Mensile â‚Ź 5,00
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI
Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 4 settembre 2012
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Patologie metaboliche gestione del paziente diabetico con osteoporosi Allergologia i diversi fenotipi dell’asma bronchiale Meeting ASCO la terapia personalizzata per il Ca. polmonare professione le nuove regole di prescrizione dei farmaci
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Medico e paziente n. 4 anno XXXVIII - settembre 2012 Mensile di formazione e informazione per il Medico di famiglia
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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it
Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952
in questo numero
sommario
Immagine tratta dal volume “RIDURRE IL SALE PER GUADAGNARE SALUTE. Dalle evidenze scientifiche all’impegno comune”, Barilla
p 6
letti per voi
p 10 patologie metaboliche
OSTEOPOROSI nel PAZIENTE DIABETICO Cenni epidemiologici e gestione terapeutica
Redazione Giorgia Diana Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino
Osteoporosi e diabete sono patologie a eziologia multifattoriale e hanno maggiore prevalenza nella popolazione anziana. Oltre a una simile epidemiologia, le due condizioni trovano un legame eziologico al momento non ancora del tutto chiarito
Hanno collaborato a questo numero: Andrea Montagnani Piera Parpaglioni Gianenrico Senna
SALE: quale correlazione con L’IPERTENSIONE ARTERIOSA e come RIDURNE IL CONSUMO
Andrea Montagnani
p 18 prevenzione
è documentata l’associazione tra ipertensione, tendenza all’aumento della Pa con l’età e assunzione abituale di sale, in ragione del suo contenuto in sodio. Le iniziative nazionali per limitarne l’assunzione
Piera Parpaglioni
p 26 allergologia
i fenotipi dell’asma bronchiale Il ruolo degli antileucotrieni nell’ottica di una terapia personalizzata
In chiave fenotipica può essere l’uso ragionato degli antileucotrieni. Attualmente rappresentate in Italia dal
Medico e Paziente
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sommario
montelukast, queste molecole sono antagonisti di mediatori flogistici potentissimi, i leucotrieni
Gianenrico Senna
p 32
congressi
w 48° Meeting annuale ASCO – 1-5 giugno Chicago (Illinois, USA) Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2011 - 31/12/2011 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.342 Certificazione CSST n° 2011-2246 del 27/02/2012 Società di revisione: REFIMI
Carcinoma polmonare Avanza l’era della terapia personalizzata w XLIII Congresso nazionale SIN - 6-9 ottobre - Rimini
I neurologi italiani interpretano il cambiamento: le necessità assistenziali, la ricerca, i nuovi orientamenti w XXXII World Congress of Sports Medicine 27-30 settembre - Roma
Esercizio fisico come cura, ma nel modo giusto Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.
Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
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Medico e paziente
Le nuove regole per la prescrizione dei farmaci
I provvedimenti legati alla razionalizzazione della spesa farmaceutica sono stati investiti da un’onda di critiche da parte dei medici. In questo articolo, presentiamo i principali cambiamenti riguardanti le modalità di prescrizione dei farmaci
p 42 NEWS
Italia: il punto sui tumori in “tempo reale”
Il volume “I numeri del cancro in Italia”, presentato a fine settembre, raccoglie i dati relativi al 2012, permettendo proiezioni precise e rappresentando un importante strumento di programmazione sanitaria
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Farminforma
p 40 professione
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Numeri arretrati € 10,00
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Modalità di pagamento 1 Bollettino di ccp n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni srl - via Dezza, 45 - 20144 Milano 2
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letti per voi epidemiologia
Da un’indagine sulle cause neurodegenerative di morte tra ex giocatori di football americano emergono sospetti su una nuova patologia, l’encefalopatia cronica traumatica £
La mortalità legata a malattie neurodegenerative, in particolare Alzheimer (AD), Parkinson (PD) e sclerosi laterale amiotrofica (SLA), risulta tre volte più elevata tra gli ex giocatori di football americano rispetto alla popolazione generale degli Stati Uniti e per due malattie, AD e SLA, addirittura quattro volte più elevata. Sono i risultati di uno studio di coorte pubblicato su Neurology, condotto su 3.439 atleti professionisti che avevano giocato per almeno 5 stagioni, tra il 1959 e il 1988, nella National Football League. Il loro stato di salute è stato accertato nel 2007 e per gli scopi dell’indagine gli atleti sono stati suddivisi in due gruppi, i giocatori di velocità e quelli non di velocità. La mortalità globale dei giocatori era ridotta rispetto a quella della popolazione generale sta-
tunitense, mentre la mortalità per cause neurodegenerative (standardized mortality ratio, SMR) risultava aumentata (3,26, IC 95 per cento 1,90-5,22), con risultati elevati in particolare per SLA (4,31, IC 95 1,73-8,87) e per AD (3,86, IC 95 1,55-7,95). L’analisi interna tra i due gruppi di giocatori mostrava tassi più elevati di mortalità per cause neurologiche tra quelli di velocità rispetto ai colleghi non di velocità (3,29, IC 95 0,92-11,7). A partire dagli anni Novanta, vari studi hanno posto l’attenzione sulle sequele di episodi ripetuti di commozione cerebrale. Ricerche su base autoptica hanno identificato una condizione neurodegenerativa a sé, l’encefalopatia cronica traumatica (CTE) che colpisce un ampio spettro di individui che hanno sperimentato commozioni cerebrali
£
NEUROLOGIA
multiple, tra cui i giocatori di football americano (e in particolare quelli con ruoli di velocità). La CTE comporta un declino progressivo delle funzioni cerebrali che si manifesta anni o decenni dopo i traumi commotivi, e coinvolge le funzioni mentali, l’equilibrio e i movimenti. Il riconoscimento di questa entità patologica, con una diagnosi neurologica distinta, ma con sintomi spesso analoghi a quelli di altre malattie neurodegenerative, è avvenuto negli ultimi anni e la CTE non compare ancora tra le cause di morte nella Classificazione internazionale delle malattie (ICD). Si riconosce tuttavia che condizioni neurologiche e decessi attribuiti ad AD, PD o SLA potrebbero in realtà essere correlati con la CTE. Come evidenziato anche da cronache recenti, un aumentato rischio di disordini neurologici accomuna vari tipi di giocatori che sperimentano nella loro carriera traumi con commozione cerebrale. Altri sport a rischio sono per esempio calcio, boxe e hockey. Lo studio in questione non stabilisce un ruolo di causa-effetto tra gli episodi di commozione cerebrale e la morte per disordini neurodegenerativi, ma
Un’associazione indipendente tra l’eccessiva sonnolenza diurna (ESD) e il rischio di declino cognitivo La sonnolenza diurna nell’anziano con l’età è stata evidenziata da uno studio francese su potrebbe essere un marker anziani residenti in comunità, nei quali sono stati valutati i disturbi del sonno, l’uso di farmaci per trattare precoce, e potenzialmente l’insonnia, e il declino delle funzioni cognitive nell’arco reversibile, di declino cognitivo di un follow up di 8 anni. Lo studio longitudinale, condotto in tre città francesi, ha arruolato 4.894 pazienti senza segni di demenza al basale e con un punteggio al Mini Mental State Examination (MMSE) ≥ 24. Appositi questionari hanno valutato all’inizio dello studio i quadri clinici di insonnia (scarsa qualità del sonno, difficoltà nell’addormentamento, difficoltà nel mantenimento del sonno, risvegli mattutini precoci), l’eccessiva sonnolenza diurna e l’assunzione di farmaci per i disturbi del sonno. Il declino cognitivo è stato definito come una riduzione di 4 punti del punteggio del MMSE nel follow up a 2, 4 e 8 anni. Si è visto che l’ESD aumentava il rischio di declino cognitivo in modo indipendente da altri fattori (OR 1,26, IC 95 per cento 1,02-1,56), specialmente negli anziani che avevano nel contempo sviluppato una demenza (OR 1,39 IC 95 1,00-1,97). Per i vari tipi di insonnia vi era invece un’associazione negativa o non significativa con il declino cognitivo evidenziato dal MMSE. Se confermati, questi risultati potrebbero avere importanti implicazioni di salute pubblica, poiché l’ESD potrebbe costituire un marker precoce e un fattore di rischio potenzialmente reversibile per il decadimento cognitivo e l’insorgere di demenza. (P.P.) Jaussent I, Bouyer J, Ancelin ML et al. Sleep 2012;35:1201-7
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Medico e paziente
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aggiunge nuove evidenze al rischio che interessa pratiche sportive dove sono frequenti gli impatti in velocità e i traumi con commozione cerebrale. (P.P.) Lehman EJ, Hein MJ, Baron SL et al. Neurology, 2012; 79: epub
reumatologia
Un nuovo farmaco biologico orale si rivela promettente nei pazienti con AR moderata-severa che non rispondono alle terapie standard £
Si aprono nuove prospettive nella terapia dell’artrite reumatoide (AR). I risultati di due studi controllati di fase 3 mostrano un profilo di efficacia interessante per tofacitinib, un inibitore delle Janus chinasi (JAK, una famiglia di tirosin-chinasi che trasducono segnali mediati da citochine) attivo per via orale, che è stato testato nell’artrite reumatoide di gravità da moderata a severa e con risposta incompleta alle terapie correnti. Il primo studio, della durata di 6 mesi, ha confrontato tofacitinib in monoterapia (al dosaggio di 5 o 10 mg due volte al giorno) con placebo, in 611 pazienti che rispondevano in modo insoddisfacente al trattamento con DMARD. End point primari dopo 3 mesi erano la percentuale di pazienti con un miglioramento di almeno il 20 per cento dell’American College of Rheumatology scale, e i cambiamenti rispetto al basale dell’indice di disabilità (misurato con Health Assessment Questionnaire-Disability Index) e dell’indice di attività della malattia (Disease Activity Score 28-4ESR). Queste valutazioni hanno mostrato che la monoterapia con il nuovo farmaco si associava a una riduzione significativa dei segni e dei sintomi dell’AR e a un miglioramento funzionale. Il secondo studio, condotto su 717 soggetti in terapia stabile con metotrexate, ma
letti per voi con risposta incompleta al farmaco, ha messo a confronto l’aggiunta di tofacitinib (5 o 10 mg bid) con quella di adalimumab (40 mg ogni due settimane) o di placebo, per 12 mesi. Outcome primari erano gli indici della malattia valutati come nello studio precedente. L’inibitore delle JAK è risultato significativamente superiore al placebo e numericamente sovrapponibile per efficacia all’adalimumab. Al momento è sotto osservazione la sicurezza del farmaco, dato il suo ruolo critico nella trasduzione dei segnali nelle risposte immunitarie. Vi è il riscontro di alcuni effetti collaterali come, infezioni di grado severo, aumento del colesterolo LDL, alterazione degli indici epatici. Vi è dunque, la necessità di valutare la sicurezza di tofacitinib su numeri più ampi di pazienti e in un arco di tempo maggiore. (P.P.) Fleischmann R, Kremer J, Cush J et al. New Engl J Med 2012; 367: 495-507 Van Vollenhoven RF, Fleischmann R, Cohen S et al. New Engl J Med 2012; 367: 508-19
nefrologia
Le statine sembrano poco efficaci nella malattia renale avanzata e gli effetti protettivi sono confermati solo nei primi stadi della CKD £
I benefici delle statine negli individui con malattia renale cronica (CKD) erano fino a oggi incerti e presumibilmente legati al grado di insufficienza renale. Una metanalisi di 80 studi clinici su un totale di 51.000 pazienti ha riscontrato che le statine riducono la mortalità e gli eventi cardiovascolari (CV) nei primi stadi della CKD, mentre hanno un effetto trascurabile o nullo nei soggetti sottoposti a dialisi, e un ruolo ancora da definire nei portatori di trapianto renale. Nei pazienti non dializzati, le evidenze cliniche indicano che l’impiego di statine si associa con una riduzione della mortalità da tutte le cause (RR 0,81, IC 95 per cento 0,74-0,88), della mortalità CV (RR 0,78, IC 0,68-0,89) e degli eventi CV (RR 0,76, IC 0,73-0,80). Nelle
persone sottoposte a dialisi, i risultati della metanalisi indicano invece un effetto scarso o nullo delle statine sulla mortalità da tutte le cause (RR 0,96, IC 0,88-1,04), la mortalità CV (RR 0,94, IC 0,82-1,07) e gli eventi CV (RR 0,95, IC 0,87-1,03). Incerta allo stato attuale resta l’efficacia nei portatori di trapianto renale. Lo studio ha valutato l’eventualità di un’azione dannosa delle statine in presenza di CKD, e non ha riscontrato effetti di rilievo relativi a cancro, mialgia, alterazioni della funzionalità epatica o sospensione del trattamento, anche se va detto che meno della metà dei trial considerati conteneva una valutazione sistematica degli eventi avversi. (P.P.) Palmer SC, Craig JC, Navaneethan SD et al. Ann Int Med 2012; 157: 263-75
£ L’asma persistente, anche di grado lieve-moderato, viene curato con terapie inalatorie a base di cortisonici, associati o meno a I cortisonici inalatori, assunti broncodilatatori. Da studi del passato era noto che questi farmaci in età pediatrica per l’asma, (che interferiscono con il metabolismo osseo) causavano nei bambini possono portare a una statura un ritardo nell’accrescimento. Non era però stato chiarito se tale effetto avesse carattere temporaneo o definitivo: infatti, alcuni studi inferiore in età adulta osservazionali indicavano come una terapia cortisonica, protratta anche per diversi anni, non condizionasse l’accrescimento a lungo termine. Un recente studio americano invece ha rivoluzionato questa opinione. È stata rivalutata la storia clinica di una popolazione di circa mille ragazzi asmatici, suddivisi in tre gruppi: uno trattato con budesonide, un secondo con nedocromil, un broncodilatatore usato spesso nell’asma, e un terzo con placebo. I soggetti iniziarono le terapie tra i 5 e i 13 anni, e le hanno assunte, nell’ambito dello studio CHAMP, per un tempo variabile tra i 4 e i 6 anni. L’altezza è stata rilevata all’inizio del trial e poi mediamente 2 volte l’anno; la statura da adulti è stata rilevata a un’età di 24,9±2,7 anni. Alla fine i ragazzi trattati con cortisonici avevano una statura inferiore di 1,2 cm rispetto a quelli del gruppo placebo; anche quelli curati con nedocromil accusarono una riduzione di statura, ma di soli 0,2 cm. Una dose più alta di cortisonici inalatori nei primi due anni di terapia ha causato una maggiore riduzione della statura da adulti. In pratica, il ridotto accrescimento che si è avuto con gli steroidi nei primi due anni di terapia si è mantenuto fino in età adulta, in particolare tra i ragazzi che avevano iniziato in età pre-puberale. Questo nuovo dato clinico chiede al medico di considerare con attenzione l’inizio di una terapia cortisonica in età pediatrica, che spesso dai pazienti viene considerata come un semplice intervento sintomatico, perchè gli effetti sul metabolismo osseo si mantengono anche per decenni. pneumologia
Kelly HW, Stemberg AL, Lescher R et al. New Engl J Med 2012; 367: 904-12
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OSTEOPOROSI nel PAZIENTE DIABETICO Cenni epidemiologici e gestione terapeutica Osteoporosi e diabete sono patologie a eziologia multifattoriale e hanno maggiore prevalenza nella popolazione anziana. oltre a una simile epidemiologia, le due condizioni trovano un legame eziologico al momento non ancora del tutto chiarito
L’
osteoporosi (OP) è un disordine scheletrico caratterizzato da una compromissione della resistenza dell’osso che predispone il soggetto a un aumentato rischio di frattura. La resistenza dell’osso è la risultante dell’interazione fra densità e qualità dell’osso. La conseguenza clinica più rilevante della patologia osteoporotica è rappresentata dalla frattura, di cui le più comuni interessano il femore prossimale (collo), la colonna vertebrale e il polso. È noto che la frattura di femore, specie nella popolazione anziana, è causa non trascurabile di mortalità e di disabilità [1-3]. Nei Paesi occidentali si calcola che la mortalità annua delle fratture femorali abbia oramai superato quella del tumore gastrico e pancreatico e che per le donne il rischio di sviluppare una frattura femorale nel corso della vita sia maggiore del rischio complessivo di tumore mammario, endometriale e ovarico, mentre per gli uomini sia maggiore del rischio di tumore della prostata. Le proiezioni al 2050 mostrano un aumento esponenzia-
Andrea Montagnani Ambulatorio di Malattie Metaboliche, Unità Operativa di Medicina Interna, Ospedale Misericordia, Grosseto
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MEDICO E PAZIENTE
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le della prevalenza della patologia osteoporotica nel mondo (Figura 1), e anche i dati nazionali offrono un tale scenario. Lo studio epidemiologico ESOPO (Epidemiological Study On the Prevalence of Osteoporosis) ha fatto emergere che in Italia, quasi 4.000.000 di donne sono affette da osteoporosi e quindi a rischio di frattura di femore, con una prevalenza di oltre il 40 per cento al di sopra dei 60 anni [4]. Con il progressivo invecchiamento della popolazione italiana è da attendersi un incremento esponenziale delle fratture di femore. Si stima che i cambiamenti demografici dei prossimi anni comporteranno un aumento del numero di fratture del femore di più del 400 per cento se proiettate all’anno 2050. Similmente il diabete mellito è una patologia cronica invalidante a elevato impatto sociale. Il diabete mellito è in costante ascesa e stime dell’Oms prevedono nel mondo e in Europa un significativo aumento del numero dei pazienti diabetici nei prossimi dieci anni (Figura 2). I dati riportati nell’annuario statistico Istat 2010 indicano che è diabetico il 4,9 per cento degli italiani (5,2 delle donne e 4,5 degli uomini), pari a circa 2.960.000 persone, con una maggiore prevalenza
nelle persone con più di 65 anni (circa il 12 per cento). Da questi dati si intuisce come osteoporosi e diabete mellito siano due patologie a eziologia multifattoriale con una maggiore prevalenza nella popolazione anziana di cui influenzano significativamente l’aspettativa e la qualità di vita. Oltre alla simile epidemiologia, le due patologie, trovano un legame eziologico non ancora del tutto chiarito. Infatti, la prevalenza di frattura da fragilità ossea è maggiore nei pazienti diabetici rispetto alla popolazione di riferimento non diabetica. I principali fattori di rischio notoriamente associati alle fratture osteoporotiche sono: l’età avanzata, il basso BMI (indice di massa corporea) e l’anamnesi familiare positiva, le fratture prevalenti, la terapia steroidea, il fumo di sigaretta. Al contrario, malgrado numerosi studi di tipo osservazionale abbiano approfondito il rapporto tra diabete e rischio di frattura, il ruolo del diabete come fattore di rischio di osteoporosi e frattura da fragilità rimane a oggi non del tutto chiarito [5]. La densità minerale ossea (BMD) è un forte predittore del rischio di frattura, anche se non è l’unica componente che determina la resistenza fisica del tessuto osseo. Il diabete mellito di tipo 1 sembra associato a una ridotta BMD, ma anche a un’alterata qualità ossea, aspetto non valutabile con la sola densitometria a raggi x (DXA). La BMD risulta ridotta nei pazienti affetti da diabete di tipo 1 (DM1) nella maggior parte degli studi. Per quanto riguarda la relazione tra diabete di tipo 2 (DM2) e BMD , esistono dati contrastanti. Sebbene siano numerosi gli studi che hanno indagato l’associazione tra DM2 e rischio di frattura,
Alterazione della qualità del tessuto osseo nel diabete mellito
Figura 1
1950 2050
600 378
100
1950 2050
1950 2050
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uno dei maggiori fattori protettivi nei confronti delle fratture. Recentemente, uno studio prospettico ha dimostrato che gli adolescenti con DM1 mostrano una ridotta massa ossea e un minore volume osseo nonostante un normale sviluppo durante il periodo di crescita [15]. Infatti, una mineralizzazione scheletrica insufficiente durante la pubertà sarebbe il meccanismo determinante di una ridotta BMD nei soggetti adulti con DM1. Nell’eziopatogenesi dell’osteoporosi nel
paziente diabetico sembrano giocare un ruolo le complicanze del diabete stesso, come la micro- e la macroangiopatia diabetica, entrambe in grado di indurre osteopenia. La nefropatia diabetica si associa a una ridotta BMD in pazienti con DM1. È probabile che la riduzione progressiva della funzionalità renale induca un cambiamento del turnover osseo caratterizzato da una prevalenza dell’azione osteoclastica fin dai primi stadi di insufficienza renale, capaci di portare a una riduzione
Figura 2
Prevalenza stimata (x1.000.000) di diabete mellito nel 2025 80 70 60
1995 1998 2025
50 40 30 20 10 0
L’acquisizione di un buon picco di massa ossea durante le prime decadi di vita è
378
400
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Prevalenza stimata (x1.000) di osteoporosi nel 2050
100
non sembra possibile trarre conclusioni definitive. Infatti, alcuni Autori hanno riportato un incremento del rischio di frattura nei pazienti diabetici di tipo 2 [6-9], mentre altri studi non hanno riscontrato nessuna associazione, e altri ancora hanno riscontrato una relazione inversa [6,7,10]. Il rischio di frattura di femore nel DM2 si attesta fra il 18 per cento negli uomini e l’11 nelle donne, anche dopo la correzione per fattori confondenti come età, comorbilità e farmaci noti per influenzare negativamente il rischio di cadute [11]. Una recente ed estesa metanalisi per un complessivo numero di 800.000 soggetti ha confermato questo dato, riportando una correlazione positiva fra diabete mellito e fratture non-vertebrali (RR: 1,2; 95 per cento IC 1,01-1,5), fratture femorali (RR: 1,7; 95 per cento IC 1,3-2,2), e fratture del piede (RR: 1,3; IC 95 per cento 1,1-1,7). Tali associazioni rimanevano significative anche dopo aggiustamento per età, attività fisica e body mass index (RR: 2,6; 95 IC 1,5-4,5), tendevano a essere più forti nell’uomo piuttosto che nella donna, e nei pazienti con una storia più lunga di malattia [5]. Nello stesso studio, restringendo l’analisi solo alla popolazione affetta da DM1, il rischio di frattura femorale aumentava di sette volte rispetto ai controlli. Sebbene come abbiamo già sottolineato, non tutti i dati in letteratura concordino, la sintesi delle evidenze porta ad affermare che il rischio di frattura è aumentato nella popolazione con diabete mellito, sia di tipo 1 che di tipo 2, anche se in questi ultimi la BMD risulti normale o aumentata rispetto alla popolazione normale [12]. Questo apparente paradosso potrebbe trovare una parziale spiegazione sia nella maggiore predisposizione a cadere [13] che in una ridotta qualità ossea [14], caratteristiche riscontrate nel paziente con DM2.
Africa
America
Mediter. area
Europa
Sud-Est Asia
Ovest Pacifico
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patologie metaboliche Tabella 1
Fattori di rischio di caduta in pazienti con diabete mellito Ipoglicemia Nicturia Riduzione del visus Ridotto equilibrio Ipotensione ortostatica Ridotta mobilità articolare della BMD [16]. La stessa neuropatia, così come la presenza di vasculopatie periferiche sembrano rappresentare fattori determinanti o contribuenti alla ridotta massa ossea nei pazienti diabetici [17], anche se i meccanismi eziopatogenetici rimangono a oggi non chiariti. Negli ultimi anni sono stati pubblicati dati interessanti sul ruolo eziopatogenetico dell’insulin-like growth factor (IGF-1), o dei composti avanzati di glicazione (ACE), oppure sul ruolo dei recettori peroxisome proliferator-activate gamma (PPARγ), coinvolti nell’attività cellulare del tessuto adiposo, ma anche del tessuto osseo. L’IGF-1 è un peptide molecolarmente simile all’insulina e gioca un ruolo im-
portante durante il periodo della crescita, continuando ad avere un ruolo anabolico anche nella vita adulta [18]. I livelli sierici di IGF-1 e della IGF-binding-protein 3 (IGFBP-3) sono ridotti nei pazienti con DM1 rispetto ai pazienti con DM2 oppure non diabetici. Inoltre, è stata dimostrata una correlazione positiva tra livelli sierici di IGF-1, IGFBP-3 e BMD. A conforto di questi dati Kemik et al. (J Endocrinol Invest 2000) studiando l’associazione tra BMD e parametri del turnover osseo, hanno osservato valori ridotti di BMD e dei livelli sierici di IGF-1, osteocalcina e fosfatasi alcalina nei pazienti con diabete mellito, a dimostrazione di una riduzione del turnover osseo in questa patologia. Aspetto altrettanto interessante della fisiopatologia del tessuto osseo nel paziente diabetico è il possibile effetto che l’accumulo degli AGE possa avere sulle cellule ossee. Infatti, questi prodotti possono contribuire a peggiorare la resistenza del tessuto osseo, accumulandosi nella componente collagenica della matrice ossea. A questo proposito, recentemente, Yamamoto e coll. hanno studiato l’associazione tra i prodotti AGE, come la pentosidina, e l’incidenza di frattura vertebrale nella donna con DM2. La pentosidina è uno dei prodotti AGE più noto e facilmente quantizzatile. La sua concentrazione a
Figura 3
Effetto dei TZD sulle cellule mesenchimali pluripotenti Tiazolidinedioni
PPAR
-
Cellula mesenchimale pluripotente nel midollo osseo
+
Adipociti Osteoblasti
Fonte: modificata da Jiang Y et al.
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livello dell’osso corticale trabecolare è inversamente associata alla resistenza meccanica dell’osso [19,20]. In questo studio la pentosidina, ma non la BMD e il turnover osseo, risultava predittiva della frattura vertebrale nelle donne diabetiche, anche dopo correzione per i possibili fattori confondenti [21]. Un aspetto recentissimo ed emergente nella relazione tra osso e diabete è il possibile ruolo del recettore PPARγ nel metabolismo delle cellule ossee. Infatti, gli osteoblasti e gli adipociti condividono un comune progenitore cellulare di tipo mesenchimale (mesenchymal stem cells, MSC), che può maturare in cellula adiposa, osteoblastica o di altro tipo. In questa via, il recettore PPARγ gioca un ruolo importante, infatti la sua maggiore espressione determina un’adipogenesi a discapito dell’osteoblastogenesi [22]. Al contrario, in condizione di totale mancanza di PPARγ è stato dimostrato un incremento della massa ossea grazie a un’intensa osteoblastogenesi a partire da cellule progenitrici del midollo osseo [23].
Fattori extrascheletrici L’apparente contraddizione di un rischio di frattura simile nei pazienti con DM1 o DM2, a fronte di una BMD normale o addirittura maggiore in questi ultimi, potrebbe essere spiegata, oltre che dall’alterata qualità del tessuto osseo, anche dalla pesante influenza che fattori extrascheletrici possono avere sull’evento frattura nei pazienti diabetici (Tabella 1). Infatti, la propensione a cadere determinata da una ridotta acuità visiva, o da una cattiva propiocezione secondaria alla neuropatia diabetica, rappresenta un fattore amplificante del rischio di frattura nel paziente diabetico. Alcuni studi, affrontando questo particolare aspetto, hanno dimostrato che nei pazienti diabetici il rischio relativo di frattura si riduce drasticamente, anche se non si annulla, dopo correzione dei dati per i fattori predisponenti alla caduta, come la retinopatia, lo stroke, la neuropatia periferica e il deficit di forza muscolare. In modo simile, Schwartz e coll. hanno
Tabella 2
Influenza degli antidiabetici orali sulla massa ossea Farmaco ipoglicemizzante
Effetto su massa ossea
Effetto su frattura ossea
Metformina
Positivo
Positivo
Sulfaniluree
?
?
Negativo
Negativo
Analoghi GLP-1
Positivo
Positivo ?
Inibitori DPP-IV
Positivo ?
Positivo ?
Tiazolidinedioni
riscontrato che le cadute, la ridotta acuità visiva, la ridotta attività fisica e l’utilizzo di benzodiazepine spiegano in piccola parte l’associazione tra diabete e frattura osteoporotica. Inoltre, due studi di tipo osservazionale molto importanti, come il Health ABC Study e il Women’s health Initiative-Observational Study, hanno confermato una maggiore propensione alla caduta dei pazienti diabetici rispetto alla popolazione generale [24], in particolare in coloro con frattura rispetto a quelli senza frattura [17]. In tutti questi studi comunque, la patologia diabetica è rimasta sempre associata alla frattura osteoporotica anche dopo correzione dell’analisi statistica per le complicanze diabetiche, suggerendo pertanto, una relazione indipendente fra alterazioni del tessuto osseo e la patologia diabetica. Fin qui abbiamo spiegato come la condizione diabetica incrementi il rischio di frattura da fragilità ossea sia determinando un’alterazione quantitativa e qualitativa del tessuto osseo, sia aumentando la probabilità di caduta del paziente. Un ulteriore aspetto nella gestione della patologia osteoporotica nel paziente diabetico è quello di tenere conto anche degli effetti che le terapie antidiabetiche possono determinare sul tessuto osseo (Tabella 2).
Gli effetti sull’osso delle terapie ipoglicemizzanti La metformina previene l’effetto negativo sulle cellule osteoblastiche legato all’accumulo degli AGE [25,26]. Questi dati di laboratorio sembrano confermare alcuni
dati clinici che riportano una riduzione del 20 per cento del rischio di frattura nei pazienti trattati con metformina [27]. Le sulfaniluree hanno davvero pochi dati relativi all’effetto diretto sul tessuto osseo. Alcuni studi epidemiologici suggeriscono comunque, un effetto indiretto sull’incidenza di frattura ossea probabilmente spiegabile con il solo controllo glicemico [27]. Recenti e interessanti studi hanno indagato l’effetto sul tessuto scheletrico dell’impiego dei tiazolidinedioni (TZD). I TZD sono stati introdotti da circa 10 anni nel trattamento del DM2 e solo recentemente studi di una certa rilevanza hanno iniziato a evidenziare un loro possibile effetto negativo sul tessuto osseo. Lo studio ADOPT (A Diabete Outcome Progression Trial) ha riportato un aumento del rischio di frattura fra le donne diabetiche in trattamento con rosiglitazione da almeno 4 anni quando venivano confrontate con una popolazione trattata con metformina o sulfaniluree [28]. Anche se un piccola parte di fratture riscontrate in questo studio, riguarda siti ossei non tipici per fratture osteoporotiche, come tibia, mano e piede, il dato aggregato concorda con altri dati riportati per altri TZD. Infatti, sia uno studio con rosiglitazone [29] che un secondo studio con pioglitazone hanno riportato un aumento del rischio di frattura nel sesso femminile, ma non in quello maschile [30]. Infine, un’analisi caso-controllo, ricavata da Meier e coll. dal database della Medicina Generale dell’Inghilterra, ha confermato che i TZD aumentano il rischio di frattura nella donna in postmenopausa
con DM2, dimostrando un incremento di circa tre volte del rischio delle fratture del femore e di quelle non vertebrali [31]. Diverse ipotesi sono state avanzate per capire quali meccanismi potessero spiegare il probabile effetto negativo dei TZD sul tessuto osseo. È stato dimostrato che i TZD sopprimono l’espressione dell’aromatasi e la sintesi degli estrogeni a livello del tessuto adiposo, inibiscono inoltre, la produzione ovarica di estradiolo e di testosterone, oppure sembrano in grado di stimolare la produzione di progesterone da parte del tessuto ovarico [32]. Un possibile meccanismo ulteriore coinvolge l’attivazione del recettore PPARγ con una maggiore differenziazione della cellula mesenchimale pluripotente verso la componente adiposa piuttosto che quella osteoblastica [33] (Figura 3). Una recente metanalisi della maggior parte degli studi condotti su pazienti con DM2 trattati con TZD ha confermato che questi farmaci hanno un effetto negativo sull’incidenza di frattura nella donna e non nell’uomo, e che tale effetto si amplifica con l’aumentare dell’età [34], suggerendo un risultato clinico dell’effetto diretto dei TZD sulle cellule ossee. Da questi dati, pur non essendo totalmente definitivi, deduciamo il suggerimento di essere per lo meno prudenti nella prescrizione di TZD in donne con osteoporosi, e in particolare nelle pazienti anziane. Negli ultimi anni, sono state introdotte due nuove classi di farmaci nel trattamento del DM2: le incretine e gli inbitori del DPP-IV. Le incretine, il glucagone-like peptide (GLP-1) e il peptide insulinotropico glucosio-dipendente (GIP) sono sostanze ormonali secrete dalla mucosa intestinale in risposta al bolo alimentare, momento che sembra giocare un ruolo rilevante nell’omeostasi del glucosio, modulando la secrezione di insulina glucosio-indotta. In particolare, GLP-1 è un prodotto di trascrizione del gene del pro-glucagone ed è secreto principalmente dalle cellule L intestinali. Una volta immesso in circolo questo peptide ha un’emivita minore di 2 minuti, dovuta alla rapida degradazione da parte
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patologie metaboliche Tabella 3
Terapie efficaci nella cura dell’osteoporosi Riduzione di Frattura
Intervallo e dosaggio
Vertebrale
Non Vertebrale
Alendronato
Sì
Sì
Settimanale per os
Risedronato
Sì
Sì
Settimanale/mens. per os
Clodronato
Sì
Sì
800 mg/die per os
Ibandronato
Sì
Sì*
Mens.os/trim. ev
Zoledronato
Sì
Sì
Annuale ev
Raloxifene
Sì
No
Giornaliero
Sì
Sì
Giornaliero sc
Sì
Sì
Giornaliero per os
AGENTI ANTIRIASSORBITIVI
AGENTI ANABOLICI Teriparatide AGENTI a DOPPIA AZIONE Ranelato di Sr
Note: *evidenza derivata da studi post hoc o da metanalisi
dell’enzima dipeptidil peptidasi-4 (DPPIV). Oltre al meccanismo sul metabolismo glucidico, alcune evidenze dimostrano come questi peptidi ormonali secreti dalle cellule intestinali possano avere un ruolo nella regolazione in acuto e in cronico del metabolismo osseo. Infatti, le incretine sembrano modulare le interazioni che esisterebbero tra nutrizione e turnover osseo, come per esempio la soppressione post-prandiale del riassorbimento osseo [35]. L’effetto che il GIP avrebbe sul tessuto osseo è stato ampiamente studiato in vitro e in vivo. Il recettore specifico per il GIP si ritrova espresso sulla superficie degli osteoclasti e incrementa sia l’espressione del collagene di tipo 1 che l’attività della fosfatasi alcalina nelle cellule osteoblast-like; inoltre sembra rallentare l’apoptosi osteoblastica con effetto finale di tipo anabolico. Il GIP inibisce anche il riassorbimento PTH-indotto [36]. In vivo, topi knockout per il recettore del GIP mostrano un fenotipo di ridotta massa ossea secondaria sia a una ridotta formazione ossea che a un incremento del riassorbimento osseo [37].Al contrario in topi transgenici, che sovraesprimono il GIP, la massa ossea risulta aumentata [38].
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Per quanto riguarda il GLP1, uno studio su topi knockout per recettori del GLP1 ha dimostrato un ruolo fondamentale di questi recettori nel controllo del riassorbimento osseo, apparentemente tramite una via calcitonina-dipendente. Questi topi presentano una riduzione dell’osso corticale e una fragilità ossea secondaria a un aumento del riassorbimento osseo, come documentano gli elevati livelli urinari dei cross-link [39]. Infine, l’exenatide, un peptide che possiede in parte una sequenza omologa al GLP1, ma un’emivita ben più lunga del GLP1, quando somministrato in modo continuo (per 3 giorni con pompa osmotica) determina effetti osteogenici in ratti con insulino-resistenza, e interagisce con la via Wnt promuovendo una formazione ossea e quindi un incremento della BMD [40]. A oggi non esistono dati in letteratura riguardo gli effetti sul metabolismo osseo e sulla BMD degli inibitori del DPP-IV, sitagliptin e vildagliptin. Comunque, considerando che l’effetto finale degli inibitori del DPP-IV è quello di prolungare l’azione del GLP1, l’azione sul tessuto osseo potrebbe essere del tutto simile a quella del GLP1 e, quindi, di tipo osteo-anabolizzante.
Terapia dell’osteoporosi nel paziente diabetico La gestione del paziente diabetico con osteoporosi può risultare una reale sfida per il medico che dovrà affrontare la cronicità e le frequenti complicanze di entrambe le patologie. L’esercizio fisico è sicuramente un obiettivo terapeutico da perseguire. È noto come la sensibilità insulinica aumenti con l’attività fisica aerobica e come similmente l’incremento della massa muscolare e della forza fisica prevenga le cadute e stimoli a mantenere la massa ossea, con un effetto positivo sulla salute del tessuto scheletrico aumentando la formazione e riducendo contemporaneamente il riassorbimento osseo. Dal punto di vista nutrizionale i pazienti diabetici, in particolare quelli in età avanzata, necessitano di una supplementazione di calcio e vitamina D, efficace nelle popolazioni anziane al fine di ridurre il rischio di frattura. La supplementazione di 1 g/die di calcio carbonato e di 800 UI di vitamina D sono raccomandabili nella gestione dei pazienti osteoporotici [41], a maggior ragione se diabetici. Un equilibrato intake proteico è fondamentale per mantenere la funzione muscolo-
scheletrica e quindi, per prevenire le cadute, e determinare un’influenza positiva sulla massa ossea stessa.
w Terapia Farmacologica È ragionevole affermare che di fronte a pazienti diabetici con osteoporosi i farmaci che risultano efficaci nel prevenire le fratture siano gli stessi di quelli impiegati nella popolazione osteoporotica non diabetica (Tabella 3). È comunque, doveroso segnalare che non esistono trial specifici relativi alla terapia anti-fratturativa nella popolazione diabetica. I farmaci maggiormente impiegati nella prevenzione e cura dell’osteoporosi risultano essere i SERMs come il raloxifene, diversi bifosfonati, il PTH e il teriparatide, il ranelato di stronzio. Il raloxifene previene la riduzione della massa ossea e riduce il rischio di frattura vertebrale sia in prevenzione primaria che secondaria. Importante è considerare l’aumentata incidenza di trombosi venosa profonda nei pazienti trattati con raloxifene, a fronte di una riduzione del 60 per cento dell’incidenza di carcinoma mammario. Infine, il RUTH Study, condotto su pazienti a elevato rischio cardiovascolare, come del resto sono da considerare i pazienti diabetici, non ha dimostrato una significativa riduzione della mortalità per cause cardiache [42]. I bifosfonati sono molecole di sintesi che mostrano una forte affinità per il tessuto osseo del quale inibiscono il riassorbimento riducendo il reclutamento e l’attività degli osteoclasti con un incremento della loro apoptosi. L’alendronato e il risedronato nella formulazione settimanale sono le molecole maggiormente impiegate nella terapia dell’osteoporosi. L’alendronato con il FIT Study e il risedronato con il VERT Study hanno entrambi dimostrato l’efficacia di ridurre significativamente l’incidenza di frattura vertebrale e non-vertebrale. Un bifosfonato di più recente sintesi, lo zoledronato somministrato per via endovenosa, ha dimostrato di ridurre l’incidenza della frattura vertebrale del 70 per cento e del 40 per cento della frattura di femore [43]. La sicurezza di questa classe di farmaci è scarsamente limitata da rari
effetti gastrointestinali, come esofagiti, per i bifosfonati somministrati per via orale e da rari casi di osteonecrosi mandibolare, prevalentemente osservata nei pazienti oncologici e particolarmente immunocompromessi. Infine, deve essere considerata l’influenza negativa che i bifosfonati somministrati per via endovenosa possono avere sulla funzionalità renale. Questi ultimi dati divengono di particolare interesse nella popolazione diabetica dove è di più comune riscontro uno stato di immunocompromissione, e in particolare di insufficienza renale cronica. La terapia dell’osteoporosi si è arricchita negli ultimi anni di molecole con effetto anabolizzante sulla massa ossea piuttosto che esclusivamente antiriassorbitivo. Il ranelato di stronzio ha una doppia azione sul tessuto osseo inibendo il riassorbimento e contemporaneamente stimolando la formazione ossea determinando un effetto positivo sulla massa ossea. La riduzione delle fratture vertebrali e non-vertebrali è risultato paragonabile a quello già descritto per i bifosfonati [44,45]. Inoltre, recentemente questo farmaco ha dimostrato di mantenere l’efficacia anti-fratturativa a fronte di una buona sicurezza anche dopo 10 anni di trattamento [46]. Tali risultati sono stati ottenuti in popolazioni femminili alle quali, pertanto, il farmaco è strettamente indicato, a differenza dei bifosfonati il cui impiego è allargato al sesso maschile. Nella popolazione diabetica con insufficienza renale da lieve a moderata, il farmaco non ha necessità di aggiustamento del dosaggio, mentre non è indicato nei pazienti con una riduzione della clearance della creatinina al di sotto dei 30 ml/min. Gli effetti collaterali più comuni sono legati alla presenza di nausea e diarrea che tendono ad attenuarsi nel tempo. Il dato più interessante, invece, è quello di una maggiore incidenza di casi di trombosi venosa profonda, osservata negli studi di approvazione del farmaco. Non è noto il meccanismo eziopatologico che legherebbe il ranelato di stronzio alla trombosi venosa profonda, ma sebbene la relazione non sia così stretta e frequente, la presenza di trombosi venosa profonda o la storia positiva per tale pa-
tologia controindicano il trattamento del paziente con ranelato di stronzio [47]. Una secondo gruppo di farmaci che ha dimostrato un effetto anabolico sul tessuto osseo è quello dei peptidi derivati del paratormone. Il frammento 1-34 del PTH, ovvero il teriparatide, e la molecola intatta 1-84 del PTH hanno entrambi dimostrato di ridurre il rischio di frattura vertebrale, mentre relativamente alle fratture non-vertebrali solo il teriparatide ha provato una certa efficacia [48-49]. In particolare, il teriparatide ha dimostrato un ottimo rapporto rischio/beneficio fino a un periodo di trattamento di 24 mesi, intervallo di tempo per il quale il SSN attualmente prevede il trattamento con tale molecola. Inoltre, alcuni studi hanno riportato che l’effetto si mantiene anche dopo 30 mesi dall’interruzione della terapia e che il successivo trattamento con farmaci antiriassorbitori o a doppia componente, come il ranelato di stronzio, non perde di efficacia [49,50]. I più comuni effetti collaterali del teriparatide sono nausea, cefalea e dolori agli arti, tutti effetti che tendono a divenire trascurabili con il passare di minuti oppure ore dalla somministrazione. È stata descritta la possibilità di avere ipotensione ortostatica, effetto trascurabile e che non compromette il prosieguo della terapia nella popolazione generale, ma che nel paziente diabetico, nel quale il sistema nervoso autonomo può essere già compromesso da una disautonomia diabetica, l’effetto può risultare più marcato e meno trascurabile. Il trattamento è controindicato nelle condizioni di ipercalcemia, ipercalciuria o per meglio dire in tutte quelle condizioni, in cui il tessuto osseo dimostra un turnover elevato. Infine, un’ultima considerazione può essere fatta relativamente alla via di somministrazione che per il teriparatide è sottocutanea con device perfettamente simili a quelli impiegati per la somministrazione di insulina. Questo potrebbe essere un vantaggio se consideriamo che il paziente può risultare già ampiamente istruito sulle modalità di somministrazione del farmaco, riducendo quindi la diffidenza che in generale può esistere quando si intraprende una terapia sot-
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patologie metaboliche tocutanea. Allo stesso tempo, potrebbe esserci lo svantaggio legato all’aumento delle iniezioni giornaliere con un impatto negativo sull’aderenza. Al riguardo, è necessario fare un’ultima considerazione circa la gestione terapeutica dell’osteoporosi nei pazienti diabetici. Infatti, la mancata aderenza alla terapia è un problema molto diffuso. Si stima infatti, che meno del 50 per cento dei pazienti in terapia cronica risulti “compliante” alla terapia prescritta e che il rischio di mancata aderenza alla terapia aumenti con il prolungarsi della terapia stessa. Questo dato è vero per i pazienti osteoporotici e ancor più per i pazienti diabetici nei quali, il numero di farmaci somministrati è significativamente superiore rispetto a una popolazione generale di confronto. La possibilità di migliorare questo aspetto presenta notevoli difficoltà, in particolare nel trattamento di una patologia come l’osteoporosi che normalmente non può giovare della misurazione degli effetti terapeutici su sintomi o su misurazioni di riferimento, come invece possono risultare l’ipertensione arteriosa o l’ipercolesterolemia. L’aderenza alla terapia è di fondamentale importanza visto che la sua mancanza corrisponde a un aumentato rischio di eventi [51]. Tutte queste riflessioni ci portano a considerare nei pazienti diabetici un reale vantaggio la possibilità di allungare l’intervallo di somministrazione dei farmaci anti-fratturativi. La somministrazione mensile nonché annuale di farmaci con dimostrata efficacia antifratturativa sembra offrire un miglioramento della compliance del paziente diabetico, gravato spesso da una polifarmacoterapia.
considerazioni conclusive In sintesi, il paziente osteoporotico con comorbilità diabetica presenta un rischio di frattura aumentato e pertanto, dovrebbe essere trattato con quei farmaci appartenenti all’ampia scelta di molecole validate in tal senso nella popolazione generale.
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È comunque da sottolineare che il paziente diabetico presenta spesso numerose complicanze e una polifarmacoterapia, fattori questi che dovrebbero influenzare la scelta del farmaco in maniera individuale. È infatti, opportuno trovare un delicato equilibrio tra gli effetti anti-fratturativi, gli effetti collaterali dei farmaci che nel paziente diabetico possono essere accentuati rispetto alla popolazione generale, e l’aderenza alla terapia, che assume particolari significato e ruolo nel successo sulla patologia osteoporotica.
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prevenzione
SALE: quale correlazione con L’IPERTENSIONE ARTERIOSA e come RIDURNE IL CONSUMO è documentata L’associazione tra ipertensione, tendenza all’aumento della Pa con l’età e assunzione abituale di sale, in ragione del suo contenuto in sodio. le iniziative nazionali per limitarne l’assunzione
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algrado numerose iniziative istituzionali da parte dell’OMS, dell’Unione Europea, di varie autorità nazionali, e le relative campagne di educazione al pubblico, il consumo di sale rimane elevato. Si calcola che nella maggior parte dei Paesi sviluppati ogni individuo ne assuma in media 9-10 g al giorno, corrispondenti a circa 4 g di sodio (Tabella 1) (1,2). Ricordiamo due degli appelli dell’ultimo decennio volti a correggere questo uso. Nel 2003 un rapporto congiunto OMS/ FAO sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari e cronico-degenerative, raccomandava di ridurre il consumo di sale al di sotto dei 5 g al giorno (circa 2 g di sodio/die), e di assicurare la diffusione della variante iodata (3) (box pag. 23). Nel 2011 l’American Heart Association (AHA) ha pubblicato una “chiamata all’azione” per la riduzione del sale nella dieta degli statunitensi come mezzo per prevenire le malattie cardiovascolari e l’ictus (4). Obiettivo di questo appello è un introito di sodio non superiore a 1.500 mg al giorno, in linea con quanto già raccomandato nell’aggiornamento 2010 delle USA Dietary Guidelines (5). Uno studio recente ha messo in dubbio
a cura di Piera Parpaglioni
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la fattibilità di tale limitazione, che richiederebbe un cambiamento profondo delle scelte dietetiche degli americani e/o della produzione dei cibi da loro consumati (6). Tutte le autorità scientifiche comunque concordano su un punto: nei Paesi sviluppati, la maggior parte dell’apporto giornaliero di sale deriva dagli alimenti preparati con procedimenti industriali o artigianali e dal sodio “nascosto” in molti cibi non percepiti come salati; una quota minore deriva dall’aggiunta discrezionale da parte del singolo individuo in cucina o a tavola (Figura 1) (7,8). Le iniziative istituzionali per diminuire il sodio aggiunto durante la lavorazione degli alimenti, ovvero la quota non discrezionale, sono ritenute prioritarie. Come vedremo, le strategie adottate in varie nazioni, tra cui l’Italia, partono proprio da modifiche progressive da attuare attraverso accordi con le categorie dei produttori. Naturalmente questi provvedimenti dovrebbero essere affiancati da interventi di educazione alimentare e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, come la “World Salt Awareness Week” che si celebra ogni anno in tutto il mondo intorno al 21-27 marzo. Dalla mole di studi sull’argomento, richiamiamo in queste pagine alcuni dei risultati più recenti o più significativi riguardanti gli effetti di una riduzione dell’introito di sodio sulla pressione arteriosa e sugli
eventi cardiovascolari. Facciamo inoltre il punto sulle iniziative in corso in Italia e in Europa per ridurre la quantità di sale aggiunta agli alimenti.
SODIO E MALATTIA CARDIOVASCOLARE Secondo il World Health Report 2002 dell’OMS, il 62 per cento dei casi di ictus cerebrale e il 49 per cento dei casi di cardiopatia ischemica sono attribuibili all’ipertensione arteriosa (9). La correlazione tra pressione arteriosa (PA) e malattia cardiovascolare (CVD) è lineare e continua, senza una soglia evidente, vale a dire che il rischio cardiovascolare aumenta progressivamente già all’interno del range pressorio di normalità, a partire da un livello di circa 115/75 mm Hg, e questo significa che nella maggior parte dei Paesi oltre l’80 per cento degli adulti è a rischio di CVD (10). L’associazione tra consumo abituale di sale, prevalenza di ipertensione arteriosa e tendenza all’aumento della PA con l’età è stata documentata da importanti studi epidemiologici (Intersalt e Intermap). Il maggiore studio internazionale, l’INTERSALT (11), condotto su oltre diecimila individui arruolati in 32 Paesi, mostrò che l’escrezione urinaria di sodio nelle 24 ore (misura della quantità assunta con la dieta) era significativamente correlata con la PA e che gli individui con i valori di sodio più bassi avevano una PA inferiore e un aumento molto contenuto o nessun aumento pressorio con l’età. L’escrezione di potassio era correlata in modo negativo con la PA. La correlazione tra rapporto sodio/potassio e PA seguiva un pattern simile a quello del sodio.
Ma il consumo di sale è correlato con lo sviluppo di CVD e con il danno d’organo anche in modo diretto, non dipendente dall’azione sulla pressione arteriosa (Figura 2). È stato dimostrato che l’eccesso di sodio promuove l’ipertrofia ventricolare sinistra, la fibrosi cardiaca, renale e vascolare, la progressione della malattia renale e della proteinuria, e aggrava la rigidità delle grosse arterie legata all’invecchiamento (4,10,12). Gli effetti dannosi per la salute non si fermano qui. Un elevato introito di sodio determina un aumento dell’escrezione urinaria di calcio, quindi accresce il rischio di formazione di calcoli renali contenenti calcio e di osteoporosi conseguente alla mobilizzazione del calcio osseo. La dieta salata è anche correlata indirettamente con l’obesità, in quanto favorisce il consumo di bevande zuccherate e caloriche. È nota inoltre un’associazione diretta e significativa tra il consumo di sale e il cancro gastrico, e alcune evidenze epidemiologiche suggeriscono una sua possibile associazione con la severità dell’asma.
w Riduzione del sodio e PA Due interventi efficaci in prima battuta per ridurre la pressione arteriosa sono la diminuzione del consumo di sale e la riduzione del peso corporeo attraverso opportune correzioni della dieta e dello stile di vita (13) (Tabella 2). L’impatto del sale e della dieta sulla pressione arteriosa è stato studiato in modo
Tabella 1
A. Quantità equivalenti di sodio e di sale* Sodio (mg)
Sodio (mEq/mmol)
Sale (g)
1.200
51
3,0
2.000
87
5,0
2.400
104
6,0
4.000
174
10
B. Fabbisogno giornaliero di sodio in condizioni di vita normale** 460 mg
20 mEq
(coperto dal sodio naturalmente presente negli alimenti) Fonte: *Mohan S, Campbell NRC. Clin Sci 2009. **GIRCSI, www.menosalepiusalute.it.
rigoroso nel DASH-sodium trial (Dietary Approaches to Stop Hypertension) che ha esaminato gli effetti pressori di tre differenti introiti di sodio (compresi fra 3,5 e 1,2 g/die) abbinati a due diversi regimi alimentari: la dieta DASH (ricca di verdura, frutta e latticini a basso tenore di grassi), e una dieta di controllo tipica degli Stati Uniti (14). Il maggior decremento della PA (riduzione di 8,9 mm Hg nella sistolica e di 4,5 mm Hg nella diastolica) si è registrato nel confronto tra i soggetti con la dieta di controllo e un elevato introito di sodio e i soggetti con la dieta DASH e l’introito di sodio più basso. Una ulteriore analisi dello studio ha evidenziato che la riduzione del sodio al di sotto di 1.500 mg/die abbassava la PA in misura maggiore negli individui anziani
rispetto ai giovani. La pressione sistolica diminuiva di 8,1 mm Hg nel range di età 55-76 anni, rispetto a una riduzione di 4,8 mm Hg nel range 23-41 anni. Nei soggetti non ipertesi la pressione diminuiva di 7 mm Hg per un’età >45 anni, rispetto a 3,7 mm Hg al di sotto dei 45 anni. Diete povere di sale possono quindi aiutare a contrastare l’innalzamento della pressione legato all’età. A oggi, oltre 50 studi randomizzati e varie metanalisi hanno valutato gli effetti della riduzione del sodio sulla PA in soggetti adulti. Si rimanda ai riferimenti bibliografici per esposizioni più ampie (10,15,2).
w Ridurre il sale previene gli eventi CV? Per provare in modo definitivo questa
Figura 1
Distribuzione del sodio negli alimenti Aggiunto in cucina o a tavola 36%
Negli alimenti conservati e precotti 54%
Dati italiani*
Negli alimenti lavorati/della ristorazione 77%
Naturalmente presente negli alimenti 10%
Aggiunto in cucina 5%
Dati europei**
Aggiunto a tavola 6% Naturalmente presente negli alimenti 12%
Fonte: *Progetto cuore, www.cuore.iss.it. **European Commission.
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prevenzione Figura 2
Correlazione tra assunzione di sale e danno d’organo* Meccanismi proposti
Elevata assunzione di NaCl
Forze che agiscono sull’endotelio
Aumento del tono vasale +aldosterone
TGF-beta1 Diminuita compliance arteriosa
Disfunzione endoteliale
NO
Vasocostrizione periferica
Stress ossidativo
Danno d’organo Note: *mediato da alterazioni strutturali e funzionali dei vasi sanguigni. Fonte: modificato da Sanders PW. Am J Physiol Renal Physiol 2009.
ipotesi servirebbero trial randomizzati controllati (RCT) che valutassero a lungo termine gli effetti di una riduzione del sale sulla morbilità e la mortalità per malattie cardiovascolari. Al momento non disponiamo di studi di questo genere, ed è poco probabile che essi verranno mai effettuati,
per difficoltà pratiche, lunga durata, costi, problemi etici (dati i molteplici effetti del sodio sulla salute). Tuttavia esistono evidenze indirette provenienti da studi prospettici condotti nelle ultime tre decadi e da lavori di metanalisi (Tabella 3) (16).
Come riferimento, citiamo la recente metanalisi a cura di Strazzullo e coll. apparsa sul BMJ (17), che ha esaminato 13 studi rilevanti pubblicati tra il 1996 e il 2008, per un totale di oltre 177mila partecipanti e 11mila eventi cardiovascolari registrati. L’analisi ha evidenziato che un elevato consumo di sale si associava in modo dose-dipendente a un aumento significativo del rischio di ictus e di eventi cardiovascolari in generale. Una riduzione del sale di 5 g al giorno si associava a una diminuzione del 23 per cento dell’incidenza di ictus e del 17 per cento dell’incidenza di CVD. Sulla base di questi dati gli Autori hanno stimato che, ogni anno, una riduzione del sale di 5 g/die estesa a tutta la popolazione potrebbe risparmiare circa 1 milione e 250mila morti per ictus e circa 3 milioni di morti per CVD nel mondo. In tema di costo-efficacia delle politiche di riduzione del consumo di sale nella popolazione, uno studio del 2010 pubblicato sul New England (18) ha calcolato quanto si potrebbe risparmiare in termini di morbilità, di mortalità e di costi, con una riduzione di 3 g/die del consumo di sale nella popolazione (pari a 1.200 mg di sodio in meno al giorno). È stato calcolato che un simile intervento potrebbe risparmiare ogni anno negli Stati Uniti da 60mila a 120mila nuovi casi di cardiopatia ischemica, da 32mila a 66mila nuovi casi di ictus, da 54mila a
SODIO E POTASSIO DELLA DIETA DEGLI ITALIANI Risultati preliminari dallo Studio Minisal I dati attualmente disponibili riguardano 8 campioni di popolazione adulta (784 uomini e 800 donne, età 35-79 anni) arruolati in diverse Regioni nell’ambito del Progetto Cuore dell’Iss tra il 2008 e il 2011 (25). In base ai rilievi eseguiti, l’escrezione urinaria media di sodio è stata stimata in 191 mmol (equivalente a un introito di sale di 11,2 g/die) negli uomini, e in 147 mmol (pari a un introito di sale di 8,7 g/die) nelle donne. Il 97 per cento degli uomini e l’88 per cento delle donne ha un consumo di sale ampiamente superiore a quello raccomandato dall’OMS (5 g/die). L’escrezione urinaria media di potassio è stata stimata in 61 mmol (equivalente a un introito di 2,3 g/die) negli uomini, e in 52 mmol (pari a un introito di 2,1 g/die) nelle donne. Pertanto il 95 per cento degli uomini e il 98 per cento delle donne ha una dieta povera di potassio, con livelli ben inferiori ai 3,9 g/die raccomandati dalle Società europea e americana per la prevenzione dell’ipertensione arteriosa. Il rapporto sodio/potassio medio risulta di 3,1 negli uomini e di 2,8 nelle donne, a fronte di un valore desiderabile stimato <1. Si evidenzia inoltre una forte associazione diretta tra sovrappeso/obesità ed eccessivo apporto di sodio. Un’altra indagine condotta nel 2010-2011 su 1.284 soggetti ipertesi, afferenti ai Centri per l’Ipertensione sparsi sul territorio, mette in luce che i pazienti ipertesi maschi consumano appena 1 g di sale in meno rispetto alla popolazione generale e le donne ipertese appena 0,5 g in meno. Anche tra gli ipertesi, i soggetti obesi consumano mediamente più sale (circa 1,6 g/die) rispetto ai normopeso.
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Tabella 2
Meccanismi cardiovascolari legati all’ipertensione arteriosa ed effetti terapeutici della riduzione del sale, di una dieta sana e della perdita di peso A. Dieta a elevato contenuto di sodio e di calorie Aumento della pressione arteriosa Aumento dell’attività del Sistema Nervoso Simpatico (SNS) Le grandi arterie diventano meno elastiche Gli elevati livelli di sodio attivano l’angiotensina II locale nel cuore e nelle arterie Aumento della gettata cardiaca Natriuresi anomala e ritenzione di sodio Aumento dell’angiotensina II tessutale nel rene e nelle ghiandole surrenali L’aumento del grasso addominale accresce ulteriormente la rigidità arteriosa, l’attività del SNS e i livelli di angiotensina II Fattori intrinseci renali (genetici e prenatali) regolano l’escrezione di sodio Proliferazione e rimodellamento delle cellule muscolari lisce Disfunzione endoteliale nei piccoli vasi di resistenza Aumento delle resistenze periferiche B. Dieta a basso contenuto di sodio e di calorie Diminuzione della pressione arteriosa La perdita di peso riduce l’attività del SNS La perdita di peso, il basso introito di sodio e la dieta sana riducono la rigidità delle grosse arterie La dieta sana migliora l’escrezione renale di sodio La perdita di peso, il basso introito di sodio e la dieta sana migliorano la funzione dei piccoli vasi di resistenza e diminuiscono le resistenze periferiche Diminuzione del grasso addominale Fonte: modificato da Sacks FM, Campos H. N Engl J Med 2010.
prevenzione Tabella 3
Riduzioni previste dei decessi per cerebropatia ischemica e per cardiopatia con una riduzione del consumo di sale in Europa Riduzione del consumo giornaliero di sale (g)/sodio (mmol) 3 g/die
6 g/die
9 g/die
(50 mmol/die)
(100 mmol/die)
(150 mmol/die)
SBP
DBP
SBP
DBP
SBP
DBP
Diminuzione media della pressione arteriosa (mm Hg)
2,5
1,4
5,0
2,8
7,5
4,2
Riduzione delle morti per ictus (%)
12
14
23
25
32
36
Morti per ictus prevenute in Europa per anno
39.698
46.314
76.088
82.704
105.861
119.094
9
10
16
19
23
27
45.590
50.656
81.050
96.247
116.509
136.771
Riduzione delle morti per cardiopatia ischemica (%) Morti per cardiopatia ischemica prevenute in Europa per anno
Note: SBP, pressione arteriosa sistolica; DBP pressione arteriosa diastolica. Fonte: modificato da He FJ. Hypertension 2003.
99mila nuovi casi di infarto miocardico e da 44mila a 92mila decessi per cause di ogni tipo. Tutto ciò si tradurrebbe in un risparmio sulla spesa sanitaria in dollari da 10 a 24 miliardi l’anno. Secondo gli Autori, anche una riduzione più modesta di solo 1 g al giorno nell’arco di un decennio “avrebbe un rapporto costo-efficacia migliore di un impiego di farmaci antipertensivi esteso a tutti i soggetti ipertesi”.
w Controversie Qualche studio ha messo in discussione l’utilità e la sicurezza degli interventi di riduzione generalizzata del sale nella popolazione. È il caso di due lavori pubblicati nel 2011. Secondo uno studio europeo apparso su JAMA (19), la pressione sistolica, ma non la diastolica, risultava correlata all’escrezione urinaria di sodio, e questa associazione non si traduceva in un maggior rischio di ipertensione o
Tabella 4
Contenuto in sodio e in sale per 100 g di alcuni alimenti Alimento (100g)
Sodio (mg)
Sale (g)
Prosciutto di Parma
2.587
6,5
Salame tipo Milano
1.497
3,7
Salsiccia di suino cruda
1.100
2,6
Zampone confezionato precotto
762
1,7
Margarina vegetale
800
1,8
Parmigiano
600
1,5
Fagioli cannellini secchi o crudi
5
<0,1
Fagioli cannellini in scatola
431
1,1
Salmone fresco
98
0,2
1.880
4,7
317
0,8
Salmone affumicato Pane tipo rosetta
Fonte: modificata da Galeone D. Strategia europea e Programma nazionale “Guadagnare salute”. Convegno del Ministero della Salute, Roma 2010.
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di CVD. Anzi, una minore escrezione di sodio era associata a una più alta mortalità cardiovascolare. Tuttavia l’indagine ha ricevuto critiche dal mondo scientifico: campione scarso (3.681), età media al baseline troppo giovane (40 anni), confusione creata nel proiettare i risultati alla popolazione generale. Anche una revisione della Cochrane Collaboration (20) ha riportato una “evidenza insufficiente” circa l’effetto di una riduzione del sale sulla mortalità e la morbilità cardiovascolare, e ha espresso dubbi sulla potenziale pericolosità della restrizione di sodio nei soggetti con scompenso cardiaco, avendo riscontrato in questo gruppo un aumentato rischio di mortalità, da approfondire con ulteriori studi controllati. Due Autori di numerosi studi in materia, He e MacGregor, hanno criticato su Lancet (21) questa revisione, obiettando che su 7 trial esaminati uno dovesse essere escluso, proprio perché riguardante pazienti affetti da scompenso cardiaco, quindi con una deplezione di sodio e di acqua causata dalla terapia diuretica aggressiva. I risultati non significativi derivanti dagli altri 6 trial sono stati invece ascritti al metodo di analisi adottato, che considerava i soggetti ipertesi e i normotesi separatamente, anziché insieme. Si ribadiva che i dati raccolti fino a oggi
mostrano benefici sostanziali derivanti dalla riduzione del sale, che rimane una delle tre “priority actions” raccomandate dall’OMS per la sfida globale alle malattie non trasmissibili.
RUOLO DEL POTASSIO Esiste una relazione inversa tra il potassio assunto con la dieta e la PA. Studi controllati hanno mostrato un effetto favorevole (statisticamente significativo in alcuni casi) di una supplementazione di potassio o di una dieta ricca di potassio (con abbondanza di vegetali e di frutta) in soggetti ipertesi (22,23). Come già visto per il sodio, e per gli stessi problemi di esecuzione, mancano RCT circa gli effetti a lungo termine di un aumentato introito di potassio sulla morbilità e la mortalità cardiovascolare. Esistono però i dati degli studi prospettici che nelle ultime tre decadi hanno indagato l’associazione tra quantità di potassio nella dieta abituale e incidenza di eventi cardiovascolari. La più ampia metanalisi finora condotta (24), su 11 studi per un totale di quasi
Poco sale e solo iodato: indicazioni del Ministero e dell’INRAN È disponibile in commercio sale iodato (sia fino che grosso), cioè sale comune al quale è stato aggiunto iodio sotto forma di ioduro e/o iodato di potassio. Non è un prodotto dietetico destinato a particolari categorie di individui, ma un alimento che dovrebbe diventare di uso corrente. Sia l’Organizzazione Mondiale per la Sanità che il Ministero della Salute italiano ne consigliano l’uso a tutta la popolazione, al fine di prevenire o correggere quella carenza di iodio che anche in Italia è piuttosto diffusa. Il sale iodato ha lo stesso sapore e le stesse caratteristiche del sale comune, e deve essere utilizzato a tutte le età e in tutte le condizioni fisiologiche in sostituzione del sale normale, ma con la stessa moderazione raccomandata per il sale non iodato. La riduzione dei disturbi da carenza alimentare di iodio è un obiettivo primario di salute pubblica secondo l’OMS e la FAO. A tal fine il Ministero della salute ha promosso la Legge n. 55/21 marzo 2005 concernente “Disposizioni finlizzate alla prevenzione del gozzo endemico e di altre patologie da carenza iodica” per la realizzazione di programmi di monitoraggio della iodoprofilassi in Italia allo scopo di migliorare gli interventi in tema di carenza iodica. Le quantità di iodio assunte con gli alimenti, infatti, non sono sufficienti a garantirne un apporto adeguato. Le dosi giornaliere consigliate sono di 150 mcg negli adulti 175 mcg nelle donne incinta e 200 mcg nelle donne che allattano. Fonte: www.inran.it; www.salute.gov.it.
250mila partecipanti, ha evidenziato che l’assunzione di maggiori quantità di potassio si associava a una incidenza inferiore di ictus e a una riduzione (anche se non statisticamente significativa) dell’incidenza di cardiopatia ischemica e di CVD in gene-
Tabella 5
Alcuni consigli per ridurre gradualmente il consumo di sale Non aggiungere sale nelle pappe dei bambini almeno per tutto il primo anno di vita. Limitare l’uso di condimenti alternativi contenenti sodio quali dado da brodo, salsa di soia, ketchup, senape ecc. Insaporire i cibi con erbe aromatiche (es. aglio, cipolla, basilico, prezzemolo, rosmarino, salvia, origano, maggiorana, sedano, porro, timo, semi di finocchio) e spezie (es. pepe, peperoncino, noce moscata, zafferano, curry ecc.). Esaltare il sapore dei cibi usando succo di limone o aceto. Scegliere, quando sono disponibili, linee di prodotti a basso contenuto di sale (es. pane senza sale, tonno in scatola a basso contenuto di sale ecc.). Consumare solo saltuariamente alimenti trasformati ricchi di sale quali snack salati, patatine in sacchetto, olive da tavola, alcuni salumi e formaggi. Nell’attività sportiva moderata reintegrare con semplice acqua i liquidi persi con la sudorazione. Fonte: www.inran.it.
rale. Per un aumento medio di 1,64 g (42 mmol) di potassio al giorno, la riduzione del rischio di ictus era del 21 per cento. Secondo gli Autori, questo effetto protettivo del potassio si può ragionevolmente correlare con la riduzione della PA (in particolare in individui ipertesi e/o con elevato introito di sodio), ma è probabile che sia fondato anche su altri meccanismi, come per esempio l’inibizione della formazione di specie reattive dell’ossigeno e della proliferazione di cellule muscolari lisce vascolari.
RIDURRE IL SALE: INIZIATIVE IN EUROPA E IN ITALIA A partire dal 2008 numerosi Paesi europei, tra cui l’Italia, si sono impegnati a realizzare azioni concrete per ridurre il contenuto di sale nei cibi e rendere così più facile il raggiungimento dei 2 g di sodio al giorno raccomandati dall’OMS. Sono state individuate alcune categorie di alimenti prioritarie sia per la quantità di sale in esse contenuta, sia per la frequenza del consumo: cibi confezionati e precotti in generale, pane, formaggi, salumi e carni. A ogni Paese spetta il compito di realizzare piani nazionali e di stabilire accordi con l’industria alimentare e le associazioni di produttori.
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prevenzione Programmi importanti sono stati avviati da tempo in alcune nazioni. Apripista la Finlandia, che già dagli anni Settanta ha disposto varie misure: obbligo di evidenziare in etichetta l’elevato contenuto di sodio, campagne informative per sensibilizzare i cittadini, aziende che di conseguenza hanno ridotto volontariamente il sale nei loro prodotti, monitoraggio frequente dell’eliminazione urinaria di sodio su campioni di popolazione. Il Regno Unito si è impegnato soprattutto attraverso accordi con l’industria alimentare per dare un taglio deciso al sodio in molti cibi di ampio consumo (con riduzioni anche del 30-40 per cento). Sulla stessa scia sono da alcuni anni anche Irlanda, Francia, Spagna.
w In Italia Meno sale nel pane. Il programma “Guadagnare salute” promosso dal Ministero della Salute nel 2007 ha tra i suoi obiettivi la riduzione del consumo di sale nella popolazione. Analogo obiettivo è perseguito dal GIRCSI (Gruppo di Lavoro Intersocietario per la Riduzione del Consumo di Sale in Italia) al quale aderiscono numerose Società scientifiche nazionali (2,25). Nel 2009 il Ministero ha siglato protocolli d’intesa con i produttori di pane sia artigianali sia industriali per diminuire il contenuto di sale del 15 per cento entro il 2011. Rispetto ad altri prodotti più ricchi di sodio (come formaggi e insaccati) (Tabella 4) (26) il pane è presente tutti i giorni sulla tavola ed è consumato da adulti e bambini, pertanto è stato individuato come il primo alimento su cui intervenire, con una riduzione contenuta non percepibile al gusto. Analoghi accordi dovrebbero essere estesi progressivamente ad altri settori come la ristorazione, le mense scolastiche, ospedaliere e aziendali, e coinvolgere gli organi di informazione per campagne educative (Tabella 5) (27). Per seguire gli sviluppi delle iniziative (auspicando che ve ne siano) si può fare riferimento ai siti del GIRCSI (www.menosalepiusalute.it) e del programma Minisal (consultabile su www.ccm-network.it/node/1015 e su www.cuore.iss.it/prevenzione/sale.asp).
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CONCLUSIONI L’ampia disponibilità di farmaci antipertensivi ha probabilmente favorito una mancanza di attenzione da parte dei medici verso l’eccesso di sale nella dieta. Gli studi degli ultimi anni tuttavia suggeriscono che promuovere con convinzione una dieta contenente quantità di sodio e di potassio in linea con le attuali raccomandazioni potrebbe avere effetti terapeutici paragonabili o superiori a quelli delle terapie farmacologiche e un rapporto costoefficacia più favorevole.
Bibliografia 1. Mohan S, Campbell NRC. Salt and high blood pressure. Clin Sci 2009;117:1-11 e 2. Gruppo Intersocietario di Intervento sul Consumo di Sale in Italia (GIRCSI). Documento di base per una iniziativa in favore della riduzione del consumo di sale in Italia. www.menosalepiusalute.it/default.asp?pagina=missione.asp (ultimo accesso 10/02/2012). 3. World Health Organization. Diet, nutrition and the prevention of chronic diseases. Report of a Joint WHO/FAO Expert Consultation. Geneva, 2003. (WHO Technical Report Series No. 916). 4. Appel LJ, Frohlich ED et al. The importance of population-wide sodium reduction as a means to prevent cardiovascular disease and stroke. A call to action from the American Heart Association. Circulation 2011; 123: 1138-43. 5. Dietary Guidelines for Americans, 2010. www.dietaryguidelines.gov. 6. Maillot M, Drewnowski A. A conflict between nutritional adequate diets and meeting the 2010 Dietary Guidelines for sodium. Am J Prev Med 2012; 42: 174-9. 7. Progetto cuore, www.cuore.iss.it/prevenzione/pdf/sale_broch4pag.pdf. 8. European Commission. Collated information on salt reduction in the EU, 2008. (http:// ec.europa.eu/health/). 9. World Health Organization. The World Health Report 2002 - Reducing risks, promoting healthy life. Geneva, 2002. 10. He FJ, MacGregor CA. A comprehensive review on salt and health and current experience of worldwide salt reduction programmes. J Hum Hypertens 2009; 23: 363-84. 11. Intersalt Cooperative Research Group. Intersalt: an international study of electrolyte excretion and blood pressure. Results for 24 h urinary sodium and potassium excretion. BMJ 1988; 297: 319-28. 12. Sanders PW. Vascular consequences of dieta
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02_praticaclinica_01
2-04-2010
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allergologia
i fenotipi dell’asma bronchiale Il ruolo degli antileucotrieni nell’ottica di una terapia personalizzata Un esempio di ottimizzazione terapeutica in chiave fenotipica può essere l’uso ragionato degli antileucotrieni. Attualmente rappresentate in italia dal montelukast, queste molecole sono antagonisti di mediatori flogistici potentissimi, i leucotrieni
L’
avvento delle Linee guida ha rappresentato un significativo progresso nel trattamento dell’asma bronchiale. Centrate sul concetto dell’infiammazione come elemento patogenetico fondamentale della broncoostruzione e sulla necessità di un trattamento prolungato per ridurne gli effetti negativi sul piano clinico e funzionale, con la loro ampia diffusione e implementazione nella classe medica hanno permesso un progresso evidenziabile nell’incremento delle vendite di steroidi inalatori e nella parallela riduzione della mortalità. Tuttavia il traguardo di un’ottimale gestione dell’asma è ancora lontano, se si considera che il controllo della patologia appare largamente insoddisfacente in gran parte d’Europa, e nel nostro Paese in particolare. Pur essendo molteplici i motivi, le principali ragioni sembrano ricondursi alla scarsa aderenza
Gianenrico Senna Unità Operativa di Allergologia Azienda Ospedaliero-Universitaria Integrata, Verona
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al trattamento oppure a un suo impiego non ottimale. La scarsa aderenza affonda le sue motivazioni nella diffusa percezione dell’asma come patologia sintomatica, per cui l’uso del farmaco si esaurisce rapidamente, risolta la riacutizzazione e raggiunto un soddisfacente controllo esclusivamente clinico. Per ovviare a questa problematica occorre una maggiore cultura nella classe medica, centrata sulla necessità di un trattamento prolungato volto a spegnere non solo la sintomatologia clinica, ma anche l’infiammazione, e proporre consensualmente più adeguati modelli gestionali ed educazionali che consentano regolari controlli della patologia da parte del medico curante.
L’asma, patologia eterogenea Un’altra problematica recentemente emersa nell’asma bronchiale è l’identificazione di un’eterogeneità clinica della patologia che si concretizza nell’individuazione di numerosi fenotipi. Una delle carenze delle Linee guida è infatti
la proposizione di un modello unico di malattia, sotteso da una comune patogenesi cui è orientato un trattamento che ha come esclusivi riferimenti l’intensità clinica e l’alterazione funzionale. In realtà quello che oggi è stato teorizzato come diversità fenotipica, è il tentativo di sistematizzare quella percezione di variabilità clinica che nasceva, e nasce, dall’osservazione quotidiana dell’asma (figura 1). L’identificazione dei diversi fenotipi di asma varia in rapporto alla prospettiva di valutazione, per cui esistono fenotipi in base al fattore scatenante (allergene, virus, aspirina), all’età (giovanile, postmenopausale, senile), al marker biologico prevalente (eosinofilo, neutrofilo, paucicellulare) (1).
Un trattamento mirato Sul piano pratico, e questa è la sfida del futuro, l’identificazione di diverse tipologie di asmatico non si esaurisce in semplice esercizio speculativo, ma ha come importante ricaduta il tentativo di una maggiore personalizzazione del trattamento, ovvero una terapia ritagliata sul paziente. Si tratta pertanto di un tentativo di rispettare il messaggio delle Linee guida adattandolo all’individualità dei singoli pazienti. Un esempio di ottimizzazione terapeutica in chiave fenotipica può essere l’uso ragionato degli antileucotrieni nell’asma. Queste molecole (attualmente rappresentate dal solo montelukast nel nostro mercato) sono antagonisti recettoriali di mediatori flogistici potentissimi, come i leucotrieni. Queste molecole,
che derivano dal metabolismo dell’acido arachidonico, non solo sono potenti broncocostrittori, ma posseggono anche un’importante azione chemiotattica nei confronti degli eosinofili, cellule responsabili della cronicità dell’infiammazione allergica. Un aspetto molto significativo sul piano terapeutico è rappresentato dall’inefficacia di potenti antinfiammatori come gli steroidi, orali e inalatori, nel ridurre la flogosi mediata dai leucotrieni (2). Pertanto, la razionalizzazione dell’uso del montelukast, che nelle Linee guida è potenziale opzione terapeutica in tutti i livelli di gravità dell’asma, esclusa la lieve intermittente (tabella 1), si concretizza in chiave fenotipica nell’individuare in quali asmatici è più espressa e quindi clinicamente più importante l’infiammazione mediata dai leucotrieni.
w Asma da sforzo Un bersaglio importante è rappresentato dall’età pediatrica. Infatti il montelukast si è dimostrato molto efficace nella prevenzione dell’asma indotto da esercizio fisico. A differenza dei beta2-agonisti a breve e a lunga durata d’azione, l’antileucotrienico non perde la sua efficacia nel
Figura 1
Evoluzione della terapia dell’asma
Fenotipi Linee guida 2000
Infiammazione 1990
Estrinseco/intrinseco 1940
1980
tempo, non presentando il problema della tolleranza (3). Sul piano pratico questo aspetto può essere vantaggiosamente sfruttato nel bambino, nel quale lo sforzo fisico è una costante quotidiana e in chi, più “grandicello”, pratica un’attività agonistica cadenzata da allenamenti regolari e di lunga durata. Un ulteriore vantaggio del montelukast nell’atleta professionista è che il farmaco non è presente nella lista dei farmaci potenzialmente dopanti. Va anche segnalato che l’efficacia del montelukast nell’asma da sforzo è documentata anche quando l’attività sportiva si svolge in ambienti inquinati, sia chiusi che all’aperto.
w Asma da infezioni virali In età pediatrica, accanto allo sforzo fisico uno dei fattori più importanti in grado di scatenare riacutizzazioni asmatiche è rappresentato dalle infezioni virali. Negli Stati Uniti, è stata identificata per la prima volta un’epidemia di asma che si presenta con regolarità nel periodo autunnale (settembre e ottobre), e che coincide con la ripresa dell’attività scolastica. La fase di riacutizzazione, documentata da un brusco incremento dei ricoveri o di accessi ai Dipartimenti d’Urgenza per attacchi asmatici, ha come responsabili le infezioni virali, prevalentemente da rinovirus (4). La suscettibilità alle infezioni pur con-
Tabella 1
Trattamento dell’asma secondo le Linee guida GINA 2011 Step 1
Step 2
Step 3
Step 4
Step 5
Programma di educazione/controllo ambientale Al bisogno, b2-agonisti a breve durata d’azione
Farmaci “controller” per la terapia a lungo termine
Al bisogno, b2-agonisti a breve durata d’azione
EVIDENZA A
Selezionare uno
Selezionare uno
Aggiungere uno o più
Aggiungere uno o più
ICS a basso dosaggio
ICS a basso dosaggio+b2agonista a lunga durata d’azione
ICS a medio o alto dosaggio+b2agonista a lunga durata d’azione
Glucocorticosteroidi orali (la dose più bassa)
Antileucotrieni
ICS a medio o basso dosaggio
Antileucotrieni
Trattamento con anti-IgE
ICS a basso dosaggio+antileucotrieni
Teofillina a rilascio controllato
EVIDENZA A
ICS a basso dosaggio+teofillina a rilascio controllato
EVIDENZA A
Note: le opzioni da preferire per la terapia al bisogno sono nei riquadri più scuri; ICS, corticosteroidi inalatori
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allergologia dizionata da fattori individuali (deficit di produzione di delta interferon gamma), sul piano patogenetico si esprime con un significativo rilascio di leucotrieni in seguito all’infezione virale. Su queste basi è stato disegnato con successo un trattamento profilattico dell’epidemia asmatica autunnale con antileucotrieni. I soggetti trattati continuativamente con montelukast rispetto al gruppo di controllo presentavano un numero significativamente maggiore di giorni liberi da asma, un numero di accessi in Pronto Soccorso significativamente inferiore, associato a un minore impiego di farmaci sintomatici (5). Il dato è stato confermato in successivi studi in età pediatrica, mentre è meno convincente negli adulti.
w Asma allergico Un altro tipo di asma molto comune in età pediatrica, ma frequente anche negli adulti è l’asma allergico. La recente ricerca ha sottolineato come l’asma allergico si associ quasi costantemente (70-80 per cento dei casi) a rinite allergica. Le due
patologie associate hanno un effetto di sinergia negativa nel senso che, se è vero che la rinite allergica è il più importante fattore di rischio per lo sviluppo di asma, la presenza di rinite costituisce un importante fattore di aggravamento e scarso controllo dell’asma. È pertanto opportuno identificare nell’allergico la presenza della comorbidità e trattare entrambe le patologie se coesistenti (6). Sul piano biologico la reazione allergica riconosce un analogo meccanismo patogenetico sia nelle alte che nelle basse vie respiratorie nel quale, il rilascio di leucotrieni causa ostruzione a livello bronchiale, e rinorrea e congestione nella mucosa nasale. L’uso del montelukast appare razionale potendo potenzialmente colpire simultaneamente due bersagli, sia i bronchi che il naso (figura 2). La conferma clinica viene da un’analisi post-hoc effettuata in un ampio studio clinico (COMPACT), che aveva come obiettivo primario il confronto tra l’efficacia della combinazione antileucotrienicosteroide inalatorio a basse dosi, rispetto
Figura 2
Scelte terapeutiche nel trattamento di asma e rinite allergica associati
Bronchi
Naso Corticosteroidi nasali, antistaminici anti-H1
Antileucotrieni ICS, β2-agonisti
Immunoterapia specifica Trattamenti immunologici non specifici Controllo degli allergeni, programma di educazione Note: ICS, corticosteroidi inalatori
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allo steroide ad alte dosi, in soggetti non sufficientemente controllati con l’uso di solo steroide a basse dosi. Lo studio ha rilevato una sostanziale equivalenza delle due scelte terapeutiche. Tuttavia selezionando nella popolazione globale i soggetti che presentavano asma e rinite associate, si evidenziava in questo gruppo una significativa maggiore efficacia dell’associazione con il montelukast, che era ancora più marcata in quei soggetti rinitici che erano in trattamento farmacologico con antistaminici, a indicare la concomitanza di un impegno nasale più significativo (7).
w Asma da aspirina o FANS Un’altra forma di asma che ha come substrato patogenetico un’eccessiva produzione di leucotrieni è l’asma da aspirina. Nota come triade di Samter e Vidal, questa patologia colpisce in prevalenza donne adulte e si presenta nella sua espressione nosologicamente più completa con l’associazione di poliposi nasale, asma generalmente non allergico e grave riacutizzazione asmatica in caso di assunzione di aspirina o FANS. In questi soggetti, la base patogenetica è rappresentata da un’iperproduzione basale di leucotrieni, documentata da aumentati livelli basali di LTE4 urinari, per un’eccessiva attivazione dell’enzima leucotriene sintetasi, che gioca un ruolo chiave nella produzione di leucotrieni a partire dall’acido arachidonico, sottraendolo alla parallela via ciclossigenasica (figura 3). Esiste inoltre in questi soggetti, una maggiore sensibilità d’organo ai leucotrieni, per un’aumentata biodisponibilità recettoriale. In questi pazienti, il blocco completo della ciclossigenasi indotto dagli antinfiammatori diverte completamente il metabolismo dell’acido arachidonico verso la via lipossigenasica, creando un’ulteriore produzione di leucotrieni con importanti e gravi ripercussioni respiratorie (8). Va anche sottolineato che nell’asma da aspirina avviene un’ipoproduzione di PGE2, prodotto dalla via ciclossigenasica con effetto inibitorio sulla lipossigenasi. L’indicazione all’uso del montelukast nell’asma da aspirina ha trovato conferme sul piano clinico in un ampio studio
Figura 3
Metabolismo dell’acido arachidonico
Fosfolipidi di membrana Fosfolipasi A2
Acido arachidonico COX-1/COX-2
5-LO FLAP
Aspirina PGG2
LTA4 LTA4 idrolasi
LTB4
LTC4 sintasi
LTC4 LTD4 LTE4
PGH2 PGD2 PGF2
Proinfiammatori
PGE2
Antinfiammatori
Note: 5-LO, 5-lipossigenasi; FLAP, Five lipoxygenase activating protein; LTA4, leucotriene A4; LTC4, leucotriene C4; LTB4, leucotriene B4; LTD4, leucotriene D4; LTE4, leucotriene E4; COX-1, ciclossigenasi-1; COX-2, ciclossigenasi-2; PGG2, prostaglandina G2; PGH2, prostaglandina H2; PGD2, prostaglandina D2; PGF2, prostaglandina F2; PGE2, prostaglandina E2.
europeo che ha documentato un miglior controllo e un minor uso di farmaci d’emergenza nei soggetti trattati. Va inoltre sottolineato come il farmaco agisca non solo a livello bronchiale, ma anche sulla poliposi nasale, riducendone la congestione, e in alcuni studi il rischio di recidiva post-operatoria.
w Forme particolari di asma Altri fenotipi di asma nell’adulto, oltre all’asma da aspirina, possono giovarsi dell’uso dell’antileucotrienico. Un dato epidemiologicamente molto rilevante, e ancora non del tutto noto, è rappresentato dalla frequenza dell’abitudine al tabagismo negli asmatici (soprattutto adolescenti), del tutto sovrapponibile (30 per cento) rispetto alla popolazione generale. Nei fumatori l’efficacia degli steroidi sia orali che per via inalatoria è diminuita ed è quindi necessario incrementarne il dosaggio per ottenere il miglioramento clinico cercato. Nell’asmatico fumatore, l’azione del montelukast è invece stabi-
le, non influenzata dal fumo e pertanto la loro associazione terapeutica riduce la necessità di incremento della terapia steroidea (9). Analogamente una maggiore stabilità dell’azione terapeutica del montelukast è stata dimostrata nei soggetti obesi, nei quali, come per i fumatori, l’azione dello steroide sembra essere ridotta. Ovviamente in questi soggetti, i primi provvedimenti terapeutici dovrebbero però essere rispettivamente la cessazione del tabagismo e il calo ponderale. Potenzialmente interessante è l’uso degli antileucotrienici nella donna. L’asma perimenopausale infatti si associa sovente a sovrappeso o franca obesità; nella donna, è frequente (30 per cento) una riacutizzazione dell’asma durante il ciclo mestruale che secondo alcuni Autori potrebbe essere un fattore di rischio per asma grave. Studi condotti peraltro su casistiche non numerose, e non controllati, suggeriscono un potenziale successo del montelukast nella preven-
zione di questa patologia. Lo studio in gravidanza del montelukast, pur valutato su coorti numericamente modeste, sembra orientare verso una sicurezza del farmaco. Il dato appare particolarmente interessante nell’asma allergico dove la frequente associazione con la rinite potrebbe beneficiare dell’uso di un solo farmaco per le due condizioni patologiche (10). Infine, vanno citate alcune proprietà degli antileucotrienici che potrebbero sembrare curiosità accademica, ma che, se confermate, potrebbero invece avere interessanti risvolti clinici. È a tutti nota l’azione negativa sul metabolismo osseo degli steroidi in particolare per via sistemica, ma, nel lungo termine anche di quelli per via inalatoria. Del tutto opposta pare invece l’azione degli antileucotrieni sull’osso. Infatti attraverso un’azione di stimolo sui condrociti in soggetti fratturati, il trattamento con montelukast ha consentito rispetto ai controlli una maggiore dimensione del callo osseo, una più pre-
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allergologia Figura 4
Metabolismo osseo e antileucotrieni Frattura
Acido arachidonico
FANS Coxib
(--)
5-LO (--)
COX-2
Antileucotrieni
(++)
(++) Prostaglandine
(cisteinil) leucotrieni
Frattura-riparazione ++
Frattura-riparazione --
Note: 5-LO, 5-lipossigenasi; COX-2, ciclossigenasi-2.
Figura 5
Potenziali fenotipi di asma nei quali è razionale l’impiego dell’antileucotrienico Asma da sforzo in età pediatrica
Asma nel paziente fumatore
Antileucotrienico
Riacutizzazioni di asma da infezione virale, asma allergico in età pediatrica
Asma da aspirina o da FANS, asma perimenopausale nelle donne
coce formazione di tessuto osseo e una finale migliore riparazione (figura 4). Il dato, se confermato, potrebbe suggerire l’uso di questi farmaci in soggetti trattati con alte dosi di steroidi con il duplice obiettivo di una riduzione del dosaggio, ma anche di una potenziale favorevole azione sul metabolismo osseo (11).
Considerazioni conclusive In conclusione, pur in assenza di marker biologici certi che garantiscano una maggiore sicurezza all’approccio fenotipico
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dell’asma, il tentativo di una maggiore personalizzazione terapeutica può comunque giovarsi dall’attenta valutazione clinica dell’asmatico. Il corretto uso dei farmaci, che in futuro sarà priorità assoluta nel caso di ricorso a farmaci biologici dai costi molto elevati, può partire dalla lezione dell’antileucotrienico, una molecola forse a oggi ancora da scoprire e ancora poco sfruttata, probabilmente perché poco utilizzata in quelle forme di asma nelle quali la sua indicazione terapeutica appare più razionale, e pertanto più vantaggiosa (figura 5).
Bibliografia 1. Wenzel SE. Defining the persistent adult phenotypes. Lancet 2006; 368 : 804-13 2. Dworski R, Fitzgerald GA, Oates JA. Effect of oral prednisone on airway inflammation mediators in atopic asthma. Am J Respir Crit Care Med 1994; 149: 953-9 3. Grzelewski T, Stelmach I. Exercise induced bronchocostriction in asthmatic children: a comparative systematic review on the available treatment options. Drugs 2009; 69: 1533-53
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C O NGRESSI
48° Meeting annuale ASCO – 1-5 giugno – Chicago (Illinois, USA)
Carcinoma polmonare Avanza l’era della terapia personalizzata Gli ultimi progressi nella diagnosi e terapia dei tumori dal più autorevole appuntamento annuale del settore. In primo piano la classificazione sempre più specifica, “personalizzata”, delle neoplasie e le numerose declinazioni delle terapie biologiche, protagoniste della clinica e della ricerca
L’
idea della medicina personalizzata in oncologia si è concretizzata verso la fine degli anni Novanta, quando per la prima volta l’Ente regolatorio statunitense approvava il primo farmaco “a misura di tumore”, il trastuzumab, nella terapia del carcinoma metastatico al seno EGFR positivo. L’avvento del primo farmaco cosiddetto “biologico” ha innescato una rivoluzione nel campo dell’oncologia, fondata sul concetto di studiare il tumore in un paziente e utilizzare le informazioni ricavate per progettare la terapia. Per la maggior parte dei tumori si è arrivati a comprendere che si tratta di patologie eterogenee, che si presentano in diverse forme a seconda dei determinanti genetici che li caratterizzano. Si sta abbandonando quindi la classificazione “generalizzata” per esempio di tumore al seno o tumore al polmone, per passare a una più dettagliata che include la specifica di un marcatore come per esempio, “tumore al seno EGFR positivo”. Ciascuna forma di tumore possiede un assetto genetico peculiare che ne determina la crescita, lo sviluppo, la progressione. In un panorama così vasto come è appunto l’oncologia, la ricerca è molto vivace, e ogni anno vengono aggiunte nuove conoscenze e sviluppate molecole sempre più precise nel colpire un target predefinito. Il Congresso annuale dell’ASCO (American Society of Clinical Oncology) è la “vetrina” più
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autorevole per presentare gli ultimi progressi nella diagnosi e terapia dei tumori, e anche quest’anno, in occasione del 48° appuntamento, le aspettative non sono state disattese. I grandi numeri per cui è noto il Meeting sono stati confermati anche in questa edizione, con più di 25mila iscritti provenienti da oltre 100 Paesi, non solo oncologi, ma specialisti di diversi ambiti della medicina e della ricerca. Il Mc Cormick Place di Chicago ha riunito alcuni tra i più autorevoli specialisti internazionali, che in una “quattro giorni” densa di appuntamenti, simposi e prsentazioni, hanno discusso il presente e il futuro dell’oncologia sulla scia del tema “Collaborating to conquer cancer”. In queste pagine non è possibile esaurire le tematiche di un Congresso di tale portata, e quindi presentiamo un focus sul tumore al polmone; un ambito in cui, anche se per piccoli passi, si stanno ottenendo risultati promettenti. Le novità in terapia Nel caso specifico del tumore al polmone, negli ultimi cinque anni si è avuta un’esplosione delle conoscenze circa i marker genetici specifici per ciascuna forma. In conseguenza la ricerca farmacologica si è allineata con questa nuova visione per dare vita a molecole (in diversa fase di sviluppo) con meccanismo d’azione sempre più mirato, e anche per sperimentare schemi di terapia innovativi.
I primi dati significativi derivano dallo studio PARAMOUNT, un trial di fase III condotto per valutare gli effetti sulla sopravvivenza di una terapia di mantenimento a base di pemetrexed per via iniettiva (Alimta, Eli Lilly) in pazienti affetti da carcinoma polmonare non squamoso e non a piccole cellule avanzato (una delle forme più comuni). Il pemetrexed è un farmaco già utilizzato in associazione con cisplatino, in prima linea. L’importanza dello studio è legata al fatto che questo schema di terapia rappresenta una concreta innovazione nei pazienti avanzati. Finora, prima di introdurre una terapia di mantenimento, i pazienti venivano trattati con 4-6 cicli di chemioterapia, e dopo si attendeva il ritorno o la recrudescenza della malattia per attuare un regime chemioterapico con farmaci a diverso meccanismo d’azione. Allo studio multicentrico, randomizzato in doppio cie-
CONGRESSI co e controllato verso placebo, hanno preso parte 939 soggetti con NSCLC (carcinoma non a piccole cellule) non squamoso, in stadio IIIB/IV. I partecipanti hanno ricevuto inizialmente una terapia di induzione con pemetrexed (500 mg/m2 il primo giorno, per un ciclo di 21 giorni)+cisplatino (75 mg/ m2). I pazienti in cui non si è osservata un’evoluzione della patologia nella fase di induzione e che si caratterizzavano per un “performance status” 0-1 (539 pz.) sono stati randomizzati a regime di mantenimento con pemetrexed (500 mg/m2 il primo giorno, per un ciclo di 21 giorni)+terapia di supporto (359 pz.) oppure con placebo+terapia di supporto (180 pz.) fino a progressione della malattia. I risultati finali dimostrano una riduzione del rischio di decesso pari al 22 per cento (HR 0,78) statisticamente significativa, a favore del “mantenimento” con pemetrexed, che corrisponde a un aumento della sopravvivenza in mesi, pari a 2,9: 13,9 mesi dalla randomizzazione nel gruppo in mantenimento e 11,0 mesi nel braccio placebo. Questo risultato è stato così commentato dal prof. Cesare Gridelli dell’ospedale “Moscati” di Avellino e principal investigator del PARAMOUNT “È la prima volta che, in pazienti affetti da questo tipo di carcinoma polmonare, un farmaco già utilizzato nella terapia di prima linea e poi dato come mantenimento determina un miglioramento importante della sopravvivenza. Lo studio ha dimostrato come, cambiando strategia, ovvero continuando a somministrare pemetrexed a questi pazienti dopo un primo ciclo di chemioterapia, si registri un significativo passo in avanti, con un aumento medio della sopravvivenza mai osservato prima (per esempio nel passaggio dalla sola terapia di supporto alla chemioterapia o passando dalla monochemioterapia alla polichemioterapia). Il dato è ancora più rilevante se consideriamo l’ottimo profilo di tollerabilità del farmaco”. Nello studio infatti non è stato osservato alcun peggioramento della qualità di vita dei pazienti trattati rispetto a quelli del brac-
cio placebo. Una caratteristica questa che risulta essere ottimale per un agente candidato al mantenimento. Risultati molto promettenti riguardano il trattamento del tumore metastatico NSCLC con mutazione ROS1; alterazione quest’ultima che si riscontra in una piccola quota di pazienti, variabile tra 1 e 2 per cento. Lo studio di fase I riguarda il trattamento con crizotinib (Xalkori, Pfizer), un farmaco in origine sviluppato come inibitore cMET, che ha dimostrato un’azione diretta anche contro altre tirosin-chinasi, tra cui ROS1. ROS 1 è un marcatore recentemente individuato nel tumore NSCLC, e il suo funzionamento rimane al momento poco conosciuto, ma sembra che a livello cellulare tale proteina attivi le vie di segnalazione accoppiate ai recettori tirosinchinasici. Il riarrangiamento cromosomico è il meccanismo di attivazione di ROS1 nel cancro. Si ipotizza che la forma oncogenica possa attivare a valle le vie di segnalazione associate a trasformazione maligna. Per valutare gli effetti di risposta al farmaco sono stati selezionati attraverso saggio di ibridazione in situ i pazienti ROS1 positivi, e successivamente sono stati trattati con crizotinib 250 mg/bid. Nella coorte di studio (14 pazienti sono stati valutati per la risposta al trattamento) è stato riscontrato un tasso di risposta del 57,1 per cento e una durata mediana del trattamento di 25,7 settimane. Il tasso di controllo della malattia è risultato pari al 79 per cento (compresi i 4 pazienti con malattia stabile per otto settimane); dati che nel complesso dimostrano l’efficacia di crizotinib nella maggioranza dei pazienti trattati. Oltre a una lieve diminuzione della vista, tra gli effetti avversi sono stati osservati transitori aumenti dei livelli di enzimi epatici, diarrea, edema periferico, nausea, vomito, neutropenia. Nella discussione relativa a questo studio, è stato sottolineato come, vista la “drammaticamente alta” risposta alla terapia, è auspicabile ipotizzare l’impiego di questo farmaco in tutti i pazienti con NSCLC metastatico ROS1 positivo. Si aggiunge dunque, un
ulteriore tassello al complesso puzzle di mutazioni riguardanti questa forma di tumore, che interessa una bassa quota di pazienti, ma la cui prognosi e decorso sono particolarmente sfavorevoli. Infine un cenno al farmaco sperimentale selumetinib (inibitore delle chinasi 1 e 2 mitogeno attivate MEK o MAPK/ERK), che potrebbe aprire una nuova strada nel trattamento del tumore avanzato NSCLC KRAS positivo. La molecola, sviluppata da Array BioPharma in collaborazione con AstraZeneca, è stata in grado di aumentare in misura incisiva i tassi di risposta obiettiva in pazienti già sottoposti a una prima linea di terapia. In associazione con docetaxel selumetinib ha ottenuto una risposta pari al 35 per cento (vs. 0 per cento del gruppo docetaxel+placebo), raddoppiando la mediana di sopravvivenza (5,3 vs. 2,1 mesi). Il farmaco ha ottenuto il riconoscimento “ASCO Winner 2012”. Una testimonianza dell’eccellenza italiana Al meeting è stato presentato lo studio TAILOR condotto da un gruppo di ricercatori italiani, guidati da Marina Garassino, dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, e dall’AIFA. Il trial ha messo a confronto “il vecchio” docetaxel con un farmaco di più recente introduzione, erlotinib, nella terapia di seconda linea in pazienti con NSCLC wtEGFR (cioè pazienti senza mutazioni EGFR). La sopravvivenza libera da malattia è stata superiore nel gruppo docetaxel, con un guadagno del 12 per cento a 6 mesi. Questo risultato ha importanti implicazioni pratiche, tra cui la necessità di uno screening dei pazienti per la determinazione dello status EGFR. In caso di pazienti EGFR positivi, la terapia dovrebbe essere quella con un inibitore delle tirosinchinasi (erlotinib o gefitinib), mentre nei pazienti EGFR negativi l’opzione iniziale dovrebbe essere la chemioterapia standard, e in caso di mancata o inadeguata risposta, una terapia di seconda linea con docetaxel.
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XLIII Congresso nazionale SIN - 6-9 ottobre - Rimini
I neurologi italiani interpretano il cambiamento: le necessità assistenziali, la ricerca, i nuovi orientamenti
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a Neurologia italiana è ai vertici mondiali per la ricerca e il suo meeting annuale, ricco di contenuti scientifici e di partecipanti, ne è sempre una testimonianza. Quello da poco concluso, tuttavia, è stato il congresso che, parallelamente alla discussione scientifica, ha affrontato i temi dell’organizzazione dell’assistenza neurologica, un ambito caratterizzato da altissimi livelli di specializzazione e per il quale è necessario mettere a punto una giusta definizione di ruoli e competenze. Il suo svolgimento ha coinciso infatti con un momento di sostanziale trasformazione a livello nazionale, che riguarda in modo importante anche l’area sanitaria; tra i temi caldi del congresso, dunque, i nuovi sviluppi in campo di diagnosi e trattamento e gli aspetti (ri)organizzativi dell’ambito neurologico. Altro tema in primo piano la medicina personalizzata, che trova nella neurologia uno dei suoi campi più logici di applicazione: sono molte le malattie neurologiche che oltre a essere caratterizzate dalla cronicità sono a genesi
complessa e, di conseguenza, richiedono strategie adeguate, che tengano conto di diversi fattori, per far sì che ogni paziente riceva i trattamenti ottimali. Nel campo della sclerosi multipla, si è discusso delle terapie innovative in corso di approvazione, mentre in quello dell’Alzheimer, hanno focalizzato l’attenzione le nuove terapie biologiche, in particolare quelle con anticorpi monoclonali. Numerosi interventi sono stati dedicati all’ictus, una delle aree della neurologia in maggiore sviluppo, che in questi anni ha visto un significativo cambiamento delle possibilità terapeutiche e oggi dispone di importanti strumenti di cura, ma deve affrontare il problema di realizzare le giuste modalità assistenziali; alcune sessioni hanno proprio analizzato quale tipo di riorganizzazione sia necessaria affinché il paziente acceda alle terapie adeguate. Per molte patologie neurologiche croniche si va consolidando l’evidenza che l’assistenza debba essere articolata su Centri di I e di II livello, cercando di coniugare quella che è un’assistenza ca-
XXXII World Congress of Sports Medicine - 27-30 settembre - Roma
Esercizio fisico come cura, ma nel modo giusto
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er la prima volta l’Italia ha ospitato il meeting mondiale della Medicina sportiva, dal titolo “Sports Medicine, the challenge for the global health: Quo Vadis?”. Tra i temi principali “L’attività fisica prescritta come il farmaco”, uno slogan che è anche una delle parole d’ordine della Medicina dello sport italiana. È ormai dimostrato da un’ampia produzione scientifica che l’attività fisica offra benefici sulla salute dei soggetti di tutte le età e di entrambi i sessi; perché questo avvenga, però, essa deve essere “prescritta” e praticata correttamente, né di più né di meno di quanto e come occorra. Come è stato sottolineato alla presentazione del Congresso, sia l’iperattività che l’inattività sono dannose; in particolare quest’ultima determina alterazioni su più organi e apparati, descritte come sindrome ipocinetica. E nei Paesi occidentali, dicono i numeri dell’Oms e, per l’Italia, dell’Istat, circa il 50 per cento della popolazione svolge attività fisica insufficiente, cioè inferiore a 30 minuti al giorno. La scelta della sede sottolinea l’unanime riconoscimento del livello d’eccellenza in ambito internazionale raggiunto dalla nostra medicina sportiva.
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pillare sul territorio alla concentrazione sui Centri specialistici delle tecniche diagnostiche e delle terapie più avanzate. Il modello assistenziale al quale si guarda ha al centro l’ospedale, che oggi rappresenta il centro di formazione/ informazione, la cui azione deve articolarsi con quella del MMG e includere il contributo dei neurologi territoriali, che in qualche forma devono essere riconnessi operativamente all’ospedale. Il congresso si è anche occupato di medicina di genere, dedicando più incontri a un tema al quale si attribuisce sempre maggiore importanza. Nelle patologie neurologiche infatti il genere è uno degli elementi che influisce sulla variabilità delle risposte al trattamento e sulle diverse modalità di decorso, per fare alcuni esempi. Inoltre, le diverse fasi della vita della donna hanno un significato nel modulare le stesse malattie neurologiche, con rischi che possono aumentare o decrescere a seconda del tipo di patologia.
Boehringer Ingelheim
Ca. polmonare avanzato afatinib si rivela promettente in prima linea
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uove speranze per i pazienti affetti da adenocarcinoma polmonare avanzato EGFR positivo arrivano dal congresso annuale degli oncologi americani (ASCO), che si è tenuto a Chicago ai primi di giugno. Nello specifico, si tratta dei risultati ottenuti nello studio LUX-Lung 3, in cui il farmaco sperimentale afatinib ha dimostrato un significativo beneficio sulla sopravvivenza libera da progressione nei pazienti con Ca. polmonare avanzato, con mutazioni EGFR. La mutazione dei geni per i recettori EGFR si riscontra nel 10-15 per cento circa dei pazienti di etnia caucasica colpiti da tumore al polmone non a piccole cellule (NSCLC), e addirittura nel 40 per cento di quelli asiatici. Afatinib è diretto contro i recettori della famiglia ErbB, ovvero EGFR (ErbB1), e a differenza
degli altri inibitori di EGFR si lega in maniera irreversibile al target. In pratica, una volta avvenuto il legame con il recettore, afatinib inibisce la trasduzione del segnale di tutti i recettori tirosinchinasici che svolgono un ruolo chiave nei processi di crescita e differenziazione del tumore. Lo studio multicentrico, che fa parte del programma registrativo del farmaco, è stato condotto in 345 pazienti con NSCLC EGFR positivo in stadio IIIb/IV e aveva l’obiettivo di valutare l’efficacia come terapia di prima linea di afatinib rispetto a una chemioterapia standard a base di pemetrexed+cisplatino. Dal confronto è emerso che i pazienti in terapia con afatinib hanno avuto una sopravvivenza libera da progressione della malattia di circa 1 anno (11,1 mesi), laddove il trattamento standard ha ottenuto una sopravvivenza
Janssen
Benefici per abiraterone in pazienti naïve con Ca. prostatico
I
soggetti con Ca. prostatico metastatico e resistente a castrazione potrebbero trarre beneficio in termini di rallentamento della progressione della malattia, se trattati con abiraterone associato a prednisone. Sono questi i risultati di uno studio randomizzato e controllato su 1.088 pazienti asintomatici o lievemente sintomatici, mai trattati con chemioterapia. L’efficacia è stata valutata come sopravvivenza libera da progressione radiologica (rPFS), e il gruppo di controllo era costituito da placebo+prednisone. L’analisi ad interim riscontrava una rPFS mediana di 8,3 mesi nel braccio controllo, mentre nel braccio abiraterone il valore mediano non era stato ancora raggiunto dal momento che gli eventi di progressione si verificavano più lentamente rispetto al controllo (N =150 vs. 251; HR 0,43 IC 95 per cento 0,350,52; p <0,0001). L’associazione abiraterone+prednisone è al momento indicata nella terapia del Ca. prostatico metastatico resistente a castrazione, in soggetti in cui la malattia è progredita durante o dopo chemioterapia con docetaxel.
di 6,9 mesi. La differenza è risultata più accentuata nei pazienti portatori delle due mutazioni più frequenti di EGFR (delezione dell’esone 19 e mutazione L858R), con valori rispettivamente di 13,6 e 6,9 mesi: in pratica una sopravvivenza doppia per afatinib rispetto alla “chemio” standard. Il ritardo della progressione ottenuto si associava anche a un positivo controllo dei sintomi (dispnea, tosse, dolore toracico) e a un miglioramento della qualità di vita. Il trattamento con afatinib ha comportato effetti avversi di tipo dermatologico e diarrea, che però in rari casi hanno portato a un’interruzione della terapia. Per il meccanismo d’azione innovativo e per il profilo di efficacia/tollerabilità riscontrato, afatinib si delinea come un’opzione promettente nei pazienti affetti da questa forma di tumore.
amgen
Le nuove frontiere della terapia ipocolesterolemizzante
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a scoperta legata al ruolo della proteina PCSK 9 nel controllo dell’omeostasi del colesterolo sta allargando gli orizzonti della terapia per l’ipercolesterolemia. Una nuova classe di farmaci, gli inibitori di PCSK9, è in fase di sperimentazione a diversi livelli. Se ne è parlato nell’ambito dell’80° Congresso EAS (European Atherosclerosis Society, Milano 25-28 maggio ). Si tratta di molecole che aumentano l’assorbimento di colesterolo da parte del fegato bloccando appunto la PCSK9 circolante. La proteina PCSK9, prodotta principalmente nel fegato, si lega ai recettori delle LDL (LDLR), promuovendone la degradazione e, quindi, riducendo la capacità del fegato di rimuovere il colesterolo LDL dalla circolo sanguigno. La necessità di un nuovo approccio anti-colesterolo nasce dal fatto che vi è un’ampia quota di pazienti che risponde in maniera subottimale al trattamento con statine. Recentemente è stato sviluppato un anticorpo monoclonale di derivazione umana (mAb1), diretto contro la proteina PCSK9 che ne inibsce il legame con LDLR. Gli studi condotti in animali da laboratorio dimostrano una significativa riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo totale (nei topi) e della frazione LDL (in primati non umani).
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Alfa Wassermann
Molteni
Un’azienda con oltre un secolo Eperisone migliora l’aderenza alla terapia del “low back pain” di storia
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ondata nel 1892 a Firenze, Molteni Farmaceutici rappresenta una delle realtà più interessanti e dinamiche nel panorama delle aziende farmaceutiche italiane, e non solo. Quest’anno si celebrano i 120 anni dell’azienda ed è l’occasione per ripercorrere le tappe fondamentali e le fasi più significative della storia di Molteni. E per questo, è stato organizzato un evento che si è tenuto lo scorso 10 settembre a Firenze nella splendida cornice di Palazzo Vecchio. Da piccola azienda familiare, Molteni oggi rappresenta una realtà affermata e specializzata nel settore della terapia del dolore e del trattamento delle tossicodipendenze. Un successo che è stato ottenuto nel corso di oltre un secolo grazie alla passione per la ricerca e per l’innovazione, ma senza dimenticare la tradizione.
L
a gestione del dolore lombosacrale (LBP, low back pain) contempla diversi farmaci, tra cui rientrano i miorilassanti e gli antidolorifici. L’eperisone (E) e la tizanidina (T) sono miorilassanti largamente impiegati nel trattamento, specie nella fase acuta. Uno studio italiano (Rossi M et al. Minerva Med 2012; 103: 143-9) ha voluto confrontare il profilo di efficacia/ tollerabilità delle due molecole in associazione con tramadolo nel dolore cronico, e ha dimostrato sostanzialmente come i due schemi di terapia avessero un’efficacia sovrapponibile, con un vantaggio però della combinazione E+tramadolo in termini di aderenza. Sessanta pazienti con LBP da contratture dei muscoli paravertebrali sono stati randomizzati per 30 giorni a E+tramadolo retard (100 mg/die) o T+tramadolo retard (100 mg/die). In entrambi i gruppi è stata osservata una riduzione statisticamente significativa della VAS a riposo e sotto sforzo. Per la tollerabilità, una differenza significativa tra i gruppi si è verificata nell’incidenza di sonnolenza: 16,6 per cento per il gruppo E vs. il 43,3 del gruppo T. Il trattamento è stato interrotto a causa di eventi avversi in 5 pazienti del gruppo E e in 9 del gruppo T.
Dompé
Bausch + Lomb
Tutta italiana la ricerca per un trattamento della cheratite neurotrofica
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a preso avvio l’arruolamento dei pazienti volontari per lo studio clinico di Fase I sull’impiego di Nerve growth factor ricombinante umano (rhNGF) nella cheratite neurotrofica. Si tratta di una grave patologia oculare degenerativa causata da ridotta innervazione della cornea, conseguente a diverse patologie (diabete, lesioni erpetiche, interventi chirurgici), che può arrivare fino a ulcerazione e perforazione della cornea e perdita della funzionalità visiva. La scoperta, negli anni Cinquanta, del NGF, una proteina solubile che stimola la crescita, il mantenimento e la sopravvivenza dei neuroni ha valso a Rita Levi Montalcini il premio Nobel per la medicina nel 1986. Sempre in Italia, il professor Stefano Bonini, del Campus BioMedico di Roma, ha studiato, tra i primi, la molecola in area oftalmica e con il gruppo di ricercatori di Anabasis, azienda di ricerca italiana recentemente acquisita dal Gruppo Dompé, ha già ottenuto risultati solidi sull’efficacia dell’uso topico del NGF nelle patologie oculari, con studi su pazienti trattati con NGF di origine murina.
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Migliorare la prevenzione delle patologie oculari
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uasi il 70 per cento delle persone a livello mondiale preferirebbe rinunciare a 10 anni di vita, o anche sacrificare un arto, piuttosto che perdere la vista. Eppure meno di un terzo adotta le misure necessarie per preservare “gli occhi”. È quanto emerge dal “Barometer of Global Eye Health,” una nuova indagine condotta da Bausch + Lomb in diversi Paesi, su un campione di 11.000 persone. I risultati gettano nuova luce sullo stato di consapevolezza delle persone, sui loro atteggiamenti e comportamenti legati alla salute degli occhi. Mentre l’80 per cento del deficit visivo può essere prevenuto se diagnosticato e trattato con il giusto anticipo secondo i risultati, un numero insufficiente di persone si sottopone a controlli periodici e i motivi per evitarli sono molto diversi. Sfortunatamente una della ragioni sembra la mancanza di consapevolezza sulla relazione tra salute degli occhi e salute in generale. Attraverso questa “fotografia”, Bausch + Lomb si propone di migliorare l’informazione e la prevenzione, al fine di contenere il rischio di gravi patologie quali per esempio degenerazione maculare e glaucoma. Sul sito www.biotrue.it è possibile consultare risultati più dettagliati dell’indagine.
msd
IBSA
L’eccellenza biotecnologica al servizio della medicina
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al 2000 la società svizzera Altergon, impegnata nello sviluppo di formulazioni farmacologiche innovative e nuovi principi attivi per uso farmaceutico, ha esteso la sua attività al nostro Paese con Altergon Italia, creando, nel 2003, il sito di produzione di Morra De Sanctis (AV), che lavora in proprio e in conto terzi. Lo stabilimento Altergon è un moderno impianto biotecnologico, specializzato nella produzione di cerotti medicati Hydrogel, e sede della produzione dell’acido ialuronico IBSA, grazie a una partnership stretta nel 2005. Grazie all’utilizzo di un moderno sistema produttivo di tipo biofermentativo, l’acido ialuronico di IBSA è privo di contaminazioni di prodotti di derivazione animale e di solventi tossici, eliminando così un possibile rischio allergico e/o di trasmissione di agenti patogeni (per esempio, virus, prioni). Il processo di produzione, a più fasi, parte dalla fermentazione batterica e, attraverso stadi intermedi di filtrazione e purificazione, arriva all’ottenimento di un prodotto finito altamente purificato e con pesi molecolari customizzati (da 50 kDa a 2 milioni di Dalton).
I disturbi osteoarticolari in “una settimana”
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all’8 al 12 ottobre si è svolta la prima edizione della Settimana dei disturbi osteoarticolari AMICO (Alleati contro le malattie in campo osteoarticolare), una Campagna di sensibilizzazione che ha offerto la possibilità di usufruire di una valutazione dello stato di salute dell’apparato muscolo-scheletrico e ovviare ai ritardi e ai pericoli dell’autoprescrizione, evidenziati da indagini condotte su specialisti, MMG e pazienti. Si stima che in Italia circa 10 milioni di persone soffrano di disturbi osteoarticolari. Vi hanno partecipato oltre 100 strutture specializzate su tutto il territorio nazionale. L’iniziativa è stata promossa dalla SIOMMMS (Società italiana dell’osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro), dalla SIOT (Società italiana di ortopedia e traumatologia) e dalla SIR (Società italiana di reumatologia), con il patrocinio e la collaborazione di ANMAR (Associazione nazionale malati reumatici) e di FEDIOS (Federazione italiana osteoporosi e malattie dello scheletro), e il sostegno non condizionato di MSD Italia.
cELGENE
BIOGEN IDEC
Più autonomia e aderenza per i malati di sclerosi multipla
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n passo avanti importante per ciò che riguarda l’aderenza alla terapia dei malati italiani di sclerosi multipla (SM), circa 63mila, è quello permesso dalla nuova penna per l’autosomministrazione i.m. monosettimanale di interferone beta-1a. (Avonex PenTM, Biogen Idec). Questo nuovo dispositivo dal giugno scorso è infatti disponibile anche nel nostro Paese. La nuova penna monouso consiste di un autoiniettore che accoglie una siringa pre-riempita, e l’ago è nascosto all’interno del dispositivo, accorgimento che consente di superare la cosiddetta agofobia, che affligge un numero consistente di malati di SM e sottoposti a terapie iniettive, il 22 per cento. L’efficacia dell’interferone beta-1a a somministrazione intramuscolare è comprovata da oltre 15 anni di utilizzo; il farmaco ha dimostrato di ridurre la frequenza di recidive e di diminuire del 37 per cento il rischio di sviluppare una disabilità persistente. La via di somministrazione, inoltre, consente una sola iniezione a settimana e diminuisce il rischio di reazioni nel sito di iniezione, che si verificano più facilmente con la via sottocutanea. Si tratta di vantaggi che favoriscono l’aderenza alla terapia da parte del paziente e ai quali oggi si aggiunge questo nuovo dispositivo per l’autoiniezione, che moltiplica la libertà del paziente di gestire con autonomia la terapia.
Anche una sana alimentazione combatte il tumore al seno
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a iniziato il suo giro per l’Italia la Campagna nazionale “Assapora la vita” che intende far conoscere l’importanza di una sana e mirata alimentazione nel tumore al seno. Nell’ambito specifico dei tumori, esistono evidenze ampiamente riconosciute sull’importanza di uno stile di vita equilibrato, che preveda anche una sana alimentazione, come aiuto nel prevenire l’insorgenza di alcune forme e nel percorso del trattamento oncologico. L’attenzione all’alimentazione è un aspetto di un mutato atteggiamento verso la malattia neoplastica, con la percezione che si tratta di una condizione con la quale convivere. Nutrizionisti, oncologi e chef hanno messo a punto un modello alimentare che applica i principi della dieta mediterranea alle esigenze delle pazienti in terapia e che viene presentato nel corso dell’iniziativa. La Campagna è promossa dalle associazioni di pazienti che operano sul territorio nazionale ed è realizzata grazie al sostegno di Celgene. Sul sito www.assaporalavita.it sono disponibili una selezione di ricette delle 30 contenute nel libro omonimo e alcuni video che ne illustrano le fasi di preparazione.
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professione
Le nuove regole per la prescrizione dei farmaci I provvedimenti legati alla razionalizzazione della spesa farmaceutica sono stati investiti da un’onda di critiche da parte dei medici. In questo articolo, presentiamo i principali cambiamenti riguardanti le modalità di prescrizione dei farmaci
C
on l’approvazione del maxi-decreto sulla Spending review, dal 15 agosto scorso sono entrate in vigore le norme per la razionalizzazione della spesa farmaceutica. Si tratta di uno dei comparti, tra gli interventi in campo sanitario, dei quali si occupa la Legge. Il testo prevede che per l’anno 2012 farmacisti e aziende del settore applichino al Ssn sconti sul prezzo dei farmaci (del 2,25 e del 4,1 per cento, rispettivamente), mentre dal prossimo anno, 2013, saranno introdotti nuovi sistemi di remunerazione che interesseranno tutta la filiera del farmaco,
“Spending review” Le nuove disposizioni finalizzate alla razionalizzazione della spesa farmaceutica fanno parte del testo del Decreto legge n. 95 del 6 luglio 2012 convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 135 del 7 agosto 2012, recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini” (GU n. 189 del 14-8-2012 - Supplemento Ordinario n.173). La parte relativa al comparto sanitario è contenuta nel Titolo III “Razionalizzazione e riduzione della spesa sanitaria”.
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senza che questo determini variazioni sugli effetti finanziari già calcolati. Dal 2013 cambieranno poi i tetti di spesa, abbassati all’11,3 per cento (dal precedente 13,1) per quella territoriale e innalzati al 3,5 per quella ospedaliera, lasciando la metà dei costi dell’eventuale disavanzo all’industria. Il restante 50 per cento dell’intero disavanzo a livello nazionale, invece, è a carico delle singole Regioni nelle quali si è verificato lo sfondamento in proporzione ai rispettivi disavanzi, mentre nulla sarà dovuto dalle Amministrazioni che abbiano registrato un equilibrio economico complessivo. Di particolare interesse per il Medico sono, tuttavia, le nuove norme sulla prescrizione dei farmaci (comma 11bis art.15) che, oltre ad aver anim ato un dibattito con le controparti istituzionali e tra gli stessi professionisti, ha anche dato adito a difficoltà di interpretazione, e di applicazione di conseguenza. Il decreto sulla Spending review punta infatti sul risparmio indotto dall’utilizzo preferenziale dei farmaci equivalenti, disponendo una serie di indicazioni alle quali il medico deve attenersi in fase di prescrizione. Come si evince dalla tabella 1, il medico può prescrivere un farmaco di marca senza apporre la clausola “non sostituibile” o, nel caso la inserisca, senza aggiungere una sintetica motivazione, solo a un paziente con patologia cronica già in trattamento; negli altri casi, ovvero patologia cronica in paziente trattato per la prima volta o paziente con nuovo episodio
di patologia non cronica, egli è tenuto a indicare in ricetta il principio attivo, seguito eventualmente dalla dicitura “non sostituibile”, che dovrà però essere sinteticamente motivata. Le difficoltà di interpretazione scaturiscono in particolare dalla esatta definizione di primo episodio di patologia cronica o nuovo episodio di patologia non cronica; altro punto controverso, quello su cosa si debba intendere per “motivazione sintetica” e chi è preposto alla verifica della validità della stessa. Da questo comportamento prescrittivo dipendono le diverse possibilità in mano al farmacista e al paziente (tabella 1): il medico ha comunque il potere di vincolare la propria decisione. Le nuove regole non si applicano ai farmaci non rimborsabili dal Ssn o per i quali non esista un medicinale equivalente (o, se esiste, non sia presente nelle liste di trasparenza) e alle prescrizioni su ricetta bianca. In tutti questi casi, il medico non è sottoposto ad alcuna clausola e potrà prescrivere il nome del farmaco di marca con l’eventuale clausola di non sostituibilità senza doverla motivare. Per permettere e facilitare l’applicazione dell’art. 15 comma 11 bis, l’Aifa ha pubblicato sul suo portale le liste aggiornate (al 26/09/2012) dei medicinali in fascia A, secondo due criteri: per principio attivo e in base al nome commerciale. Tali liste includono sia medicinali presenti nella Lista di trasparenza Aifa aggiornata, sia quelli coperti da brevetto, sia quelli a brevetto
Tabella 1. Le norme della prescrizione e le opzioni per gli attori coinvolti Casistica
Medico
Farmacista
Paziente
Paziente con patologia cronica già in trattamento*
Può continuare secondo la normativa precedente a prescrivere solo il nome del medicinale di marca e può: a. Non aggiungere nulla b. Inserire la clausola “non sostituibile” senza sintetica motivazione
a. Applica l’articolo 11 comma 12 del DL “liberalizzazioni” b. È obbligato a consegnare il farmaco prescritto dal medico
a. Può scegliere il farmaco di marca pagando l’eventuale differenza b. Paga l’eventuale differenza di prezzo
Deve sempre indicare il nome del principio attivo e può: a. Non aggiungere nulla b. Inserire anche il nome del farmaco di marca c. Inserire anche il nome del farmaco di marca e la clausola “non sostituibile” con obbligo di sintetica motivazione
a. Applica l’articolo 11 comma 12 del DL “liberalizzazioni” b. Applica l’articolo 11 comma 12 del DL “liberalizzazioni” c. È obbligato a consegnare il farmaco di marca prescritto dal medico
a. Può scegliere di avere un farmaco a prezzo più alto pagando la differenza b. Può scegliere di prendere il farmaco di marca pagando l’eventuale differenza c. Paga l’eventuale differenza di prezzo
Deve sempre indicare il nome del principio attivo e può: a. Non aggiungere nulla b. Inserire anche il nome del farmaco di marca c. Inserire anche il nome del farmaco di marca e la clausola “non sostituibile” con obbligo di sintetica motivazione
a. Applica l’articolo 11 comma 12 del DL “liberalizzazioni” b. Applica l’articolo 11 comma 12 del DL “liberalizzazioni” c. È obbligato a consegnare il farmaco di marca prescritto dal medico
a. Può scegliere di avere un farmaco a prezzo più alto pagando la differenza b. Può scegliere di prendere il farmaco di marca pagando l’eventuale differenza c. Paga l’eventuale differenza di prezzo
Paziente trattato per la prima volta per una patologia cronica**
Paziente affetto da un nuovo episodio di patologia non cronica**
Note: *non si applica il decreto sulla spending review; ** si applica il decreto sulla spending review. L’articolo 11 comma 12 del Decreto Legge 24 gennaio 2012, n. 1 (liberalizzazioni) convertito in Legge 24 marzo 2012 n. 27. Fonte: modificata da Farmindustria.
scaduto, ma per i quali non è prevista la sostituibilità.
lll La risposta del mondo medico Il provvedimento è stato accolto da un coro di critiche. Fnomceo lo ha etichettato come inutile, esprimendo forte preoccupazione per le conseguenze che la sua applicazione avrà sulla categoria, perché, oltre all’aggravio di compiti, risulta lesa l’autonomia e responsabilità decisionale del professionista. Come si legge nella lettera inviata al ministro Balduzzi, infatti, “Il provvedimento in oggetto, nella sua stesura non privo di incertezze interpretative, non appare tuttavia comportare risparmi per lo
Stato, rispetto al sistema attualmente vigente, ma si limita a trasferire dal medico prescrittore al farmacista dispensatore il compito della scelta del farmaco, in condizioni di equivalenza di principio attivo”. Si sottolinea invece, come il cambio frequente di confezioni, oltre al potenziale rischio per le differenze nella composizione in eccipienti, possa creare pericolose confusioni nel paziente stesso inducendo a errori di assunzione. Tali riflessioni hanno portato Fnomceo a chiedere urgentemente, e ottenere, con altri attori tra cui Fimmg al ministro della salute Balduzzi, la convocazione di un tavolo tecnico per discutere delle oggettive difficoltà nell’applicazione del decreto.
Fimmg. “Per quanto riguarda la prescrizione per principio attivo credo che siano ampiamente note e condivise le posizioni da noi assunte contro il provvedimento, che abbiamo più volte bollato come inutile, confuso e confondente, il cui unico risultato sarà quello di aumentare il nostro carico burocratico”. Le parole del segretario Giacomo Milillo sulla posizione della Fimmg a proposito dell’articolo 15 comma 11 bis della Legge sulla Spending review sono chiare. Fimmg già prima dell’entrata in vigore delle nuove regole aveva provveduto a elaborare una sorta di “vademecum” per guidare la fase prescrittiva e uniformare il comportamento dei medici
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professione nei primi 60 giorni di entrata in vigore della Legge stessa. Queste indicazioni si riferiscono:
l alla libertà di interpretazione da parte del medico della condizione di patologia non cronica e “tenendo conto dell’anamnesi individuale farmacologica in suo possesso, individuando le situazioni in cui la buona pratica clinica, ispirata al criterio di prudenza, determina l’opportunità di non ricorrere a farmaci mai utilizzati nel singolo paziente in presenza di farmaco già utilizzato efficace e che non ha prodotto effetti indesiderati, intendendo per farmaco la sua completa composizione definita per semplificazione nel nome commerciale di fantasia o nella denominazione generica (principio attivo e azienda produttrice)”. l alla sintetica motivazione obbligato-
ria in caso si apponga la clausola di non sostituibilità: questa può essere riferita a motivi clinici (da indicare come MC), alle quali può essere aggiunta l’abbreviazione “per LASA” acronimo di “per Look-Alike/Sound-Alike”, o correlati alla volontà dell’assistito (e come tali da indicare, o con la sigla VA). Quest’ultima possibilità è stata poi eliminata.
l ai casi di utilizzo della clausola di “non sostituibilità”; per patologia cronica le indicazioni non differiscono da quanto esposto in tabella 1, mentre nel caso di primo trattamento per patologia cronica, dopo una prima somministrazione e appurato che il farmaco effettivamente assunto dal paziente va bene, si rientra nel caso di patologia cronica; nel caso di nuovo episodio di patologia non cronica, infine, il medico si attiene a quanto sintetizzato in tabella 1 solo nel caso in cui ritenga di
utilizzare un principio attivo mai assunto da quello specifico paziente, mentre può continuare nella sua autonomia prescrittiva, e aggiungere la clausola di “non sostituibilità” senza motivazione in tutti gli altri casi. Snami. Assolutamente contrario ai provvedimenti della Spending review è anche il Sindacato nazionale medici italiani, il cui presidente si è espresso molto duramente all’indomani dell’entrata in vigore della Legge. Secondo Angelo Testa, infatti, il provvedimento non fa risparmiare lo Stato perché la differenza di prezzo tra farmaco di marca e generico era già a carico del cittadino; per contro riduce la discrezionalità del medico nella prescrizione, che è invece consapevole del beneficio del proprio assistito, e lo carica di burocrazia. In ultimo, riduce il libero arbitrio del paziente.
Italia: il punto sui tumori in “tempo reale” l Sono stati presentati a fine settembre al Ministero della salute i dati sui tumori in Italia, raccolti da Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) e Airtum (Associazione italiana registri tumori), in collaborazione con il Ccm (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie) del Ministero stesso, nel volume de “I numeri del cancro in Italia”. Si tratta di dati relativi al 2012, presentati dunque in tempo reale e che per questo permettono proiezioni precise e rappresentano importanti strumenti di pianificazione e programmazione, a disposizione delle oncologie degli ospedali, delle Regioni e delle istituzioni. Il volume è stato realizzato con il contributo delle oltre 300 oncologie italiane e dei 37 Registri dei tumori presenti nel nostro Paese. I numeri sulla mortalità, almeno per alcuni tumori, sono in costante diminuzione, ma queste patologie, insieme a quelle cardiovascolari, restano le principali cause di decesso. Si stimano per il 2012 175mila decessi, di cui 99mila tra gli uomini e 76mila tra le donne, e 364mila casi di nuova diagnosi (di cui 202mila negli uomini e 162mila nelle donne). Il tumore più frequente sarà quello del colon-retto, con 50mila nuove diagnosi, seguito dalle 46mila di carcinoma della mammella, dalle 38mila a carico del polmone e dalle 36mila della prostata. Rispetto al genere, maggior responsabile di mortalità negli uomini, 27 per cento dei casi, è il tumore polmonare, che è anche prima causa complessiva di decesso (34.500 stimati), mentre nelle donne principale killer è il tumore del seno, con il 16 per cento dei casi. Sarà più colpito il Nord del Paese, con un 30 per cento di casi in più, probabilmente per motivi legati all’esposizione ad agenti cancerogeni e a stili di vita scorretti. Tuttavia, le percentuali di guarigione sono in miglioramento, con una sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi del 61 per cento nelle donne e del 52 negli uomini, specie per tumori frequenti come quello del seno e della prostata. Sono i frutti delle campagne di screening e della maggiore efficacia delle terapie, che indicano come in Italia sia stata intrapresa una giusta strategia per combattere i tumori, anche se molto resta da fare. L’aumento della sopravvivenza identifica inoltre, le nuove popolazioni dei pazienti guariti e dei lungo-sopravviventi, ha spiegato Carmelo Iacono, presidente della Fondazione Aiom, in continuo aumento e con bisogni specifici, che impongono di sviluppare un percorso unico e coerente, che parte dalla diagnosi precoce e può arrivare alla guarigione o, nei casi più sfortunati, alle terapie palliative delle ultime fasi di vita.
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