Medico e paziente 05 14

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Ictus ischemico l’uso di inibitori della COX-2 aumenta la mortalità Celiachia i fattori che influenzano il rischio di malattia nei bambini Clinica la gestione del paziente con comorbidità BPCO-cardiopatia ischemica Congressi l’innovazione terapeutica al centro del meeting ESC

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

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CLINICA

DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

>s Domenico D’Amico

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Le novità dal Congresso dei neurologi americani

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I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

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Medico e paziente n. 5 anno XL - 2014 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio

in questo numero

sommario

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Gianluca Campo Michele Malagù Rita Pavasini Silvia Punzetti Arturo Zenorini

p 6

letti per voi

p 10 CLINICA

La comorbidità cardiopatia ischemica - BPCO Strategie per migliorare la prognosi del paziente

Le recenti acquisizioni in campo medico consentiranno di migliorare la gestione a lungo termine e la prognosi dei pazienti affetti dalla comorbilità CI-BPCO. Scopo di questa review è descrivere le attuali conoscenze in materia e proporre strategie ottimali per migliorare la prognosi dei pazienti

Rita Pavasini, Michele Malagù, Silvia Punzetti, Gianluca Campo

p 18 Approfondimenti

Le linee guida ACC/AHA sull’ipertensione arteriosa Il dibattito sui valori pressori target La pubblicazione del documento JNC8 ha dato il via a un dibattito all’interno della comunità scientifica internazionale. In questo spazio oltre a pubblicare le raccomandazioni JNC8, cercheremo di evidenziare i “punti caldi” del documento, le critiche e i dubbi sollevati

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Arturo Zenorini

Medico e Paziente

5 .2014

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

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sommario

p 23 Approfondimenti

Le indicazioni europee ESH-ESC Intervista al professor Alberto Zanchetti Il professor Zanchetti, uno dei maggiori esperti in tema di ipertensione a livello internazionale, fa il punto sulle raccomandazioni europee relative alle classi di pazienti meritevoli di un trattamento farmacologico antipertensivo

p 26

congressi

• Congresso ESC 2014, Barcellona L’innovazione terapeutica è il leitmotiv al meeting dei cardiologi europei

Farminforma p 30 Notizie dal web p 28

• L’ipertensione si controlla con un’App • www.vitaminad.it Negli anziani, la supplementazione con vitamina D sembra proteggere dal rischio di scompenso cardiaco, ma non ha influenza su IM e ictus • www.Psoriasi360.it Consulenze specialistiche ora anche on line

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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letti per voi gastroenterologia

Malattia celiaca: nuovi studi fanno chiarezza sui fattori che influenzano la prevalenza della patologia in bambini a rischio, e suggeriscono attenzione anche verso le proteine “non-glutine” del grano £ La relazione tra il rischio di sviluppare celiachia in funzione di determinanti quali l’età di introduzione del glutine nella dieta e il tipo di regime alimentare nei primi anni di vita non

è al momento del tutto chiara. Alcune interessanti indicazioni al riguardo però derivano da questo studio italiano, che ha coinvolto diversi centri di ricerca sul territorio e che è stato condotto proprio

per fare luce su quanto (e se) la dieta nei primissimi mesi di vita possa funzionare da trigger per la malattia celiaca in bambini a rischio. Nel complesso 832 neonati con parenti di primo grado affetti da celiachia sono stati suddivisi in due gruppi: il gruppo A prevedeva l’introduzione del glutine a 6 mesi, il gruppo B a 12 mesi. Il genotipo HLA è stato determinato all’età di 15 mesi, mentre lo screening sierologico per malattia celiaca è stato valutato a 15, 24 e 36 mesi, e successivamente a 5, 8 e 10 anni. Nei piccoli pazienti con sierologia positiva sono state eseguite

£ Il paracetamolo, analgesico universalmente consigliato per il trattamento della lombalgia acuta, non accelera il recupero, Nella lombalgia acuta, il paracetamolo né riduce il dolore nel paziente affetto da rivela un’attività analgesica questa condizione. È quanto emerge dai risultati di un ampio studio clinico austraparagonabile a quella del placebo: liano di recente pubblicazione. La ricerca i risultati di uno studio australiano inoltre, evidenzia che il paracetamolo non si è rivelato più efficace rispetto al placebo randomizzato e controllato neanche nel migliorare il sonno e la qualità della vita dei pazienti. Si tratta di conclusioni del tutto divergenti rispetto alle indicazioni contenute nelle principali linee guida internazionali sul trattamento della lombalgia, in cui viene raccomandato il paracetamolo come analgesico di prima linea. Ma dal momento che tali raccomandazioni non sembrano, almeno secondo gli Autori australiani, suffragate da prove solide di evidenza dell’efficacia del paracetamolo per questa condizione, erano necessari studi ad hoc. Nel presente lavoro, 1.643 soggetti affetti da dolore lombo-sacrale sono stati randomizzati a ricevere l’analgesico fino a 4 settimane: un gruppo “regolare” (550 pz.) lo assumeva in dosi regolari tre volte /die (equivalenti a 3.990 mg di paracetamolo al giorno), un gruppo “al bisogno” (546 pz., massimo di 4.000 mg di paracetamolo al giorno), e un gruppo placebo (547 pz.). Tutti i soggetti coinvolti sono stati seguiti per tre mesi. Lo studio multicentrico ha coinvolto 235 centri di cure primarie a Sydney dal novembre 2009 fino a marzo 2013. L’outcome primario era il tempo fino al recupero dal dolore lombo-sacrale, con “recupero” definito come un punteggio di dolore di 0 o 1 (su una scala di dolore 0-10) mantenuto per 7 giorni consecutivi. I risultati hanno mostrato che il tempo mediano di recupero è stato di 17 giorni (95 per cento CI 14-19) nel gruppo con trattamento “regolare”, 17 giorni (95 CI 15-20) nel gruppo “al bisogno” e 16 giorni (CI 95 14-20) nel gruppo placebo (regolare vs placebo HR 0,99, 95 per cento CI 0,87-1,14; al bisogno vs placebo 1,05, 0,92-1,19; regolare vs al bisogno 1,05, 0,92-1,20). Non sono state registrate differenze tra i tre gruppi nel tempo di recupero (p aggiustato =0,79). L’aderenza regolare alle compresse consumate da parte di ciascun paziente e le segnalazioni di eventi avversi sono risultate simili tra i gruppi. Il paracetamolo non ha avuto effetto sui livelli del dolore nel breve periodo, ma neanche sulla disabilità, sulla funzione, sulla qualità del sonno, o sulla qualità della vita, e sui tempi di recupero. Inoltre, i ricercatori hanno evidenziato che il numero di pazienti che hanno riportato effetti collaterali negativi era simile in tutti i gruppi. Gli Autori concludono che questi risultati portano a riconsiderare il ruolo del paracetamolo come antidolorifico di prima scelta nella lombalgia acuta. Naturalmente un solo studio non è sufficiente per cambiare le raccomandazioni delle linee guida, almeno fino a quando non vi siano prove più robuste e coerenti dell’inefficacia del paracetamolo. Emerge tuttavia, ancora una volta quanto il capitolo terapia del dolore sia complesso e costituisca una sfida in campo medico.

patologie osteoarticolari

Williams CM, Maher CG, Latimer J et al. The Lancet 2014; 384 (9954): 1586-96

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Medico e paziente

5.2014


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fotolia.com © apops

biopsie intestinali. L’obiettivo primario dello studio era stabilire la prevalenza di autoimmunità per la malattia e di celiachia conclamata all’età di 5 anni. Ed ecco le indicazioni dai risultati. Dei 707 partecipanti che erano rimasti in studio a 36 mesi, 553 mostravano un genotipo HLA a rischio “standard” o ad alto rischio, e quindi hanno completato il trial. All’età di 2 anni, nel gruppo A vi era una significativamente più alta quota di bimbi con autoimmunità rispetto a quanto osservato tra i pazienti del gruppo B (16 vs 7 per cento; P =0,002), e lo stesso trend si osservava per la malattia celiaca conclamata (12 vs 5 per cento; P =0,01). All’età di 5 anni tuttavia la differenza tra i due gruppi si attenuava, diventando poco significativa, sia per la prevalenza di autoimmunità che di malattia conclamata. All’età di 10 anni, il rischio di autoimmunità per malattia celiaca era ben più alto tra i bimbi con profilo HLA ad alto rischio, rispetto a quanto osservato tra quelli con profilo HLA a rischio “standard” (38 vs 19 per cento; P =0,001); analogamente risultava per il rischio di malattia conclamata (26 vs 16 per cento; P =0,05). Altre variabili tra le quali anche l’allattamento materno non erano associate con lo sviluppo di celiachia. In conclusione, gli Autori del lavoro sottolineano come parametri quali l’introduzione ritardata del glutine nella dieta oppure l’allattamento al seno non sembrano modificare il rischio di malattia nella popolazione di bimbi studiata (a rischio), sebbene si osservi una tendenza ritardata nel tempo di manifestazione della celiachia nel gruppo di pazienti, in cui l’introduzione del glutine è avvenuta tardivamente. È evidente dai risultati che il profilo HLA ad alto rischio è un importante predittore per lo sviluppo della malattia. Citiamo in questo contesto anche i risultati di una recentissimo lavoro, apparso sul Journal of Proteome Research, secondo cui il glutine, trigger principale della celiachia, in realtà non sembrerebbe essere l’unico responsabile. Il lavoro evidenzia infatti che i celiaci hanno anche reazioni alle proteine del grano “non-glutine”.


letti per voi Mentre la specificità antigenica e la rilevanza patogenetica di reattività immunologica al glutine nella malattia celiaca sono state ampiamente studiate, la risposta immunitaria alle proteine “non-glutine” di grano non è mai stata caratterizzata. La ricerca ha indagato il livello e la specificità molecolare della risposta anticorpale alle proteine “non-glutine” di grano nella malattia celiaca. I campioni di siero provenienti da pazienti celiaci e controlli sono stati sottoposti a screening per la reattività anticorpale IgG e IgA verso un estratto proteico non di glutine dal grano Triticum aestivum ‘Butte 86’. Gli anticorpi sono stati ulteriormente analizzati per la reattività a specifiche proteine “non-glutine” mediante elettroforesi bidimensionale e immunoblotting. Sono state identificate molecole immunoreattive mediante spettrometria di massa tandem. Rispetto ai controlli sani, i pazienti hanno mostrato livelli significativamente più elevati di anticorpi che esprimono la reattività alle proteine “non-glutine”. Un numero considerevole di soggetti con malattia celiaca e dermatite erpetiforme (eruzione cutanea spesso associata con la malattia) ha mostrato una reazione immunitaria verso cinque gruppi di proteine “non-glutine”. La valutazione della reattività nei confronti delle proteine ricombinanti purificate ha confermato ulteriormente la presenza della risposta anticorpale agli antigeni specifici. I risultati dimostrano dunque che oltre alla reazione immunitaria ben nota al glutine, la celiachia è associata a una risposta umorale robusta diretta verso uno specifico sottoinsieme delle proteine “non-glutine” del frumento. La ricerca attuale e futura sui trattamenti clinici per la malattia celiaca dovrebbe quindi prendere in considerazione anche questa classe di proteine. Lionelli E, Castellaneta S, Francavilla R et al. New Engl J Med 2014; 371: 1295-1303. Huebener S, Tanaka CK, Uhde M et al. J Proteome Res 2014 Nov 7 (Epub ahead of print) doi: 10.1021/pr500809b.

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Medico e paziente

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Neurologia

Nell’ictus ischemico, l’uso di inibitori della COX-2 (ma non di Fans non selettivi) prima del ricovero si associa con un aumento di circa il 20 per cento della mortalità a 30 giorni £ Alle già numerose evidenze disponibili in letteratura sulla tossicità cardiovascolare (CV) associata all’utilizzo di farmaci antinfiammatori inibitori selettivi della ciclossigenasi-2 (COX-2) in pazienti con stroke e a rischio CV, si aggiungono ora i risultati di questo studio danese, secondo cui questa classe di farmaci contribuisce a un aumento significativo della mortalità per ictus. Nello specifico a 30 giorni, tale aumento è dell’ordine del 20 per cento tra i pazienti che avevano fatto uso di COX-2 inibitori prima del ricovero. Non tutte le molecole sembrano però avere lo stesso “peso” sul tasso di mortalità: il rischio più elevato di decesso entro 1 mese è stato osservato tra i pazienti che avevano fatto uso di inibitori COX2 più vecchi (etodolac, diclofenac). Il rischio osservato per i coxib di nuova generazione è risultato comunque più elevato rispetto a quanto calcolato nei soggetti che non facevano uso di alcun FANS, ma inferiore rispetto a quello dei vecchi inibitori COX-2 selettivi. Lo studio è stato condotto in Danimarca, e utilizzando i database nazionali sono stati identificati i (primi) ricoveri per stroke nel periodo tra il 2004 e il 2012, complessivamente 100.043 casi, e la conseguente mortalità. I soggetti sono stati suddivisi in diverse categorie a seconda dell’uso di antinfiammatori: utilizzatori correnti, a loro volta suddivisi in “da lungo tempo” o “nuovi”, ex-utilizzatori, e non utilizzatori. I valori di rischio, espressi come hazard ratio (HR), entro 30 giorni, sono stati calcolati attraverso modello di regressione di Cox, dopo aggiustamento per potenziali variabili confondenti. Nel complesso, tra gli eventi cerebrovascolari il 51 per cento è risultato di natura ischemica, il 12 per cento emorragie intracerebrali, il 5 per cento emorragie subaracnoidee,

e il 32 per cento ictus di natura non definita. Tra questi pazienti-casi, il 10,8 per cento rientrava nel gruppo degli “utilizzatori correnti”. Il valore di HR per stroke ischemico è risultato pari a 1,19 (95 per cento CI 1,02-1,38) tra gli utilizzatori correnti di inibitori selettivi della COX-2 rispetto ai non utilizzatori (HR 1,42 per i nuovi utilizzatori). Confrontando le diverse molecole e gli effetti sulla mortalità, emerge come l’uso di etodolac o di diclofenac comportasse un significativamente più alto rischio di decesso entro 30 giorni, con un aumento del rischio rispettivamente del 53 per cento (HR 1,53 CI 95 1,02-2,28 per etodolac) e del 28 per cento (HR 1,28 CI 95 0,98-1,68 per diclofenac). Il trend non è stato osservato tra i pazienti appartenenti alla classe degli “ex utilizzatori”. Inoltre la mortalità per emorragia cerebrale non sembra in relazione con l’uso di inibitori COX-2 selettivi o FANS non selettivi. In conclusione dunque, l’utilizzo di COX-2 inibitori prima del ricovero sembra correlare con un significativo aumento del tasso di decesso a seguito di stroke ischemico, ma non emorragico. Nessuna associazione è stata osservata tra la mortalità dopo ictus ischemico o emorragico e uso di FANS non selettivi. I risultati ottenuti nell’ambito di questo studio di popolazione danese, ancora una volta confermano l’importanza di usare estrema cautela nel prescrivere inibitori selettivi della COX-2, in pazienti che presentano un qualsiasi fattore di rischio per ictus, sottolineando la necessità di prendere sempre in considerazione altre opzioni di trattamento. Schmidt M, Hováth-Puhó E, Christiansen CF et al. Neurology 2014; Published on line November 5; doi: 10.1212/ WNL.0000000000001024


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La comorbidità cardiopatia ischemica - BPCO Strategie per migliorare la prognosi del paziente Le recenti acquisizioni in campo medico consentiranno di migliorare la gestione a lungo termine e la prognosi dei pazienti affetti dalla comorbilità CI-BPCO. Scopo di questa review È descrivere le attuali conoscenze in materia e proporre strategie ottimali per migliorare la prognosi dei pazienti

L

a cardiopatia ischemica (CI) è la principale causa di morte nei Paesi industrializzati. Si ipotizza che nel 2030 possa divenire la responsabile della morte di circa 24 milioni di persone, determinando, di conseguenza, un notevole danno in termini di costi e di perdita della produttività per la società, e, al contempo, aumentando del 10-15 per cento i cosiddetti “disability-adjusted life years (DALYs)” [1]. La CI si caratterizza per la presenza di diversi quadri clinici (responsabili di un numero elevato di ospedalizzazioni) generalmente definiti dall’acronimo “sindrome coronarica acuta” (SCA), la quale comprende l’infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), l’infarto miocardico acuto senza sopra-

slivellamento del tratto ST (NSTEMI) e l’angina instabile. Tra i principali fattori di rischio della CI si annoverano il fumo, l’età, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa; questi stessi fattori di rischio sono condivisi anche dal paziente affetto da broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come una condizione clinica caratterizzata da “limitazione al flusso espiratorio, solitamente ad andamento progressivo e associato ad attivazione di una risposta infiammatoria cronica delle vie aeree e del polmone a polveri e gas nocivi”[2]. Anche la BPCO, come la CI occupa i primi posti della classifica delle cause di morte, collocandosi attualmente al quarto posto. Attualmente la correlazione tra cardiopa-

A cura di Rita Pavasini, Michele Malagù, Silvia Punzetti, Gianluca Campo U.O. Cardiologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria S.Anna, Ferrara

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MEDICO E PAZIENTE

5.2014

tia ischemica e BPCO non è ancora stata ben caratterizzata, pur essendo ormai molti i dati che testimoniano una stretta associazione tra le due patologie, soprattutto in termini di cattiva prognosi nel caso di compresenza delle due malattie, pertanto, obiettivo di questa trattazione è di valutare lo stato delle attuali conoscenze dei meccanismi fisiopatologici alla base della comorbidità CI-BPCO, con l’obiettivo di poter ottimizzare la probabilità di diagnosi precoce e contestualmente ottimizzare l’approccio terapeutico da utilizzare in questa tipologia di pazienti.

Definizioni ed epidemiologia Mentre la presenza di una SCA è facilmente identificabile perché codificata da precisi criteri diagnostici, ampiamente consolidati e riassumibili nella presenza di un quadro caratterizzato da dolore toracico di tipo anginoso (insorto dopo sforzo fisico o emotivo, alleviato da nitrati o dal riposo, localizzato a livello dello sterno e/o irradiato), associato alla presenza di modificazioni elettrocardiografiche tipiche (sopraslivellamento del tratto ST di almeno 1 mm in due derivazioni contigue, insorgenza de novo di blocco di branca sinistra, sottoslivellamento del tratto ST di almeno 2 mm in due o più derivazioni contigue, inversione delle onde T) e/o di rialzo degli indici specifici di miocardiocitonecrosi (troponina T e CK-MB) [3-4], nel caso della BPCO, la definizione diagnostica non è sempre molto precisa. La spirometria è considerata


l’indagine gold standard per la diagnosi e la stadiazione della BPCO, essendo la metodica più riproducibile e standardizzata per misurare la limitazione al flusso aereo; in particolare si valuta il valore del rapporto tra volume espiratorio massimale al primo secondo durante espirazione forzata (FEV1) e capacità vitale forzata (FVC), e se minore del 70 per cento dopo somministrazione di un broncodilatatore si conferma la presenza di un’ostruzione al flusso non completamente reversibile e quindi la diagnosi di BPCO [2]. Tuttavia, spesso la diagnosi di BPCO si basa sulla sola valutazione clinico-anamnestica, e in particolare, si considerano affetti da BPCO pazienti fumatori o ex fumatori, con storia di bronchite cronica o di ospedalizzazioni pregresse da causa respiratoria. Nonostante ciò, la BPCO è spesso sottodiagnosticata; diversi studi hanno infatti riscontrato che in una popolazione in cui la BPCO era nota in una percentuale compresa tra il 9 e il 18 per cento, si assisteva a un incremento della diagnosi di broncopneumopatia pari al 66-90 per cento dei casi totali diagnosticati dopo valutazione spirometrica (Tabella 1) [59] e, in particolare, la BPCO è spesso non riconosciuta in individui con cardiopatia ischemica ricoverati in ospedale. Soriano et al. hanno riportato come in pazienti con malattia coronarica l’ostruzione delle vie aeree non fosse stata diagnosticata e, di conseguenza, non trattata nel 60 – 87 per cento dei casi [10]. Inoltre, è necessario tener presente che prevalenza, morbilità e mortalità della BPCO variano tra diversi Paesi e tra diverse popolazioni nei vari Paesi [5-9]. Si stima infatti che la prevalenza della malattia aumenterà nelle prossime decadi a causa dell’esposizione a fattori di rischio e del cambiamento demografico in atto; peraltro, secondo le previsioni, nel 2030 la BPCO sarà la terza causa di morte in tutto il mondo.

Prevalenza e diagnosi dell’associazione tra cardiopatia ischemica e BPCO La mutua influenza tra CI e BPCO è stata indagata con studi prospettici solamente negli ultimi anni, confermando che

Tabella 1

Confronto tra studi sulla prevalenza della BPCO, prima e dopo diagnostica con spirometria Area geografica

Prevalenza BPCO (%)

Nuova diagnosi di BPCO (%)

BPCO nota (%)

Grecia

18

69

31

Fukuchi et al, 2004 [7]

Giappone

10,9

90,6

9,4

Shahab et al, 2006 [5]

Inghilterra

13,3

81,2

18,8

Bednarek et al, 2008 [8]

Polonia

9,3

81,4

18,6

Hvidsten et al, 2010 [9]

Norvegia

9

66

34

Minas et al, 2010 [6]

la cardiopatia ischemica rappresenta la principale comorbidità dei pazienti con BPCO [10] e rivelando come il rischio di sviluppare cardiopatia ischemica, e in particolare infarto miocardico, nei pazienti con BPCO sia cinque volte più elevato rispetto a pazienti senza BPCO [11]; infatti nei soggetti affetti da infarto miocardico acuto la prevalenza della BPCO si attesta tra il 4 e il 18 per cento [12-16]. Le ragioni di questa variabilità nei dati risiedono probabilmente nei diversi criteri usati per definire la BPCO (che a volte includono anche l’asma bronchiale) o nella decisione di arruolare o meno pazienti deceduti per infarto miocardico, ma con BPCO [17]. Recentemente, è stato osservato un progressivo aumento della prevalenza di BPCO in pazienti cardiopatici: questo è sicuramente dovuto non solo a un probabile e reale aumento della prevalenza di BPCO, ma anche a una migliore attenzione alla problematica, a un maggiore uso dei test diagnostici, come anche all’invecchiamento della popolazione nonché all’aumento dell’età di insorgenza di cardiopatia ischemica [18].

Fattori clinici e biologici coinvolti nell’associazione CI-BPCO I fattori che concorrono nell’insorgenza contestuale di BPCO e CI sono molteplici

e, oltre alla concomitanza di esposizione a fattori di rischio modificabili e non, elencati in precedenza, costituiscono punto nevralgico di questa complessa relazione l’ipossia e l’infiammazione (Figura 1) cui consegue lo sviluppo di disfunzione endoteliale secondaria a modificazione della reattività piastrinica e della rigidità della parete arteriosa. Infiammazione e ipossia sono infatti presenti simultaneamente nella cardiopatia ischemica e nella BPCO. In particolare, durante la riacutizzazione di BPCO (RBPCO), l’ipossia causa danno vascolare e disfunzione endoteliale a seguito di infiammazione e stress ossidativo ed emodinamico. Inoltre, come è noto, l’infiammazione si caratterizza per un aumento dei livelli plasmatici di interleuchina-6 (IL-6), proteina C reattiva (PCR) e fibrinogeno; tutti questi markers sono significativamente aumentati in pazienti con BPCO, soprattutto durante le riacutizzazioni e correlano non solo con il grado di infiammazione sistemica, ma anche con la gravità della malattia [19]. Pertanto, come conseguenza della presenza e persistenza di uno stato infiammatorio cronico durante la BPCO, si verifica un’alterazione della reattività piastrinica anche in risposta ai farmaci antiaggreganti. Recentemente è stato infatti dimostrato come la reattività piastrinica sia significativamente aumentata in pazienti affetti da BPCO, sottoposti ad angio-

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clinica Figura 1

Fisiopatologia della complessa relazione tra BPCO e cardiopatia ischemica

BPCO

calcificazioni coronariche divengono più rappresentate, portando quindi a considerare l’indice di Agaston elevato (indice indiretto radiologico del calcio coronarico) un valido predittore della mortalità totale e cardiovascolare [24].

Impatto prognostico della comorbidità CI-BPCO IPOSSIA INFIAMMAZIONE CRONICA

AUMENTATA REATTIVITÀ PIASTRINICA

AUMENTATA RIGIDITÀ DI PARETE

DISFUNZIONE ENDOTELIALE

MODIFICAZIONE DI PLACCA ATEROSCLEROTICA

SINDROME CORONARICA ACUTA

plastica coronarica (PCI), sia per sindrome coronarica acuta che per coronaropatia stabile, indipendentemente da età, sesso, fattori di rischio cardiovascolare e presentazione clinica [20]; e in particolare, è stata osservata una minore risposta alla terapia farmacologica di doppia antiaggregazione (aspirina e clopidogrel) (Figura 2). Inoltre, durante RBPCO è presente una tendenza verso una lieve piastrinosi [21] e verso un aumento dei livelli plasmatici di P-selectina e di glicoproteina ligando-1 sui leucociti, che facilitano la formazione di aggregati di piastrine e monociti [22]. A chiudere il ciclo di eventi che portano a un aumento della disfunzione endoteliale indotta dall’incremento della vasocostrizione (dovuta anche all’attivazione del sistema renina-angiotensina) e stress

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ossidativo sempre secondari a ipossia e infiammazione, concorre l’aumento della rigidità di parete; in particolare, ciò che favorisce lo sviluppo di aumentata rigidità di parete nel paziente affetto da BPCO è l’aumentata pressione arteriosa (sistolica e diastolica), la severità dell’infiammazione, l’aumento del calcio coronarico, l’età avanzata, lo squilibrio tra proteasi e anti-proteasi [23-26] con il risultato di favorire lo sviluppo di modificazioni della placca ateromasica, destabilizzandola e facilitandone la rottura con formazione di trombo [26]. Alla luce di quanto detto non è dunque inaspettato ciò che è stato verificato in alcuni studi in materia, i quali hanno dimostrato che la severità dell’aterosclerosi coronarica è maggiore nei pazienti affetti da BPCO e, in particolare, le

I pazienti affetti da BPCO dopo un infarto miocardico hanno una ridotta sopravvivenza a breve e lungo termine rispetto a pazienti senza BPCO [27]. Fino a un terzo delle morti nei pazienti con BPCO sono attribuibili a cause cardiovascolari e per ogni 10 per cento di riduzione nel FEV1 la mortalità cardiovascolare aumenta del 28 per cento [28-29]. Bisogna inoltre tener conto che i ritardi nella diagnosi e nel trattamento hanno un impatto negativo tanto che il 4 per cento degli oltre 700.000 pazienti ricoverati in ospedale ogni anno con riacutizzazione di BPCO, ha un danno miocardico non riconosciuto [30]. Questo può essere dovuto al fatto che la cardiopatia ischemica nei pazienti con BPCO ha spesso una presentazione atipica. Uno studio ha mostrato che un terzo dei pazienti BPCO dimessi dopo un infarto miocardico era stato ricoverato in ospedale con dispnea e non con dolore toracico [31]. Inoltre, i pazienti affetti da BPCO hanno un aumentato rischio di infarto miocardico ricorrente, scompenso cardiaco e sanguinamento e in particolare se sottoposti a PCI, richiedendo quindi attenzioni specifiche nella gestione e nel follow-up dopo rivascolarizzazione coronarica in quanto gravati da un’incidenza maggiore di riospedalizzazioni e di morte [16] sia intraospedaliera che a lungo termine [14]. Le curve di sopravvivenza di pazienti con BPCO sopravvissuti dopo un infarto miocardico si separano da quelle di pazienti senza BPCO in fase precoce, differenza che aumenta ulteriormente durante il follow-up: dopo 5 anni dall’evento acuto, la sopravvivenza è del 68 per cento nei pazienti senza BPCO e del 46 per cento in quelli con BPCO [13]. L’impatto negativo della BPCO è particolarmente evidente nella fase acuta dell’in-


Figura 2

p=0.01

p=0.03

300

p<0.001

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0

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0

basale

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basale no BPCO

farto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI): la BPCO è un predittore molto forte di compromissione emodinamica risultante in morte o shock cardiogeno [27]. L’aumento della mortalità non cambia anche se il paziente BPCO viene sottoposto a rivascolarizzazione miocardica chirurgica e non percutanea, associandosi però anche a un aumento del rischio di complicanze intraospedaliere come fibrillazione atriale e polmonite [32].

Riacutizzazione di BPCO e concomitante danno cardiaco Il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari è particolarmente elevato durante RBPCO, condizione in cui è possibile riscontrare un aumento dei livelli plasmatici di troponina. Diversi studi hanno chiaramente dimostrato che le RBPCO costituiscono un fattore favorente la mortalità, non solo durante e immediatamente dopo l’evento acuto, ma anche nel lungo termine. Il rialzo di tale marker riflette la severità dell’evento anche in assenza di una diagnosi di infarto miocardico, aumentando il rischio di morte globale e dunque non solo da causa cardiovascolare, nel post-dimissione [33-36]. Questi dati sono stati recentemente confermati da Chang et al., che hanno mostrato come elevati livelli sierici di NT-proBNP (N-terminal pro-brain natriuretic peptide) e troponina T in pazienti ricoverati per riacutizzazione di BPCO siano associati

1 mese

Multiplate Analyzer ASPI test (AU*min)

900

P2Y12 reactivity unit

Multiplate Analyzer ADP HS test (AU*min)

Reattività piastrinica e BPCO in pazienti in terapia con aspirina e clopidogrel 750

p<0.001

p=0.02 450

150 0

basale

1 mese

BPCO

con un’elevata mortalità precoce, l’uno indipendentemente dall’altro. In particolare, l’aumento della troponina correla con una prognosi infausta a 30 giorni dalla dimissione e con un aumentato rischio di riospedalizzazione a 6 mesi [35]. È interessante notare come nessuno dei pazienti studiati sia deceduto per sindrome coronarica acuta; di conseguenza il reale significato del rialzo di troponina durante RBPCO non è completamente chiaro. Le cause che possono spiegare l’elevazione di questo marker specifico di danno cardiaco durante RBPCO (Figura 3) sono: (i) SCA e in particolare infarto miocardico di tipo 1, spesso misconosciuto, come dimostrato da analisi di ECG pre-mortem di pazienti deceduti durante RBPCO [37]; (ii) infarto miocardico tipo 2, secondario a squilibrio tra richiesta e disponibilità di ossigeno in condizioni di ipossia e tachicardia; (iii) scompenso acuto ventricolare sinistro a causa dell’aumentato postcarico in presenza di tachicardia, aumentato lavoro da parte della muscolatura respiratoria durante iperinsufflazione polmonare, aumentata rigidità della parete arteriosa con aumentata pressione arteriosa sistolica e diastolica [36]; (iv) scompenso acuto ventricolare destro secondario all’aumentato postcarico ventricolare destro in condizioni di aumentate resistenze polmonari (vasocostrizione ipossica, eventuale embolia polmonare concomitante) o causato da ischemia del ventricolo destro.

Aumentato rischio di sanguinamento in pazienti con cardiopatia ischemica e BPCO Un recente studio prospettico internazionale condotto su 8.167 pazienti ricoverati per SCA, ha mostrato come la terapia trombolitica e gli inibitori delle glicoproteine IIb/IIIa fossero meno usati nei pazienti con diagnosi di BPCO a causa delle complicanze emorragiche [38]. L’aumentato rischio di sanguinamento è confermato anche da dati provenienti dal Registro Angioplastiche dell’Emilia-Romagna (REAL), che ha mostrato come la BPCO sia un forte fattore di rischio indipendente per sanguinamenti maggiori [16]. Le ragioni di questo aumentato rischio emorragico sono diverse. Un ruolo importante è costituito dal maggior rischio di aritmie come la fibrillazione atriale che richiedono terapia anticoagulante orale. Recentemente è stato riscontrato che pazienti con BPCO, rispetto a soggetti con normale funzione respiratoria, abbiano un’aumentata prevalenza di microsanguinamenti cerebrali riscontrati alla risonanza magnetica [39] e un rischio aumentato di sanguinamento da ulcera peptica [40]. È dibattuto infine il ruolo dei glucocorticoidi nella terapia cronica della BPCO in quanto la somministrazione cronica di questa classe di farmaci aumenta il rischio di ospedalizzazioni per sanguinamenti gastrointestinali, specialmente in pazienti trattati anche con aspirina [41].

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clinica Figura 3

Cause dell’aumento della troponina in corso di riacutizzazione di BPCO

SCOMPENSO CARDIACO DESTRO

INFARTO MIOCARDICO ACUTO TIPO 1

AUMENTO DELLA TROPONINA DURANTE RBPCO

Prospettive future per migliorare la gestione dei pazienti con comorbidità CI-BPCO w Migliorare la prognosi della comorbilità Come abbiamo visto CI e BPCO sono spesso associate, ma frequentemente sottodiagnosticate, pur esercitando l’uno sull’altra un impatto significativo sulla prognosi a breve e lungo termine [9, 13, 11, 21, 33]. Il punto cruciale nella gestione del paziente è il corretto riconoscimento di una patologia concomitante che possa peggiorare la prognosi e necessitare di trattamento appropriato, e ciò vale sia per la CI come patologia concomitante in caso di BPCO che per la BPCO come patologia concomitante in caso di CI. Siccome la coronaropatia e la bronchite cronica condividono alcuni fattori di rischio, compito del Medico di Medicina Generale dovrebbe essere di riconoscere precocemente i pazienti a rischio di concomitante BPCO-CI. In particolare, pazienti ricoverati per SCA che siano anziani e fumatori (o ex fumatori, o con storia di esposizione occupazionale a polveri o sostanze nocive), specialmente nel caso in cui lamentino dispnea o tosse cronica, dovrebbero essere considerati a rischio di BPCO concomitante. Di conseguenza, il sospetto clinico an-

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SCOMPENSO CARDIACO SINISTRO

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INFARTO MIOCARDICO ACUTO TIPO 2

drebbe verificato con la spirometria per confermare la presenza di una limitazione persistente al flusso nelle vie aeree e contestualmente stimarne la gravità. Viceversa, pazienti che giungono all’attenzione del medico con una diagnosi confermata di BPCO dovrebbero essere caratterizzati anche dal punto di vista del profilo di rischio cardiovascolare. Le linee guida GOLD precisano che la malattia cardiovascolare è probabilmente la patologia più importante e più frequentemente associata con la BPCO, quindi merita di essere indagata in modo adeguato [2].

w Ottimizzazione della terapia antiaggregante e della rivascolarizzazione coronarica Studi osservazionali hanno mostrato che pazienti con BPCO ricoverati per infarto miocardico vengono meno frequentemente rivascolarizzati, sia con BPAC che con PCI, rispetto a pazienti senza storia di BPCO [38]. Come descritto in precedenza, questo è dovuto al fatto che pazienti BPCO trattati con rivascolarizzazione coronarica hanno una sopravvivenza a lungo termine ridotta rispetto ai non BPCO, sia nel caso di BPAC che nel caso di PCI [16, 42]. È importante sottolineare che questo approccio conservativo non è giustificato da raccomandazioni basate sull’evidenza, perciò le procedure di rivascolarizzazione miocardica non do-

vrebbero essere risparmiate né ritardate in pazienti con SCA, indipendentemente dalla presenza di BPCO concomitante [3,4]. L’aumentata reattività piastrinica nei pazienti BPCO unitamente al dimostrato miglioramento della sopravvivenza in pazienti ossigeno-dipendenti [43] in terapia antiaggregante, sembrano invece suggerire che il paziente BPCO-CI, soprattutto in caso di SCA possa richiedere un trattamento farmacologico più aggressivo volto a ottenere la maggiore inibizione piastrinica. Come raccomandazione generale, pazienti BPCO che vengono colpiti da SCA dovrebbero essere trattati con duplice terapia antiaggregante, preferendo l’associazione di aspirina e prasugrel o aspirina e ticagrelor piuttosto che aspirina e clopidogrel, esattamente come ogni paziente colpito da SCA [3,4]. Dal momento che la sola presenza di BPCO non rappresenta quindi di per sé una controindicazione alla duplice terapia antiaggregante prolungata nel tempo, l’impianto di stent metallici non dovrebbe essere preferito all’uso di stent medicati.

w Ottimizzazione della terapia specifica per BPCO È oggetto di dibattito se i corticosteroidi da soli riducano la mortalità della BPCO e modifichino il declino della funzionalità respiratoria a lungo termine; il loro uso è indicato per migliorare i sintomi, ridurre la frequenza di riacutizzazioni e migliorare la qualità della vita [2]. La via di somministrazione da preferire è quella inalatoria, anche se è bene tener presente che corticosteroidi orali possono incrementare ulteriormente il rischio di sanguinamento [41]. I farmaci β2-agonisti migliorano il FEV1 e i sintomi. Il loro uso non aumenta il rischio di eventi cardiovascolari a lungo termine e quindi non dovrebbe essere evitato a causa di una concomitante CI. In generale, non ci sono evidenze che la BPCO debba essere trattata in maniera diversa dal normale in presenza di coronaropatia [2, 29].

w Ottimizzazione della terapia specifica per la cardiopatia ischemica Diversi recenti studi hanno mostrato come i β-bloccanti non siano sufficientemente


somministrati nei pazienti con BPCO ricoverati per malattia cardiovascolare [15, 42]. Le ragioni di questa non aderenza alle linee guida internazionali riguardo l’uso di β-bloccanti sono dovute al temuto rischio di sviluppo di broncocostrizione secondaria all’inibizione dei recettori β2adrenergici, soprattutto nel caso di impiego di β-bloccanti non selettivi. Quando indicati, i β-bloccanti comportano benefici significativamente maggiori dei potenziali rischi anche in pazienti con ostruzione bronchiale irreversibile. L’uso di β-bloccanti va quindi considerato sicuro e non dovrebbe essere evitato a causa della BPCO, né in condizioni di stabilità né durante le riacutizzazioni. I β-bloccanti in pazienti affetti da cardiopatia ischemica dovrebbero essere somministrati, a meno che non sussistano controindicazioni specifiche, quali bradicardia sinusale, blocco AV di secondo o terzo grado, asma bronchiale [3-4]. Per la loro azione selettiva sui recettori β1-adrenergici, sono preferibili gli agenti cardioselettivi quali atenololo, bisoprololo, metoprololo e nebivololo rispetto agli altri β-bloccanti, in quanto esercitano un minore effetto sulla muscolatura bronchiale. I β-bloccanti cardioselettivi non causano riduzione del FEV1, né sintomi respiratori in più rispetto al placebo. Inoltre, i β-bloccanti cardioselettivi non alterano la risposta del FEV1 al trattamento con β2-agonisti quando usati in associazione a essi [1, 44]. Sono ben noti i forti benefici del trattamento con statine nella malattia coronarica. Di recente, è stato dimostrato un effetto immunomodulatore delle statine sulla BPCO insieme all’inibizione dell’infiammazione sistemica e polmonare, nonché una riduzione del rischio di riacutizzazioni di BPCO [45]. Questi dati suggeriscono che l’inibizione dell’infiammazione mediata da statine possa avere un ruolo sulla morbilità e mortalità respiratoria, tuttavia saranno necessari trial clinici randomizzati per consentire un’adeguata verifica di quanto ipotizzato e rilevato. Tali dati rappresentano comunque un’ulteriore raccomandazione all’uso di statine in pazienti affetti sia da SCA che da BPCO.

Recentemente, dati prodotti da un grande registro prospettico multicentrico hanno mostrato che pazienti affetti da BPCO, dimessi dopo SCA, ricevono rispetto ai pazienti senza storia di BPCO, meno β-bloccanti e più diuretici, ma gli altri farmaci cardiovascolari, incluse le statine, sono somministrati in egual misura rispetto ai soggetti senza BPCO [16]. Considerando che dopo un infarto miocardico è ormai ben assodato il beneficio del trattamento a lungo termine con una terapia cardiovascolare ottimizzata, comprendente ββbloccanti, statine, ACE-inibitori e antiaggreganti piastrinici, e in particolar modo di β-bloccanti in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra, uno dei possibili meccanismi alla base della peggior prognosi dei pazienti infartuati con concomitante BPCO potrebbe essere costituito proprio dalla ridotta somministrazione di terapia medica ottimizzata [16].

w Gestione del rischio emorragico Non vi sono dubbi che il rischio di sanguinamento gastrointestinale sia aumentato in pazienti trattati con antiaggreganti piastrinici o con steroidi, né che gli inibitori di pompa possano ridurre questo rischio [3-4]. Come abbiamo visto in precedenza, merita particolare attenzione la gestione delle strategie di rivascolarizzazione coronarica e della terapia medica dei pazienti con BPCO, soprattutto nella scelta del tipo di stent da impiantare, dell’accesso arterioso o degli antiaggreganti piastrinici, ma l’importante è non dimenticare che un paziente affetto da BPCO che venga colpito da sindrome coronarica acuta deve essere trattato come gli altri pazienti cardiovascolari, e non gli debbono essere negati trattamenti fondamentali a causa dell’aumentato rischio di sanguinamento. Per quanto riguarda i sanguinamenti gastrointestinali, gli inibitori di pompa dovrebbero essere usati per ridurre il rischio di eventi avversi.

Conclusioni La cardiopatia ischemica e la broncopneumopatia cronica ostruttiva sono caratterizzate da un legame molto complesso

e non ancora del tutto chiarito.Al momento attuale è comunque chiaro come la concomitante presenza di CI e BPCO nello stesso paziente sia associata a una prognosi infausta. Per tale motivo è necessario compiere ogni sforzo per diagnosticare precocemente questa comorbidità e ottimizzare nel migliore dei modi il trattamento di entrambe le patologie. Solo in questo modo sarà possibile migliorare la prognosi e la qualità di vita di questi pazienti.

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Le linee guida ACC/AHA sull’ipertensione arteriosa Il dibattito sui target pressori negli “over 60” Dopo una lunga attesa, lo scorso dicembre sono apparse sulla rivista Jama le nuove linee guida americane per la gestione dell’ipertensione “2014 Evidence-based guideline for the management of high blood pressure in adults. Report from the Panel members appointed to the Eight Joint National Committee (JNC8)” o più semplicemente JNC8. L’intento del nuovo documento è quello di andare verso una semplificazione del compito del medico nella gestione del paziente iperteso e di moderare un po’ l’aggressività del trattamento rispetto a quanto raccomandavano fino a oggi le linee guida precedenti, ovvero il JNC 7, che risalgono al 2003. Intenti peraltro ben delineati nel commento del primo firmatario del lavoro, Paul A. James: “Volevamo fornire al medico un messaggio molto semplice: trattare livelli superiori a 150/90 mmHg negli ultrasessantenni, e superiori a 140/90 per tutti gli altri pazienti”. Il documento JNC 8 ha avuto un processo di elaborazione molto lungo e difficile, tanto che il National Heart, Lung, and Blood Institute che pure lo aveva promosso e sostenuto, dopo una revisione non ha accettato il documento, dichiarando che lo sviluppo di linee guida di pratica clinica non sarebbe più stata una sua responsabilità, ma sarebbe divenuto di pertinenza esclusva delle due società che

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si occupano di ipertensione, ovvero l’ACC (American College of Cardiology) e l’AHA (American Heart Association). Che cosa può giustificare una tale presa di posizione? Il JNC 8 ha apportato varie modifiche al suo predecessore JNC 7, sulla base dei risultati dei trial randomizzati controllati. La più significativa e che rappresenta “un taglio netto” rispetto al passato è senz’altro quella di aumentare il target della pressione sistolica (PAS) da 140 a 150 mmHg in persone con più di 60 anni, non diabetiche e non affette da insufficienza renale cronica. Finora, il target in questa classe di pazienti per la PAS era <140 mmHg, una posizione peraltro sostenuta, almeno fino a quando non si avranno maggiori certezze sui rischi e benefici di un target più alto, anche da un gruppo (di minoranza) all’interno del panel di esperti che hanno stilato il nuovo documento. L’accordo sui nuovi target pressori negli over 60 è stato praticamente unanime, ma ha aperto un ampio dibattito, tuttora in corso, all’interno di tutta la comunità scientifica internazionale che si occupa di iprtensione. In questo spazio cercheremo di delineare i punti chiave del documento, e le critiche e i dubbi sollevati. Pubblichiamo anche un’intervista al prof. Alberto Zanchetti che permette di chiarire l’orientamento delle società europee per la gestione dell’ipertensione arteriosa.


A cura di Arturo Zenorini

Gli obiettivi dichiarati del JNC 8 e i punti essenziali L’obiettivo dichiarato della linea guida JNC 8 (1) era quello di offrire indicazioni dettate da un approccio estremamente rigoroso di raccolta delle evidenze disponibili basandosi in modo esclusivo sui risultati di studi randomizzati controllati (RCT). Le indica in 9 raccomandazioni di impostazione pratica, a ciascuna delle quali sono stati assegnati punteggi in funzione della “forza” delle evidenze che le supportano. Le più rilevanti sono le seguenti (il documento completo è illustrato nel riquadro): 1) Nei pazienti di età ≥60 anni si raccomanda di iniziare un trattamento farmacologico se la pressione arteriosa sistolica è ≥150 mmHg o quella diastolica è ≥90 mmHg. Il target pressorio di trattamento è <150/90; si specifica comunque che, se il trattamento riduce la pressione arteriosa a livelli più bassi rispetto a quelli del target e la terapia è ben tollerata, non vi sono ragioni per riaggiustarla. 2) Nei pazienti di età <60 anni la soglia di trattamento e il target pressorio è 140/90 mmHg. 3) In tutti i pazienti diabetici di età ≥18 anni la soglia di trattamento e il target pressorio è 140/90 mmHg. 4) Nei pazienti non neri il trattamento iniziale può essere un diuretico tiazidico, un calcio antagonista, un Ace-inibitore o un sartano, mentre nella popolazione nera la terapia iniziale può essere un diuretico tiazidico o un calcio antagonista. In altre parole, secondo il documento vi è una forte evidenza per il trattamento di soggetti ipertesi con età pari a 60 anni o più verso un obiettivo inferiore a 150/90 mmHg, mentre persone ipertese di età tra i 30 e i 59 anni devono puntare a un obiettivo diastolico inferiore a 90

mmHg. Secondo le linee guida non vi sono evidenze sufficienti in relazione a persone di età inferiore ai 60 anni circa l’obiettivo sistolico o in quelle di età inferiore in relazione a quello diastolico: il board pertanto ha raccomandato per questi gruppi valori pressori inferiori a 140/90 mmHg sulla base dell’opinione di un esperto. Le stesse soglie e gli stessi obiettivi sono stati raccomandati per adulti ipertesi con diabete o nefropatia non diabetica (CKD). In ogni caso – concludevano gli Autori – sebbene queste linee guida forniscano raccomandazioni evidence-based per la gestione dell’ipertensione arteriosa e dovrebbero soddisfare le necessità cliniche della maggior parte dei pazienti, tali raccomandazioni non rappresentano un sostituto al giudizio clinico e le decisioni relative alle cure dovrebbero considerare e incorporare le caratteristiche cliniche e le specifiche situazioni di ogni singolo paziente. La figura 1 propone l’algoritmo di trattamento indicato dal JNC8.

Cautele già nell’editoriale di accompagnamento Nell’editoriale di accompagnamento Howard Bauchner, editor in Chief di JAMA, e colleghi avevano evidenziato le difficoltà nella realizzazione dell’aggiornamento delle linee guida. L’aspetto positivo- si faceva notare- era che il board scientifico nella stesura si era focalizzato soprattutto su 3 quesiti importanti relativi agli adulti ipertesi: 1) iniziare la terapia farmacologica antipertensiva in base a specifiche soglie pressorie migliora gli outcomes di salute? 2) il trattamento medico antipertensivo mirato a uno specifico obiettivo pressorio porta a migliori outcomes di salute? 3) differenti farmaci antipertensivi o diverse classi di farmaci divergono nei benefici e nei danni in relazione

a specifici outcomes di salute? Fin dall’inizio Bauchner e collaboratori si erano comunque resi conto che, pur essendo basate su una rigorosa valutazione delle evidenze dei trial clinici disponibili, alcuni aspetti sarebbero risultati controversi e oggetto di discussione.

Secondo la Duke University molti soggetti da trattare in base al JCN7, ora non lo sono più Una prima analisi puntuale è stata effettuata dal gruppo di Ann Marie Navar-Boggan, della Divisione di Cardiologia del Duke University Medical Center di Durham (North Carolina, USA), in una ricerca volta a valutare la quota di abitanti USA potenzialmente influenzati dalle recenti modifiche delle raccomandazioni per la gestione dell’ipertensione (2). Ricorrendo ai dati della National Health and Nutrition Examination Survey raccolti tra il 2005 e il 2010 (n=16.732) Navar-Boggan e colleghi hanno studiato a fondo le raccomandazioni per il controllo e il trattamento dell’ipertensione nei soggetti adulti americani. I principali outcomes erano costituiti dalla quota di adulti stimati di seguire i target basati sui valori pressori delle linee guida 2014 e quelli stabiliti dalle precedenti raccomandazioni del JNC7. La quota di giovani adulti (tra i 18 e i 59 anni) con ipertensione eleggibile al trattamento in base alle linee guida JNC 7 era di 20,3 per cento mentre diminuiva a 19,2 per cento con le linee guida del 2014. Riduzioni più ampie sono state osservate tra i soggetti più anziani (≥60 anni), con una diminuzione da 68,9 a 61,2 per cento. La quota di adulti ipertesi candidabili al trattamento che soddisfacevano gli obiettivi pressori aumentava lievemente negli adulti più giovani, da 41,2 secondo il JNC7 a 47,5 per cento in base alle JNC8, e in modo ancora più consistente negli adulti più anziani, rispettivamente da 40,0 a 65,8

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Adulti di età ≥18 anni ipertesi

Figura 1 Algoritmo per la gestione dell’ipertensione secondo le raccomandazioni JNC8

Incentivare gli interventi sullo stile di vita (e proseguire durante tutto l’iter)

Stabilire gli obiettivi di PA e iniziare una terapia antipertensiva in base a età, diabete, e CKD Popolazione generale (assenza di diabete o CKD)

Presenza di diabete o CKD

Età ≥60 anni

Età <60 anni

Tutte le fasce di età: presenza di diabete-CKD assente

Tutte le fasce di età: presenza di CKD associata o meno a diabete

Obiettivo pressorio: PAS <150 mmHg, PAD <90 mmHg

Obiettivo pressorio: PAS <140 mmHg, PAD <90 mmHg

Obiettivo pressorio: PAS <140 mmHg, PAD <90 mmHg

Obiettivo pressorio: PAS <140 mmHg, PAD <90 mmHg

Non neri

Neri

Iniziare con diuretico tiazidico, ACEI, ARB o CCB in monoterapia o in associazione*

Tutte le etnie Iniziare con ACEI o ARB in monoterapia o in associazione con altre classi di farmaci*

Iniziare con diuretico tiazidico o CCB, in monoterapia o in associazione

Scegliere la strategia per l’aggiustamento terapeutico A. Portare al massimo dosaggio il primo farmaco prima di aggiungere il secondo, oppure B. Aggiungere il secondo farmaco prima di aver raggiunto il massimo dosaggio del primo, oppure C. Iniziare con due farmaci di classi diverse in formulazione singola o in combinazione a dosaggio fisso

Raggiungimento dell’obiettivo pressorio?

No Rafforzare l’aderenza alla terapia e agli interventi sullo stile di vita. Per le strategie A e B aggiungere e aggiustare il dosaggio di diuretic o tiazidico, ACEI, ARB o CCB (scegliere farmaci non precedentemente usati ed evitare la combinazione ACEI e ARB). Per la strategia C, portare al massimo il dosaggio dei farmaci iniziali. Raggiungimento dell’obiettivo pressorio?

No Rafforzare l’aderenza alla terapia e agli interventi sullo stile di vita. Aggiungere diuretico tiazidico, ACEI, ARB o CCB (scegliere farmaci non precedentemente usati ed evitare la combinazione di ACEI e ARB) Raggiungimento dell’obiettivo pressorio?

No Rafforzare l’aderenza alla terapia e agli interventi sullo stile di vita. Aggiungere un farmaco appartenente a un’altra classe (es. beta-bloccante, antagonista dell’aldosterone, o altri) e/o richiedere il consulto di uno specialista in ipertensione No

Raggiungimento dell’obiettivo pressorio?

Proseguire il trattamento in atto e monitorare**

Note: PAS, pressione arteriosa sistolica; PAD, pressione arteriosa diastolica; CKD, nefropatia cronica; ACEI, ACE-inibitore; ARB, bloccante per il recettore dell’angiotensina; CCB, calcioantagonista; *ACEI e ARB non vanno mai usati in associazione; **se la pressione non rimane sotto controllo nel tempo e si sposta dai target stabiliti, rientrare nell’algoritmo allo step opportuno Fonte: James PA et al. JAMA 2014; 311(5): 507-20.

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per cento. Nel complesso, secondo questo studio, l’1,6 per cento degli adulti statunitensi di età tra 18 e 59 anni e il 27,6 per cento di adulti di età ≥60 anni al momento dello studio ricevevano farmaci antipertensivi e soddisfacevano i target pressori più stringenti del JNC7: questi pazienti, sottolineavano gli Autori, possono essere candidati ora – con le linee guida 2014 - a una terapia antipertensiva meno rigida o anche all’assenza di trattamento antipertensivo. La stima complessiva, secondo gli Autori, era di una riduzione nella quota generale di ipertesi eleggibili al trattamento dal 31,7 per cento del JNC7 al 29,0 per cento del JNC8. Da notare che una lettera indirizzata a JAMA da Karen L. Margolis, dell’Health Partners Institute for Education and Research of Minneapolis (3) ha evidenziato alcune impreci-

sioni nelle tabelle di questo studio mettendo in dubbio l’affidabilità dei dati e costringendo Navar-Boggan (4) a giustificare alcuni assunti metodologici sulla scelta dei valori soglia a causa di indicazioni poco chiare nello stesso documento JNC8.

Un duro commento anche dalla Società americana di nefrologia Ha preso posizione anche l’American Society of Nephrology in un commento firmato da Efrain Resin, del Louisiana State University Health Science Center di New Orleans (USA), e colleghi. Il gruppo afferma di avere valutato il documento e di averlo confrontato con le raccomandazioni contenute nel JNC7 e altre linee guida nazionali e internazionali. Il rating di qualità di evidenza adot-

tato, sottolineano i nefrologi, ha di fatto eliminato il 98 per cento dei precedenti studi dalla revisione. Il risultato di ciò è che alcune delle raccomandazioni chiave sono basate solo su opinioni di esperti. “Siamo soprattutto preoccupati che la raccomandazione di innalzare i livelli di pressione sistodiastolica per l’inizio di un trattamento a ≥150/≥90 mmHg in adulti ≥60 anni possa influire sulla salute cardiovascolare e renale di questi pazienti”. Inoltre, si auspica che l’aggiornamento delle linee guida avvenga ogni 3-4 anni.

Critiche dallo studio INVEST in relazione agli ipertesi coronaropatici ultra60enni In qualche modo in continuità con le critiche dei nefrologi, si trovano i recenti risultati (4) dello studio IN-

Le raccomandazioni JNC8 Raccomandazione 1. Nella popolazione generale con età ≥60 anni, iniziare il trattamento farmacologico per abbassare la PA, se la PAS è ≥150 mmHg o la PAD è ≥90 mmHg, e trattare per raggiungere il target di PAS <150 mmHg e PAD <90 mmHg. (Raccomandazione forte, Grado A). Corollario. Nella popolazione generale con età ≥60 anni, se il trattamento antipertensivo porta all’abassamento dei valori di PAS (es. <140 mmHg) e il trattamento stesso è ben tollerato, senza effetti avversi sulla salute o sulla qualità di vita, non è necessario l’aggiustamento del dosaggio. (Opinione di esperti, Grado E). Raccomandazione 2. Nella popolazione generale con età <60 anni, iniziare il trattamento farmacologico se la PAD è ≥90 mmHg e trattare per raggiungere il target di PAD <90 mmHg. (Nella fascia di età 30-59 anni, Raccomandazione forte, Grado A; nella fascia di età 18-29 anni, Opinione di esperti, Grado E). Raccomandazione 3. Nella popolazione generale con età <60 anni, iniziare il trattamento far-

macologico se la PAS è ≥140 mmHg e trattare per raggiungere il target di PAS <140 mmHg. (Opinione di esperti, Grado E). Raccomandazione 4. Nella popolazione con età ≥18 anni, in presenza di nefropatia cronica (CKD), iniziare il trattamento farmacologico se la PAS ≥140 mmHg o la PAD ≥90 mmHg, e trattare per raggiungere il target di PAS <140 mmHg e PAD <90 mmHg. (Opinione di esperti, Grado E). Raccomandazione 5. Nella popolazione con età ≥18 anni, in presenza di diabete, iniziare il trattamento farmacologico se la PAS ≥140 mmHg o PAD ≥90 mmHg, e trattare per raggiungere i target di PAS <140 mmHg e PAD <90 mmHg. (Opinione di esperti, Grado E). Raccomandazione 6. Nella popolazione generale non nera, inclusi i diabetici, il trattamento antipertensivo iniziale deve prevedere un diuretico tiazidico, un calcioantagonista (CCB), un ACE-inibitore (ACEI), o un antagonista per il recettore dell’angiotensina (ARB). (Raccomandazione moderata, Grado B).

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VEST (International Verapamil SR Trandolapril Study) che ha indagato se la nuova decisione generalizzata di innalzare a ≥150 mmHg la soglia alla quale iniziare un trattamento farmacologico nei soggetti ≥60 anni fosse una scelta ottimale, in particolar modo per l’ampia popolazione affetta da malattia coronarica (CAD). Gli Autori, coordinati da Sripal Bangalore, della New York University School of Medicine, hanno randomizzato i pazienti a un trattamento con atenololo/idroclorotiazide o verapamil SR/trandolapril, suddividendoli in 3 gruppi sulla base della pressione sistolica raggiunta: gruppo 1 <140 mmHg, gruppo 2 da 140 a <150 mmHg, gruppo 3 ≤150 mmHg. L’outcome primario era la prima comparsa di morte per qualsiasi causa, mortalità cardiovascolare, infarti miocardici totali, infarti miocardici non fatali o ictus non fatale. Nell’analisi sono stati inclusi 8.354

pazienti per un follow-up complessivo di 22.308 anni-paziente. Il 57 per cento è rientrato nel gruppo 1, il 21 per cento nel gruppo 2 e il 22 per cento nel gruppo 3. In modelli non corretti, il gruppo 1 ha evidenziato i tassi inferiori di outcome primario (9,36 vs 12,71 vs 21,32 per cento), mortalità generale (7,92 vs 10,07 vs 16,81 per cento; p <0,0001), mortalità cardiovascolare (3,26 vs 4,58 vs 7,80 per cento; p <0,0001). Valori analoghi sono emersi in relazione a infarto miocardico, ictus totali e ictus non fatali. Anche in modelli corretti per punteggi di propensione multipla è risultato che, rispetto al gruppo 1 (<140 mmHg), negli altri due gruppi i rischi dei vari parametri analizzati erano superiori. In conclusione, secondo gli Autori “ai pazienti ipertesi con CAD di età ≥60 anni, che raggiungono un target

pressorio tra 140 e <150 mmHg come raccomandato dal board JNC8, si associa un minore beneficio rispetto al target raccomandato in precedenza di <140 mmHg”.

riferimenti Bibliografici 1) James PA et al. JAMA 2014; 311(5): 507-20. 2) Navar-Boggan AM et al. JAMA 2014; 311(14): 1424-9. 3) Margolis KL. JAMA 2014; 312(8): 846. 4) Navar-Boggan AM et al. JAMA 2014; 312(8):846-7. 5) Reisin E et al. J Am Soc Nephrol 2014 Aug 11. [Epub ahead of print] 6) Bangalore S et al. J Am Coll Cardiol 2014; 64(8).

Le raccomandazioni JNC8 Raccomandazione 7. Nella popolazione generale nera, inclusi i diabetici il trattamento antipertensivo iniziale dovrebbe prevedere un diuretico tiazidico o un CCB. (Per la popolazione generale nera: Raccomandazione moderata, Grado B; per i diabetici neri: Raccomandazione debole, Grado C). Raccomandazione 8. Nella popolazione generale con età ≥18 anni con CKD il trattamento iniziale (o add on) dovrebbe prevedere un ACEI o un ARB al fine di migliorare gli outcome sulla funzione renale. Questa raccomandazione è valida per tutti gli ipertesi con CKD, indipendentemente dall’etnia o dallo status diabetico. (Raccomandazione moderata, Grado B). Raccomandazione 9. L’obiettivo principale del trattamento antipertensivo è quello di raggiungere e mantenere nel tempo il target pressorio. Se l’obiettivo non viene raggiunto nell’arco di un mese dall’inizio, aumentare il dosaggio del farmaco inizia-

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le, oppure aggiungere uno dei farmaci delle classi indicate nella Raccomandazione 6 (diuretico tiazidico, CCB, ACEI, ARB). Il clinico dovrebbe monitorare continuamente la pressione e aggiustare la terapia fino a che non venga raggiunto il target fissato. Se tale target non dovesse essere raggiunto con due farmaci, aggiungere e aggiustare il dosaggio di un terzo (appartenente alla lista indicata). Nello stesso paziente non vanno mai usati un ACEI e un ARB insieme. Se il target pressorio non dovesse essere raggiunto con i farmaci indicati nella Raccomandazione 6 a causa di controindicazioni, o perché vi è necessità di più di tre farmaci, è possibile utilizzare molecole appartenenti ad altre classi. Il consulto specialistico è indicato per i pazienti in cui i target pressori non vengono raggiunti con le strategie indicate, o per i pazienti complicati per i quali è necessario un contributo specialistico aggiuntivo. (Opinione di esperti, Grado E). Fonte: James PA et al. JAMA 2014; 311(5): 507-20.


Le indicazioni europee ESH-ESC Intervista al professor Alberto Zanchetti In questo spazio pubblichiamo la traduzione di un’intervista apparsa sul sito dell’European Society of Hypertension (www.eshonline.org), al professor Alberto Zanchetti, realizzata da Costas Tsioufis, web editor dell’ESH. Il professor Zanchetti è uno dei massimi esperti internazionali in tema di ipertensione, è direttore scientifico dell’Istituto Auxologico Italiano ed è editor in Chief del Journal of Hypertension. È stato membro della task force che ha stilato tutte e tre le edizioni delle linee guida ESH-ESC sull’ipertensione (2003, 2007 e 2013). Nell’intervista, il professor Zanchetti chiarisce le raccomandazioni delle Società europee (European Society of Hypertension ed European Society of Cardiology) relative alle classi di pazienti meritevoli di trattamento farmacologico antipertensivo È opportuno somministrare un trattamento antipertensivo a tutti i pazienti con ipertensione di grado 1 e rischio cardiovascolare (CV) da lieve a moderato? Non c’è un solo studio sul trattamento antipertensivo che abbia esclusivamente arruolato pazienti con ipertensione di grado 1 (PAS 140-149 mmHg o PAD 90 -99 mmHg in assenza di terapia) sia a basso-moderato rischio CV che ad alto rischio. Gli studi precedenti sulla cosiddetta “ipertensione lieve” per la maggior parte condotti negli anni Settanta e Ottanta, utilizzavano classificazioni della pressione arteriosa (PA) differenti rispetto a quelle attuali, che si basavano esclusivamente sui valori di PAD, e di conseguenza non è possibile tradurre i risultati di questi studi nelle linee guida attuali. Perciò, l’edizione 2013 delle linee guida ESH-ESC sull’ipertensione sottolinea correttamente che non è possibile fornire una raccomandazione evidence-based sul trattamento di pazienti con ipertensione di grado 1 (per

qualsiasi livello di rischio CV); le linee guida puntualizzano che “l’assenza di evidenze” non significa “evidenze del contrario” e con molta saggezza concludono che l’inizio di un trattamento va considerato anche nei pazienti con ipertensione di grado 1 a rischio CV lieve-moderato, qualora non vi sia una risposta adeguata ai cambiamenti dello stile di vita. Il parere positivo della task force ESH-ESC è stato avvalorato da una recente metanalisi di studi sull’abbassamento dei valori pressori, stratificati come grado 1, 2 o 3 sulla base della media dei valori di PAS/PAD al basale in pazienti ipertesi senza terapia antipertensiva al basale (Thomopoulos, Parati, Zanchetti, in uscita a dicembre 2014 sul Journal of Hypertension). La metanalisi dimostra che la riduzione del rischio relativo per tutti gli eventi CV (compresa la mortalità) non differisce in relazione alla stratificazione dell’ipertensione, e dimostra anche una significativa e consistente riduzione sia del rischio relativo

che assoluto di tutti gli eventi maggiori in un sottogruppo di trial sul rischio lieve-moderato, di grado 1. Le metanalisi non sostituiscono gli studi specifici, e in particolare la nostra ha classificato il grado di ipertensione sulla base dei valori medi al basale di PAS/PAD. Questo fa sì che probabilmente solo una piccola quota di pazienti era al di fuori dei range pressori che identificano ciascun livello di ipertensione. Tuttavia, questi nuovi dati forniscono il razionale per le caute raccomandazioni delle linee guida 2013 di iniziare il trattamento in tutti i soggetti con valori di PAS ≥140 mmHg, fornendo un supporto ben più solido della semplice opinione di esperti. Nei pazienti anziani, con valori di pressione sistolica compresi tra 140 e 160 mmHg è opportuna la somministrazione di una terapia antipertensiva? Tutti gli studi randomizzati sulla terapia antipertensiva che hanno mostrato benefici (molto netti) negli anziani, hanno

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volutamente arruolato pazienti con valori di PAS di 160 mmHg o superiori, e dunque le linee guida ESH-ESC 2013 correttamente indicano come fortemente raccomandato l’abbassamento della pressione negli anziani con tali valori. Ancora una volta, l’assenza di evidenze non significa evidenze dell’opposto, e dunque sembra ragionevole suggerire, come peraltro fanno le linee guida ESH-ESC, che specialmente negli anziani più giovani e non fragili l’abbassamento farmacologico della pressione potrebbe essere utile anche quando la sistolica rientra nell’intervallo 140-159 mmHg. La recente raccomandazione del JNC-8 di prescrivere un trattamento negli anziani con PAS ≥150 mmHg sembra più derivare da un compromesso tra evidenze e opinioni, e non è basata sull’evidenza come peraltro sottolineano i membri del comitato del JNC-8.

della pressione nell’intervallo normale-alto non si accompagnava ad alcuna riduzione degli eventi cardiovascolari.

Il trattamento andrebbe avviato per un range pressorio definito come normale-alto, e se sì, per quali pazienti? Se, come ho specificato prima, le evidenze in favore della prescrizione di un trattamento negli ipertesi di grado 1 non sono ancora ben chiare, ancora meno noti sono gli effetti dell’abbassamento pressorio in pazienti con PA definita “normale-alta” (PAS 130-139, PAD 85-89 mmHg). Tuttavia vi sono buoni motivi per non raccomandare il trattamento in questi pazienti. Innanzitutto nel range normale-alto il rischio di un aumento relativamente lieve della pressione è abbastanza basso, e ugualmente basso sarebbe il beneficio atteso derivante dall’abbassamento della pressione. Il trattamento farmacologico per la pressione normale-alta è stato proposto qualche volta nel contesto della cosiddetta sindrome metabolica (o nella condizione di pre-diabete), ma nei trial DREAM e NAVIGATOR, in soggetti pre-diabetici randomizzati a ricevere un ACE-inibitore o un ARB, la riduzione media

Quale parametro rappresenta il modo migliore per interpretare i risultati degli studi: la riduzione del rischio relativo, la riduzione del rischio assoluto oppure il rischio residuo? Sia la riduzione del rischio relativo che del rischio assoluto rappresentano misure significative dei risultati di un trial. Un trattamento è significativo se in grado di abbassare il rischio in maniera consistente, ma se il rischio al basale è molto basso anche una consistente riduzione relativa potrebbe apportare un beneficio assoluto poco significativo dal punto di vista clinico: da qui l’importanza di calcolare anche il rischio assoluto. Tuttavia, la propensione di basare il trattamento antipertensivo solo sul beneficio in termini di rischio assoluto, riservandolo alle classi ad alto rischio CV, potrebbe essere attenuata dai risultati della recente metanalisi del nostro gruppo, secondo cui nonostante un’elevata riduzione assoluta del rischio nel più alto livello di rischio iniziale, il rischio residuo (cioè il livello di rischio che si

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Esistono evidenze sufficienti che supportino l’abbassamento della pressione arteriosa sotto i 140/85 mmHg nei soggetti affetti da diabete mellito? Nell’ambito degli studi condotti in soggetti ipertesi e diabetici, i valori medi di PAS ottenuti durante il trattamento erano poco al di sotto di 140 mmHg in due trial, che sono il MICROHOPE (un sottostudio dello HOPE) e il sottogruppo diabete del FEVER. Di conseguenza sembra ragionevole raccomandare come target il valore di 140 mmHg o poco inferiore nei diabetici. Analogamente per la pressione diastolica, un target inferiore a 85 mmHg è indicato dai risultati del sottostudio diabete del HOT (un’analisi di protocollo prederminata), e nell’UKPDS.

ottiene in seguito all’abbassamento pressorio) resta ancora più elevato quando il trattamento viene avviato negli strati più alti del profilo di rischio CV rispetto a quanto si osserva per un trattamento avviato negli strati più bassi. Ciò supporta le raccomandazioni contenute nel documento ESHESC di iniziare un trattamento in tutti i pazienti con ipertensione di gardo 1 anche quando il livello di rischio CV complessivo si colloca nel range basso-moderato: in questi pazienti la riduzione attesa del rischio assoluto non è trascurabile, e procrastinare l’intervento nel tempo, quando il livello di rischio è più elevato con tutta probabilità porterebbe a un rischio residuo più elevato, e a una maggiore probabilità di insuccesso terapeutico. Vi sono indicazioni circa la procedura di denervazione renale nell’ipertensione resistente? La denervazione renale è un’interessante procedura, in fase di sperimentazione, per la terapia dell’ipertensione resistente, cioè quella forma di ipertensione che non risponde in maniera soddisfacente a un trattamento farmacologico. I dati attuali sono controversi, soprattutto dal momento che lo studio Simplicity-3 si è mostrato fallimentare e non è stato in grado di confermare i dati positivi ottenuti nei precedenti trial. Una possibile obiezione che è stata avanzata riguarda il fatto che gli operatori nel Simplicity-3 non fossero particolarmente esperti nell’esecuzione della procedura, e pertanto la denervazione in molti pazienti non ha portato ad alcun successo terapeutico. Queste considerazioni allo stesso tempo rafforzano le raccomandazioni dell’ESH, secondo cui per ora la denervazione renale andrebbe riservata a centri specializzati, in grado di garantire al paziente una valutazione ponderata sull’indicazione all’intervento, una corretta procedura e una precisa valutazione dei risultati.


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Nelle prossime settimane la rivista sarà disponibile in Internet all’indirizzo

www.neurologiaitaliana.it I nostri lettori vi troveranno ● L’archivio storico della rivista ● Video-interviste con le Novità dei principali congressi di Neurologia ● Notizie dalle riviste internazionali, Linee Guida e Consensus in originale ● L’attività delle principali Associazioni di pazienti

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C O NGRESSI Congresso ESC - 30 agosto - 3 settembre 2014, Barcellona

L’innovazione terapeutica è il leitmotiv al meeting dei cardiologi europei Il capoluogo della Catalogna è diventato la capitale della cardiologia europea alla fine dell’estate, in occasione del meeting dell’European Society of Cardiology (ESC), l’appuntamento più atteso e importante per gli specialisti impegnati in questa area clinica, che quest’anno ha avuto come tema portante “Innovazione e cuore”. Oltre 30mila delegati da tutto il mondo vi hanno preso parte per assistere a un numero record di presentazioni. Le “hot line” di qusta edizione comprendono 27 studi clinici e 12 di basic science, 15 aggiornamenti di trial clinici, 19 studi su registri e 4.597 abstract, distribuiti in oltre 400 sessioni, dibattiti, seminari clinici.

Il

meeting ESC, come ha sottolineato Keith Fox, presidente del comitato del programma del congresso è la sede dove vengono presentati i più importanti e innovativi studi clinici e di ricerca di base. Questo congresso è ormai diventato il più importante evento internazionale nel campo della cardiologia, come dimostra il

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più alto numero di abstract mai ricevuti da Paesi al di fuori della Comunità Europea. I temi come si può intuire sono numerosi: a titolo d’esempio basti pensare che sono state presentate ben 5 nuove linee guida relative alla chirurgia non cardiaca, all’embolia polmonare acuta, alla cardiomiopatia ipertrofica, alle malattie dell’aorta, alla rivascolarizzazione miocardica, che hanno impegnato una task force di oltre 100 esperti per lo sviluppo e la stesura di ciascun documento (tutti i documenti tra l’altro sono scaricabili gratuitamente dal sito dell’European Heart Journal). In questo spazio, cercheremo di dare risalto agli argomenti di maggiore interesse, a cominciare per esempio dallo studio CvLPRIT, i cui risultati potranno rivoluzionare la gestione terapeutica dei pazienti sottoposti a PCI primaria, e che sono decisamente in controtendenza rispetto alle linee guida attuali. Le conclusioni del trial sono chiare: la rivascolarizzazione completa di vasi non responsabili dell’infarto (non-infarct related artery, N-IRA) rispetto al trattamento della sola lesione/stenosi “colpevole”(culprit) si associata a una prognosi migliore nei pazienti infartuati (IMA). Attualmente sia le linee guida europee (ESC) che quelle americane (AHA/ACC) raccomandano di trattare solo la lesione culprit. Nella popolazione (pazienti con IMA, sottoposti a PCI primaria) studiata è stata osservata una riduzione del 55 per cento degli eventi sfavorevoli cardiovascolari maggiori in caso di trattamento delle lesioni N-IRA nell’ambito dello stesso ricovero o all’ingresso. Secondo Anthony Gershlick, principal investigator del CvLPRIT, questi risultati “suggeriscono fortemente” di trattare tutte le stenosi prima che il paziente venga dimesso e supportano la strategia

di rivascolarizzazione completa in modo statisticamente significativo in termini di benefici. La netta e precoce separazione delle curve nel CvLPRIT indica che un trattamento successivo, in seconda battuta, potrebbe non essere così efficace. Il dibattito sulla questione naturalmente è tutt’altro che risolto considerando i dati di registri retrospettivi non in linea con tale strategia, e questo ha tutti i presupposti per essere un “tema caldo” della cardiologia dei prossimi anni.

conferme per l’efficacia di alirocumab nell’ipercolesterolemia Al meeting catalano sono stati presentati ben 4 studi di fase 3 del programma ODYSSEY (Long Term, Combo II, FH I e FH II) sull’impiego di alirocumab, un anticorpo monoclonale totalmente umanizzato appartenente a una nuova famiglia di agenti ipolipemizzanti noti come inibitori del PCSK9. La molecola è stata testata in differenti classi di pazienti, tra cui anche quelli affetti da ipercolesterolemia familiare nella forma eterozigote (HeFH), che presentavano valori di C-LDL non adeguatamente controllati dalla terapia con statine o altri agenti ipolipemizzanti. In tutti gli studi, anche insieme a una terapia con statine al top dello standard di cura, alirocumab ha evidenziato una riduzione significativa e sostenuta della colesterolemia-LDL per oltre un anno, mostrando in parallelo un costante profilo di sicurezza. ODYSSEY Long Term è tuttora in corso su 2.341 pazienti che al basale avevano livelli di C-LDL di almeno 70 mg/dl. Lo studio è stato disegnato per valutare la sicurezza e l’efficacia a lungo


CONGRESSI termine di 150 mg di alirocumab ogni 2 settimane per 78 settimane verso placebo in pazienti con ipercolesterolemia a rischio CV alto o molto alto, compresi pazienti con HeFH. Entrambi i gruppi sono stati trattati con statine alla massima dose tollerata e alcuni hanno anche ricevuto terapie ipolipemizzanti aggiuntive. Ecco i risultati presentati a Barcellona. Relativamente all’endpoint primario di efficacia, a 24 settimane si è registrata una riduzione del 61 per cento della colesterolemia-LDL rispetto al basale nel gruppo alirocumab a confronto dell’aumento dell’1 per cento del gruppo placebo (p <0,0001). A 52 settimane è stata osservata una riduzione del 57 per cento rispetto al basale dei livelli di C-LDL nel gruppo alirocumab rispetto al 4 per cento di aumento del gruppo placebo (p <0,0001). I più comuni eventi avversi (di entità simile nel gruppo attivo e in quello placebo) sono stati nasofaringite, infezioni del tratto respiratorio superiore, reazioni nel sito di iniezione. COMBO II è uno studio in doppio cieco su 720 pazienti che ha valutato alirocumab rispetto a ezetimibe in pazienti con ipercolesterolemia ad alto rischio CV e che avevano al basale una riduzione inadeguata di C-LDL nonostante la terapia con la dose massima tollerata di statine. I soggetti sono stati randomizzati a ricevere alirocumab s.c. (75-150 mg una volta ogni 2 settimane) o ezetimibe (10 mg/die) per 104 settimane. A 24 settimane si è avuta una riduzione del 51 per cento rispetto al basale dei livelli di C-LDL nel gruppo alirocumab, valore significativamente superiore rispetto alla riduzione del 21 per cento ottenuta con ezetimibe (p <0,0001). FH I e FH II hanno valutato la molecola (dose iniziale 75 mg, da aumentare in caso di necessità) vs placebo in 738 pazienti con HeFH non controllati nonostante la terapia con statine alla massima dose, anche eventualmente associata con ezetimibe. Dopo 24 settimane si è avuta una riduzione del 49 per cento rispetto al basale dei livelli di C-LDL in entrambi i gruppi alirocumab (FH I e FH II) a confronto di un aumento del 9 nell’FH I e del 3 per cento

nell’FH II nei gruppi placebo (p <0,0001). Il trend è stato confermato anche a 52 settimane. Nonostante dunque, una gran parte dei pazienti dell’ODYSSEY FH I e FH II avesse alti livelli di C-LDL al basale, almeno il 70 per cento dei soggetti trattati con alirocumab ha raggiunto l’obiettivo di trattamento. Le aziende produttrici (Sanofi e Regeneron) hanno anticipato (entro la fine dell’anno) la richiesta di approvazione del farmaco da parte degli Enti regolatori in USA e in Europa.

Nuova molecola potrebbe rivoluzionare la terapia dello scompenso cardiaco Era il trial più atteso del meeting, e non ha deluso le aspettative. Si tratta di PARADIGM-HF uno studio che ha dato conferme sul profilo di efficacia e sicurezza di LCZ696 (Novartis), farmaco sperimentale in studio nello scompenso cardiaco. Patologia quest’ultima che resta associata ad alta morbilità ed elevata mortalità, frequenti ricoveri e una qualità della vita ridotta, nonostante le terapie attualmente disponibili. Noto come ARNI (inibitore del recettore dell’angiotensina e della neprilisina), il farmaco è una combinazione di valsartan

(inibitore dell’angiotensina II) e di AHU377 (inibitore della neprilisina). LCZ696, compressa in doppia somministrazione giornaliera, è un farmaco first-in-class che agisce con diverse modalità sui meccanismi cardiaci neurormonali, bloccando i recettori responsabili di effetti dannosi e stimolando al contempo i meccanismi protettivi. PARADIGM-HF è uno studio randomizzato in doppio cieco, di fase III disegnato per valutare il profilo di efficacia e di sicurezza di LCZ696, nel confronto con enalapril (ACE-inibitore largamente usato), in 8.436 pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico con frazione di eiezione ridotta (HF-REF). Anche l’Italia ha preso parte allo studio, coinvolgendo più di 200 pazienti in diversi centri sul territorio. L’endpoint primario combinato, era il tempo prima che si verifichino il decesso per cause cardiovascolari o il ricovero per scompenso cardiaco. Il trial è stato avviato nel dicembre 2009 ed è attualmente il più esteso studio clinico mai condotto nello scompenso cardiaco. I risultati presentati a Barcellona indicano una riduzione dell’ordine del 20 per cento sul rischio di decesso per cause CV (p =0,00004), del 21 per cento per le ospedalizzazioni (p =0,00004) e del 16 per cento per la mortalità per tutte le cause (p =0,0005). I risultati ottenuti sono davvero incoraggianti e dimostrano una potenziale superiorità di LCZ696 rispetto all’ACEinibitore, in termini di sopravvivenza e di riduzione delle riospedalizzazioni nei pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico e con funzione ventricolare sinistra ridotta. Questi dati aprono la strada verso un potenziale cambiamento radicale nel trattamento dello scompenso cardiaco cronico, perché per la prima volta una nuova molecola ha mostrato risultati superiori all’attuale standard terapeutico. Novartis prevede di presentare alla FDA la domanda di autorizzazione all’immissione in commercio entro la fine del 2014, e all’EMA all’inizio del 2015. L’ente regolatorio statunitense ha concesso alla nuova molecola la designazione “fast track”.

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Biofutura

BPCO: un progetto ECM rivolto ai medici di famiglia

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o scorso 19 novembre si è celebrata la XIII Giornata Mondiale della BPCO, un evento di sensibilizzazione a livello internazionale sull’importanza della diagnosi e cura di questa patologia insidiosa e in costante aumento. Il paziente con BPCO richiede una gestione piuttosto complessa, soprattutto perché si tratta di un paziente anziano, diagnosticato in ritardo, molto probabilmente fumatore (o ex fumatore) e con possibili comorbilità. Per la presa in carico ottimale di questo tipo di paziente è necessario un approccio multidisciplinare, che veda la massima collaborazione tra il MMG e lo specialista pneumologo (ed eventuali altri figure professionali coinvolte nell’assistenza domiciliare) e che incontri un sistema di cure integrate sul territorio. Soltanto una buona relazione tra MMG e specia-

lista, in un contesto di gestione integrata territoriale, purtroppo ancora in parte da costruire, può permettere di offrire al paziente la continuità assistenziale auspicabile. Con l’intento di sensibilizzare i MMG sulla diagnosi precoce della BPCO e sulla gestione globale del paziente, un board scientifico composto dai presidenti delle società AIPO, SIMeR, AIMAR e SIMG, con il contributo non condizionato di Biofutura, ha dato vita al progetto educazionale EUREKA, presentato in occasione della Giornata. Il progetto prevede lo svolgimento di 150 incontri ECM sul territorio nazionale che coinvolgeranno oltre 1.000 MMG con lo scopo, grazie anche al coordinamento di uno specialista pneumologo, di fornire un’opportunità educazionale sulla gestione clinica integrata della BPCO. Sul fronte della terapia, la ricerca farmaco-

Janssen

Gilead

Nuova terapia per l’infezione da HIV rimborsabile anche in Italia A partire dal mese di ottobre scorso, anche nel nostro Paese è rimborsato Stribild®, un innovativo regime terapeutico che in una sola compressa, da assumere una volta al giorno, comprende i quattro farmaci necessari per combattere il virus HIV: tenofovir disoproxil fumarato, emtricitabina, elvitegravir e cobicistat, quest’ultimo non come antivirale, ma come potenziatore e stabilizzatore del vero elemento innovativo di questa combinazione, ovvero l’inibitore dell’integrasi elvitegravir (quest’ultimo in grado di bloccare il virus prima che possa integrarsi nel materiale genetico della cellula). Si tratta di un’importante conquista per i pazienti, che vedono così potenzialmente facilitato l’accesso alla terapia anti-HIV più innovativa attualmente disponibile. La terapia con Stribild® è adatta a tutti i pazienti, senza limitazioni di carica virale, compresi quelli che non sono mai entrati in terapia, purché non presentino mutazioni di resistenza ai componenti del farmaco.

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logica prosegue nell’impegno di valutare i benefici derivanti dall’associazione di farmaci broncodilatatori come i LABA (beta2-agonisti a lunga durata d’azione) o i LAMA (anticolinergici a lunga durata d’azione), tra loro o eventualmente associati a steroidi. Secondo i dati più recenti, la combinazione fissa di due broncodilatatori con meccanismo d’azione sinergico ha dimostrato di migliorare la qualità di vita del paziente, grazie a un potenziamento dell’azione e a una duplice broncodilatazione. La monosomministrazione giornaliera dei due broncodilatatori assicura una maggiore compliance senza che aumentino gli effetti collaterali. Questa associazione dunque, ha le potenzialità per diventare un’opzione terapeutica di riferimento nel trattamento della BPCO.

Con Abiraterone svolta nella terapia del carcinoma alla prostata metastatico

A

biraterone, un inibitore selettivo e irreversibile di CYP17 in grado di bloccare la produzione di testosterone anche nelle cellule tumoraliprostatiche in qualsiasi sede, ha da poco ricevuto nel nostro Paese una nuova indicazione. Il farmaco autorizzato a partire dal 2013 in pazienti con tumore alla prostata metastatico e resistente alla castrazione, che avevano già ricevuto una chemioterapia con docetaxel, ora potrà essere impiegato molto prima. La nuova indicazione infatti prevede che abiraterone possa essere usato in pazienti con questa forma di tumore, ma non ancora sottoposti a chemioterapia. Il carcinoma prostatico resistente alla castrazione è una forma tumorale in progressione, nonostante la terapia ormonale classica. La fase metastatica costituisce uno stadio ancora più avanzato e si caratterizza per una prognosi sfavorevole ed elevata mortalità. La nuova indicazione di abiraterone offre un’opportunità importante. I risultati degli studi mostrano un prolungamento della sopravvivenza complessiva, con aumento dell’aspettativa di vita mediana fino a 34,7 mesi, un raddoppiamento del tempo alla progressione del tumore, un posticipo della chemioterapia per più di 2 anni, e soprattutto un miglioramento della qualità di vita del paziente.


Alfa Wassermann

Merck Serono

Nuove iniziative per i pazienti con tumori della testa e del collo

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tumori a carico della testa e del collo colpiscono organi fondamentali nella vita di relazione di un individuo ed è chiaro che inevitabilmente incidano sulla vita sociale. Ogni sforzo dunque per evitare che i malati vengano emarginati è necessario. In tal senso sono orientate diverse iniziative realizzate da Merck Serono, a cominciare dall’aggiornamento dell’App “La mia voce”, che era stata lanciata lo scorso anno. La versione 2.0 (l’aggiornamento è scaricabile gratuitamente dagli store Apple e Android) presenta diversi elementi nuovi tra cui, una maggiore sensibilità al touch, una maggiore fluidità, una grafica migliore e dimensioni ridotte. Altre iniziative realizzate in collaborazione con l’Associazione italiana oncologia cervico facciale, riguardano la pubblicazione di due fascicoli, uno “La testa sul collo” in formato tabloid, e il secondo “Consigli pratici per gestire le tossicità cutanee”. A breve inoltre, sarà disponibile un ulteriore libretto contenente consigli utili sul tipo di alimentazione da seguire durante le terapia. Per guidare i pazienti nella consultazione dei materiali informativi è stato ideato un personaggio a fumetti, il “Dottor Chi”, presente in tutte le pubblicazioni.

Bayer

È un quadrifoglio, il nuovo volto dell’aspirina

È

da poco disponibile nelle farmacie italiane la nuova Aspirina Dolore e Infiammazione in compresse rivestite che svolge la propria attività analgesica in metà tempo rispetto a una compressa tradizionale da 500 mg, offrendo al paziente un valido rimedio nel trattamento sintomatico del dolore da lieve a moderato come mal di testa, dolori cervicali, dolori muscolari, mal di schiena e disturbi infiammatori. La nuova Aspirina è realizzata con la tecnologia MicroActive che permette una più veloce dissoluzione nello stomaco del principio attivo e di conseguenza un più rapido assorbimento rispetto a quanto accade per la compressa tradizionale di aspirina. L’effetto antalgico si ottiene infatti nella metà del tempo, e il sollievo dal dolore si mantiene fino a 6 ore. Il prodotto è stato completamente rinnovato anche nell’immagine con una grafica moderna e distintiva, e nella comodità d’uso grazie al nuovo blister a forma di quadrifoglio, resistente e pratico anche per l’utilizzo fuori casa.

Encefalopatia epatica: rifaximina rende concreta la prevenzione delle recidive

I

nformare i pazienti e i loro familiari e sensibilizzare i medici sull’encefalopatia epatica sono state le finalità di un workshop che si è tenuto a Milano lo scorso 15 ottobre, e che ha visto la partecipazione di specialisti e rappresentanti delle associazioni di pazienti. L’encefalopatia epatica è una condizione clinica che, se non individuata e trattata in maniera appropriata, può incidere pesantemente sulla qualità di vita del paziente, fino a diventare invalidante. Cali dell’attenzione, difficoltà di concentrazione e deficit delle abilità spaziali sono i primi segnali, risultanti anche in un aumentato rischio di incidenti stradali. I segni più eclatanti sono deficit cognitivi, confusione, difficoltà a svolgere lavori manuali di precisione. Nei casi più gravi si arriva anche al coma. Lo spettro dei sintomi è ampio e spesso la diagnosi sfugge, perché scambiata con qualcosa altro. Secondo le stime, in Italia circa 9.000 pazienti vengono ospedalizzati ogni anno a causa di questa patologia, e attacco dopo attacco vedranno le loro condizioni peggiorare. Una volta che si verifica il primo evento, è molto probabile che ne seguano altri. È fondamentale dunque adottare una corretta strategia di prevenzione delle recidive. Oggi abbiamo a disposizione diverse arimi di prevenzione: innanzitutto l’informazione al paziente e al caregiver, poi si può agire sullo stile di vita, ma anche trattando i pazienti in modo da ristabilire l’equilibrio del microbiota intestinale. Ciò è possibile grazie a rifaximina, un antibiotico che non viene assorbito dall’organismo e pertanto generalmente ben tollerato, il cui dosaggio e le cui caratteristiche sono specificatamente indicate per prevenire le recidive del paziente affetto da encefalopatia epatica. Il trattamento, tra l’altro già approvato da FDA, sarà disponibile per i pazienti italiani nell’arco dei prossimi mesi con il nome commerciale Tixteller.

Novartis-UNAMSI

Il premio Grande Ippocrate 2014 Il premio Grande Ippocrate, promosso da Novartis e UNAMSI, giunge quest’anno alla sesta edizione ed è stato assegnato a Milano lo scorso 1 ottobre. Il premio quest’anno è stato conferito a Flora Peyvandi, ricercatrice di origine iraniana, per le sue ricerche sulle malattie rare ematologiche (in particolare disordini emorragici e trombotici) e per il suo impegno nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema. Flora Peyvandi è professore associato presso l’Università degli Studi di Milano ed è direttore dell’UOC Ematologia non tumorale dell’IRCCS Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.

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notizie dal web

www.Psoriasi360.it Consulenze specialistiche ora anche on line A partire dal mese di settembre il portale Psoriasi360.it offre ai pazienti con psoriasi un nuovo servizio gratuito che prevede la possibilità di prenotare una consulenza telefonica con uno specialista dermatologo. Psoriasi360.it è il portale di Janssen Italia, nato con lo scopo di fornire ai malati informazioni sulla patologia, grazie al contributo di specialisti dermatologi. Oltre agli aspetti clinici e diagnostici, vengono affrontate tematiche legate allo stile di vita, allo stigma che accompagna la patologia e ai problemi che ne derivano nei rapporti sociali. Ora il sito si arricchisce di un nuovo servizio, che permette di prenotare un consulto telefonico di 15 minuti con un dermatologo, fino a 48 ore prima dell’orario desiderato con un massimo di 30 giorni di anticipo. Il nuovo servizio darà quindi la possibilità al paziente di ricevere risposte dirette alle numerose domande che possono sorgere a proposito di questa patologia invalidante e dal forte impatto sulla vita di relazione.

L’ipertensione si controlla con un’App Arriva “What is app”: dal 9 ottobre gli italiani possono scaricare la prima applicazione per smartphone e tablet dedicata alla pressione arteriosa e creata con il supporto della SIIA (Società italiana dell’ipertensione arteriosa). L’App sarà un vero e proprio strumento di lavoro per i medici e di supporto per i pazienti. Infatti inserendo i propri valori pressori, il paziente avrà la possibilità di visualizzare in tempo reale i suoi trend e tenere un diario digitale da mostrare al medico a ogni controllo. La App è strutturata in percorsi attraverso i quali i pazienti potranno ricevere informazioni sull’ipertensione, ma anche visualizzare il centro specialistico più vicino, avendo a disposizione orari e numeri di telefono, e modalità di accesso e prenotazione di una visita. Una pagina è anche dedicata ai giovani tra i quali, a dispetto della comune percezione, la prevalenza di ipertensione arteriosa è in crescita.

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www.vitaminad.it Negli anziani, la supplementazione con vitamina D sembra proteggere dal rischio di scompenso cardiaco, ma non ha influenza su IM e ictus Diversi studi epidemiologici pubblicati in letteratura suggeriscono che la carenza di vitamina D possa correlare con l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, quali per esempio infarto miocardico (IM), ictus, scompenso cardiaco. Uno studio recentemente pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition (Ford JA et al. Am J Clin Nutr 2014; 100 (3): 746-55) e recensito sul sito www.vitaminad. it, porta a concludere che negli anziani, l’assunzione di integratori a base di vitamina D non sembra esercitare alcun effetto positivo nei confronti di IM e ictus, ma potrebbe avere un ruolo protettivo nei confronti dello scompenso cardiaco. Queste conclusioni derivano da due analisi. La prima è relativa ai dati dello studio RECORD (Randomised Evaluation of Calcium Or vitamin D) che ha coinvolto 5.292 anziani; in questo studio, i partecipanti hanno ricevuto o solo vitamina D (800 UI/ die), o solo calcio (1.000 mg/die), oppure vitamina D e calcio o placebo. È stato valutato il verificarsi di eventi cardiovascolari e di mortalità tra i partecipanti in 3 anni di follow-up. La seconda analisi consiste in una revisione sistemica comprendente 21 studi randomizzati e controllati che hanno coinvolto 13.033 soggetti. Questi studi hanno esaminato, nei soggetti anziani partecipanti, l’assunzione della vitamina D e gli esiti cardiovascolari. Nello studio RECORD, l’hazard ratio (CI 95 per cento) per la vitamina D rispetto al placebo per l’insufficienza cardiaca, l’IM e l’ictus era rispettivamente di 0,75 (0,58 – 0,97), 0,97 (0,75 – 1,26) e 1,06 (0,8 – 1,32). L’hazard ratio, nella revisione sistemica, per la vitamina D rispetto al placebo o ai controlli per insufficienza cardiaca, IM e stroke era rispettivamente 0,82 (0,58 -1,15), 0,96 (0,83 – 1,10) e 1,07 (0,91 -1,29). L’analisi dell’intero follow-up del RECORD ha mostrato una significativa e clinicamente importante riduzione del rischio di insufficienza cardiaca con la vitamina D, che però non ha avuto alcun effetto significativo su ictus e IM. La revisione sistemica ha mostrato che la vitamina D non riduceva il rischio di insufficienza cardiaca se non con l’aggiunta dello studio RECORD; invece nessuna differenza significativa è stata mostrata nella metanalisi relativamente all’infarto del miocardio o all’ictus.


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