social” di Janssen Italia Janssen Italia ha da poco presentato un nuovo canale su Youtube, aperto a tutti, ma dedicato in particolare a pazienti, familiari e caregiver, e medici. Una presenza importante se pensiamo al fatto che Youtube rappresenta il secondo motore di ricerca sull’web. Il canale Youtube di Janssen si propone come supporto informativo nella vita quotidiana dei pazienti, dei familiari, ma anche dei medici che li hanno in cura, garantendo un’informazione continua, attraverso contenuti video che raccontano le storie di pazienti, video di “disease awareness” e indicazioni sui diversi siti internet dedicati. La condivisione dei contenuti sulla piattaforma social riguarderà le principali aree terapeutiche nelle quali l’azienda è impegnata.

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