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Psichiatria progressi nella conoscenza delle basi molecolari dell’autismo Tumore della prostata il ruolo del PSA e degli antigeni tumorali nello screening Assistenza il percorso di cura del paziente con neoplasia avanzata Iniziative un progetto di sanità solidale per i Paesi del Terzo mondo
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CLINICA
DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci
TERAPIA
Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci
>s Domenico D’Amico
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Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Franco Bazzoli Luca Della Bartola Ottavio Giampietro Marco Imperatori Elena Matteucci Gianmauro Numico Piera Parpaglioni Christine Rollandin Luca Rossi Giuseppe Tonini Rocco Maurizio Zagari
p 5
letti per voi
p 8
oncologia Tumore della prostata In collaborazione con AIOM Il ruolo del PSA e degli antigeni tumorali nello screening e nella diagnosi precoce
Nel nostro Paese non si ritiene raccomandabile eseguire lo screening del Ca. prostatico mediante dosaggio del PSA. Tale test può essere effettuato in presenza di sospetto clinico o dopo attenta valutazione dei fattori di rischio
Giuseppe Tonini, Marco Imperatori
p 14 oncologia
Tumore dello stomaco L’infezione da Helicobacter pylori come fattore di rischio
Benché l’incidenza dei tumori dello stomaco si sia ridotta negli ultimi decenni, essi rappresentano ancora oggi nel mondo la seconda causa di morte per neoplasia
Rocco Maurizio Zagari, Franco Bazzoli
21 Virus e batteri sono la causa delle infezioni alle vie respiratorie
VIRUS e BATTERI
sono la causa delle infezioni alle vie respiratorie L'estratto batterico OM-85 stimola le difese naturali dell’organismo e aumenta la resistenza alle infezioni delle vie respiratorie
LE INFEZIONI ricorrenti del tratto respiratorio (IRR) comprendono sia il comune raffreddore, che la bronchite, la faringite ecc. La gravità delle infezioni varia a seconda delle condizioni di vita, il livello di inquinamento, il clima, e colpisce in particolare i soggetti con difese immunitarie già compromesse (Figura 1). Sono molteplici i microrganismi patogeni responsabili delle IRR (Mazzaglia, 2003). Le infezioni virali (virus influenzali e parainfluenzali, virus respiratori, adenovirus, rinovirus) costituiscono spesso il primum movens, ma la sovrainfezione batterica o l’infezione iniziale stessa da batteri risulta assai frequente (Papi, 2006). I dati epidemiologici della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) sono illustrati in Tabella 1. Risultati della letteratura riportano come negli adulti affetti da BPCO, le infezioni virali e le co-infezioni batteriche siano all’origine di circa il 50 per cento delle riacutizzazioni ed esacerbazioni. Uno degli approcci standard per il trattamento delle infezioni respiratorie I.R.
Medico e paziente n. 4
in questo numero
sommario
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Realizzazione editoriale: MeP Edizioni Medico e paziente srl Medico e paziente Periodico della MeP Edizioni, via Dezza, 45 - 20144 Milano Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/75 Direttore responsabile Antonio Scarfoglio - Progetto grafico Elda Di Nanno
Medico e Paziente
4 .2013
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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG)
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sommario
p 30 segnalazioni
Point of care testing nello screening delle dislipidemie Un nuovo strumento accurato e preciso
Elena Matteucci, Luca Della Bartola, Luca Rossi, Ottavio Giampietro
Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2012 - 31/12/2012 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.400 Certificazione CSST n° 2012-2333 del 27/02/2013 Società di revisione: REFIMI Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.
Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
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Medico e paziente
Il paziente con malattia In collaborazione con AIOM oncologica avanzata Quale ruolo per il MMG nella gestione del percorso di cura
Un maggiore coinvolgimento della Medicina di base sarebbe auspicabile per migliorare l’assistenza ai malati oncologici
Gianmauro Numico, Christine Rollandin
p 43 iniziative
“Un occhio di riguardo” per la salute delle popolazioni nei Paesi in via di sviluppo
Sperimentare l’impiego e l’utilità clinica di particolari mini-ecografi negli ospedali dei Paesi del Terzo Mondo. È questo l’obiettivo di un innovativo progetto che l’UNAMSI sta portando avanti con il supporto di GE Healthcare, nato per migliorare l’assistenza sanitaria nelle aree in via di sviluppo
p 46 Notizie dal web
Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it
4.2013
Farminforma
p 38 oncologia
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p 33
Modalità di pagamento 1 Bollettino di ccp n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni srl - via Dezza, 45 - 20144 Milano 2 Bonifico bancario: Banca Popolare di Milano IBAN: IT 70 V 05584 01604 000000023440 Specificare nella causale l’indirizzo a cui inviare la rivista 3 Solo per l’Italia: assegno bancario intestato a M e P Edizioni srl
letti per voi Ipertensione
IL TRATTAMENTO MIRATO DELL’ALDOSTERONISMO PRIMARIO CONSENTE UNA RIDUZIONE A LUNGO TERMINE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA E UNA REGRESSIONE DELL’IVS £ Evidenze recenti hanno smentito una visione tradizionale secondo la quale l’aldosteronismo primario (AP) rappresentava una forma rara e benigna di ipertensione, mostrando che questa malattia coinvolge l’11,2 per cento dei pazienti classificati come ipertesi e comporta un tasso di eventi CV superiore a quello attendibile sulla base della pressione elevata. Rimaneva da accertare se il trattamento mirato dell’AP potesse costituire una cura a lungo termine dell’ipertensione e comportasse una regressione delle alterazioni CV. I risultati di uno studio italiano suggeriscono che questo è possibile: una diagnosi precoce e un trattamento specifico dell’AP por-
tano a una riduzione a lungo termine della pressione arteriosa e dell’ipertrofia del ventricolo sinistro, con un rimodellamento dello stesso. Lo studio prospettico, condotto tra il 1992 e il 2012 presso le Università di Milano-Bicocca e di Padova, ha arruolato consecutivamente e seguito con follow-up a lungo termine 323 pazienti, dei quali 180 affetti da aldosteronismo primario e trattati rispettivamente con adrenalectomia (n=110) o con terapia medica (n=70) secondo le attuali Linee guida, e 143 affetti da ipertensione primaria e riceventi un trattamento ottimale. Al basale, i soggetti con AP mostra-
Epidemiologia
vano alterazioni maggiori della massa ventricolare sinistra rispetto ai pazienti con ipertensione primaria (27,1 vs. 16,2 per cento; P =0,020) malgrado valori pressori simili. Al follow-up mediano a 36 mesi, la pressione arteriosa risultava diminuita (P <0,0001 vs. basale) e portata a valori paragonabili nei pazienti trattati con adrenalectomia (135±15/83±9 mmHg) e con terapia medica (133±11/83±7 mmHg) e negli ipertesi (139±15/86±9 mmHg). Alla conclusione dello studio, i pazienti che erano stati trattati chirurgicamente richiedevano un numero significativamente minore di farmaci degli altri due gruppi. Nei soggetti trattati per AP, il grado di ipertrofia ventricolare sinistra era diminuito fino a raggiungere il livello dei pazienti ipertesi trattati in modo ottimale. Risultati simili sono stati riportati nei successivi controlli a ≥5 e ≥10 anni. (p.p.) Rossi GP, Cesari M, Cuspidi C et al. Hypertension 2013; 62 (1): 62-9
£
La broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e le comorbilità cardiovascolari (CV) sono un binomio Nei pazienti reduci da IM con elevazione assai frequente. A tracciare un profilo dell’impatto a del tratto ST, la BPCO si rivela un lungo termine della BPCO sulla mortalità CV è questo studio sui dati del Registro Regionale Angioplastiche fattore prognostico sfavorevole Emilia-Romagna (REAL), un database che analizza i nel lungo termine: uno studio italiano profili di cura dei pazienti sottoposti a procedure interventistiche coronariche. Sono stati seguiti 11.118 con i dati del registro REAL pazienti con infarto del miocardio con elevazione del tratto ST (STEMI) che sono stati stratificati in funzione della presenza o meno di BPCO. End point erano la mortalità e l’ospedalizzazione per IM, scompenso cardiaco (SC), rivascolarizzazione coronarica, sanguinamenti gravi e BPCO a un follow up di 3 anni. Sulla base dei criteri adottati, il 18,2 per cento dei partecipanti aveva una diagnosi di BPCO. Nel complesso, sono deceduti 1.829 pazienti (16,5 per cento), e la BPCO si è rivelata un fattore predittivo indipendente di mortalità (HR 1,4, CI 95 per cento: 1,2-1,6). Inoltre, le riospedalizzazioni per IM ricorrente (10 vs. 6,9 per cento, P <0,01), per una procedura di rivascolarizzazione coronarica (22 vs. 19 per cento, P <0,01), per SC (10 vs. 6,9 per cento, P<0,01) e per sanguinamenti gravi (10 vs. 6 per cento) erano significativamente più frequenti nei soggetti con patologia polmonare rispetto a quelli senza. I ricoveri per BPCO erano più frequenti nei pazienti con storia pregressa di malattia e i pazienti ospedalizzati mostravano un rischio di decesso quadruplicato rispetto ai soggetti senza malattia pregressa (HR 4,2; CI 95 per cento: 3,4-5,2). Infine, la riospedalizzazione per cause legate alla BPCO si è rivelata un fattore di rischio fortemente predittivo e indipendente di IM ricorrente (HR 2,1: 1,4-3,3), di SC (HR 5,8: 4,6-7,5) e di gravi sanguinamenti (HR 3: 2,1-4,4). I soggetti con STEMI e BPCO concomitante dunque, hanno un più elevato rischio di episodi CV per i quali si impone la riospedalizzazione. Sarebbe opportuno pertanto identificare e trattare precocemente la patologia polmonare, in modo da contenere l’impatto sulle ospedalizzazioni e la mortalità. Campo G, Guastaroba P, Marzocchi A et al. Chest 2013; 144 (3): 750-7
Medico e Paziente
4.2013
5
letti per voi Ca. prostatico
Aumento della sopravvivenza e buon profilo di sicurezza per il radio-223 a emissione di particelle alfa nelle forme con metastasi ossee £
Il radio-223 dicloruro è una fonte di emissione di particelle alfa ad alta energia e a corto raggio che si legano selettivamente alle aree di aumentato turnover osseo nelle metastasi ossee. Questa radiazione produce un effetto citotossico potente e localizzato nelle aree target. Il corto raggio delle particelle alfa permette inoltre di minimizzare la tossicità, in particolare sul midollo osseo. Gli studi di fase 1 e 2 su pazienti con metastasi ossee hanno riportato un profilo di sicurezza favorevole con una mielotossicità minima, una ridu-
zione del dolore e un miglioramento dei biomarker correlati alla malattia. Ora i risultati dello studio di fase 3 ALSYMPCA, multicentrico, randomizzato in doppio cieco e controllato, mostrano un miglioramento significativo della sopravvivenza complessiva in pazienti con Ca. prostatico resistente e metastasi ossee, con una riduzione del 30 per cento del rischio di morte rispetto al placebo, e un prolungamento della sopravvivenza mediana di 3,6 mesi. I 921 pazienti arruolati ricevevano un’iniezione ev. ogni 4 settimane di radio-223 (50 kBq/kg peso corporeo) o di placebo, per un totale di sei iniezioni, in aggiunta alla migliore terapia standard. L’analisi mostra una sopravvivenza mediana di 14,9 mesi vs. 11,3 mesi (HR 0,70; 95 per cento CI: 0,58-0,83; P <0,001) e un miglioramento significativo di tutti i principali end point secondari di efficacia, incluso il tempo fino al primo evento sintomatico a carico dello scheletro.
L’incidenza complessiva di effetti sfavorevoli e il numero di pazienti che hanno interrotto la terapia risultano inferiori nel gruppo trattato rispetto a quello di controllo; tra i due gruppi non sono state riscontrate differenze clinicamente significative nella frequenza di effetti collaterali ematologici. La morte per Ca. prostatico è spesso dovuta alle metastasi ossee e alle loro complicanze. Le correnti terapie mirate sull’osso non hanno fino a oggi mostrato di migliorare la sopravvivenza, fornendo un trattamento rivolto in primo luogo a controllare il dolore e a ritardare gli eventi a carico dello scheletro. Lo studio ALSYMPCA ha dimostrato anche un miglioramento della sopravvivenza. È ora in corso un ulteriore trial con radio-223 in combinazione con docetaxel nel Ca. prostatico resistente e con metastasi ossee. (p.p.) Parker C, Nilsson S, Heinrich D et al. N Engl J Med 2013; 369: 213-23
£ Il disturbo dello spettro autistico (DSA) è una condizione multifattoriale complessa i cui sintomi cominciano Lo studio della chimica del cervello a manifestarsi fin dalla prima infanzia. Al momento il processo patofisiologico che la sottende resta per lo più potrebbe aprire nuove prospettive sconosciuto, e questo rende lontana la possibilità di una per comprendere la patofisiologia diagnosi precoce. Ecco perché merita una segnalazione dell’autismo e gettare le basi per lo studio condotto all’University of Washington di Seattle, che individua nel pattern di distribuzione correlato all’età una diagnosi differenziale precoce di alcune molecole del cervello, un potenziale target per la diagnosi preclinica. Sono stati presi in esame 73 bambini nella fascia di età compresa tra 3-4 anni, 69 in età 6-7 anni e 77 in età 9-10 anni. In ogni gruppo di età vi erano pazienti con DSA, con ritardo idiopatico nello sviluppo, e controlli (bambini con sviluppo tipico per la fascia di età considerata). La chimica cerebrale, con quantificazione di NAA (N-acetilaspartato), Cho (colina), Cr (creatina), mI (mio-inositolo) e glutamina+glutammato nella materia grigia e bianca, è stata valutata con spettri di risonanza magnetica protonica. Ed ecco i risultati. I bimbi tra i 3 e i 4 anni con DSA si caratterizzavano per valori più bassi di NAA, Cho e Cr sia a livello della sostanza grigia che bianca, rispetto a quanto osservato nei controlli; tali alterazioni, tuttavia, non si osservavano nella fascia di età più alta, 9-10 anni. Anche i bambini di 3-4 anni affetti da ritardo idiopatico mostravano livelli ridotti della stessa molecola, che però, contrariamente a quanto riscontrato nei pazienti con DSA, si mantenevano tali anche nella fascia di età 9-10 anni. Andando a vedere la distribuzione complessiva per età, cioè 3-10 anni, vi erano differenze specifiche tra il gruppo con ritardo e il gruppo DSA nel tasso di variazione delle concentrazioni di NAA, Cho e Cr a livello della sostanza grigia. Secondo gli Autori, la distribuzione nel tempo di queste molecole permetterebbe di differenziare le due condizioni. In base ai risultati ottenuti, il DSA sembra essere caratterizzato da un processo dinamico, con riduzione reversibile nei livelli di NAA nella sostanza grigia. Nel ritardo dello sviluppo idiopatico invece la “chimica” del cervello suggerisce un processo patofisiologico differente, molto più statico. psichiATRIA
Corrigan NM, Shaw DWW, Estes AM et al. JAMA Psychiatry 2013; Published online July 31, 2013. Doi: 10.1001/jamapsychiatry.2013.1388
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Medico e paziente
4.2013
farmacovigilanza
Rischio cardiovascolare aumentato, ma simile, per i broncodilatatori inalatori “long acting” £ I beta-agonisti a lunga durata d’azione (LABA) e gli anticolinergici a lunga durata d’azione (LAA) inalatori sono raccomandati in modo intercambiabile per il trattamento della BPCO moderata-severa. Poiché entrambe le classi farmacologiche risultano associate con un aumentato rischio di eventi CV, all’atto della prescrizione si pone il problema di quale sia l’agente associato al rischio minore. Uno studio osservazionale canadese ha riscontrato un aumento del rischio di accesso al PS o di ricovero per eventi CV nei nuovi utilizzatori di entrambi i tipi di farmaci, ma nessuna evidenza di una differenza del rischio tra le diverse molecole. Il consiglio attuale è pertanto di mantenere un attento controllo di tutti i pazienti con BPCO in terapia con un LABA o un LAA. Lo studio, basato sui registri sanitari della popolazione dell’Ontario, ha considerato tutti gli individui ≥ 66 anni trattati per BPCO (2003-2009) ed esaminato il rischio nei nuovi utilizzatori di uno dei farmaci in oggetto. Su oltre 191mila pazienti arruolati, il 28,0 per cento era incorso in un ricovero o una visita al PS per un evento CV. I nuovi utilizzatori di LABA o di LAA mostravano un rischio aumentato di eventi rispetto ai non utilizzatori, con un OR aggiustato rispettivamente di 1,31 (P <0,001) e di 1,14 (P =0,03). La differenza tra i due tipi di molecole risultava non significativa (OR aggiustato per LABA vs. LAA, 1,15; P =0,16). L’analisi per singoli eventi CV mostrava per entrambe le classi di farmaci un rischio paragonabile di sindrome coronarica acuta, di infarto miocardico e di aritmie, mentre per l’ictus risultava un effetto protettivo dei LAA. (p.p.)
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Gershon A, Croxford R, Calzavara A et al. JAMA Intern Med 2013; 173 (13): 1175-84 Honegger Gaspare Srl Via F. Carlini, 1 _ 20146 Milano Tel +39 02 4779141 _ Fax +39 02 48953748 honegger@tradefair.it _ www.honegger.it
oncologia
Tumore della prostata Il ruolo del PSA e degli antigeni tumorali nello screening e nella diagnosi precoce A oggi, nel nostro paese non si ritiene raccomandabile eseguire lo screening del tumore prostatico mediante dosaggio del psa. tale test può essere effettuato in presenza di sospetto clinico o dopo attenta valutazione dei fattori di rischio
A
oggi si stima che il tumore prostatico sia il tumore più frequentemente diagnosticato nel sesso maschile, ma è la terza causa di morte per patologia oncologica nella popolazione maschile italiana (dopo il tumore del polmone e del colon-retto, al primo e secondo posto rispettivamente). Secondo i registri AIRTUM, l’incidenza del tumore prostatico sta aumentando con un tasso di crescita pari a oltre il 6 per cento annuo. Nel 2012 si sono registrati circa 36.000 nuovi casi e oltre l’80 per cento di questi era stato diagnosticato in pazienti al di sopra dei 65 anni. Infatti il tumore della prostata è la terza causa di morte per patologie oncologiche nella popolazione italiana ultrasettantenne. L’aggressività biologica di questo tumore è principalmente legata al grado di
differenziazione, e infatti diversi studi hanno dimostrato alti tassi di diffusione metastatica, progressione e mortalità in carcinomi prostatici scarsamente differenziati (elevato Gleason) [1,2,3]. Però nel periodo 1988-2002 i tassi di mortalità per tumore della prostata hanno mostrato un trend in riduzione statisticamente significativo pari al -3,1 per cento all’anno, e la sopravvivenza media dei pazienti affetti da qualsiasi tumore prostatico a oggi si attesta intorno all’88 per cento a 5 anni dalla diagnosi [4]. Questo dato è in parte attribuibile alla campagna di screening oncologico mediante dosaggio del PSA che ha avuto inizio nei primi anni Novanta e che ha portato a un significativo aumento della diagnosi e trattamento precoci del tumore della prostata.
Ruolo fisiologico del PSA
Giuseppe Tonini, Marco Imperatori Oncologia Medica Università Campus Bio-Medico di Roma, Roma
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MEDICO E PAZIENTE
4.2013
L’Antigene Prostatico Specifico (PSA), chiamato anche semenogelasi, è una glicoproteina prodotta principalmente dal
tessuto prostatico; è un enzima appartenente alla classe delle idrolasi ad azione simil-callicreina. La sua produzione è codificata dal gene KLK-3. La funzione fisiologica del PSA è quella di mantenere fluido il seme dopo l’eiaculazione facilitando il movimento degli spermatozoi attraverso la cervice uterina. Infatti la semenogelasi è in grado di dissolvere la gelatina che intrappola lo sperma, costituita principalmente da semenogelline e fibronectina, mediante proteolisi di queste due proteine. L’attività del PSA è regolata da due meccanismi: y Regolazione della conversione tra forma inattiva di PSA (Pro-PSA) e forma attiva mediante l’azione della callicreina prostatica KLK2. y Inibizione-attivazione dovuta al passaggio da ambiente basico dello sperma ad ambiente acido della cervice uterina. Generalmente il PSA è secreto quasi esclusivamente nel liquido seminale e solo una minima quantità raggiunge il distretto circolatorio ed è quindi dosabile a livello ematico. I livelli ematici di PSA possono raggiungere elevati valori quando vi è un sovvertimento della fisiologia del tessuto ghiandolare prostatico (ipertrofia prostatica, prostatite, patologia maligna) o in seguito a manovre traumatiche [5,6].
Ruolo del PSA nella diagnosi precoce e screening Il dosaggio del PSA ha contribuito all’incremento osservato nell’incidenza di ne-
oplasia prostatica, con un significativo aumento del rischio di sovradiagnosi e senza definiti effetti sulla mortalità. Uno studio ha randomizzato più di 20.000 uomini a ricevere screening mediante dosaggio del PSA oppure a essere inseriti nel gruppo di controllo. A un follow-up medio di 14 anni si è evidenziata un’incidenza di 12,7 per cento nel gruppo sottoposto a screening mentre tale incidenza era pari a 8,2 per cento nel gruppo di controllo. Il rischio relativo di morte è risultato dello 0,56 (p =0,002) con una riduzione della mortalità specifica del 44 per cento. È da notare inoltre, che la riduzione del rischio di mortalità è del 75 per cento negli uomini arruolati tra i 50 e 60 anni [7]. Lo European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer (ERSPC) ha invece randomizzato 182.000 soggetti di età compresa tra i 50 e 74 anni a essere sottoposti a screening mediante dosaggio del PSA (in media ogni 4 anni, ma con differenze tra i diversi Paesi partecipanti nella periodicità dell’esecuzione del test, dei suoi cut-offs e dell’eventuale esecuzione contemporanea di esplorazione rettale e/o ecografia transrettale) o a far parte di un gruppo di controllo. A un follow-up medio di 9 anni, l’incidenza cumulativa era di 8,2 per cento nel gruppo di screening vs. 4,8 per cento in quello di controllo, con un rapporto nel tasso di mortalità cancro correlata tra il gruppo di screening e quello di controllo pari a 0,80 (p =0,04). La differenza nel rischio assoluto di morte è risultata essere di 0,71 morti per 1.000 uomini: ciò significa che 1.410 soggetti dovrebbero essere sottoposti a screening e 48 casi addizionali dovrebbero essere trattati per prevenire una singola morte per carcinoma prostatico. Veniva quindi concluso che lo screening mediante dosaggio del PSA è associato a un rischio di sovradiagnosi nell’ordine del 50 per cento [8]. Un altro studio americano (PLCO) ha randomizzato 76.693 uomini a ricevere screening mediante dosaggio del PSA ed esplorazione rettale o a essere in un gruppo di controllo. A un follow up di 7 anni il tasso di mortalità era 2 per 10.000 persone-anno nel gruppo di screening vs.
1,7 in quello di controllo, e non si evidenziava una differenza statisticamente significativa nei 2 gruppi. Questo studio aveva però diversi difetti di disegno: 1) la gestione dello screening era affidata ai medici curanti, e solo il 40 per cento dei casi in cui era effettivamente indicata una biopsia in base al valore del PSA, eseguiva la procedura; 2) oltre il 50 per cento dei pazienti sottoposti a screening era già sottoposto a screening oncologico prima di essere arruolato; 3) anche nel gruppo di controllo, oltre il 50 per cento dei soggetti ha eseguito dosaggio del PSA spontaneamente [9]. L’incremento dell’incidenza del tumore prostatico legato all’anticipazione diagnostica ottenuta con i programmi di screening ha portato quindi a un sovratrattamento del tumore prostatico, rendendo prioritaria la necessità di individuare dei criteri per la distinzione tra tumore prostatico latente e tumore prostatico letale. È stato necessario individuare un valore cut-off del PSA per la stima del rischio di morte per tumore prostatico. Uno studio irlandese ha analizzato 68.354 uomini, dei quali il 74 per cento aveva un PSA basale <4 ng/ml, nello 0,8 per cento di questi è stato successivamente diagnosticato un carcinoma prostatico. L’analisi dei dati mostrava che il tasso di mortalità specifica per cancro della prostata era però basso per tutti i valori di PSA <10 ng/ml mentre aumenta significativamente solo nei casi con PSA basale >10 ng/ ml [10]. Nella valutazione del sospetto clinico per tumore della prostata, viene quindi adottato convenzionalmente come cut-off di riferimento il valore di PSA ematico ≥4 ng/ml. Esso si è dimostrato essere più sensibile dell’esplorazione rettale nell’individuazione del tumore della prostata [11]. Inoltre, l’Associazione Americana di Urologia (AUA) e l’Associazione Americana per il Cancro (ACS) hanno raccomandato il dosaggio del PSA annuale nei maschi di età superiore ai 50 anni [12] pur in assenza di una concreta evidenza sul reale beneficio di tale screening e soprattutto esponendo al rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento . Infatti si è evidenziato che l’effetto sulla
riduzione della mortalità per tumore della prostata del dosaggio del PSA annuale è paragonabile al quello del dosaggio ogni 2 anni. Inoltre i soggetti anziani, affetti da patologie gravi e in generale con aspettativa di vita minore di 10 anni non beneficiano dello screening per tumore della prostata [13]. A oggi comunque, in Italia non si ritiene raccomandabile eseguire screening del tumore prostatico mediante dosaggio del PSA. Tale test può essere effettuato su sospetto clinico o su attenta valutazione dei fattori di rischio.
Attendibilità del dosaggio del PSA Il PSA è presente in circolo sia in forma libera che coniugato a inibitori enzimatici o proteine di trasporto, quali l’antichimotripsina e l’alfa-2-macroglobulina. Quindi i metodi immunometrici (basati sull’utilizzo di anticorpi) di dosaggio del PSA totale comunemente in uso misurano una miscela di isoforme principalmente rappresentate dal PSA libero e quello legato all’antichimotripsina [14]. Il PSA ematico può essere elevato non solo in presenza di patologia maligna della prostata, ma anche in caso di patologia benigna (ipertrofia prostatica, prostatite, infarto prostatico, ritenzione urinaria), oppure dopo esecuzione di manovre invasive quali cistoscopia, biopsia prostatica ed esplorazione transrettale. L’uso di inibitori della 5-alfa reduttasi (quali finasteride e dutasteride) invece si associa a una riduzione dei livelli del PSA. È quindi consigliabile eseguire il dosaggio del PSA prima dell’esplorazione rettale o 24 ore dopo, e prima dell’inizio di trattamenti con inibitori della 5-alfa reduttasi, così da avere un valore basale di riferimento. Le Linee guida AIOM suggeriscono un approfondimento diagnostico in caso di decrementi del PSA minori del 50 per cento in corso di terapia con inibitori della 5-alfa reduttasi [15]. Nonostante la disponibilità di uno standard internazionale di riferimento (WHO), sono descritte significative variazioni tra i risultati dei diversi metodi calibrati secondo lo standard WHO nel
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oncologia Tabella 1
Diagnosi e screening mediante dosaggio dei marker tumorali nel Ca. prostatico Screening
Non vi sono evidenze forti sull’utilizzo del dosaggio del PSA e PSA libero/totale come screening nel tumore prostatico
Valore cut-off
Il valore soglia è generalmente 4,0 ng/ml, andrebbe abbassato a 2,5 ng/ml in caso di soggetti giovani, con età inferiore a 50 anni
Evitare falsi positivi o negativi
Il PSA andrebbe dosato prima di manovre invasive, oppure 24 ore dopo esplorazione rettale e almeno 30 giorni dopo manovre più invasive (es. cistoscopia), prima di iniziare trattamenti con inibitori della 5-alfa reduttasi e dopo adeguata terapia antibiotica e antinfiammatoria in caso di sospetta prostatite
PSA libero/totale
È affidabile solo se applicato per valori di PSA compresi tra 4 e 10 ng/ml e in fase diagnostica, non ha nessun significato il dosaggio del rapporto in caso di PSA <2,5 e >20 ng/ml
Altri marcatori tumorali
Sia la valutazione delle isoforme del pro-PSA che PCA score non sono metodiche di screening e diagnosi applicate nella routine
dosare PSA totale e libero. Pertanto è opportuno far eseguire il dosaggio del PSA sempre nel medesimo laboratorio, e il laboratorio dovrebbe indicare sempre il metodo di misurazione utilizzato. La necessità di avere un esame ad alta sensibilità e specificità per la diagnosi precoce del tumore prostatico ha portato all’individuazione di altri parametri di valutazione del dosaggio del PSA. 1) La “PSA velocity” su base annua (intesa come tasso di incremento del PSA in un anno) non trova ancora un uniforme consenso. L’utilizzo di un cut-off di PSA velocity superiore a 0,35 avrebbe la capacità di predire l’insorgenza del cancro e di essere potenziale indicatore di aggressività della neoplasia. Però diversi studi hanno portato a conclusioni divergenti e le Linee guida NCCN suggeriscono di considerare il PSA velocity solo in caso di valutazione della re-biopsia nei casi di PSA maggiore di 10 ng/ml [16,17]. 2) Il calcolo della PSA density (inteso come rapporto tra PSA circolante e dimensioni della ghiandola misurate ecograficamente) si basa sull’osservazione che la quantità di PSA prodotto per grammo di tessuto ghiandolare è molto superiore nel cancro rispetto all’ipertrofia prostatica. Diversi studi hanno mostrato che questo
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indice ha un’accuratezza diagnostica migliore del PSA totale e simile al rapporto PSA totale/libero in caso di PSA compreso tra 4 e 10 ng/ml. Inoltre la PSA density si è dimostrata avere un’accuratezza migliore del rapporto PSA libero/totale in caso di PSA totale compreso tra 2 e 4 ng/ml. Tale metodica è però gravata da diversi fattori che ne limitano l’attendibilità: a) variabilità operatore-dipendente della misurazione del volume prostatico; b) diverso rapporto tra tessuto ghiandolare (secernente PSA) e tessuto stromale (non secernente PSA) [18]. 3) Non vi è parere unanime circa l’utilizzo dei cut-off di PSA aggiustati per fasce di età. È consigliabile abbassare il valore soglia a 2,5 ng/ml in soggetti giovani (< 50 anni) 4) La valutazione del rapporto PSA libero/totale ha portato invece, a un notevole incremento dell’accuratezza diagnostica del dosaggio di PSA. Infatti il PSA libero è notevolmente aumentato in caso di patologie benigne (quali prostatiti e ipertrofia prostatica benigna), ma non in caso di patologia maligne. Tuttavia non è ancora chiaro il valore cut-off ottimale che pone l’indicazione per un approfondimento diagnostico mediante biopsia. Una recente revisione della letteratura
evidenzia un’accuratezza diagnostica elevata per patologia oncologica, soprattutto se si applica il valore di PSA totale/ libero <7 per cento in caso di PSA totale compreso tra 4 e 10 ng/ml [19]. Quindi un valore di PSA libero/totale ≥20 per cento inteso come suggestivo di patologia benigna mentre un valore di PSA <10 per cento suggestivo di patologia maligna trovano applicazione in un ristretto numero di casi . Nella pratica clinica è inoltre consigliabile applicare il rapporto PSA libero/totale in un range di riferimento tra 2,5 ng/ml e 10 ng/ml [20,21]. L’uso del rapporto PSA libero/totale trova comunque applicazione solo in fase diagnostica, e non in fase di staging.
Ruolo delle isoforme del PSA Diversi studi hanno valutato il ruolo delle isoforme del pro-PSA quale marcatore specifico nella diagnosi del tumore prostatico. La isoforma 2 del pro-PSA (2-pro-PSA) libero si trova in elevate concentrazioni nel tessuto tumorale mentre vi è una riduzione del PSA libero rispetto al tessuto prostatico sano ed è probabilmente il risultato di modificazioni proteolitiche post-traslazionali e di alterazioni delle vie metaboliche cellulari tipiche del tessuto neoplastico [22]. Attualmente il 2-pro-PSA è dosabile con metodica standardizzata e l’algoritmo più diffusamente utilizzato e il PROSTATE HEALTH INDEX (phi) calcolato come [(2-proPSA/PSA libero) x (radice quadrata del PSA totale)] Sono stati finora condotti almeno 15 studi diversi che hanno studiato il significato clinico del 2-pro PSA in oltre 5.050 casi, di cui oltre 2.400 pazienti con tumore prostatico. I risultati dei diversi studi hanno evidenziato che il 2-pro PSA, e in particolare il phi, ha una migliore performance diagnostica nei casi con PSA fra 2 e 10 ng/ml rispetto ai derivati del PSA e al rapporto PSA libero/totale [23,24,25]. Inoltre è stata dimostrata un’associazione significativa tra aggressività del tumore prostatico e livelli basali di 2-pro-PSA. Naturalmente l’impiego di questi metodi,
Figura 1
Algoritmo diagnostico Esplorazione Rettale sospetta o PSA sospetto o Ecografia TR sospetta
Esplorazione rettale neg e PSA >10 oppure Esplorazione rettale sospetta
Esplorazione rettale neg e PSA compreso tra 4 e 10
Esplorazione rettale neg e PSA <4
PSA Libero/totale PSA Libero/totale sospetto
PSA Libero/totale non sospetto
Biopsie ecoguidate
Follow up
Fonte: modificato da Linee guida AIOM, 2011
pur consentendo di ridurre il numero di biopsie non necessarie in soggetti non affetti da neoplasia prostatica, si associa al rischio che alcune neoplasie prostatiche siano misconosciute.
Nuovi biomarcatori: il PCA3 Il Prostate Cancer Antigen 3 (PCA3), chiamato anche DD3, è un gene localizzato sul cromosoma 9q21–22. Il mRNA non codificante del PCA3 risulta iperespresso nel 95 per cento dei tumori prostatici, mentre la sua espressione è quasi assente nel tessuto prostatico sano, in caso di ipertrofia prostatica benigna o in caso di altre neoplasie maligne. La iperespressione del PCA3 è comunque bassa in caso di neoplasia prostatica costituita da un piccolo numero di cellule neoplastiche [26,27,28]. L’analisi di tale nuovo biomarcatore avviene tramite una nuova metodologia standardizzata che permette di elaborare un “PCA score” ricavato da un rapporto PCA3 mRNA/ PSA mRNA x 1.000 determinato su un campione di urine dopo massaggio prostatico. Diversi studi hanno dimostrato che:
1) Il PCA3 ha un valore predittivo di positività della prima biopsia superiore al PSA totale e al rapporto PSA libero/ totale ed è indipendente da altri fattori predittivi (PSA, esplorazione rettale, età, volume prostatico); 2) Il PCA3 è un fattore predittivo di positività di una biopsia ripetuta dopo prima biopsia negativa, ed è quindi potenzialmente in grado di ridurre il numero di biopsie ripetute non necessarie; 3) Il PCA3 è molto accurato nell’individuazione di tumori piccoli e indolenti [29,30]. Attualmente il dosaggio di tale marcatore va comunque considerato come sperimentale e non routinario. Può essere utile nel predire la possibilità di positività di una seconda biopsia prostatica. La tabella 1 riassume il ruolo del dosaggio dei marker tumorali nella diagnosi del tumore alla prostata, mentre la figura 1 presenta il percorso diagnostico suggerito nelle Linee guida AIOM.
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Il dosaggio del PSA ha contribuito all’incremento osservato nell’incidenza di neoplasia prostatica, con un significativo aumento del rischio di sovradiagnosi e senza definiti effetti sulla mortalità. L’incremento dell’incidenza del tumore prostatico legato all’anticipazione diagnostica ottenuta con i programmi di screening ha portato a un sovratrattamento, rendendo necessaria l’individuazione di criteri per la distinzione tra tumori latenti e letali 11. Harris RP, Lohr KN, Beck R, Fink K, Godley P, Bunton A. Screening for Prostate Cancer. Systematic Evidence Review No. 16 (Prepared by the Research Triangle Institute —University of North Carolina, Evidencebased Practice Center under Contract No. 290-97-0011). Rockville, MD: Agency for Healthcare Research and Quality. 2001. (Available on the AHRQ Web site at: www. ahrq.gov/clinic/serfiles.htm). 12. U.S. Preventive Services Task Force. Screening for Prostate Cancer: U.S. Preventive Services Task Force Recommendation Statement. Ann Intern Med 2008; 149 (3): 185-91. 13. Harris RP, Lohr KN. Screening for prostate cancer: an update of the evidence for
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oncologia
Tumore dello stomaco L’infezione da Helicobacter pylori come fattore di rischio Benché l’incidenza dei tumori dello stomaco si sia ridotta negli ultimi decenni, essi rappresentano ancora oggi nel mondo la seconda causa di morte per neoplasia
L’
incidenza dei tumori dello stomaco varia nelle diverse aree geografiche: è più alta in alcuni Paesi asiatici come il Giappone, mentre l’Europa si colloca in una fascia intermedia. In Italia circa 70.000 persone sono ammalate di tumore dello stomaco con un’incidenza di circa 15-20 nuovi casi all’anno per 100.000 abitanti (dati AIRTUM, Associazione italiana registro tumori). L’Helicobacter (H.) pylori è un batterio largamente diffuso nella popolazione generale infettando in Europa circa il 20-30 per cento dei soggetti adulti. È un batterio che si contrae in genere nell’infanzia o nell’adolescenza e che persiste per tutta la vita fino a quando non viene eradicato. L’H.pylori è la principale causa della gastrite cronica e dell’ulcera peptica, e sembra svolgere un ruolo importante nella patogenesi di alcuni tumori dello stomaco, come il linfoma primitivo dello stomaco, detto anche linfoma MALT (Mucosa-Associated
Rocco Maurizio Zagari, Franco Bazzoli UO Gastroenterologia Policlinico S. Orsola Malpighi, Università di Bologna
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Lymphoid Tissue) e l’adenocarcinoma gastrico non-cardiale di tipo intestinale. Nel 1994 l’Associazione Internazionale per la Ricerca sul cancro (IARC), definiva l’H.pylori un agente carcinogenetico di tipo I. Nella recente Consensus Conference “Maastricht/Firenze IV”, che ha prodotto le più recenti Linee Guida Europee per la gestione del paziente con infezione da H.pylori, si è largamente discusso dell’associazione tra infezione da H.pylori e tumori dello stomaco e in particolare, del ruolo dell’eradicazione di questo batterio nella prevenzione del cancro gastrico (1).
l’H.pylori è una delle cause del linfoma gastrico MALT Vi sono ormai da tempo sufficienti evidenze scientifiche che l’infezione da H.pylori causi il linfoma gastrico MALT. L’infezione da H.pylori è presente in circa l’80 per cento dei soggetti con linfoma MALT e l’eradicazione porta alla regressione del linfoma a basso grado di malignità in circa il 6080 per cento dei pazienti. La terapia antibiotica eradicante è oggi considerata il trattamento di prima scelta dei pazienti con linfoma MALT a basso
grado di malignità e in uno stadio iniziale (Lugano I/II) (2). Come l’infezione da H.pylori porti allo sviluppo di un linfoma nello stomaco non è completamente chiaro. Quello che sappiamo è che normalmente la mucosa gastrica non contiene tessuto linfoide e che l’ infezione cronica da H.pylori porta nel tempo alla sviluppo di follicoli linfatici nella mucosa. I follicoli linfatici, che derivano dall’aggregazione di linfociti T e B, sono il pre-requisito necessario per lo sviluppo del linfoma. In più l’H. pylori non si limita soltanto a preparare le condizioni tissutali propizie allo sviluppo del linfoma, ma sembra anche esercitare un ruolo attivo di stimolazione sul linfoma già presente. Studi di biologia molecolare hanno infatti riportato che esistono ceppi di H.pylori che stimolano i linfociti B linfomatosi a esprimere antigeni di attivazione, a proliferare e a sintetizzare immunoglobuline tumorali. Per fortuna solo raramente il tessuto linfoide va incontro a una serie di trasformazioni che portano allo sviluppo del linfoma, e questo è il motivo per cui il linfoma MALT insorge soltanto in un piccolissimo numero di soggetti infettati dall’H.pylori.
H.pylori è un fattore di rischio per il Cancro dello stomaco L’Organizzazione mondiale della Sanità ha recentemente stabilito che vi sono sufficienti evidenze scientifiche per confermare che l’H.pylori è un importante fattore di rischio per il cancro dello stomaco (Figura 1) (3). Studi sperimentali
in vitro e in vivo e studi epidemiologici hanno tutti dimostrato che vi è una stretta associazione tra l’infezione da H.pylori e l’adenocarcinoma gastrico. Studi sperimentali in vivo hanno dimostrato che l’infezione da H.pylori è in grado di far sviluppare sia lesioni precancerose, come gastrite atrofica e metaplasia intestinale, sia il cancro dello stomaco in modelli animali (4). La prevalenza dell’infezione da H.pylori supera il 90 per cento nei soggetti con cancro gastrico. Studi caso-controllo multicentrici internazionali hanno riportato che l’infezione da H.pylori può aumentare fino a 20 volte il rischio di cancro gastrico (5). Studi di coorte prospettici, in cui soggetti infettati dall’H.pylori e soggetti non infettati sono stati seguiti nel tempo, hanno dimostrato che la presenza dell’H.pylori si associa a un maggior rischio di sviluppare sia condizioni precancerose, come la gastrite cronica atrofica e la metaplasia intestinale, sia il cancro gastrico (6,7). Uemura ha condotto uno studio di coorte prospettico in cui 1.246 soggetti H.pylori positivi e 280 H.pylori negativi sono stati seguiti per otto anni. Al termine il 2,9 per cento dei soggetti H.pylori positivi aveva sviluppato un cancro dello stomaco, mentre nessun caso di cancro gastrico veniva riportato nei soggetti H.pylori negativi (7).
L’eradicazione previene il cancro gastrico? Studi randomizzati e controllati condotti in Colombia, Cina e Giappone hanno riportato in maniera consistente che l’eradicazione dell’H.pylori riduce il rischio di sviluppare il cancro dello stomaco. Nello studio di Wong 1.630 soggetti con infezione da H.pylori sono stati randomizzati a ricevere una terapia antibiotica di eradicazione o placebo (8). Dopo di circa 8 anni l’incidenza del cancro dello stomaco era più bassa nel gruppo di soggetti che avevano ricevuto la terapia eradicante, e questo effetto risultava statisticamente significativo nel sottogruppo di soggetti che al momento del trattamento non aveva ancora sviluppato condizioni precancerose, come gastrite atrofica o metaplasia intestinale (p =0,02). Il tallone di Achille dei singoli trial di eradicazione è che la riduzione del rischio di cancro gastrico nei soggetti che avevano ricevuto il trattamento eradicante non risultava mai essere statisticamente significativa, a parte nel sottogruppo dello studio di Wong. Benché ognuno di questi trial avesse arruolato poco più di un migliaio di soggetti, le dimensioni del campione non conferivano mai a nessun trial la potenza necessaria per dimostrare un effetto statisticamente significativo della terapia di eradicazione.
Noi abbiamo fatto una metanalisi di tutti i trial di eradicazione randomizzati e controllati (9). La metanalisi ha incluso 6.695 soggetti con infezione da H.pylori e ha dimostrato che dopo un follow-up medio di 6 anni, l’incidenza del cancro gastrico era significativamente più bassa, pari all’1,1 per cento (37/3.388), nel gruppo di soggetti che aveva ricevuto la terapia antibiotica rispetto al gruppo placebo, dove era dell’1,7 per cento (56/3.307). L’eradicazione sembra ridurre di circa un terzo il rischio di cancro dello stomaco (RR =0,65; 95 per cento CI: 0,43-0,98) (Figura 2). È questa la dimostrazione definitiva del rapporto causale tra H.pylori e cancro gastrico. Sulla base di queste recenti evidenze la Linea Guida Europea “Maastricht/Firenze IV” ha stabilito che l’eradicazione è la migliore strategia per ridurre l’incidenza del cancro gastrico.
come fa l’H.pylori a causare il cancro dello stomaco?
Benché vi siano ancora molti punti da chiare, gli studi sperimentali in vitro e in vivo ci hanno fornito molte informazioni sull’azione carcinogenetica dell’H.pylori. Oggi sappiamo che esso esercita la sua azione carcinogenetica sia direttamente sia indirettamente attraverso tre meccanismi: l’infiammazione cronica Figura 1 della mucosa gastrica (gastrite cronica), un aumento dello Helicobacter pylori come fattore di rischio per cancro gastrico stress ossidativo e alterazioni Definizione OMS-IARC genetiche ed epigenetiche (3). L’H.pylori causa sempre una Neoplasie maligne per cui c’è Agente carcinogenetico Meccanismi sufficiente evidenza scientifica gastrite cronica, con infiltraClasse I stabiliti nell’uomo zione della mucosa da parte Infiammazione di linfociti, plasmacellule e gracronica nulociti neutrofili. L’H.pylori causa inizialmente una gastrite Stress ossidativo cronica superficiale che in alAlterazioni cuni soggetti, con il persistere genetiche del batterio negli anni, evolve (mutazioni) Cancro gastrico non-cardiale verso una gastrite atrofica, con distruzione parziale o toAlterazioni Linfoma MALT a basso grado tale delle ghiandole della muepigenetiche Helicobacter pylori cosa. Nell’ambito della gastrite (metilazione ecc.) atrofica si sviluppa una meFonte: Bouvard et al. Lancet Oncology 2009 taplasia intestinale, cioè una
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oncologia trasformazione fenotipica delle cellule gastriche in cellule di tipo intestinale. La gastrite atrofica e la metaplasia intestinale sono le condizioni in cui si sviluppa la displasia gastrica prima e l’adenocarcinoma dopo (Figura 3). Ma come si passa dalla gastrite atrofica e metaplasia intestinale alla displasia e al cancro? È a questo punto che probabilmente intervengono l’aumento dello stress ossidativo e le alterazioni genetiche indotte dal batterio. L’H.pylori aumenta i livelli di sostanze ossidanti carcinogenetiche nella mucosa gastrica, sia direttamente, inducendo la produzione di elevate quantità di sintetasi dell’ossido nitrico (iNOS), l’enzima che catalizza la sintesi dell’ossido nitrico (10), sia indirettamente attraverso la riduzione della secrezione acida gastrica. L’H.pylori causa infatti in alcuni soggetti una pangastrite atrofica cioè una gastrite atrofica che interessa sia l’antro sia il corpo dello stomaco. La gastrite atrofica del corpo, che significa distruzione delle ghiandole ossintiche, porta a un’ipocloridria intragastrica che favorisce la proliferazione intraluminale di batteri anaerobi salivari e di tipo fecale (11). Questi batteri utilizzando i nitrati e i nitriti introdotti con la dieta producono nitrosamine carcinogenetiche e sostanze
ossidanti (12). L’ipocloridria si associa anche a una ridotta concentrazione intragastrica di acido ascorbico che normalmente neutralizza le nitrosamine e le sostanze ossidanti carcinogenetiche. Questo è il motivo per cui i soggetti infettati dall’Helicobacter pylori che sviluppano una pangastrite atrofica sono quelli che hanno un maggiore rischio di sviluppare il cancro dello stomaco. Il rischio di cancro gastrico sembra essere aumentato di 5-6 volte nei soggetti con atrofia e metaplasia intestinale, e di circa 3-4 volte in quelli con gastrite atrofica estesa al corpo gastrico (7). Infine l’Helicobacter pylori causa direttamente mutazioni genetiche e alterazioni epigenetiche nelle cellule epiteliali gastriche. Studi sperimentali hanno dimostrato che l’H.pylori può causare mutazioni di oncogeni, di geni soppressori dei tumori, come il gene P53, e alterazioni genetiche, come l’ipermetilazione di geni promotori (13). Nitrosamine carcinogenetiche, sostanze ossidanti, mutazioni e alterazioni epigenetiche porterebbero a un aumento dell’apoptosi e della proliferazione cellulare, ad alterazioni dell’adesione e polarità cellulare e infine a una deregolazione della differenziazione cellulare, con conseguente trasformazione neoplastica delle cellule epiteliali (13-14).
I cofattori per lo sviluppo di cancro gastrico in un soggetto H.pylori positivo L’H.pylori è certamente un’importante condizione predisponente, ma non è da sola sufficiente per lo sviluppo di un tumore dello stomaco. È necessaria la presenza di una serie di cofattori, come fattori di virulenza del batterio, una predisposizione genetica del soggetto infettato e fattori ambientali, perché il processo di carcinogenesi progredisca verso lo sviluppo del tumore gastrico (Tabella 1) (15). In altre parole il tumore dello stomaco sembra essere il risultato di una combinazione di eventi non certamente facile da realizzarsi: l’infezione di un ceppo di H.pylori particolarmente virulento in un soggetto geneticamente predisposto a produrre una severa infiammazione della mucosa gastrica ed eventualmente esposto ad altri fattori carcinogenetici ambientali come il fumo o la dieta. In questo soggetto l’H.pylori causerà una gastrite atrofica che interesserà tutto lo stomaco dall’antro al corpo con conseguente ipocloridria e possibile sviluppo di un cancro dello stomaco.
w Fattori di virulenza del batterio Non tutti i ceppi di H.pylori sono uguali
Figura 2
L’eradicazione di H. pylori riduce significativamente il rischio di cancro gastrico Metanalisi dei trial di eradicazione randomizzati e controllati Autore
Anno
RR (95% CI)
Eventi (trattamento)
Eventi (controllo)
Correa et al.
2000
1,48 (0,25, 8,83)
3/491
2/485
Leung et al.
2004
0,66 (0,19, 2,31)
4/295
6/292
Wong et al.
2004
0,63 (0,25, 1,63)
7/817
11/813
Saito et al.
2005
0,55 (0,09, 3,27)
2/379
3/313
You et al.
2006
0,70 (0,39, 1,26)
19/1.130
27/1.128
Zhou et al.
2008
0,29 (0,06, 1,36)
2/276
7/276
0,65 (0,43, 0,98)
37/3.388
56/3.307
Complessivo
RR 0,65 (0,43-0,98)
Fonte: Fuccio L, Zagari RM et al. Ann Intern Med 2009
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in termini di virulenza. Vi sono ceppi più virulenti di altri e sono quelli che producono la citotossina CagA e la citotossina vacuolizzante VacA. Esistono poi diverse varianti della citotossina CagA e della citotossina VacA, di cui alcune come la CagA Tipo ABCCC, la CagA di tipo D, la VacA s1m1 hanno una maggiore attività citotossica (16). Quindi anche tra i ceppi più virulenti vi sono quelli a maggiore aggressività. La citotossina CagA, che è una tossina proteica iniettata nella cellula epiteliale gastrica attraverso un sistema di secrezione, detto sistema di secrezione di tipo IV codificato, esercita un’azione antigenica stimolando la cellula epiteliale a produrre elevate quantità di un’interleuchina pro-infiammatoria, l’interleuchina 8, inducendo così una più intensa risposta infiammatoria. Ma la citotossina CagA ha anche un’azione carcinogenetica poiché in grado di causare alterazioni genetiche nel DNA nucleare e mitocondriale delle cellule epiteliali. Un recente studio effettuato nel topo ha dimostrato che la citotossina CagA è addirittura in grado di causare nell’animale un cancro dello stomaco senza produrre un’infiammazione della mucosa (17). La citotossina CagA viene ormai considerata un vero e proprio oncogene batterico. L’infezione con ceppi di H.pylori CagA positivi è stata vista essere associata a una più severa risposta infiammatoria e a maggiori alterazioni fenotipiche e genetiche delle cellule epiteliali gastriche e conseguentemente a un maggiore rischio di sviluppare condizioni precancerose e cancro gastrico. Uno studio multicentrico europeo condotto su circa 400.000 soggetti ha dimostrato che i soggetti infettati con ceppi di H.pylori CagA positivi hanno un rischio di sviluppare un cancro gastrico 4 volte più alto di quelli infettati con ceppi CagA negativi (18).
w Predisposizione genetica del soggetto infettato Vi sono soggetti che hanno una maggiore predisposizione genetica di altri a sviluppare il cancro dello stomaco. Sappiamo che i familiari di I grado di pazienti con cancro gastrico hanno un rischio almeno 3 volte più alto di sviluppare un tumore
Figura 3
Sequenza di eventi che portano al carcinoma Helicobacter pylori
Gastrite cronica superficiale
Gastrite cronica atrofica
Metaplasia intestinale
presenza di particolari polimorfismi dei geni (variazioni genetiche) che codificano la sintesi dell’interleuchina 1B e del TNF-alfaα, entrambe citochine a elevata attività pro-infiammatoria. È stato riportato che i soggetti che presentano il genotipo IL-1beta-511T Carrier e il genotipo IL1 VNTR se infettati dall’H.pylori producono nella mucosa gastrica una maggiore quantità di interleuchina 1B, che oltre ad avere attività pro-infiammatoria è anche un potente inibente della secrezione acida. Questi soggetti sembrano avere un maggiore rischio di sviluppare lesioni precancerose e cancro dello stomaco se infettati dall’H.pylori (20).
w Fattori ambientali Displasia
Carcinoma
dello stomaco. Una recente metanalisi ha dimostrato che questi soggetti hanno un maggiore rischio di sviluppare la gastrite atrofica e la metaplasia intestinale se infettati dall’H.pylori (19). Un’altra predisposizione genetica a sviluppare il cancro gastrico sembra essere legata alla
Il fumo, l’alcol e una dieta ricca di cibi salati e conservati, e carne rossa sono stati riportati essere fattori di rischio per il cancro dello stomaco (21). Sembra esserci un’azione sinergica tra fumo, fattori dietetici e infezione da H.pylori nell’aumentare il rischio di cancro gastrico. Uno studio multicentrico europeo ha riportato che una dieta ricca di carne rossa aumenta di 5 volte il rischio di cancro gastrico nei soggetti con infezione da H.pylori (OR =5,32; 95 per cento CI: 2,10-13,4) (22). I nitrati e i nitriti assunti con la carne rossa rappresenta-
Tabella 1
Adenocarcinoma gastrico: eziologia multifattoriale Helicobacter pylori Ceppi batterici più virulenti CagA+TipoABCCC, VacA+s1m1, BabA2+
Predisposizione genetica del soggetto infettato Familiarità di I grado per cancro gastrico Polimorfismi di geni di interleuchine pro-infiammatorie
Fattori di rischio ambientali Fumo, alcol Dieta ricca di cibi salati e affumicati Dieta ricca di carne rossa Dieta povera di frutta e verdura
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oncologia Tabella 2
Soggetti in cui è indicata l’eradicazione di H. pylori per la prevenzione del cancro gastrico Linee guida europee Maastricht IV Pregressa gastroresezione o mucosectomia endoscopica per cancro gastrico Gastrite atrofica e/o metaplasia intestinale Familiarità di I grado per cancro gastrico Uso continuativo di inibitori di pompa protonica per almeno 1 anno Forti fumatori Paura del cancro gastrico
no un’importante fonte di produzione di nitrosamine carcinogenetiche in uno stomaco reso ipoacido da una gastrite atrofica del corpo H.pylori-correlata. D’altra parte una dieta mediterranea, ricca di frutta e verdura e quindi di sostanze antiossidanti, come le vitamine C ed E e il betacarotene, sembra proteggere dal cancro gastrico anche i soggetti H.pylori positivi (23). Tuttavia ciò che è emerso dagli studi più recenti è che i fattori dietetici sembrano avere un piccolo ruolo nella carcinogenesi gastrica in assenza dell’infezione da H.pylori (22,23).
Qual è il rischio generico di sviluppare un tumore allo stomaco per un soggetto H.pylori positivo Se è vero che l’H.pylori è un importante fattore di rischio per i tumori dello stomaco è anche vero che la probabilità che un soggetto con infezione da H.pylori sviluppi un tumore dello stomaco nel corso della vita è comunque molto bassa. È importante avere ben chiaro in mente che la maggior parte dei soggetti con infezione da H.pylori non svilupperà mai né un linfoma né un carcinoma gastrico. I dati degli studi coorte e dei trial di eradicazione ci dicono che nelle popolazioni a più alta incidenza di cancro gastrico, come in Asia, il rischio generico che un soggetto con infezione da H.pylori ha di sviluppare un cancro dello stomaco è di circa il 3-4 per cento dopo circa 10 anni di follow-up (7, 9). In Europa l’incidenza annua del can-
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cro dello stomaco è almeno 4 volte più bassa. Considerando che il rischio di cancro gastrico è quasi nullo prima dei 45 anni e una prospettiva media di vita di circa 40 anni, possiamo ipotizzare che la probabilità che un soggetto con infezione da H.pylori sviluppi il cancro dello stomaco nel corso della vita possa essere intorno al 4-5 per cento. D’altra parte in una popolazione di due comuni vicino a Bologna, Loiano e Monghidoro, dove circa il 57 per cento della popolazione con un’età media di circa 60 anni risultava essere positiva all’H.pylori , soltanto l’1 per cento aveva sviluppato fino a quel momento un tumore maligno dello stomaco (24).
Prevenzione primaria: testare ed eradicare tutti o solo i soggetti ad alto rischio? Uno screening di massa per l’H.pylori con conseguente eradicazione in tutti i soggetti infettati sarebbe probabilmente la migliore opzione per la prevenzione primaria del cancro gastrico. Bisogna però tenere presente qual è il costo di uno screening di massa e quale sarà il suo effetto nel ridurre l’incidenza del cancro gastrico. L’eradicazione dell’infezione in tutti i soggetti adulti con più di 30 anni ha portato nella popolazione di Taiwan a una significativa riduzione delle lesioni pre-cancerose gastriche, e siamo in attesa dei primi dati sull’effetto nel ridurre l’incidenza del cancro gastrico (25). Un recente studio ha dimostrato che uno screening di massa potrebbe essere una
strategia costo-efficace solo nelle popolazioni a più alto rischio di cancro dello stomaco, come in Asia (26). Non vi sono dati che ci dicano che uno screening di massa è una strategia costoefficace nelle popolazioni a basso-medio rischio di cancro gastrico, come in Europa. Dobbiamo inoltre, tenere in considerazione la progressiva riduzione della prevalenza dell’H.pylori e dell’incidenza del cancro gastrico nelle popolazioni occidentali. Le Linee Guida Europee raccomandano di sottoporre a un test per la diagnosi di infezione da H.pylori e a eventuale successiva terapia di eradicazione (“Test and treat”) soltanto i soggetti ad alto rischio di cancro gastrico, in particolare i pazienti precedentemente sottoposti a gastroresezione o mucosectomia endoscopica per un cancro dello stomaco, quelli che hanno un parente di I grado con cancro gastrico, i soggetti con una diagnosi di pangastrite o gastrite atrofica e quelli che assumono una terapia antisecretiva continuativa con inibitori di pompa protonica da almeno un anno (Tabella 2) (1). Quest’ultima indicazione deriva dai dati di alcuni studi che hanno dimostrato che una terapia antisecretiva con inibitori di pompa protonica a lungo termine aumenta il rischio di gastrite atrofica nei soggetti con infezione da H.pylori (27). Benché l’effetto di prevenzione dell’eradicazione dell’H.pylori sia probabilmente maggiore se questa viene effettuata prima dello sviluppo delle condizioni precancerose, l’eradicazione dell’H.pylori nei soggetti con gastrite atrofica e metaplasia intestinale sembra essere in grado di fare regredire almeno parzialmente la gastrite atrofica e di rallentare la progressione della metaplasia intestinale (28). Una recente metanalisi di 12 studi su 2.658 pazienti ha dimostrato che l’eradicazione dell’H.pylori porta a miglioramento della gastrite atrofica del corpo. L’eradicazione dell’H.pylori non sembra avere effetto sulla regressione della metaplasia intestinale, anche se un recentissimo studio con un lungo follow-up post-eradicazione ha riportato un miglioramento anche della metaplasia intestinale (29).
È necessaria una sorveglianza endoscopica nei soggetti con gastrite atrofica e metaplasia intestinale dopo eradicazione? L’eradicazione non annulla, ma riduce il rischio di cancro gastrico. Per questo motivo le Linee Guida raccomandano una sorveglianza endoscopica con gastroscopia e biopsie multiple della mucosa ogni 3 anni nei pazienti con gastrite atrofica e metaplasia intestinale, in particolare in quelli con una pangastrite atrofica cioè con un’atrofia anche del corpo. Tale strategia aumenterebbe la probabilità di effettuare una diagnosi precoce in quei soggetti in cui l’eradicazione dell’Helicobacter pylori non è stata in grado di prevenire lo sviluppo del cancro gastrico (1)
Conclusioni Abbiamo ormai sufficienti evidenze scientifiche che l’Helicobacter pylori è il più frequente e importante fattore di rischio del linfoma gastrico MALT e dell’adenocarcinoma gastrico non cardiale. Gli studi sperimentali ci hanno recentemente chiarito molti punti oscuri sull’azione carcinogenetica dell’H.pylori, che sembra essere legata anche a un aumento dello stress ossidativo e ad alterazioni genetiche ed epigenetiche nelle cellule epiteliali gastriche. L’eradicazione dell’H.pylori è la più promettente strategia per la prevenzione primaria dei tumori dello stomaco, ma uno screening di massa non sembra essere una strategia costo-efficace in Europa. L’H.pylori deve essere però sempre “cercato ed eradicato” in quei soggetti con altri fattori di rischio per il tumore dello stomaco, come nei pazienti con condizioni pre-cancerose e con familiarità di I grado per cancro gastrico.
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VIRUS e BATTERI
sono la causa delle infezioni alle vie respiratorie L'estratto batterico OM-85 stimola le difese naturali dell’organismo e aumenta la resistenza alle infezioni delle vie respiratorie
Le infezioni ricorrenti del tratto respiratorio
I.R.
(IRR) comprendono sia il comune raffreddore, che la bronchite, la faringite ecc. La gravità delle infezioni varia a seconda delle condizioni di vita, il livello di inquinamento, il clima, e colpisce in particolare i soggetti con difese immunitarie già compromesse (Figura 1). Sono molteplici i microrganismi patogeni responsabili delle IRR (Mazzaglia, 2003). Le infezioni virali (virus influenzali e parainfluenzali, virus respiratori, adenovirus, rinovirus) costituiscono spesso il primum movens, ma la sovrainfezione batterica o l’infezione iniziale stessa da batteri risulta assai frequente (Papi, 2006). I dati epidemiologici della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) sono illustrati in Tabella 1. Risultati della letteratura riportano come negli adulti affetti da BPCO, le infezioni virali e le co-infezioni batteriche siano all’origine di circa il 50 per cento delle riacutizzazioni ed esacerbazioni. Uno degli approcci standard per il trattamento delle infezioni respiratorie
Realizzazione editoriale: MeP Edizioni Medico e paziente srl Medico e paziente Periodico della MeP Edizioni, via Dezza, 45 - 20144 Milano Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/75 Direttore responsabile Antonio Scarfoglio - Progetto grafico Elda Di Nanno
Figura 1
Le persone vulnerabili sono meno resistenti alle infezioni respiratorie
Il sistema immunitario è ancora immaturo,in particolare per quanto riguarda la risposta alle infezioni (Villa, 2010).
I soggetti con malattie croniche presentano un’alterazione della risposta immunitaria (Singanayagam, 2012).
I linfociti B naïve non sono ancora sviluppati, e la risposta agli antigeni è limitata (Siegrist, 2009).
Gli adulti con problemi respiratori come la broncopneumopatia cronica ostruttiva possono sperimentare molteplici (Anzueto, 2010) episodi di ricaduta in un anno.
Lo stress antigenico provocato dall’immunosenescenza provoca numerosi cambiamenti nel sistema immunitario del soggetto anziano (Franceschi, 1999): Espansione delle cellule B della memoria e diminuzione del numero di linfociti B naïve (Siegrist, 2009, Franceschi, 1999). Diminuzione del numero e della responsività dei linfociti T (Franceschi, 1999).
Rafforzare le difese naturali aumenta la resistenza alle infezioni delle vie respiratorie prevede la somministrazione di antibiotici. L’efficacia di tale opzione, tuttavia, nel corso degli anni è andata sempre più diminuendo. Inoltre l’esito dell’eccesso di prescrizioni di antibiotici è stato lo sviluppo della resistenza agli antibiotici, fenomeno che oggi ha raggiunto proporzioni allarmanti. In considerazione della prevalenza delle malattie infettive delle vie respiratorie e della necessità di ridurre l’uso di antibiotici,
nel corso degli ultimi anni si è giunti alla conclusione che la prevenzione è la strategia da perseguire. L’interesse oggi è volto, oltre alla prevenzione specifica mediante alcuni vaccini, quali quello influenzale che peraltro, in Italia, è raccomandato solo in specifiche classi di pazienti (immunocompromessi e anziani), anche all’estratto batterico OM-85 che stimola le
difese naturali dell’organismo e aumenta la resistenza alle infezioni delle vie respiratorie.
Caratteristiche di OM-85 OM-85 contiene estratti liofilizzati di Haemophilus influenzae, Steptococcus pneumoniae, Klebsiella pneumoniae e ozaenae, Staphylococcus aureus, Streptococcus pyogenes e sanguinis, Moraxella catarrhalis. La preparazione di OM-85 lo rende immunogeno, ma atossico. I batteri sono coltivati separatamente in bioreattori e vengono lisati in condizioni alcaline. L’alcalinità assolve più funzioni: da un lato permette il rilascio degli antigeni batterici, dall’altro assicura che i batteri siano inoffensivi (Somlyo, 1992). Inoltre la lisi alcalina assicura che il preparato sia gastroresistente (De Vrese, 2000). Le frazioni batteriche contenenti i frammenti immunogeni sono purificate, filtrate e mescolate l’una con l’altra a formare un
preparato, ancora in forma liquida il quale viene solidificato, ovvero trasformato in polvere, mediante liofilizzazione. Questo è un sistema di disidratazione effettuata a bassa temperatura, che permette di non danneggiare gli immunocomponenti. L’estratto contiene: proteine, peptidi, tracce di acidi grassi, acidi lipoteicoici e lipopolisaccaridi detossificati. Al contrario dei vaccini “tradizionali”, l’estratto è somministrato per via orale ed è assorbito a livello intestinale. La stimolazione del tessuto linfoide associato all’intestino genera la risposta immunitaria anche in altri tessuti, compreso il tessuto linfoide bronchiale. L’effetto modulante di OM-85 è mediato sia dall’effetto esercitato sulla risposta immunitaria cellulare, che sulla risposta aspecifica. OM-85 infatti agisce sui linfociti T e B, promuovendo una risposta umorale e cellulare rapida. A questa azione si accompagna anche un aumento dell’immunità innata a livello polmonare, in particolare attraverso la
Tabella 1. Epidemiologia e impatto economico della BPCO Prevalenza Secondo l’OMS, 65 milioni di persone nel mondo sono affetti da BPCO in forma moderata-grave; la diagnosi di malattia è soprattutto frequente nei soggetti con età superiore ai 40 anni Mortalità La BPCO rappresenta la quarta causa di decesso negli Stati Uniti e in Europa, e la quinta a livello mondiale Peso economico La BPCO è una patologia a elevato impatto economico: nell’Unione Europea il 56 per cento dei costi legati alle malattie respiratorie è attribuibile alla BPCO (38,6 miliardi di euro) Fonte: GOLD guidelines, 2010; The global burden of disease: 2004 update. Geneva: WHO, 2008; GOLD report, 2011
La riacutizzazione in corso di BPCO La riacutizzazione è definita come un aumento o la nuova comparsa di più di un sintomo caratterizzante la BPCO (tosse, escreato, wheezing, dispnea, costrizione toracica), con almeno un sintomo di durata ≥3 giorni e che costringe il paziente a consultare il medico per l’inizio di un trattamento sistemico con glucocorticoidi, antibiotici, oppure entrambi, o al ricovero ospedaliero Fonte: Vogelmeier, 2011; Niewoehner, 2005; Albert RK, 2011
stimolazione dell’attività dei fagociti, con conseguente aumento della distruzione dei patogeni (Rozy, 2008). L’estratto batterico liofilizzato OM-85 stimola in modo naturale il sistema immunitario, attivando i macrofagi, stimolando i linfociti T e B e promuovendo la produzione di anticorpi e citochine. La stimolazione naturale del sistema immunitario agisce sia a livello locale, nel polmone, che a livello sistemico, e aumenta la resistenza alle infezioni del tratto respiratorio.
Le conferme dalla letteratura Con l’estratto batterico OM-85 sono stati effettuati molteplici studi clinici randomizzati contro placebo che confermano la sua efficacia nella prevenzione delle infezioni respiratorie, sia negli adulti che nei bambini. I principali studi condotti sugli adulti evidenziano che l’estratto batterico rafforza le difese immunitarie, riduce significativamente il numero di infezioni respiratorie ricorrenti, il consumo di antibiotici e il numero e la durata delle ospedalizzazzioni (Tabella 2). A ulteriore conferma di questi risultati positivi, si aggiungono studi clinici pubblicati recentemente. Nel 2011 in occasione del 21° Meeting annuale dell’European Respiratory Society, sono stati riportati e successivamente pubblicati i risultati di uno studio randomizzato in doppio cieco e controllato con placebo condotto su una popolazione cinese di 384 pazienti con BPCO o bronchite cronica (Tang, 2011). Il gruppo in trattamento attivo (192 pz.) ha ricevuto OM-85 per 10 giorni/ mese per un periodo di tre mesi, con un follow up di 10 settimane. Anche in questo caso si è osservato un trend a favore del trattamento con OM-85: la quota di pazienti con episodi acuti era sensibilmente minore rispetto al controllo (23,4 vs. 33,3 per cento, p <0,05, Figura 2a). Inoltre si è evidenziato un effetto protettivo nei confronti degli episodi ricorrenti (38,7 vs. 73,1 per cento del placebo, p <0,01, Figura 2b). Un dato molto interessante riguarda il consumo di antibiotici, che è risultato drasticamente ridotto nei pazienti trattati con OM-85 (37,0 vs. 63,0 per cento, p <0,05, Figura 2c). OM-85 ha mostrato
Tabella 2. Principali studi randomizzati con OM-85
in soggetti adulti Autore
Soler et al.
Li et al.
Collet et al.
Orcel et al.
Collet et al.
Anno
2007
OM-85 dose, durata
1 cps/die per 1 mese, 1 mese di stop, 1 cps/die per 10 giorni per 3 mesi, 1 mese di follow up
2004
1cps/die per 10 giorni per 3 mesi, 9 mesi di follow up
1997
1cps/die per 1 mese, 20 giorni di stop, 1 cps/die per 10 giorni per 3 mesi, 1 mese di follow up
1994
1 cps/die per 10 giorni per 3 mesi, 3 mesi di follow up
2001
Farmacoeconomia Canada
Caratteristiche dei pazienti
Risultati significativi
Bronchite cronica, BPCO lieve
➘ 29% delle riacutizzazioni durante il periodo di trattamento, ➘ 54% delle riacutizzazioni negli ex-fumatori, ➘ 40,3% delle riacutizzazioni acute nei fumatori
BPCO moderata
➘ 41-46% del numero, durata e gravità della bronchite acuta, ➘ 41% della durata della terapia con antibiotici (e altri farmaci) nell’arco di 1 anno
381, 6 mesi
BPCO grave
Effetto protettivo nei confronti dell’insorgenza di gravi infezioni: ➘ 30% del rischio di ospedalizzazione, ➘ 55% della durata del ricovero (giorni)
290, 6 mesi
Anziani con BPCO moderata
➘ 40% degli episodi di bronchite acuta, ➘ 28% del consumo di antibiotici e mucolitici steroidei
Pazienti
273, 6 mesi
90, 12 mesi
381, 6 mesi
Costi per la prevenzione BPCO grave di 1 giorno di (dati farmaco- ospedalizzazione: 32 euro; risparmio nei costi economici) ospedalieri: 470 euro
Figura 2
Effetti del trattamento con OM-85 sulle riacutizzazioni di BPCO (A, B) e sul consumo di antibiotici (C)
A
B p=0,031
23,44
p=0,008
33,33 %
38,67
C p=0,039
73,08 %
Uso concomitante di antibiotici (dopo 10 giorni)
%
%
OM-85
Placebo
La quota di pazienti con riacutizzazioni ricorrenti è significativamente inferiore nel gruppo OM-85 rispetto al gruppo placebo
OM-85
Placebo
La percentuale con più di 2 riacutizzazioni è significativamente ridotta nel gruppo OM-85 rispetto al gruppo placebo
37,00
63,00
%
%
OM-85
Placebo
Riduzione significativa del consumo di antibiotici
Fonte: Tang et al. ERS, 2011
nel corso degli studi un buon profilo di tollerabilità e sicurezza, e recentemente questo estratto batterico è stato utilizzato anche in gruppi di pazienti particolari, quali i pazienti immunosoppressi e i soggetti affetti da HIV. I pazienti in terapia con farmaci immunosoppressivi sono ad alto rischio di infezione. In un recente studio alcuni pazienti con nefrosi autoimmune e in terapia immunosoppressiva sono stati randomizzati al trattamento con OM-85 per 3 mesi, 10 giorni al mese, in aggiunta alla terapia standard, o alla sola terapia standard (gruppo di controllo). Per quanto la terapia con OM-85 non abbia inciso
sul numero delle infezioni respiratorie durante lo studio, la durata complessiva delle infezioni delle vie respiratorie era significativamente più breve nei pazienti trattati: rispettivamente 18 giorni nel gruppo in terapia con OM-85 e 38 giorni in quello di controllo (p <0,01). Inoltre, nessuno dei pazienti trattati con OM-85 è stato sottoposto a trattamento con antibiotici (p <0,05) (Zhang, 2012), elemento questo, di notevole importanza in soggetti già oberati da un significativo carico terapeutico. Un’altra popolazione in cui è stato saggiato l’effetto terapeutico di OM-85 è rappresentata dai pazienti affetti da HIV.
In questi soggetti si registra tipicamente un’alta prevalenza di BPCO, e un elevato rischio di infezioni respiratorie stagionali. In questo recente studio, condotto in Italia, 130 pazienti HIV-positivi sono stati trattati per 10 giorni al mese, per tre mesi con OM-85. La terapia con l’estratto batterico è stata prolungata a 4 anni, data la soddisfazione mostrata dai pazienti. Dal confronto tra numero di infezioni delle vie respiratorie prima del trattamento con OM-85 e al termine dello studio, è risultato che il numero di infezioni delle vie respiratorie diminuiva radicalmente in tutti i soggetti con BPCO (con una riduzione di eventi per biennio da 92 a 13) e sinusite ricorrente (con una riduzione da 47 a 11), e, in misura minore, in quelli con otite ricorrente prolungata (da 15 a 4). Al termine dello studio, inoltre, la terapia con OM-85 ha comportato benefici in termini di riduzione nel consumo di antibiotici con una diminuzione complessiva dei cicli da 259 a 54 (Capetti, 2013). Dal 2012, inoltre, l’uso di OM-85 è rientrato nelle Linee guida dell’European Respiratory Society e dell’European Academy Of Allergy and Clinical Immunology (ERS/EAACI) quale trattamento aggiuntivo alla terapia della rinosinusite cronica senza polipi (European Position Paper on Rhinosinusitis and Nasal Polyps 2012).
L’estratto batterico OM-85 è una valida strategia preventiva in tutti i soggetti affetti da infezioni ricorrenti delle vie respiratorie e specialmente nei soggetti cronici, come quelli affetti da BPCO. Tutte le evidenze cliniche mostrano che l’estratto batterico OM-85, grazie alla sua capacità di rafforzare le difese immunitarie in modo naturale, riduce in modo significativo il numero di infezioni delle vie respiratorie, il consumo di antibiotici, il numero e la durata delle riacutizzazioni da BPCO e i giorni di degenza in ospedale. L’inserimento di OM-85 nelle Linee guida ERS/EAACI per il trattamento della rinosinusite cronica senza polipi, peraltro, suffraga l’uso di questo estratto batterico nella prevenzione. Vale la pena aggiungere, infine, che la semplice posologia di OM-85 (1 capsula o bustina/ die per 10 giorni consecutivi al mese, per 3 mesi) conferisce un indubbio vantaggio in termini di aderenza alla terapia, problema non indifferente soprattutto nei soggetti con patologie croniche e già in trattamento con molti farmaci.
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Dal 2013 puoi trovare LA NEUROLOGIA ITALIANA anche on line
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SEGNALAZIONI
Point of care testing nello screening delle dislipidemie Un nuovo strumento accurato e preciso a cura di Elena Matteucci, Luca Della Bartola,
adulti è obeso (BMI ≥30 kg/m2), 4) il 13,8 per cento degli adulti
*Luca Rossi, Ottavio Giampietro
ha valori di colesterolo totale ≥240 mg/dl, 5) il 33,0 per cento
Dipartimento Medicina clinica e sperimentale, *Laboratorio
degli adulti è iperteso, 6) circa l’8,3 e il 38,2 per cento della
Patologia clinica, Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana
popolazione adulta ha avuto una diagnosi di diabete mellito o di prediabete, rispettivamente, ma si calcola che almeno 8,2 milioni di persone abbiano una patologia diabetica non ancora
L
e malattie cardiovascolari (CVD), in gran parte dovute
diagnosticata, 7) la prevalenza della sindrome metabolica sa-
ad aterosclerosi, sono la prima causa di morte nel
rebbe dell’ordine del 34 per cento.
mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale
L’aterosclerosi è una patologia infiammatoria cronica della
della Sanità, 17,3 milioni di persone sono morte a causa di
parete arteriosa, il cui primum movens è rappresentato dall’ac-
CVD nel 2008, rappresentando il 30 per cento della mortalità
cumulo di lipoproteine contenenti colesterolo, in particolare
globale; si stima che tale numero sia destinato a raggiungere i
low-density lipoprotein (LDL), nel contesto dell’intima dell’ar-
23,6 milioni nel 2030 e che l’80 per cento di questi decessi si
teria. La risposta infiammatoria che ne consegue porta alla
verificherà nei Paesi a basso e medio reddito (www.who.int/).
formazione della placca aterosclerotica dove i linfociti T sono
Il rapporto 2013 dell’American Heart Association (http://circ.
presenti durante tutti gli stadi della malattia, contribuendo alla
ahajournals.org/content/127/1/e6.full) su cardiopatie e ictus
formazione e alla progressione della placca stessa [1]. I fattori
riporta che:
di rischio non modificabili per CVD e ictus sono l’età, il sesso
• Anche se la frequenza relativa di morte attribuibile a CVD si è
e la genetica. I principali fattori di rischio sono però modificabili
ridotta del 32,3 per cento dal 1999 al 2009, i dati di mortalità
e includono una dieta non equilibrata, l’inattività fisica, il tabagi-
del 2009 mostrano che oltre 2.150 americani muoiono di CVD
smo e l’abuso di alcol [2]. Questi fattori, infatti, si associano alla
ogni giorno (un decesso ogni 40 secondi).
cosiddetta sindrome metabolica caratterizzata da sovrappeso,
• Nel 2009 la malattia coronarica da sola ha provocato un de-
obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia e ridotta tolleranza
cesso ogni 6 morti; approssimativamente ogni 34 secondi un
al glucosio o franco diabete. Elevati livelli di colesterolo nel
americano ha un evento coronarico e ogni minuto un americano
sangue sono classicamente considerati un fattore di rischio
muore a causa di tale evento.
maggiore per CVD. Tuttavia, la concentrazione plasmatica
• Nel 2009 l’ictus ha causato un decesso ogni 19 morti;
di colesterolo totale non predice accuratamente il rischio di
approssimativamente ogni 40 secondi qualcuno negli Stati
malattia coronarica perché include la somma di tutto il cole-
Uniti ha un ictus e ogni 4 minuti qualcuno decede a causa di
sterolo veicolato dalle lipoproteine, non solo quelle aterogene
tale evento.
(very low-density lipoprotein o VLDL, LDL, intermediate-density
• Tra i fattori di rischio cardiovascolare è sottolineato che: 1)
lipoprotein o IDL), ma anche quelle anti-aterogene (high-density
nel 2011 il 21,3 per cento degli uomini e il 16,7 per cento
lipoprotein o HDL) [3]. È noto inoltre, che le LDL piccole e
delle donne continua a fumare, 2) il 32 per cento degli adulti
dense e quelle modificate dall’ossidazione da parte dei radicali
non pratica alcuna attività fisica aerobica, 3) l’apporto calorico
liberi sono dotate di una maggiore potenzialità aterogena. Al
medio è aumentato progressivamente, e il 34,6 per cento degli
contrario, la relazione esistente tra colesterolo LDL e CVD è
30
MEDICO E PAZIENTE
4.2013
significativa, e la concentrazione plasmatica del colesterolo LDL è abitualmente utilizzata per valutare il rischio CV e l’efficacia della terapia preventiva. L’assetto lipidico è quindi l’obiettivo
Tabella 1. Life’s Simple 7 secondo
l’American Heart Association
delle Linee guida proposte dal National Cholesterol Education
Non fumare o avere smesso di fumare da almeno un anno
Program (NCEP) Adult Treatment Panel (ATP) III (http://www.
BMI <25 kg/m2
nhlbi.nih.gov/guidelines/cholesterol/) per la riduzione del rischio
Fare attività fisica moderata ≥150 minuti/settimana (o 75 minuti di attività fisica intensa)
CV, secondo le quali maggiore è il rischio, più stringenti sono gli obiettivi terapeutici [3]. In presenza di un rischio CV molto
dl. Se il rischio a 10 anni è >20 per cento, l’obiettivo del co-
Seguire una dieta sana: introdurre <1,5 g/die di sodio, <1 l/ settimana di bevande zuccherate, ≥4,5 porzioni/die di frutta e verdura, ≥3 porzioni/die di cereali integrali, ≥3 porzioni/ settimana di pesce
lesterolo LDL è <100 mg/dl. Se il rischio a 10 anni è 10-20
Mantenere il colesterolo totale <200 mg/dl
per cento o <10 per cento, l’obiettivo del colesterolo LDL è
Mantenere i livelli della pressione arteriosa <120/80 mmHg
<130 mg/dl. Se infine il rischio è basso (0-1 fattori di rischio),
Mantenere la glicemia <100 mg/dl
alto (cardiopatia ischemica + altri fattori di rischio o sindrome coronarica acuta), l’obiettivo del colesterolo LDL è <70 mg/
l’obiettivo del colesterolo LDL è <160 mg/dl. tion, la “salute cardiovascolare ideale” o Life’s Simple 7 (che
CARDIOCHEK PA E VALUTAZIONE ESTERNA DI QUALITà
ha l’obiettivo di ridurre la mortalità CV del 20 per cento entro il
Il panorama commerciale vede la presenza di numerosi ap-
2020) prevede una combinazione di 7 fattori, alcuni riguardanti
parecchi PoCT per l’auto-monitoraggio e il controllo delle
lo stile di vita e altri propriamente fisici (Tabella 1) [4]. Poiché
patologie dislipidemiche, anche se scarseggiano le valutazioni
il processo aterosclerotico inizia precocemente e progredisce
comparative sulla corrispondenza tra i dati della strumentazione
nel tempo, questo tipo di prevenzione, cosiddetta “primordiale”,
decentrata e quelli del laboratorio di analisi chimico-cliniche.
sarebbe particolarmente efficace nel ridurre sia la mortalità car-
Ai fini di una corretta applicabilità clinica, infatti, la diagnostica
diovascolare che quella totale, quando confrontata con la cor-
PoCT deve fornire dei risultati che soddisfino requisiti di “qua-
rezione di fattori di rischio già esistenti (prevenzione primaria).
lità” paragonabili a quelli del laboratorio di analisi tradizionale.
Secondo la recente definizione dell’American Heart Associa-
Recentemente, l’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana
RUOLO DEL POINT OF CARE TESTING NELLA PREVENZIONE
ha avviato uno studio per valutare se uno strumento PoCT
Perché i controlli metabolici non incidano in maniera negativa
rispetti sia i requisiti di precisione che quelli di “facility use”
sulle abitudini e la qualità della vita del paziente, con conse-
che dovrebbero caratterizzare questo tipo di strumentazione.
guente incompletezza dell’attività di monitoraggio clinico e degli
Il protocollo di analisi e validazione del test ha previsto finora
esiti del trattamento, si sono sviluppati metodi di monitoraggio
l’analisi di oltre 300 pazienti, su sangue venoso e capillare, oltre
e controllo più comodi e più vicini alle esigenze quotidiane del
alla ripetizione delle prove di precisione intra-serie eseguite a
cittadino comune. Nel dettaglio, il Point of Care Testing (PoCT),
diversi livelli di colesterolo (basso, medio e alto). Lo strumento
caratterizzato da analisi svolte in prossimità del sito di cura/assi-
CardioChek PA, grazie al principio della fotometria di riflessione
stenza del paziente, sta diventando una metodologia importante
(chimica secca), è in grado di fornire il pannello lipidico comple-
nella lotta alle malattie CV. Soprattutto per la prevenzione delle
to (colesterolo totale, colesterolo HDL, trigliceridi, colesterolo
patologie cardiache, è essenziale conoscere i livelli di coleste-
LDL calcolato e rapporto colesterolo totale/HDL), interpretando
rolo totale per definirne il rischio: per questo le Linee Guida
i cambiamenti di colore sopravvenuti sulla striscia reattiva dopo
raccomandano l’esecuzione di un esame del profilo lipidico a
l’applicazione di una goccia di sangue. All’interno di ciascuna
partire dai 20 anni di età, con controlli successivi da eseguirsi
confezione di strisce reattive viene fornito il MEMo Chip, che
in base al rischio cardiovascolare personale e ai livelli di cole-
contiene informazioni essenziali sul tipo di test, la curva di ca-
sterolo LDL. La misura periodica dei parametri ematochimici è
librazione, il numero di lotto e la data di scadenza delle strisce
fondamentale per il buon funzionamento di qualsiasi terapia.
reattive. Dopo il suo corretto inserimento nell’analizzatore,
dedicato al controllo dell’assetto lipidico, il CardioChek PA,
MEDICO E PAZIENTE
5.2012 4.2013
31
SEGNALAZIONI
Figura 1. La retta di regressione lineare dei dosaggi di colesterolo totale eseguiti dal Laboratorio Centrale (Lab tot cholesterol) dell’Ospedale e dal CardioChek PA (CCPA tot cholesterol) su 492 campioni di sangue venoso indica una buona relazione fra i due metodi (R 0,97, p <0,001)
Figura 2. Grafico di Bland-Altman di 153 dosaggi di coleste-
rolo totale eseguiti in duplicato, dal Laboratorio Centrale (Lab tot cholesterol) su sangue venoso e dal CardioChek PA (CCPA tot cholesterol) su sangue capillare prelevato mediante digito puntura (il prelievo di sangue capillare era eseguito immediatamente dopo quello venoso)
350,00
CCPA tot cholesterol
300,00
250,00 200,00
150,00
100,00
50,00 50,00
100,00
150,00
200,00
250,00
300,00
350,00
Lab tot cholesterol
prima dell’esecuzione di un test, si procede all’inserimento di una striscia reattiva e all’applicazione di un campione di
Il diagramma mostra sull’asse delle ordinate la differenza fra le due misurazioni del colesterolo, eseguite dal Laboratorio Centrale (Lab tot cholesterol) e dal CardioChek PA (CCPA tot cholesterol), e sull’asse delle ascisse la loro media
sangue capillare. L’analizzatore misura l’intensità del colore risultante dalla
l’impiego medico di qualunque strumento PoCT:
reazione, confronta le informazioni con la curva di calibrazio-
1. una corretta e regolare manutenzione e pulizia dello
ne memorizzata nel MEMo Chip e converte questa lettura
strumento,
colorimetrica nel risultato numerico visualizzato sul display. I
2. la validazione iniziale dei risultati, possibilmente da parte
risultati del test sono visibili in circa due minuti.
di un operatore sanitario indipendente,
I risultati preliminari dello studio suggeriscono che lo stru-
3. la sorveglianza periodica di strumenti e reattivi, sempre da
mento sia attualmente dotato di un livello di precisione e
parte di un operatore esterno.
accuratezza adeguato per essere utilizzato nell’ambito di programmi di screening dell’assetto lipidico nella popolazione
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La retta di regressione (Figura 1) mostra una buona correlazione fra i due metodi di dosaggio del colesterolo totale, PoCT versus Laboratorio; il diagramma di Bland-Altman (Figura 2) conferma che non esiste una differenza significativa fra i risultati ottenuti con le due strumentazioni.
CONCLUSIONI I dati disponibili suggeriscono che il CardioChek PA è uno strumento dotato di accuratezza e precisione tali da renderlo utilizzabile in programmi di screening mirati all’identificazione precoce delle dislipidemie. Restano requisiti essenziali per
32
MEDICO E PAZIENTE
4.2013
novartis
Disponibile anche in Italia il primo vaccino contro il meningococco B
P
ossiamo finalmente sperare in un futuro libero da meningite. Al vaccino tetravalente (contro i sierogruppi A, C, W135 e Y) disponibile da qualche tempo, si aggiunge ora anche quello contro il sierogruppo B, responsabile di oltre 6 casi su 10 di meningite meningococcica in Italia. È un importante traguardo nella prevenzione di questa temibile malattia, i cui “tratti” sono davvero impressionanti. A cominciare dall’età dei soggetti: i più colpiti infatti sono i bambini in tenera età, nella fascia 0-12 mesi, per i quali il rischio è 17 volte maggiore rispetto al resto della popolazione. L’altra fascia è quella degli adolescenti tra i 12 e i 18 anni. La pericolosità della meningite deriva dal fatto che attacca all’improvviso persone sane e può portare al decesso in 24-48 ore, con una letalità del 9-12 per cento che arriva anche al 50 per cento in assenza di un trattamento antibiotico adeguato e tempestivo. La difficoltà diagnostica è un
ostacolo per un approccio terapeutico immediato, dato che i sintomi molto spesso mimano quelli di una comune influenza. Le sequele sono altrettanto gravi. In 2 casi su 10 i sopravvissuti riportano gravi e permanenti invalidità che comprendono danni cerebrali, perdita dell’udito, amputazione degli arti e insufficienza renale. Il nuovo vaccino (Bexsero®) messo a punto nei laboratori di Novartis Vaccines di Siena da un’équipe di ricercatori guidati da Rino Rappuoli, che ha come bersaglio il meningococco B, rappresenta dunque l’unica arma di difesa contro questa malattia così aggressiva. Dopo l’approvazione da parte dell’EMA nello scorso gennaio, è arrivato a fine maggio anche il via libera alla commercializzazione da parte dell’AIFA. Il profilo di tollerabilità e immunogenicità del vaccino sono stati stabiliti sulla base di un ampio programma clinico che ha coinvolto oltre 7mila persone (neonati,
bambini, adolescenti e adulti). A seguito della decisione dell’AIFA, ora le Autorità competenti valuteranno l’inserimento del nuovo vaccino nei calendari vaccinali regionali e nell’ambito del prossimo Piano vaccinale nazionale. “Esistono vaccini in grado di proteggere contro i ceppi A, C, Y e W135 della meningite meningococcica”, ha commentato Rino Rappuoli alla conferenza di presentazione (Milano, 27 giugno) “ma finora non era disponibile un vaccino contro il meningococco B. Ecco perché è molto importante che sia arrivato il via libera dell’AIFA. Questo nuovo vaccino permetterà non solo di salvare molte vite umane, ma anche di cambiare le prospettive della lotta contro la meningite nel mondo. Adesso il compito più importante lo avranno i governi e le istituzioni che hanno l’obiettivo di tutelare la salute pubblica con efficaci programmi di immunizzazione”.
Grünenthal
Un cerotto contro il dolore da neuropatia posterpetica
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l temibile dolore cronico associato alla nevralgia posterpetica (PHN) rientra tra le condizioni più disabilitanti e a più forte impatto sulla qualità di vita. Un’indagine, realizzata online da Doloredoc.it su un campione di medici e pazienti, ha messo in evidenza le criticità della PHN: ha un forte impatto sulla qualità della vita, è di lunga durata e si caratterizza per l’insufficienza dei trattamenti attuali, evidenziata sia dai medici che dai pazienti. Le terapie sistemiche attuali contemplano farmaci appartenenti a classi diverse, tra cui rientrano gli anticonvulsivanti, gli
antidepressivi triciclici, gli inibitori del reuptake di serotonina e noradrenalina, e oppioidi. Uno dei limiti di queste terapie è legato alla presenza di fastidiosi effetti collaterali, specie se consideriamo che i pazienti affetti da nevralgia posterpetica sono prevalentemente anziani con diverse comorbilità, e quindi già politrattati. Ecco perché è importante segnalare la disponibilità anche nel nostro Paese di una nuova soluzione terapeutica semplice, efficace e di fatto priva di controindicazioni. Si tratta di un cerotto medicato al 5 per cento di lidocaina, che, applicato diretta-
mente sulla parte dolente, è in grado di fornire un buon sollievo sintomatico, un eccellente profilo di tollerabilità anche nell’uso prolungato e la maneggevolezza garantita da un prodotto antalgico che non richiede alcuna titolazione; tutte caratteristiche che nel complesso incidono positivamente sul benessere e sulla qualità di vita dei pazienti. Le Linee guida raccomandano il cerotto di lidocaina al 5 per cento come trattamento di prima linea per il dolore neuropatico localizzato conseguente a herpes zoster.
Medico e Paziente
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VIROPHARMA
Boehringer Ingelheim
Dabigatran rimborsabile per la prevenzione dell’ictus da FA
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seguito dell’approvazione da parte dell’AIFA, è possibile ora anche nel nostro Paese prevenire l’ictus da fibrillazione atriale (FA) non valvolare con dabigatran etexilato. Il farmaco (anticoagulante orale di nuova generazione) è dotato di una maggiore efficacia e sicurezza terapeutica, rispetto alle terapie standard; si associa a minori effetti collaterali e a una più semplice modalità di impiego, conferendo in questo modo una protezione migliore dall’ictus. Il profilo di efficacia e sicurezza del farmaco è stato valutato negli studi RELY, uno dei più ampi mai condotti sulla fibrillazione atriale, e RELYABLE. Rispetto allo standard di cura “storico”, dabigatran etexilato si è mostrato in grado di ridurre di circa il 35 per cento il rischio di ictus e di embolia sistemica. Inoltre, è l’unico dei nuovi anticoagulanti orali che abbia dimostrato una superiorità rispetto al trattamento standard nella riduzione dell’ictus ischemico (-25 per cento), riducendo al contempo il rischio di emorragie (-59 per cento di emorragie intracraniche). L’ictus è, come noto, una delle più temute complicanze della fibrillazione atriale, e avere a disposizione, dopo oltre 50 anni, una nuova arma per la prevenzione è sicuramente un importante traguardo terapeutico.
Mundipharma
Nuova associazione precostituita per la terapia di fondo dell’asma
L’
asma è una patologia ampiamente conosciuta e per la quale disponiamo di indicazioni di trattamento ben codificate. L’armamentario terapeutico attuale è molto ampio, tuttavia siamo ancora ben lontani dal traguardo per una gestione ottimale. All’origine del mancato controllo dell’asma vi è spesso una scarsa aderenza terapeutica da parte dei pazienti, che non assumono con regolarità la terapia di fondo, e ricorrono solo ai farmaci “rescue” nel momento in cui inevitabilmente sopraggiunge la crisi. Esistono dunque ancora bisogni insoddisfatti, che possono però trovare una risposta positiva concreta nella nuova associazione precostituita fluticasone+formoterolo (Flutiformo®), disponibile da poco anche nel nostro Paese. Il farmaco per la prima volta unisce uno dei più potenti corticosteroidi con il broncodilatatore a più rapida insorgenza d’azione in un unico aerosol, particolarmente innovativo. Il device è molto pratico in quanto dotato di un conta-dosi abbinato a un codice di colore, che cambia in base al numero di erogazioni rimanenti nel dispositivo. La nuova associazione, la cui azione si manifesta nell’arco di 1-3 minuti, è indicata per la terapia di mantenimento in adulti e adolescenti di età ≥12 anni.
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Medico e paziente
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Progressi nella terapia dell’angioedema ereditario
L’
angioedema ereditario (AEE) è una malattia genetica rara, debilitante e potenzialmente fatale, che interessa circa 1 persona su 50.000. In Italia si stima ne siano affetti circa 1.200 pazienti. Le persone che soffrono di questo disturbo hanno attacchi ricorrenti e debilitanti di edema che può interessare la laringe, il tratto gastrointestinale, il viso, le estremità e i genitali. L’AEE è stato il tema di un incontro che si è tenuto a Milano lo scorso 6 giugno, nell’ambito del quale è stata presentata un’importante novità terapeutica. Si tratta di un farmaco a base di C1 inibitore umano (Cinryze®), indicato per la prevenzione pre-procedura e la prevenzione di routine di attacchi di AEE in adulti e adolescenti, con attacchi gravi e ricorrenti, intolleranti o insufficientemente protetti con i trattamenti di prevenzione orali, o in pazienti non adeguatamente gestiti con il trattamento acuto ripetuto. È inoltre autorizzato per il trattamento degli attacchi acuti di AEE. “L’angioedema ereditario è una patologia poco conosciuta e sottodiagnosticata: sono circa 800 i pazienti noti in cura presso i centri di riferimento nel nostro Paese, ma si stima che quasi il 20 per cento delle persone affette da AEE non abbia ancora ricevuto una diagnosi”, ha sottolineato all’incontro milanese il prof. Marco Cicardi, dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano. “La gravità e la durata degli attacchi di AEE possono variare in modo significativo da paziente a paziente. Alcuni attacchi possono essere lievi e portare a temporanea deturpazione a causa di gonfiore, mentre altri possono comportare un’invalidità significativa ed essere potenzialmente fatali. Qualunque tipo di attacco di AEE può interferire con la normale vita quotidiana dei pazienti, e la disponibilità di questo trattamento, autorizzato anche per la prevenzione di routine e pre-procedura, rappresenta una novità importante per una migliore gestione della patologia”. Il C1 inibitore umano è una proteina presente nel plasma che controlla i sistemi del complemento, di contatto e della coagulazione. Nei pazienti con AEE, il C1 inibitore è ridotto o non funziona correttamente, e l’eccessiva attività dei sistemi da esso governati determina l’edema. Il nuovo farmaco, derivato dal plasma, è somministrato per reintegrare i livelli di C1 inibitore mancante, controllando in questo modo il gonfiore. È disponibile sotto forma di polvere e solvente per soluzione iniettabile.
Sanofi
Il sito produttivo di Garessio diventa il “cuore” della lotta alla malaria
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l sito Sanofi di Garessio (Cuneo) è stato scelto all’interno del network di 75 siti produttivi del Gruppo per portare su scala industriale la produzione semisintetica di artemisinina. Nello stabilimento è stato infatti realizzato un nuovo processo produttivo che consente di aumentare la disponibilità di questa sostanza, da cui derivano i principi attivi, arthemeter e artesunate, impiegati nelle combinazioni terapeutiche più efficaci nella lotta alla malaria. Si prevede che nel corso di quest’anno saranno disponibili 120-130 milioni di trattamenti con la materia prima “made in Garessio”, rispetto agli 80 ottenuti in precedenza. L’epicentro della
diffusione della malaria è l’Africa, ed è proprio qui che si concentra l’attività di Sanofi. Attraverso il Programma Accesso ai Farmaci, il Gruppo si impegna a offrire a prezzo di costo ASAQ (adapted simple accessible quality) la combinazione di artesunate e amodiachina, una delle più efficaci nella lotta alla malaria. È importante sottolineare che la possibilità di calmierare il prezzo dei farmaci deriva dalla produzione per via semisintetica dell’artemisinina: attualmente il valore dell’artemisinina naturale, estratta dalla pianta Artemisia annua, varia da 250 a 1.000 dollari/kg, con ovvie ripercussioni in termini di costi sul prodotto finito.
Daiichi-Sankyo
Italia e Francia in prima linea nella lotta all’ipertensione
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l 23° Congresso ESH (European Society of Hypertension) che si è tenuto a metà giugno (14-17), a Milano, è stata l’occasione per fare il punto sull’ampio pianeta dell’ipertensione, toccando tutti gli aspetti legati alla diagnosi, terapia e gestione del paziente. Tra i numerosi simposi del Meeting, segnaliamo quello promosso da Daiichi-Sankyo e dal Gruppo Menarini, dal titolo “10 anni di olmesartan: personalizzare la cura dei pazienti”, che si è focalizzato sulle iniziative portate avanti nei Paesi europei per migliorare il controllo dell’ipertensione; condizione quest’ultima che si conferma il più temuto fattore di rischio cardiovascolare e prima causa di decesso prematuro nel Vecchio Continente. Nonostante l’ampia disponibilità di trattamenti validi ed efficaci, i livelli di pressione arteriosa restano insoddisfacenti (≥140/90 mmHg) in oltre il 50 per cento dei pazienti in terapia. È quindi arrivato il momento di agire, con progetti concreti per far fronte a questa vera e propria emergenza sanitaria e sociale, nonché economica. Il nostro Paese insieme alla Francia è impegnato in un ambizioso obiettivo, che è quello di raggiungere il target pressorio per il 70 per cento dei pazienti entro il 2015, un’iniziativa che ha ricevuto il pieno sostegno da parte dell’ESH.
Taglio del nastro Da sinistra, Gianna Gancia, Presidente Provincia Cuneo, Roberto Cota, Presidente Regione Piemonte, e Philippe Luscan, Senior Vice President Industrial Affairs, Gruppo Sanofi
Premio Arrigo Recordati
Il prestigioso riconoscimento assegnato a Filippo Crea
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er gli eccellenti e innovativi risultati conseguiti nello studio del ruolo centrale del microcircolo nelle patologie di sistema e d’organo. Con questa motivazione la giuria ha assegnato a Filippo Crea, professore di cardiologia presso l’Università Cattolica - Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma, il prestigioso riconoscimento dal valore di 100mila euro. La cerimonia di premiazione si è svolta lo scorso 15 giugno a Milano, nell’ambito del 23° Congresso annuale ESH (European Society of Hypertension). Il Premio giunto alla settima edizione, è un riconoscimento internazionale che ha come obiettivo la promozione della ricerca scientifica nel campo delle malattie cardiovascolari e prevede ogni due anni l’attribuzione di 100.000 euro a uno scienziato, di qualsiasi nazionalità, impegnato in strutture istituzionali e non affiliato ad aziende, per il suo impegno e per i risultati ottenuti nella ricerca nell’ambito delle malattie cardiovascolari. Ogni edizione è dedicata a un tema specifico. La decisione della giuria nell’assegnazione del Premio dell’edizione 2013 riconosce l’eccezionale valore delle ricerche condotte dal vincitore nello studio del ruolo centrale del microcircolo nelle patologie di sistema e d’organo.
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oncologia
Il paziente con malattia oncologica avanzata
Quale ruolo per il MMG nella gestione del percorso di cura Un maggiore coinvolgimento della Medicina di base sarebbe auspicabile per migliorare l’assistenza ai malati oncologici
Gianmauro Numico*, Christine Rollandin** *SC Oncologia, Azienda USL della Valle d’Aosta, Aosta. Coordinatore Progetto Speciale AIOM “Follow up, riabilitazione, fertilità” ** Medico in formazione specifica in Medicina generale, Valle d’Aosta
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irca 360.000 pazienti ogni anno si ammalano di tumore in Italia. L’incidenza della malattia tumorale è nel suo complesso in aumento rappresentando ormai un’evenienza molto frequente nella popolazione generale: circa una persona su tre, nell’arco della vita si ammala di tumore. Ma è soprattutto la prevalenza delle neoplasie a rappresentare una vera e propria emergenza sociosanitaria sia per le proporzioni assolute (2.250.000 pazienti/anno, circa il 4 per cento della popolazione) sia per il trend, in aumento ben più rapido della comparsa di nuovi casi (1). Una parte di questo incremento è dovuto al numero crescente di pazienti che, usciti dal percorso di cura al termine di un trattamento efficace, diventano i cosiddetti “long-term survivors”. Una parte sostanziale, tuttavia, è rappresentata dai pazienti con malattia avanzata, intesa come una neoplasia che non
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ha possibilità di guarigione definitiva, ma viene sottoposta a un insieme di trattamenti specifici o di supporto che consentono il prolungamento della sopravvivenza. A questi dati si aggiunge il cambiamento graduale dell’epidemiologia della popolazione affetta da neoplasie, con l’allargamento delle fasce di età più avanzate: si modificano quindi le caratteristiche cliniche della malattia oncologica, che deve fare i conti con le problematiche della fragilità, della cronicità e della multipatologia (2).
lll le caratteristiche della malattia oncologica I numeri, di per sé, indicano l’entità e le caratteristiche di una domanda di salute emergente, che richiede dal sistema sanitario risposte organizzative coerenti. A ciò si aggiungono alcune caratteristiche della malattia oncologica, che in parte la distinguono da altre comuni condizioni di cronicità: 1. La tendenza al peggioramento progressivo: la traiettoria di malattia è caratterizzata da un progressivo deterioramento organico, molto più rapido rispetto a condizioni di cronicità “benigna” altrettanto frequenti (come il diabete, lo scompenso cardiaco o la bronchite cronica ostruttiva).
2. L’instabilità clinica: nel contesto di un complessivo peggioramento, il paziente portatore di una neoplasia avanzata va incontro a episodi di acuzie correlati direttamente alla neoplasia o solo indirettamente legati a essa (ad esempio le complicanze infettive e vascolari). La comparsa repentina di sintomi rappresenta la modalità di gran lunga più comune di manifestazione della progressione di patologia: basti pensare, ad esempio, ai sintomi di ipertensione endocranica nel caso delle metastasi cerebrali o all’ascite e all’occlusione intestinale nei casi di carcinosi peritoneale. 3. La prognosi infausta: la malattia neoplastica avanzata conduce a morte la stragrande maggioranza dei pazienti che ne sono affetti, essendo del tutto occasionale la “lungo-sopravvivenza” e limitata a neoplasie peculiari (come le neoplasie ematologiche o le neoplasie germinali). Questa caratteristica ha conseguenze rilevanti sulle esigenze espresse dal paziente e dalla sua famiglia. Innanzitutto il tumore è fortemente associato all’idea della morte e porta con sé un vissuto di angoscia che conferisce alla domanda di salute una tonalità di impellenza e di drammaticità. Il paziente con neoplasia spaventa, colpisce, mette urgenza. In secondo
luogo determina un immediato coinvolgimento del nucleo parentale: il paziente raramente è solo. Viene invece comunemente accompagnato da altre persone che si occupano di lui e a loro volta, avendo necessità di supporto e informazione, determinano un riverbero di prestazioni. Infine la delicatezza e l’importanza delle problematiche relazionali: in nessun’altra patologia come il cancro l’aspetto relazionale è intrinseco al percorso di cura, ne determina la qualità e, almeno in parte, l’esito. 4. La complessità della gestione medica: la storia clinica di un paziente con neoplasia avanzata coinvolge una molteplicità di operatori che si sovrappongono e si integrano in un continuo scambio tra servizi e strutture cliniche, tra specialisti diversi, tra ospedale e territorio: le interazioni sono talmente importanti (per un ottimale esito delle cure) e frequenti da richiedere la strutturazione di un modello di multidisciplinarietà che superi le modalità rigidamente sequenziali di interazione tra operatori tipiche dei servizi sanitari. Così, i “tumor boards” diventano la prima esperienza di costruzione della multidisciplinarietà in medicina (3).
lll L’ospedalizzazione del paziente oncologico Mentre diventa evidente la necessità di condivisione delle competenze e di delega dei compiti clinici, nello stesso tempo, tuttavia, si impone la necessità di un “protagonista principale”, di qualcuno che tenga le fila del percorso clinico, che sia in grado di attraversare i diversi ambiti specialistici e sia in grado di produrre una visione di insieme: nasce cioè, tipicamente in oncologia, la necessità di un riferimento per il paziente, di un contatto stabile, di una regia del percorso. Ma mentre per altre condizioni di cronicità è il medico di assistenza primaria che assume il ruolo di riferimento clinico, in ambito oncologico questo ruolo viene affidato a uno specialista ospedaliero, tipicamente l’oncologo medico che, differentemente dagli altri operatori, smette di occu-
parsi di un solo aspetto (il trattamento farmacologico) e riceve l’investitura di riferimento continuativo. Sono, di fatto, la necessità di un bagaglio culturale complesso, il rapido mutare delle competenze necessarie, il forte impulso alla ricerca tipico della specialità oncologica e, non ultimo, i costi elevati dell’assistenza, che determinano il passaggio del baricentro del percorso oncologico dal territorio all’ospedale. Si tratta di un fenomeno globale, che ha sfidato tutti i sistemi sanitari più evoluti, ma che nel nostro Paese è stato fortemente accentuato dall’assenza di una specialistica ambulatoriale e da un’organizzazione della medicina territoriale che ha di fatto reso difficile la condivisione dell’assistenza con le strutture ospedaliere. Conseguenza complessiva è stata la progressiva e patologica ospedalizzazione del paziente oncologico. È allora fondamentale porre due principali questioni: 1. Quali conseguenze ha la centralizzazione dei servizi sulla qualità dell’assistenza? Il sistema “ospedale-centrico” è compatibile con una gestione adeguata della storia di malattia? 2. È possibile immaginare un’organizzazione diversa, che riequilibri funzioni e competenze tra ospedale e territorio? È cioè, realizzabile una vera e propria integrazione tra ospedale e territorio che semplifichi i percorsi e distribuisca in modo più omogeneo il carico delle cure?
lllL’assistenza centrata sulle cure specialistiche La forte connotazione specialistica data alla gestione del paziente oncologico, che discende dagli elementi citati nel paragrafo precedente, ha comportato di fatto la centralizzazione di una condizione di cronicità. Si tratta di un caso molto singolare nell’evoluzione dell’organizzazione dei servizi in sanità: infatti da una parte vi sono condizioni di cronicità a grande impatto epidemiologico (il diabete, l’ipertensione, la BPCO, l’insufficienza renale, le demenze) che sono considerate pienamente parte
del bagaglio culturale della medicina territoriale e che quindi sono gestite nel contesto di un sistema a prevalenza territoriale, in cui la specialistica interviene soltanto nelle situazioni di instabilità clinica. Dall’altra vi sono condizioni che, per la loro complessità, sono divenute patrimonio quasi esclusivo dello specialista (basti citare ad esempio alcune condizioni reumatologiche, le epatiti croniche, l’HIV), ma sono caratterizzate da un impatto epidemiologico decisamente inferiore rispetto alla patologia tumorale e non hanno quindi determinato i fenomeni di crisi che caratterizzano l’assistenza oncologica. Le principali fasi in cui si può semplificare il percorso della malattia avanzata sono: la fase diagnostica, la fase dei trattamenti attivi e la fase delle cure palliative. Trasversalmente a queste tre fasi vi sono periodi di stabilità clinica e di buona qualità di vita alternati a momenti di acuzie (i sintomi provocati dalla malattia, le complicanze, le tossicità dei trattamenti) che più o meno improvvisamente modificano l’assetto organizzativo. La malattia oncologica avanzata richiede un ripensamento della distribuzione delle competenze in rapporto alle variazioni cliniche: l la modulazione dell’intensità assistenziale in funzione della fase di malattia; ll’approccio multidimensionale alle problematiche che richiede un lavoro di équipe, e una flessibilità operativa e organizzativa; lla componente di bisogno socioassistenziale che comporta interventi professionali specifici e integrati. L’organizzazione ospedaliera si può considerare oggi sufficientemente attrezzata per la gestione della stabilità: sia la fase diagnostica che quella dei trattamenti sono quasi completamente condotte a livello intra-ospedaliero e, pur con differenze e disomogeneità, viene garantita una buona accessibilità ai servizi e soprattutto viene data la possibilità di usufruire di accertamenti e cure a elevata complessità e a elevato costo. Il paziente ambulatoriale medio
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oncologia viene gestito in modo programmato, attraverso una serie di accessi in regime ambulatoriale o di day hospital, o attraverso brevi periodi di ricovero per accertamenti o trattamenti invasivi (chirurgici o di radiologia interventistica). Per soddisfare le esigenze di questa popolazione di pazienti sono progressivamente cresciute le risorse strutturali, umane ed economiche a disposizione degli specialisti, facendo dell’ospedale il centro nevralgico dell’assistenza oncologica. L’ospedalizzazione dell’assistenza ha così gradualmente impoverito il ruolo della medicina territoriale, svuotandone le competenze e sminuendone le potenzialità. Per quanto riguarda la fase delle cure palliative ha preso progressivamente forma (grazie a un ulteriore cospicuo investimento di risorse) una modalità assistenziale parzialmente sovrapposta alla medicina specialistica e a quella territoriale, le équipe di cure palliative, alle quali viene richiesta la presa in carico completa del paziente nelle fasi finali della vita. Se pure con limiti e nodi ancora da risolvere e che non è possibile approfondire in questo contesto, questo modello organizzativo, attraverso l’assistenza domiciliare e la costituzione degli hospice, ha dato una risposta adeguata alla drammatica questione del fine-vita.
lll i limiti del modello specialistico Come già accennato in precedenza, due fattori importanti hanno messo in crisi il modello specialistico: 1. la multipatologia e la fragilità di una parte crescente della popolazione dei pazienti oncologici, per i quali il modello centrato sull’ospedale e su prestazioni tipicamente settoriali si rivela sempre più inadeguato; 2. gli episodi di acuzie e la necessità di prestazioni urgenti, non programmate, che il sistema ospedaliero, nella sua rigidità non è stato in grado di affrontare. La soluzione che spontaneamente si è determinata è stata rappresentata dal “Pronto Soccorso”, struttura di immediato e semplice accesso, con le
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conseguenze di inappropriatezza e inefficienza che si conoscono bene (4). Per entrambe queste esigenze, di fronte all’insufficienza dell’organizzazione specialistica, è stata chiamata in causa la medicina territoriale: il paziente anziano con una sintomatologia dolorosa impegnativa per una neoplasia avanzata o per metastasi scheletriche; un episodio subocclusivo in una paziente con una carcinosi peritoneale; la febbre in un paziente sottoposto a chemioterapia; un evento vascolare in un paziente sottoposto a un trattamento con un farmaco biologico. Sono solo alcuni, limitati esempi di condizioni di fronte alle quali la pertinenza dei ruoli tragicamente si confonde determinando un vuoto assistenziale (5). Come fare fronte a queste necessità in un contesto caratterizzato fortemente dall’impossibilità di un’ulteriore iniezione di risorse al sistema ospedaliero? Come è possibile ridisegnare l’organizzazione dell’assistenza oncologica in modo da garantire servizi efficienti a parità di risorse?
lll Quali opportunità di cambiamento? La crisi del sistema comporta lo sviluppo di modelli assistenziali nuovi. Comporta soprattutto la ricostruzione di un dialogo tra due mondi, quello dell’ospedale e quello del territorio che per troppo tempo hanno ritenuto di poter funzionare in modo autonomo. Di fronte all’esigenza di fare uscire i pazienti dagli ospedali, di periferizzare l’assistenza, occorre ripensare a una modalità alternativa di presa in carico. Come in tutte le fasi di crisi, tuttavia, pensiamo che si stiano determinando le possibilità di una svolta e di un pensiero organizzativo in grado di dare un assetto più accettabile al problema. Il vero nodo è rappresentato dalla necessità di valorizzare le potenzialità della medicina territoriale, di metterla nelle condizioni di riappropriarsi della gestione del paziente oncologico e di ritornare a essere un interlocutore autorevole dello specialista. Il monitoraggio
clinico, la gestione dei sintomi e delle tossicità più comuni, il ruolo relazionale e la presa in carico dell’intero nucleo familiare sono alcuni degli ambiti di competenza di pertinenza tipici della medicina territoriale. I modelli di alcuni Paesi, tipicamente gli USA e la Svizzera (caratterizzati entrambi da una sanità fortemente privatistica) hanno costruito una fitta rete di specialisti territoriali in relazione con i centri ospedalieri e sostitutivi della medicina generalista. Questo modello presenta tuttavia aspetti di rilevante criticità, in relazione in particolare ai costi elevati e all’insufficiente copertura delle fasce più fragili della popolazione. A nostro avviso è possibile immaginare (ne è anzi già diffusa la consapevolezza) un’organizzazione che valorizzi la rete assistenziale del territorio, ne conservi le priorità e le caratteristiche. Nel loro complesso le cure oncologiche rappresentano bisogni che richiedono risposte che vanno oltre la medicina e che necessitano di elementi di sociologia, di antropologia, di comunicazione e spiritualità, aspetti da sempre presenti nel patrimonio originale della medicina di famiglia, che vanno recuperati e aggiornati. È ormai sempre più evidente che esiste la necessità di una progettualità condivisa tra tutti gli attori che affrontano a diverso titolo il percorso del paziente con patologia neoplastica. Questo proprio per le specifiche peculiarità del medico di base e per il suo ruolo in ambito territoriale e familiare come riferimento cardine per il paziente e i suoi cari, quando si trovano a fronteggiare la malattia oncologica. È la sua presenza costante per lunga parte della vita del paziente e del suo nucleo familiare che lo rende attore presente e vigile del decorso della malattia, e osservatore privilegiato della sua evoluzione, disponendo di elementi unici per la gestione delle cure nella fase avanzata. I tre elementi che costituiscono il presupposto essenziale per una medicina territoriale che sia all’altezza del compito sono, a nostro avviso, i seguenti: 1. Una diversa organizzazione e una
Da dove cominciare? È quindi ancora lunga la strada da percorrere, anche se quotidianamente si manifestano i segni di una crescente consapevolezza in tutti gli operatori di quanto i nodi assistenziali non siano dipendenti dalla validità o dalla disponibilità dei singoli operatori, ma richiedano un profondo cambiamento di sistema. Certamente questo cambiamento non può che essere innescato da regole nuove, da un sistema organizzativo diverso, definito nel contesto di provvedimenti legislativi appropriati. Per le nuove esigenze di approccio e cura del malato è necessario superare l’isolamento del singolo MMG, sovraccarico di adempimenti burocratici e slegato dagli altri medici di famiglia che operano nello stesso territorio e dai servizi territoriali del Distretto. Alcune basi legislative sono già state poste dal recente Decreto Balduzzi (in fase di attuazione) che prevede una nuova organizzazione dei servizi territoriali di assistenza primaria: “Aggregazioni Funzionali Territoriali” e “Unità Complesse di Cure Primarie”, comparsa e valorizzazione della figura dell’infermiere all’interno nelle cure primarie, istituzione del ruolo unico e dell’H24. Soltanto in tale direzione, con una profonda riorganizzazione delle cure primarie, sarà possibile fornire modelli flessibili ed efficienti di cura. Come sempre, tuttavia, è possibile realizzare nel concreto azioni che preparino il terreno alle trasformazioni generali e riducano, nella pratica, il divario tra quanto sarebbe necessario fare e quanto si ha a disposizione. Da dove cominciare, allora, per costruire una reale integrazione tra ospedale e territorio nella gestione dei pazienti con neoplasia avanzata? Suggeriamo i seguenti tre aspetti di possibile, concreto intervento: 1. Formazione e specializzazione delle competenze. Il lavoro formativo, la diffusione delle conoscenze, deve essere instancabile ed essere condotto a livelli diversi: dalla realizzazione di progetti formativi locali,
che rispondano a esigenze particolari, alla costruzione di percorsi formativi integrati da parte delle Società Scientifiche coinvolte. La formazione deve avvalersi di tutti gli strumenti oggi disponibili, dalla formazione sul campo, alla formazione a distanza, all’audit clinico, alla più classica formazione residenziale. Soprattutto deve avere come obiettivo non soltanto l’acquisizione di elementi di conoscenza (il “sapere”), ma soprattutto l’acquisizione di competenze professionali nuove (“il saper fare”). Un esempio virtuoso in questo senso è rappresentato dal Core Curriculum in Cure Palliative realizzato dalla collaborazione tra la Società Italiana di Medicina Generale e la Società Italiana di Cure Palliative. 2. Comunicazione: trasmissione delle informazioni bi-direzionale. Pur in assenza di strumenti informativi adeguati è possibile, nelle singole realtà operative, decidere di trasmettere assiduamente le informazioni cliniche disponibili in modo bi-direzionale, dall’ospedale al territorio e viceversa. La conoscenza dei problemi costituisce l’elemento essenziale per la loro soluzione e dà ai pazienti la percezione di una reale integrazione. 3. Elaborazione di percorsi assistenziali condivisi. I percorsi clinici rappresentano delle occasioni uniche per studiare in modo proattivo i nodi fondamentali dei processi. Lungi dal costituire una mera compilazione formale di ulteriore documentazione, possono essere utilizzati per rendere efficiente il passaggio del paziente da un setting di cura a un altro, e per includere tutti gli attori necessari. Infine, attraverso l’elaborazione di indicatori di performance, consentono alle organizzazione di misurare i processi, di prendere consapevolezza dei problemi non risolti e di rendere trasparente gli sforzi assistenziali. Pensiamo che questi tre aspetti siano alla portata di tutte le realtà e che siano in grado di creare le condizioni di un cambiamento sostanziale dell’assistenza.
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I punti chiave A differenza delle patologie croniche “classiche”, la malattia oncologica avanzata presenta alcune peculiarità che richiedono una gestione e un’assistenza ad hoc. I limiti di un’assistenza del paziente “longterm survivor”, centrata unicamente sul modello ospedaliero sono evidenti, e sono principalmente legati alla multipatologia e fragilità di questa particolare classe di malati, e agli episodi di acuzie e alla necessità di prestazioni urgenti non programmate. La crisi del “sistemaospedale” potrebbe essere l’opportunità per pensare a un nuovo assetto nella gestione della malattia oncologica avanzata. In questo nuovo assetto, uno dei protagonisti (ma non l’unico) per così dire “fisiologici” dovrebbe essere il Medico di medicina generale. Il MMG ha un ruolo cardine a livello territoriale, per il paziente e per i suoi familiari. La sua presenza costante, per una lunga parte della vita del paziente, lo rende osservatore privilegiato di tutto il decorso della patologia neoplastica, e depositario di una serie di elementi unici per la gestione delle cure in fase avanzata.
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più adeguata definizione dei ruoli del medico di base. È indubbio che la gestione del paziente oncologico richieda un supplemento di competenze (tecniche e relazionali) che non sono patrimonio comune di una medicina generalista parcellizzata e fondata storicamente su un’organizzazione individuale. Il medico da solo è impotente e non è ragionevole pretendere la copertura di un panorama di competenze oggi eccessivamente vasto. È invece un sistema integrato, a rete o di medicina di “gruppo”, che può dare risposte alla necessità di continuità assistenziale, ma soprattutto permettere una specializzazione delle competenze. Un medico di assistenza primaria che sviluppi una competenza approfondita in ambito oncologico, pur mantenendo la sua caratteristica generalista, diventa interlocutore affidabile dello specialista ospedaliero e adeguato interprete dei bisogni del paziente. 2. Il potenziamento e la specializzazione dell’assistenza infermieristica. Un elemento decisivo dell’assistenza ospedaliera è stato e sarà sempre di più la valorizzazione del ruolo infermieristico. Una serie di compiti assistenziali possono essere svolti da infermieri che abbiano maturato un’esperienza consolidata in un determinato settore (basti pensare, per citare ruoli infermieristici a elevato valore aggiunto al di fuori dell’ambito oncologico, agli infermieri delle unità di terapia intensiva o al fondamentale ruolo del triage infermieristico all’interno del Pronto Soccorso). Negli ospedali è solo l’unità medicoinfermieristica a essere in grado di gestire i percorsi assistenziali. La stessa cosa dovrebbe accadere sul territorio: l’infermiere come attore di prossimità, come sentinella degli eventi patologici, come ingranaggio fondamentale nella catena dell’assistenza. L’investimento e la valorizzazione di questa componente della sanità (che, tra l’altro, ha costi inferiori rispetto all’assistenza medica) costituisce il presupposto essenziale per la specializzazione dei compiti del medico. 3. La costruzione di una rete efficiente
di trasmissione delle informazioni. In un modello nel quale non è più previsto il gestore unico, ma nel quale intervengono molteplici competenze e si attraversano continuamente setting di cura diversi, la trasmissione delle informazioni diventa l’elemento centrale per consentire il passaggio del paziente da una fase all’altra. Nessuno è in grado di intervenire in modo appropriato senza disporre di un patrimonio anamnestico (le patologie concomitanti, la storia di malattia, la terapia in corso, le allergie, il grado di consapevolezza: sono solo alcuni aspetti delle informazioni necessarie per agire). Oggi il circuito informativo è, nella migliore delle circostanze, a compartimenti stagni: i sistemi di comunicazione dei diversi specialisti e soprattutto dell’ospedale e del territorio spesso non si parlano, non sono in connessione. L’arretratezza dell’informatizzazione sanitaria nel nostro Paese rappresenta un handicap organizzativo drammatico, la fonte di un’inaccettabile duplicazione delle prestazioni (e quindi di sprechi e di costi aggiunti incalcolabili) e la determinante fondamentale del rischio clinico. Non è possibile pensare a un sistema integrato senza uno strumento informativo sicuro ed efficiente.
Bibliografia 1. I Numeri del Cancro in Italia. AIOM-AIRTUM 2012. www.aiom.it 2. Barnett K, Mercer SW, Norbury M et al. Epidemiology of multimorbidity and implications for health care, research, and medical education: a cross-sectional study. Lancet 2012, 380: 37-43 3. Coniglio D. Collaborative practice models and team-based care in oncology. J Oncol Pract 2013, 9: 99-100. 4. Mayer DK, Travers D, Wyss A, Leak A, Waller A. Why do patients with cancer visit emergency departments? Results of a 2008 population study in North Carolina. J Clin Oncol 2011, 29, 2683 – 2688 5. Aprile G, Pisa FE, Follador A et al. Unplanned presentations of cancer outpatients: a retrospective cohort study. Supp Care Cancer 2013, 21: 397-404. 6. Fasola G, Rizzato S, Merlo V et al. Adopting integrated care pathways in non–smallcell lung cancer. From theory to practice. J Thorac Oncol 2012, 7: 1283-1290.
iniziative
“Un occhio di riguardo” per la salute delle popolazioni nei Paesi in via di sviluppo Sperimentare l’impiego e l’utilità clinica di particolari mini-ecografi negli ospedali dei Paesi del Terzo Mondo. È questo l’obiettivo di un innovativo progetto che l’UNAMSI sta portando avanti con il supporto di GE Healthcare, nato per migliorare l’assistenza sanitaria nelle aree in via di sviluppo
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ono stati presentati a Milano, lo scorso 29 maggio, i primi risultati del progetto “Un occhio di riguardo”, un’iniziativa nata nel 2012 che ha come “protagonisti” 4 Onlus (Apurimac, Emergency, Medici con l’Africa Cuamm e Medici senza frontiere) e UNAMSI (Unione nazionale medico scientifica di informazione), tutti insieme impegnati con l’obiettivo comune di offrire assistenza sanitaria qualificata in alcuni Paesi poveri. L’iniziativa ideata da UNAMSI, di elevato spessore sociale e umanitario, ma anche scientifico, è stata realizzata con il supporto incondizionato di GE Healthcare. Ciascuna Onlus ha ricevuto un mini-ecoscopio Vscan (dispositivo
tascabile a ultrasuoni, delle dimensioni di uno smartphone) e lo ha utilizzato nell’ambito di un progetto specifico per la durata di 6 mesi. I dati raccolti hanno permesso di valutare il contributo che diagnosi tempestive e immediate possono offrire in un contesto critico, per il quale l’apparecchiatura è di fatto stata concepita. Vscan è stato utilizzato “sul campo” in Perù, Sierra Leone, Haiti ed Etiopia nei centri in cui lavorano le Onlus coinvolte nel progetto, e in ambiti clinici diversi, dall’ostetricia alla pediatria, dalla medicina generale alla chirurgia d’urgenza. I dati sono stati raccolti
tra agosto 2012 e febbraio 2013. Nel complesso, i risultati hanno evidenziato principalmente come lo strumento, utilizzato da personale appositamente formato, ha permesso di aumentare l’accesso alle cure e migliorare la qualità dell’assistenza offerta dalle Onlus in contesti territorialmente disagia-
ti, offrendo informazioni affidabili che hanno influenzato le scelte terapeutiche, specie nell’ambito dell’ugrenza-emergenza chirurgica. “Risultati interessanti e incoraggianti”, ha sottolineato Franco Marchetti, coordinatore scientifico UNAMSI del progetto “che hanno portato alla constatazione che Vscan è utile non solo per le diagnosi di primo livello fatte dai Medici di base, ma anche in situazioni di emergenza”. L’auspicio è che questi risultati possano rappresentare i primi passi sulla strada che porta verso una sanità più solidale.
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notizie dal web reumatologia Capsulite adesiva della spalla: il trattamento intra-articolare con acido ialuronico si candida come valida opzione di terapia nei pazienti in cui i cortisonici non sono indicati www.terapiainfiltrativa.it Nota più comunemente come “spalla congelata”, la capsulite adesiva è un’infiammazione della capsula articolare gleno-omerale particolarmente dolorosa e fortemente invalidante. Il dolore è solitamente acuto e piuttosto intenso, talvolta associato a gonfiore e localizzato soprattutto nella parte superiore esterna della spalla. Per contrastare l’infiammazione e il dolore, la strategia farmacologica prevede la somministrazione di antinfiammatori, l’infiltrazione intraarticolare di cortisonici e anestetici. Sebbene vi siano pochi studi al riguardo, anche l’infiltrazione intra-articolare di acido ialuronico, che esercita una funzione lubrificante sull’articolazione, si sta delineando sempre più come un potenziale strumento di trattamento. Lo studio recensito sul sito www.terapiainfiltrativa.it e condotto da ricercatori sudcoreani (Park KD et al. Arch Phys Med Rehabil 2013; 94: 375-83) aveva l’obiettivo di valutare gli effetti sul dolore, la funzionalità e l’ampiezza del movimento di questo tipo di trattamento in pazienti con “spalla congelata”, e di metterlo a confronto con l’infiltrazione di steroidi. L’iniezione intra-articolare è stata eseguita sotto guida ecografica con distensione capsulare, al fine di garantire una migliore accuratezza della procedura. Lo studio prospettico, controllato e randomizzato, ha coinvolto 100 pazienti che sono stati suddivisi in due gruppi di trattamento. Un gruppo ha ricevuto un’iniezione intra-articolare di lidocaina 0,5 per cento più triamcinolone 40 mg, e l’altro lidocaina 0,5 per cento più acido ialuronico 20 mg e distensione capsulare. Tutte le iniezioni sono state effettuate ogni 2 settimane per un totale di 3 volte. Gli effetti del trattamento sono stati valutati utilizzando lo SPADI (Shoulder Pain and Disability Index), il VNS (Verbal Numeric Scale) e il ROM (ampiezza del movimento passivo) della spalla (flessione, abduzione, rotazione esterna) prima delle iniezioni, e 2 e 6 settimane dopo le ultime iniezioni. I tre indicatori sono risultati migliorati 2 e 6 settimane dopo le ultime iniezioni in entrambi i gruppi. Non si sono osservate differenze significative tra i gruppi per quanto riguarda lo SPADI e il VNS, mentre il miglioramento della rotazione esterna passiva della spalla è apparso più evidente nel gruppo “acido ialuronico”. La distensione della capsula articolare mediante iniezione intraarticolare di acido ialuronico ha dimostrato di essere un metodo di efficacia sovrapponibile a quella dell’iniezione del solo cortisonico in termini di sollievo dal dolore e di miglioramento della funzione articolare; inoltre, questo approccio risulta più efficace rispetto al solo cortisonico, nel miglioramento della rotazione esterna passiva. Secondo questi risultati dunque, la distensione capsulare con iniezione intra-articolare di acido ialuronico può essere utile nei pazienti in cui vi sia una controindicazione all’impiego di corticosteroidi.
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nutrizione Diabete di tipo 2, ecco la frutta che aiuta a contrastarlo www.ondaosservatorio.it Mangiare tre porzioni di frutta alla settimana potrebbe prevenire il diabete di tipo 2. A sostenere i benefici sulla salute storicamente associati al consumo di frutta è un lavoro di recente pubblicazione (Isao Muraki et al. BMJ 2013; 347:f5001 doi: 10.1136/bmj.f5001), che ha valutato i dati di tre studi di coorte statunitensi. In estrema sintesi, dal lavoro emerge come consumare almeno tre porzioni di frutta diversa alla settimana riduce in media del 2 per cento il rischio di diabete di tipo 2, mentre assumere il corrispettivo di tre porzioni di succhi di frutta alla settimana ha un effetto negativo, aumentando il rischio di patologia dell’8 per cento. Inoltre, sembra anche che non tutti i tipi di frutta esercitino la stessa azione benefica. Se infatti i mirtilli assunti tre volte alla settimana riducono il rischio del 26 per cento, l’uva passa o fresca lo riducono del 12, le prugne dell’11, pere e mele del 7, banane e pompelmi del 5, pesche, albicocche e prugne secche del 3. Arance, fragole e melone al contrario sembrano aumentare il rischio di diabete. I dati derivano dall’analisi di tre ampi studi condotti negli USA su personale ospedaliero: 66.105 donne del Nurses’ Health Study, 85.104 donne del Nurses’ Health Study II e 36.173 uomini dal Health Professionals Follow-up Study. Sul rapporto tra consumo di frutta e diabete di tipo 2 esistono in letteratura dati piuttosto eterogenei. Secondo gli Autori, anche questa nuova analisi conferma tale variabilità specie quando si valutano gli effetti dei singoli tipi di frutta; le conclusioni supportano comunque le tradizionali raccomandazioni secondo cui, il consumo almeno tre volte alla settimana di mirtilli, uva e mele eserciti un’azione protettiva nei confronti del diabete.