Medico e paziente 05 2012

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 5 - 2012

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NEUROLOGIA ASA a basso dosaggio e declino cognitivo nelle anziane EPIDEMIOLOGIA lo stile di vita sano riduce la mortalità anche in età avanzata CARDIOLOGIA la frequenza cardiaca fattore di rischio negli ipertesi OSTEOPOROSI l’importanza dell’aderenza nel trattamento con bisfosfonati

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Medico e paziente n. 5 anno XXXVIII - 2012 Mensile di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Giorgia Diana Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Vania Braga Giampiero Girolomoni Paolo Palatini Piera Parpaglioni

in questo numero

sommario

Immagine tratta da www.worldpsoriasisday.com

p 5

letti per voi

Dermatologia Nell’aderenza alla terapia per la psoriasi, si conferma fondamentale una “buona e stretta” relazione tra medico e paziente: i risultati di uno studio italiano CARDIOLOGIA Il rischio di fibrillazione atriale nel diabete di tipo 2 è mediato dal cambiamento di altri fattori di rischio, tra cui i principali sono ipertensione e obesità NEUROLOGIA L’ASA a basso dosaggio può prevenire il declino cognitivo nelle donne anziane ad alto rischio cardiovascolare? Nefropatia diabetica Nei pazienti diabetici e ipertesi, in terapia con ACE-inibitori, l’iperfiltrazione persistente contribuisce alla progressione del danno renale Epidemiologia Uno stile di vita sano riduce la mortalità anche in età avanzata e in presenza di patologie croniche

p 8

cardiologia il paziente iperteso La frequenza cardiaca come fattore di rischio cardiovascolare

L’impatto della frequenza cardiaca nei confronti delle patologie CV appare importante soprattutto nei soggetti ipertesi. In questo articolo, l’Autore fa il punto sui meccanismi patogenetici e sulle possibilità di trattamento in questa classe di pazienti

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Paolo Palatini

Medico e Paziente

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Come abbonarsi a medico e paziente

Medico e paziente

p 14 dermatologia

Psoriasi lieve-moderata Cosa può fare il Medico di famiglia

Per questa forma esistono oggi terapie efficaci e sicure, che il MMG può gestire con indipendenza; egli, tuttavia, è importante anche nella co-gestione con il dermatologo della psoriasi grave e nella gestione globale del paziente con forma moderatagrave, che è un fattore indipendente di rischio cardiovascolare

psoriasi In un documento europeo le proposte per migliorarne la gestione

È urgente mettere a fuoco questa patologia, contraddistinta da un forte impatto negativo su chi ne è affetto e da pesanti costi sociali ed economici. Il libro bianco di un gruppo di studio europeo dedicato definisce minuziosamente ruoli degli “stakeholders” e azioni da compiere a tal fine

a cura della redazione

p 20 farmaci

OSTEOPOROSI L’importanza dell’aderenza nel trattamento con bisfosfonati

Oltre all’efficacia della molecola, anche il rispetto delle indicazioni nell’assunzione del farmaco per tutto il periodo prescritto, ovvero l’aderenza, concorre al successo di una terapia

Vania Braga

p 24

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Giampiero Girolomoni

p 17 dermatologia

Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00

Numeri arretrati € 10,00

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sommario

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letti per voi Dermatologia

Nell’aderenza alla terapia per la psoriasi, si conferma fondamentale una “buona e stretta” relazione tra medico e paziente: i risultati di uno studio italiano £ L’aderenza alla terapia è uno dei principali fattori che concorrono al buon controllo della psoriasi nel tempo e al minor rischio di riacutizzazioni. L’aderenza dipende da numerosi fattori, tra cui una buona relazione con il proprio team di cura e un’adeguata informazione sull’autogestione della malattia e sulla reale complessità del trattamento, inteso non solo come numero di farmaci da assumere, ma anche come difficoltà a modificare il proprio stile di vita per migliorarne la qualità. In questo contesto si colloca uno studio italiano, condotto in collaborazione con l’Associazione per la difesa degli psoriasici (ADIPSO), che è stato condotto per valutare la relazione tra utilizzo dei trattamenti attualmente CARDIOLOGIA

disponibili (farmaci tradizionali e biologici) per la cura della psoriasi e alcune specifiche variabili socio-demografiche e cliniche. La popolazione di studio era costituita da 1.689 pazienti con età compresa tra 12 e 85 anni. Sono state raccolte tutte le informazioni riguardanti la tipologia di trattamento impiegato, le caratteristiche cliniche di malattia e quelle demografiche, il livello di soddisfazione del paziente nei confronti del trattamento prescritto e del rapporto con il medico curante. L’analisi statistica di tutti i dati, innanzitutto, ha riscontrato che oltre la metà dei pazienti (54,1 per cento) non segue alcuna terapia e il 45,9 per cento utilizza almeno un trattamento. Il ricorso al trattamento è risultato esclusivamente

associato alla gravità della patologia e alla sede anatomica coinvolta; una terapia sistemica era principalmente usata dai pazienti con durata di malattia superiore ai 10 anni. Il 33 per cento dei partecipanti faceva ricorso a terapie alternative, quali farmaci da banco o agopuntura. Per quel che riguarda l’aderenza, questa è risultata positivamente associata al rapporto con il medico: i soggetti “aderenti” erano quelli più soddisfatti del rapporto con lo specialista. Nel complesso, dunque, questo studio costituisce un’ulteriore conferma del fatto che molti psoriasici tuttora non fanno uso di alcuna terapia specifica. Sul piano dell’aderenza il fattore chiave sembra essere quello di uno stretto rapporto tra medico e paziente, in cui il curante dovrebbe privilegiare le informazioni relative allo schema di terapia prescritto e allo stesso tempo prestare attenzione alle esigenze del paziente. Altobelli E, Marziliano C, Fargnoli MC et al. J Eur Acad Dermatol Venereol 2012; 26: 976-82

£L’associazione

tra il diabete mellito di tipo 2 (DT2) e l’aumento del rischio di fibrillazione atriale (FA), eviIl rischio di fibrillazione atriale denziata da vari studi, potrebbe in realtà essere legata a nel diabete di tipo 2 è mediato cambiamenti dei principali fattori di rischio per la FA nel dal cambiamento di altri fattori corso del tempo e a eventi cardiovascolari intercorrenti. Sono le conclusioni di un ampio studio di coorte prodi rischio, tra cui i principali spettico su 34.720 donne che avevano partecipato al Women’s Health Study, esenti da malattia cardiovascolare sono ipertensione e obesità e da FA all’inizio dello studio, che sono state seguite per una media di 16,4 anni. Al basale, il 2,7 per cento delle partecipanti aveva un DT2. Confrontate con le altre, le donne diabetiche avevano un tasso di rischio (HR) aggiustato per l’età di sviluppare FA di 1,95 (IC 95 per cento1,49-2,56; p <0,0001). L’analisi multivariata con aggiustamento per fattori confondenti al basale mostrava un’attenuazione del rischio, ma il diabete iniziale rimaneva un predittore significativo di FA (HR 1,37, IC 95 per cento 1,03-1,83; p =0,03). Successivi aggiustamenti, aggiornati nel tempo, per altri fattori di rischio per FA e per eventi CV intercorrenti, mostravano che il rischio associato al diabete si attenuava ulteriormente e diventava non significativo (HR 1,14, IC 95 per cento 0,93-1,40; p =0,20). L’ipotesi dei ricercatori è che il rischio di FA nelle donne diabetiche sia legato allo sviluppo nel corso degli anni di ipertensione, di obesità e di malattia cardiovascolare più che al diabete in sé (tra l’altro, nessuna relazione è stata riscontrata tra i livelli di HbA1c e l’insorgenza di FA). Pertanto, le strategie per la prevenzione della FA nel DT2 dovrebbero essere focalizzate sul controllo delle co-morbilità, in particolare sulla sorveglianza del peso e dei valori di pressione arteriosa. (P.P.) Schoen T, Pradhan AD, Albert CM et al. J Am Coll Cardiol 2012; 60: 1421-8

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letti per voi NEUROLOGIA

L’ASA a basso dosaggio può prevenire il declino cognitivo nelle donne anziane ad alto rischio cardiovascolare? £

L’acido acetilsalicilico (ASA) a basse dosi può avere un effetto neuroprotettivo nelle donne in età avanzata con un elevato rischio cardiovascolare (CV). Sono le conclusioni di uno studio osservazionale svedese su 681 donne ultrasettantenni (range di età 70-92 anni), il 95,4 per cento delle quali aveva un rischio a 10 anni di andare incontro a un evento CV del 10 per cento o maggiore. Solo 129 donne assumevano ASA a basse dosi (75-160 mg/die) al baseline. Le funzioni cognitive sono state misurate con Mini Mental State Examination (MMSE) e con test per valutare il linguaggio e la memoria. Nel corso

del follow up a 5 anni, le donne che assumevano ASA regolarmente hanno mostrato un declino cognitivo minore all’MMSE e un andamento analogo negli altri test. Il meccanismo neuroprotettivo dell’ASA è tuttora oggetto di studio. È noto che il farmaco a basse dosi blocca in modo irreversibile la formazione di trombossano A2 nelle piastrine, inibendone l’aggregazione. È possibile pertanto che un aumento del flusso sanguigno cerebrale, legato alla riduzione dell’aggregazione piastrinica, rallenti il declino cognitivo. Inoltre studi recenti hanno evidenziato la capacità dell’ASA di generare una

£

nuova famiglia di mediatori lipidici, i docosanoidi, con effetti neuroprotettivi. Vari studi a oggi hanno esaminato l’effetto dell’ASA sull’incidenza di malattia di Alzheimer (con risultati contrastanti), ma non sulla funzione cognitiva in generale. Nello studio in questione, il farmaco non ha influito sull’incidenza di demenza (probabilmente anche per la brevità del follow up). I ricercatori ritengono che i riscontri ottenuti sulla funzione cognitiva rispecchino un effetto dell’ASA sulla demenza preclinica, e indichino pertanto la necessità di iniziare precocemente il trattamento ai fini della neuroprotezione. Si auspicano ulteriori studi controllati e con follow up più lunghi per chiarire questo aspetto del farmaco più ampiamente usato nella prevenzione cardiovascolare. (P.P.) Kern S, Skoog I, Östling S et al. BMJ Open 2012; 2: e001288

L’iperfiltrazione glomerulare, comune nelle fasi iniziali del diabete, potrebbe costituire un importante marker Nei pazienti diabetici e ipertesi, dell’evoluzione della nefropatia diabetica e della perdita della funzionalità renale. In tal senso dunque, potrebbe in terapia con ACE-inibitori, essere utile valutare gli eventuali effetti nefroprotettivi l’iperfiltrazione persistente derivanti da un migliore controllo dell’iperfiltrazione. A contribuisce alla progressione queste conclusioni ha portato uno studio longitudinale, che ha visto la partecipazione di un’équipe di ricercadel danno renale tori italiani. Obiettivi dello studio erano descrivere la prevalenza e i fattori che determinano iperfiltrazione (velocità di filtrazione glomerulare [GFR] ≥120 ml/min/1,73 m2), declino del GFR e insorgenza o progressione della nefropatia in pazienti con diabete di tipo 2 (DT2) con normo- o microalbuminuria. I 600 partecipanti con DT2, ipertesi e con albuminuria <200 μg/min provenivano da due studi randomizzati sull’effetto renale degli ACE-inibitori trandolapril e delapril. Il target pressorio era <120/80 mmHg e quello per l’HbA1c <7 per cento. Il follow up mediano dello studio era di 4 anni, durante il quale il GFR si è ridotto di 3,37 (5,71-1,31) ml/min/1,73 m2 all’anno. Il decadimento del GFR ha dimostrato un comportamento bimodale: una maggiore riduzione nei primi 6 mesi è stata significativamente predittiva di una diminuzione successiva più lenta, particolarmente tra i pazienti iperfiltranti. Il 15 per cento dei soggetti era iperfiltrante al momento dell’inclusione; il 23,4 per cento dei soggetti con iperfiltrazione persistente progrediva verso micro- o macroalbuminuria rispetto al 10,6 per cento di quelli in cui l’iperfiltrazione era migliorata a 6 mesi o che non erano iperfiltranti al momento dell’inclusione (HR 2,16, IC al 95 per cento 1,13-4,14). Inoltre, è risultato che il miglioramento dell’iperfiltrazione era indipendente dalle caratteristiche al basale o dall’ACE-inibizione, ma era associato in modo significativo al miglioramento dei valori pressori e al controllo metabolico, al miglioramento del GDR e alla diminuzione a lungo termine più lenta del GFR. Nonostante il trattamento intensivo, dunque, concludono gli Autori, i pazienti con DT2 hanno dimostrato un veloce calo del GFR. L’iperfiltrazione colpisce una parte di pazienti e può contribuire alla perdita della funzione renale, e all’insorgenza o alla progressione della nefropatia.

Nefropatia diabetica

Ruggenenti P, Porrini EL, Gaspari F et al. Diabetes Care 2012; 35 (10): 2061-8

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Epidemiologia

Uno stile di vita sano riduce la mortalità anche in età avanzata e in presenza di patologie croniche £

Anche dopo i 75 anni uno stile di vita sano, senza fumo, con attività fisica regolare e una rete di relazioni sociali, si associa a una sopravvivenza maggiore rispetto ad abitudini di segno opposto, aggiungendo fino a 5 anni di vita alle donne e fino a 6 agli uomini. Un’associazione simile, sebbene attenuata, si mantiene anche negli individui con più di 85 anni e in quelli con patologie croniche, nei quali l’età media del decesso arriva 4 anni più tardi quando il profilo di rischio è basso rispetto a coloro con rischio maggiore. Sono i risultati di uno studio longitudinale su 1.810 anziani over 75, nell’ambito dell’indagine svedese Kungsholmen Project (invecchiamento e demenza negli anziani), con un follow up di 18 anni. Outcome principali dello studio erano età media di morte e stato vitale nel periodo 1987-2005. I risultati sottolineano che comportamenti di vita sani, attività fisica e relazioni sociali, possono aumentare l’aspettativa di vita anche nelle età avanzate e in presenza di patologie croniche, probabilmente attraverso una riduzione della morbilità. Si è riscontrato per esempio che i fumatori arrivati ai 75 anni avevano una sopravvivenza media di un anno più breve di coloro che non avevano mai fumato. L’attività fisica era il fattore con l’associazione più forte con la sopravvivenza: l’età media di decesso di chi nuotava, camminava o faceva ginnastica regolarmente aumentava di 2,0 anni (0,7-3,3) rispetto a chi non aveva queste abitudini. Lo studio evidenzia che l’attenzione ai fattori di rischio modificabili deve essere confermata anche per gli over 75enni e 85enni. (P.P.) Rizzuto D, Orsini N, Qiu C et al. BMJ 2012; 345: e5568


cardiologia

il paziente iperteso La frequenza cardiaca come fattore di rischio cardiovascolare L’impatto della frequenza cardiaca nei confronti delle patologie CV appare importante soprattutto nei soggetti ipertesi. In questo articolo, l’autore fa il punto sui meccanismi patogenetici e sulle possibilità di trattamento in questa classe di pazienti

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ra i fattori di rischio cardiovascolare più importanti vengono comunemente annoverati il fumo, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa e il diabete. La frequenza cardiaca a riposo, nonostante le numerose evidenze fornite, non viene ancora oggi inclusa tra i fattori di rischio per aterosclerosi, neppure tra quelli minori. La sua importanza è stata peraltro recentemente sottolineata da autorevoli consensus documents (1) e Linee guida internazionali (2), ma la frequenza cardiaca non è stata ancora inclusa nel calcolo del rischio cardiovascolare globale. Riesce difficile capire perché il ruolo di questa variabile clinica sia tuttora sottostimato, dato che in molti studi il suo potere predittivo per la morbilità e mortalità cardiovascolare è risultato pari o addirittura superiore a quello dei fattori di rischio considerati maggiori (3,4). Per molti anni, la frequenza cardiaca è stata considerata più un epifenomeno di un disturbo generale che un fattore di rischio indipendente, a causa della sua stretta relazione con nu-

Paolo Palatini Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova, Padova

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merosi fattori di rischio quali la pressione arteriosa, l’obesità, la colesterolemia, ecc. È stato però chiaramente dimostrato che nella maggioranza degli studi il potere predittivo della frequenza cardiaca per gli eventi cardiovascolari e la mortalità totale rimaneva significativo anche quando veniva aggiustato per tutti i principali fattori di rischio (5-8). In questi ultimi anni vi è stato un rinnovato interesse per questa variabile clinica, e l’attenzione degli studiosi è stata stimolata anche dall’introduzione di nuovi farmaci capaci di ridurre la frequenza cardiaca. L’argomento è stato oggetto di recente dibattito in letteratura dato che a fronte di numerosi dati che attestano il valore prognostico della tachicardia nei confronti della morbilità e mortalità cardiovascolare, alcune recenti analisi sembravano negare l’esistenza di questa associazione.

L’evidenza epidemiologica Esiste oggi una mole di dati secondo cui una frequenza cardiaca elevata è associata a ipertensione arteriosa (9), diabete (10) e arteriosclerosi coronarica e carotidea (11,12). Studi in diverse popolazioni suggeriscono inoltre, che un’au-

mentata frequenza cardiaca è anche un potente precursore di infarto miocardico. Predicendo lo sviluppo di ipertensione e di eventi coronarici, non sorprende quindi che una frequenza cardiaca elevata sia anche un importante predittore di mortalità da cardiopatia coronarica. Questa associazione era già stata trovata molti anni or sono in studi di popolazione europei, ed è stata successivamente confermata da importanti studi nordamericani, quali gli studi di Chicago (7) e lo studio Framingham (5). In questi studi, la frequenza cardiaca appariva essere significativamente correlata con la morte coronarica nell’uomo anche quando molti altri fattori di rischio erano presi in considerazione (5-10). Alcuni di questi studi hanno dimostrato che l’associazione si manteneva anche quando i soggetti deceduti durante i primi anni dopo la valutazione di base, venivano esclusi dalle analisi (5). Simili risultati sono stati recentemente ottenuti nell’ambito dello studio VALUE (13). Una correlazione tra elevata frequenza cardiaca e mortalità cardiovascolare è stata evidenziata dal nostro gruppo anche nei soggetti anziani (14). È noto che i classici fattori di rischio per aterosclerosi come l’obesità o il colesterolo totale tendono a perdere il loro valore predittivo di mortalità negli anziani. Nello studio CASTEL effettuato nel Nord Est dell’Italia, abbiamo trovato un eccesso di mortalità per morte improvvisa e altre cause cardiovascolari durante un followup di 12 anni, in 753 anziani maschi con frequenza cardiaca basale maggiore di 80 bpm (14). L’incremento del tasso di mortalità nei soggetti con tachicardia rimaneva significativo dopo aggiustamen-


Tabella 1

Studi di popolazione e trial clinici che hanno documentato una relazione tra frequenza cardiaca elevata e aumentato numero di eventi in pazienti ipertesi Studio

Numero pazienti

Età (in anni)

Sesso (% maschi)

Follow-up (anni)

Risultati

Situazione clinica

ARIC

3.275

45-64

49

10

Aumento coronaropatie e mortalità totale

Preipertensione

Framingham

4.530

Media= 56

45

36

Aumento mortalità CV e totale

Ipertensione

French study (Benetos)

19.386

Media= 51,5

63

18

Aumento mortalità CV e totale

Ipertensione

French study (Thomas)

60.343

Adulti e anziani

100

14

Aumento mortalità CV

Ipertensione

Syst-Eur

2.293

Media= 70

33

4

Aumento mortalità CV e totale

Ipertensione sistolica

INVEST

22.192

Media= 66

48

2,7

Aumento IMA, ictus e mortalità totale

Ipertensione con cardiopatia ischemica

Glasgow Clinic

4.065

Media= 52

47

2,5

Aumento mortalità CV e totale

Ipertensione

LIFE

9.190

Media= 67

46

5

Aumento mortalità CV e totale

Ipertensione con ipertrofia ventricolare sinistra

ASCOT

12.159

Media= 63

77

5

Aumento mortalità CV e totale

Ipertensione con 3 fattori di rischio CV

VALUE

15.193

Media=67

58

4

Aumento morbilità Ipertensione con CV e mortalità totale alto rischio CV associato

ONTARGET/ TRANSCEND

31.531

Media=66

70

5

Aumento mortalità CV e totale

Pazienti ad alto rischio CV

Note: CV, cardiovascolare; IMA, infarto miocardico acuto

to per tutti gli altri principali fattori di rischio per aterosclerosi. L’impatto della frequenza cardiaca nei confronti delle patologie cardiovascolari è apparso importante soprattutto nei pazienti ipertesi (15). Dati dello studio SystEur in pazienti anziani con ipertensione sistolica isolata hanno documentato una stretta relazione tra frequenza cardiaca a riposo e mortalità cardiovascolare o totale (16). Più recentemente il riesame di numerosi trial clinici ha confermato questa associazione nei pazienti ipertesi soprattutto se a rischio cardiovascolare elevato. Tra questi ricordiamo soprattutto i risultati degli studi INVEST, VALUE e ONTARGET (13,17). Sono oggi disponibili oltre 60 pubblicazioni sull’associa-

zione tra frequenza cardiaca e mortalità; associazione che è risultata positiva con la mortalità totale e/o cardiovascolare in quasi tutti gli studi, anche dopo aggiustamento per i più importanti fattori di rischio per malattia aterosclerotica. L’associazione è risultata particolarmente stretta negli 11 studi che hanno preso in esame pazienti con ipertensione arteriosa (15), indipendentemente da età e sesso (Tabella 1). La dimensione delle popolazioni studiate variava da 2.293 a 60.343 pazienti con durata di followup tra 2,5 e 36 anni. Nello studio LIFE eseguito in ipertesi con ipertrofia ventricolare sinistra, un incremento della frequenza cardiaca di 10 bpm era associato a un aumento del rischio cardiovascolare

del 25 per cento (18). Questo studio ha anche accertato l’importanza della frequenza cardiaca misurata durante il follow-up. La persistenza o lo sviluppo di una frequenza ≥84 bpm era associata a un aumento del rischio di morte cardiovascolare dell’89 per cento e di mortalità totale del 97 per cento. Simili risultati sono stati riscontrati nel Glasgow Blood Pressure Clinic Study (19), nel quale gli ipertesi con frequenza cardiaca >80 bpm avevano un marcato aumento della mortalità cardiovascolare. La mortalità più elevata è risultata nei pazienti che avevano una frequenza cardiaca al termine dello studio tra 81 e 90 bpm, e la mortalità più bassa in quelli che avevano una frequenza tra 61 e 70 bpm. Anche

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cardiologia nello studio VALUE, sia la frequenza cardiaca basale che quella misurata nel corso dello studio erano potenti predittori di un “composite cardiovascular outcome” anche dopo aggiustamento per vari fattori di rischio (13). Infine, negli studi ONTARGET e TRANSCEND, il rischio di morte cardiovascolare era aumentato dal 41 al 58 per cento nei pazienti con frequenza cardiaca >70 bpm e del 77 per cento in quelli con frequenza >78 bpm (15). È importante quindi sottolineare come nei 6 studi che hanno analizzato anche la frequenza cardiaca durante follow-up, questa abbia contribuito in modo significativo a determinare il rischio cardiovascolare in aggiunta alla frequenza cardiaca basale.

Meccanismi patogenetici La natura dell’associazione tra frequenza cardiaca e mortalità non è facile da capire, e questo è uno dei motivi per cui la frequenza cardiaca nel passato ha riscosso scarso credito come fattore di rischio cardiovascolare. La relazione tra tachicardia e mortalità è in realtà molto complessa, in quanto i meccanismi che la sottendono sono molteplici (Tabella 2), ma questi sono stati chiariti attraverso numerosi studi sperimentali e analisi epidemiologiche. La relazione tra tachicardia come marker di iperattività simpatica, e le anomalie metaboliche riscontrate in molti studi può spiegare perché soggetti con elevata frequenza cardiaca sviluppano ipertensione e aterosclerosi negli anni successivi (20-23). È noto da tempo che un’ampia porzione di giovani pazienti maschi con ipertensione borderline ha un incremento sia della frequenza che della gittata cardiaca. Nello studio Tecumseh, il 37 per cento di tutti i soggetti con ipertensione borderline aveva una circolazione ipercinetica (6,24). È stato notato che soggetti con tachicardia e stato ipercinetico nel Tecumseh avevano anche un’ipertensione da camice bianco, documentata dall’elevata pressione arteriosa casuale, ma non domiciliare (6,24). Gli stessi risultati sono stati ottenuti nello studio HARVEST, uno studio multicentrico realizzato in soggetti con ipertensione

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borderline-lieve nel Nord-Est Italia (22). La frequenza cardiaca casuale era correlata con la pressione arteriosa casuale e con la reazione pressoria da camice bianco. Nello studio HARVEST abbiamo anche dimostrato che i soggetti ipertesi con tachicardia hanno caratteristiche cliniche tipiche della sindrome da insulinoresistenza: sovrappeso, incremento del glucosio nel sangue e profilo lipidico anomalo (24). Il miglioramento della sensibilità insulinica che si ottiene nei pazienti ipertesi trattati con farmaci ad azione anti alfa-adrenergica fa ritenere che sia proprio l’attivazione simpatica a indurre l’insulino-resistenza (24). La relazione tra tachicardia come marker di iperattività simpatica, e le anomalie metaboliche riscontrate in questo come in altri studi può spiegare perché soggetti con elevata frequenza cardiaca sviluppano ipertensione e aterosclerosi negli anni successivi. La connessione tra frequenza cardiaca e lesioni aterosclerotiche può essere però anche spiegata con diversi meccanismi, di tipo diretto. In esperimenti effettuati in scimmie Cynomolgus alimentate con una dieta aterogena per sei mesi, gli animali che avevano una frequenza cardiaca ridotta tramite ablazione del nodo seno-atriale avevano un numero e una severità di lesioni arteriose coronariche inferiori di due volte rispetto agli animali che rimanevano con frequenza cardiaca elevata (24). Queste osservazioni indicano che una frequenza cardiaca relativamente bassa per un lungo periodo tende a ritardare la formazione di lesioni aterosclerotiche nelle arterie coronarie. Variazioni nella direzione dello shear stress possono spiegare la correlazione tra un’elevata frequenza cardiaca e le lesioni aterosclerotiche (25). Una direzione inversa di flusso e shear stress in tele-sistole potrebbe favorire il verificarsi di lesioni aterosclerotiche nell’area interessata da queste turbolenze emodinamiche. Inoltre, un’elevata frequenza cardiaca implica un aumento del tempo totale speso in sistole a causa dell’accorciamento del tempo di diastole. Il conseguente aumento dello stress emodinamico di parete può danneggiare le giunzioni intercellulari, incrementare

la permeabilità delle cellule endoteliali e favorire l’ingresso di particelle aterogene (12, 25). Queste considerazioni ci consentono di concludere che l’associazione tra frequenza cardiaca e mortalità cardiovascolare è dovuta a due principali fattori. Da un lato l’elevata frequenza cardiaca riflette uno squilibrio del tono del sistema nervoso autonomico, con predominanza del simpatico; in conseguenza si ha un impatto sfavorevole sul sistema cardiovascolare, dato che oltre a favorire lo sviluppo della placca aterosclerotica, l’ipertono simpatico comporta un aumento del consumo di ossigeno e facilita l’insorgenza di aritmie maligne. Dall’altro, studi in animali e nell’uomo hanno dimostrato un collegamento diretto tra tachicardia e lesione coronarica. Abbiamo visto come riducendo la frequenza cardiaca in modo indipendente dal sistema nervoso autonomico, sia possibile produrre nelle scimmie un rallentamento dello sviluppo delle placche coronariche. Inoltre, aumentando gradualmente la frequenza cardiaca è possibile sviluppare nel ratto una riduzione progressiva della distensibilità della parete carotidea (24). Nell’uomo, la complicazione della placca coronarica vulnerabile è apparsa più frequentemente in soggetti con frequenza cardiaca elevata che in pazienti con frequenza cardiaca più bassa (24). Nel loro insieme questi dati sottolineano l’importanza del cronico stress emodinamico prodotto da una frequenza cardiaca persistentemente elevata nel determinare la lesione iniziale della parete arteriosa e nel promuovere lo sviluppo della placca aterosclerotica e delle sue complicanze. Da ultimo non va sottaciuta la possibilità che in alcuni individui una frequenza cardiaca elevata rifletta uno stato di malattia cronica invalidante, quale una broncopneumopatia o uno scompenso cardiaco latente. Questo non può comunque spiegare interamente l’associazione tra tachicardia e mortalità, dato che la persistenza dell’associazione tra frequenza cardiaca e mortalità dopo esclusione dei soggetti morti nei primi anni di follow-up induce a minimizzare il ruolo esercitato da sottostanti patologie croniche negli studi di tipo epidemiologico.


Tabella 2

Relazione tra frequenza cardiaca elevata e danno CV: meccanismi patogenetici Frequenza cardiaca come marker di ipertono simpatico Sindrome dell’insulino-resistenza Ridotto flusso capillare ai muscoli scheletrici Ipertrofia ventricolare sinistra Ipertrofia della parete arteriolare Riduzione della riserva coronarica Facilitazione all’insorgenza di aritmie ventricolari Facilitazione alla trombosi coronarica Frequenza cardiaca come fattore indipendente di rischio Aumento del lavoro cardiaco Aumento del consumo di ossigeno del miocardio Aumento dello stress parietale dei vasi Aumento della pressione arteriosa media Riduzione dell’elasticità dei grandi vasi Facilitazione alla rottura delle placche aterosclerotiche vulnerabili

w Il paradosso dei beta-bloccanti I beta-bloccanti sono i farmaci con più potente azione bradicardizzante e quindi sarebbe legittimo aspettarsi un loro ruolo benefico in pazienti ipertesi con elevata frequenza cardiaca, similmente a quanto osservato in pazienti con infarto miocardico. I trial di intervento con betabloccanti nell’ipertensione hanno dato peraltro risultati molto deludenti (26). Una recente metanalisi di 147 studi ha dimostrato che la riduzione di ictus con beta-bloccanti era pari al 17 per cento a fronte di una riduzione del 29 per cento ottenuta con farmaci antipertensivi appartenenti a classi farmacologiche diverse (27). Un’altra metanalisi che ha incluso solo studi effettuati con beta-bloccanti ha addirittura riportato una maggiore mortalità in pazienti con più pronunciata riduzione della frequenza cardiaca dovuta a beta-bloccanti (28). Inoltre, nello studio ASCOT-BPLA il maggior beneficio ottenuto con la terapia basata sull’amlodipina, rispetto al trattamento basato sull’atenololo, non era ridotto nei pazienti con elevata frequenza cardiaca alla base (29). Questo insieme di eviden-

ze ha indotto alcuni Autori a concludere che la terapia beta-bloccante va confinata allo scompenso cardiaco, alle aritmie e all’infarto miocardico, ma non trova indicazione nell’ipertensione arteriosa. Quali potrebbero essere le ragioni della limitata efficacia dei beta-bloccanti nel prevenire gli eventi cerebro- e cardiovascolari nell’ipertensione? Senza dubbio un importante effetto sfavorevole è da attribuirsi al peggioramento del profilo glicidico e lipidico determinato da questi farmaci, in particolare dall’atenololo, che è stato uno dei più usati nei trial clinici. Nello studio CAFE è stato inoltre, chiaramente dimostrato che i beta-bloccanti sono meno efficaci nel ridurre la pressione centrale rispetto agli ACE-inibitori, a parità di riduzione della pressione periferica (30). Non si può peraltro disconoscere che nello studio ASCOT-BPLA, la frequenza cardiaca dopo 6 settimane di trattamento era associata in modo significativo allo sviluppo di infarto miocardico, indicando che la più bassa frequenza cardiaca ottenuta con il beta-bloccante atenololo aveva in effetti determinato un effetto favorevole sugli eventi coronarici.

L’effetto dei beta-bloccanti sul sistema cardiovascolare rappresenterebbe quindi il bilancio tra gli effetti negativi sul metabolismo e sulla pressione centrale e gli effetti vantaggiosi determinati dalla riduzione della frequenza cardiaca. Non si può quindi escludere che i nuovi beta-bloccanti con associata azione vasodilatatrice, i quali non posseggono effetti metabolici indesiderati, possano avere una più efficace azione preventiva sugli eventi rispetto ai beta-bloccanti di vecchia generazione (31). Questo possibile vantaggio dovrà comunque essere dimostrato in trial clinici di intervento nell’ipertensione.

Quale trattamento nell’iperteso tachicardico? Per stabilire se sia opportuno ridurre una frequenza cardiaca elevata bisogna innanzitutto poter individuare il limite superiore di normalità di questa variabile. Dato che il rischio cardiovascolare legato alla frequenza cardiaca è continuo, qualsiasi cut-off risulterà necessariamente arbitrario. La maggioranza degli studi epidemiologici ha individuato nel limite inferiore del quintile più alto la separazione tra frequenza cardiaca normale ed elevata, limite che è risultato per lo più compreso tra 80 e 85 bpm (32). Valori tendenzialmente più bassi sono stati riscontrati nei soggetti anziani e valori tendenzialmente più alti nelle donne. Una terapia bradicardizzante con betabloccanti o calcio-antagonisti non diidropiridinici è ormai considerata indispensabile in pazienti con infarto miocardico o sindromi coronariche acute in generale. I beta-bloccanti, soprattutto quelli di terza generazione, si sono rivelati inoltre molto utili in soggetti con scompenso cardiaco congestizio. In queste situazioni cliniche si sono rivelati efficaci anche bradicardizzanti puri privi di azione inotropa negativa o di effetto sulla pressione arteriosa, quali l’ivabradina (33). L’azione di questi farmaci è risultata tanto più vantaggiosa quanto più era elevata la frequenza cardiaca di partenza. Non vi è pertanto oggigiorno alcun dubbio che nel cardiopatico, la riduzione della frequenza

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cardiologia cardiaca è utile soprattutto per ridurre i fattori che possono precipitare l’evento cardiovascolare. Meno vantaggioso appare somministrare beta-bloccanti o altri farmaci bradicardizzanti a soggetti con frequenza cardiaca già bassa. Minori certezze sicuramente sussistono sull’impiego di una terapia bradicardizzante in soggetti ipertesi tachicardici in assenza di una cardiopatia associata. Come abbiamo visto in precedenza, i beta-bloccanti sono risultati meno efficaci rispetto ad altri farmaci antipertensivi nel ridurre gli eventi cardiovascolari nell’ipertensione. Va peraltro segnalato che questi studi non sono stati effettuati in soggetti con contemporanea ipertensione e tachicardia, mentre scopo di una terapia bradicardizzante sarebbe la somministrazione in soggetti tachicardici che, come detto sopra, costituiscono circa il 20 per cento della popolazione. Abbiamo infatti visto come nello stesso studio ASCOT-BPLA, una bassa frequenza cardiaca dopo 6 settimane di trattamento fosse associata a un minor rischio di infarto miocardico, indicando che a prescindere dalla terapia con atenololo una ridotta frequenza cardiaca aveva un effetto favorevole sugli eventi coronarici (29). Anche i risultati dei trial clinici INVEST, VALUE, LIFE e dello studio della Glasgow Clinic hanno dimostrato che la frequenza cardiaca durante il trattamento antipertensivo è un importante predittore di mortalità cardiovascolare (13, 17-19). In questi studi, se la terapia antipertensiva riduceva la pressione arteriosa, ma la frequenza cardiaca rimaneva elevata, il rischio di morte o di eventi cardiovascolari rimaneva elevato. Va peraltro segnalato che questi studi sono stati effettuati in ipertesi con alto rischio CV e che pertanto includevano molti pazienti con cardiopatia ischemica. Sicuramente minori certezze esistono nei confronti dei pazienti ipertesi a basso rischio dato che non possediamo risultati di trial clinici disegnati ad hoc in questo tipo di pazienti.

conclusioni Nell’attesa che questi risultati si rendano disponibili, appare ragionevole ridurre

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una frequenza cardiaca elevata nell’iperteso. L’approccio iniziale dovrà includere l’applicazione di misure igienico-dietetiche e in particolare, di un programma di esercizio fisico prevalentemente di tipo aerobico. Qualora queste misure risultassero insufficienti, l’impiego di farmaci ad azione bradicardizzante appare indicato. È noto che per controllare adeguatamente la pressione arteriosa, soprattutto nei pazienti a rischio elevato che devono perseguire un target più basso, è necessaria l’associazione di due o più farmaci (2). Nell’iperteso tachicardico questa associazione non potrà quindi prescindere dall’uso di un farmaco ad azione bradicardizzante. Non bisogna inoltre, dimenticare che le recenti Linee guida europee consigliano di utilizzare anche la frequenza cardiaca nella stratificazione del rischio cardiovascolare globale (2).

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Dermatologia

Psoriasi lieve-moderata Cosa può fare il Medico di famiglia Per questa forma esistono oggi terapie efficaci e sicure, che il MMG può gestire con indipendenza; egli, tuttavia, è importante anche nella co-gestione con il dermatologo della psoriasi grave e nella gestione globale del paziente con forma moderata-grave, che è un fattore indipendente di rischio CardioVascolare

L

a psoriasi è una patologia infiammatoria cronica che colpisce circa il 2 per cento della popolazione. La malattia esordisce spesso in età giovanile e si protrae con alti e bassi per decenni, spesso per tutta la vita. La malattia può avere un impatto importante sulla qualità della vita, l’attività lavorativa e le relazioni sociali. La psoriasi dipende da una predisposizione genetica complessa sui cui dettagli sono stati fatti notevoli progressi negli ultimi anni.

Quadro clinico La patogenesi è immunomediata e dipende da un’abnorme attivazione di meccanismi dell’immunità innata e dall’azione incontrollata di sostanze rilasciate da parte di linfociti T di tipo 1, tipo 17 e tipo 22, e da una particolare sensibilità delle cellule epiteliali cutanee (cheratinociti) agli stimoli proliferativi e infiammatori. Il risultato è una pelle ispessita, squamosa e infiammata (Figura 1). Le lesioni eritemato-squamose sono localizzate principalmente al cuoio capelluto

Giampiero Girolomoni Clinica Dermatologica Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona

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(Figura 2), alla superficie estensoria degli arti (Figure 3 e 4), alla regione sacrale, alle mani e ai piedi. Il prurito è frequente e talvolta molto intenso. Nel 10-20 per cento dei pazienti le placche ricoprono vaste aree della cute fino a casi di forme diffuse, che ricoprono quasi tutta la superficie cutanea. Nella psoriasi delle pieghe, o psoriasi inversa, i pazienti sviluppano chiazze infiammatorie lisce localizzate alle pieghe sottomammarie, inguinali e ascellari. La psoriasi si associa all’artrite psoriasica in circa un terzo dei pazienti. Si tratta di una spondilo-artropatia prevalentemente periferica, che si manifesta con entesiti, dattiliti e talora sinoviti oligo- o poliarticolari asimmetriche. Inoltre la psoriasi si associa all’obesità, che rappresenta un importante fattore di rischio modificabile, e alla sindrome metabolica, al diabete, alla steatosi epatica e a un aumentato rischio cardiovascolare. La gravità della psoriasi è definita in base all’estensione della superficie corporea affetta e tramite l’indice PASI (Psoriasis Area and Severity Index), che tiene conto dell’estensione delle lesioni, dell’eritema, della desquamazione e dell’infiltrazione a livello delle lesioni, per ogni area coinvolta. La maggior parte dei pazienti psoriasici è affetta da una forma di gravità lieve-moderata,

con una superficie corporea interessata inferiore al 5 per cento. Questa superficie, tuttavia, è comunque significativa se si considera che la superficie della mano (palmo e dita) equivale all’1 per cento della superficie corporea.

Terapia Il trattamento della psoriasi si avvale di diverse opzioni, inclusi farmaci topici, fototerapia e terapie sistemiche. Queste ultime includono il methotrexate, la ciclosporina, l’acitretina, la fototerapia (PUVA, UVB a banda stretta) e farmaci cosiddetti biologici (etanercept, infliximab, adalimumab, golimumab, ustekinumab). Numerosi nuovi farmaci sono inoltre in fase di sviluppo. Le forme lievi sono trattabili con sole terapie topiche, le forme moderate richiedono terapie topiche più, a volte, terapie sistemiche, mentre le forme gravi necessitano sempre di terapie sistemiche.

w Il ruolo del Medico di famiglia Il Medico di famiglia ha un ruolo assai rilevante nella gestione del paziente con psoriasi: y nella co-gestione con il dermatologo del paziente con psoriasi grave trattato con farmaci sistemici, per rassicurare il paziente e per il monitoraggio laboratoristico dei possibili effetti collaterali della terapia; y nella gestione anche indipendente delle forme lievi-moderate; y considerando che la psoriasi cronica moderata-grave rappresenta un fattore indipendente di rischio cardio-vascolare, tenendone conto nella gestione globale del paziente.

w Trattamento topico La psoriasi lieve-moderata si cura so-


stanzialmente con terapie locali quali pomate, gel e lozioni. L’efficacia e la sicurezza delle terapie topiche sono ben sintetizzate in diverse Linee guida internazionali e nazionali, basate su un’ampia serie di studi controllati. Questi hanno mostrato come i corticosteroidi, gli analoghi della vitamina D e la loro associazione calcipotriolo/betametasone, il tazarotene, il tacrolimus, il pimecrolimus abbiano buona efficacia e siFigura 2. Psoriasi del cuoio capelluto Figura 1. Placca psoriasica curezza. Il tazarotene induce però reazioni irritative difficili da gestire, e per pimecrolimus e tacrolimus si tratta di un impiego “off-label”. L’acido salicilico è usato solo nelle fasi iniziali per rimuovere le squame. La terapia topica della psoriasi, dunque, si basa sostanzialmente sui corticosteroidi, sugli analoghi della vitamina D e, soprattutto, sull’associazione calcipotriolo/betametasone. La terapia idratante ed emolliente è inoltre un importante complemento nella gestione quotidiana Figura 3. Psoriasi del gomito Figura 4. Psoriasi lieve delle ginocchia della psoriasi. I corticosteroidi sono rapidamente efficaci, esistono in varie e complementari che permettono un siformulazioni (lozioni, creme, unguenti, un problema significativo nel potenziale nergismo terapeutico e allo stesso tempo schiume) e di varia potenza. Il loro uso successo del trattamento della psoriasi. una riduzione degli effetti collaterali. L’efa lungo termine è precluso dagli effetLa psoriasi è una patologia che dura ficacia e la sicurezza dell’associazione calti indesiderati prevalentemente cutanei tutta la vita e la delusione per quanto cipotriolo/betametasone sono documen(atrofia). Gli analoghi della vitamina D riguarda l’efficacia della terapia, gli effetti tate da numerosi studi clinici controllati includono il calcipotriolo, il tacalcitolo e collaterali di alcuni prodotti e la paura di che hanno coinvolto migliaia di pazienti. il calcitriolo, e sono disponibili in creme, reazioni avverse, incidono sull’appropriaL’associazione permette un miglioramenunguento e lozione. Hanno il vantaggio to utilizzo della terapia topica. to delle lesioni superiore al 75 per cento di essere abbastanza efficaci e non avere La scelta del veicolo di somministrazione nell’arco di alcune settimane in tutte le effetti collaterali cutanei rilevanti. Tutè un fattore importante per ciò che consedi cutanee, ed è molto più efficace e tavia la loro azione è lenta e parziale, e cerne l’adesione terapeutica: la facilità meglio tollerata dei prodotti usati sinspesso non soddisfa i pazienti. o la difficoltà di utilizzo, la capacità dei golarmente. Studi di farmaco-economia Da pochi anni è disponibile l’associazione prodotti di macchiare o sporcare gli inhanno evidenziato che l’associazione è calcipotriolo/betametasone (unguento e dumenti, influenzano le preferenze dei economicamente più vantaggiosa rispetto gel) che ha rivoluzionato la terapia topica pazienti. agli analoghi della vitamina D impiegati della psoriasi. L’associazione è stata posPertanto, gli esperti e le Linee guida singolarmente. sibile grazie allo sviluppo di tecnologie raccomandano fortemente di migliorare che consentono ai due principi attivi di la comunicazione con il paziente, attracoabitare nello stesso veicolo mantenenverso la costruzione di solide relazioni w L’importanza della do l’efficacia terapeutica. I due farmaci medico-paziente, l’educazione riguardo la comunicazione medico-paziente combinati esplicano delle azioni diverse malattia, la programmazione di visite di La scarsa aderenza alla terapia topica è

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Dermatologia follow up e il coinvolgimento del paziente nella scelta del trattamento. Il medico dovrebbe fornire informazioni in merito: y ai risultati attesi e ai potenziali effetti collaterali, y al metodo di applicazione, inclusa la quantità di prodotto da applicare, preferibilmente con una dimostrazione pratica, y alla modalità, alla frequenza e alla durata del trattamento. In relazione alle modalità di utilizzo e di applicazione del farmaco, sarebbe importante fornire al paziente chiare e semplici istruzioni scritte. Una tecnica utile è il concetto di “fingertip” (quantità di crema che sta sulla falange del dito indice) che corrisponde a circa 500 mg e rappresenta il dosaggio appropriato per la terapia topica di un’area pari al 2 per cento della superficie corporea. Queste informazioni sono probabilmente uno degli aspetti più importanti da considerare quando si prescrive una terapia topica perché il trattamento abbia successo.

Conclusioni La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica che può colpire tutte le età. È una patologia relativamente comune e solo una piccola percentuale di pazienti è seguita dallo specialista dermatologo: la maggior parte è gestita e trattata dal Medico di famiglia, mentre una parte non ricerca nessun aiuto medico. È importante che al paziente siano fornite informazioni riguardo la diagnosi, le opzioni terapeutiche e la prognosi della patologia. È anche importante contestualizzare queste informazioni in base al tipo e gravità della malattia e alle caratteristiche e preferenze del paziente. In relazione alle opzioni terapeutiche, è fondamentale, informare il paziente riguardo ai pro e contro di ciascuna opzione disponibile, e alle modalità pratiche di impiego dei prodotti. L’obiettivo dovrebbe essere quello di indurre la remissione completa delle lesioni e, quindi, proseguire con una terapia di mantenimento.

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psoriasi In un documento europeo le proposte per migliorarne la gestione

C

irca 14 milioni di persone in Europa sono affette da psoriasi, patologia cronica dal forte impatto negativo sulla qualità di vita, arrivando a condizionare scelte lavorative e socialità (Figura 1). Non si tratta di una condizione unicamente dermatologica, ma coinvolge anche altri apparati; vi concorre, inoltre, anche la frequente presenza di comorbidità (Figura 2). Data la natura cronica della patologia è cruciale avere accesso a cure di qualità adeguata (intese come giuste al momento giusto). A livello europeo, tuttavia, le forme da moderate a severe, che sono quelle maggiormente gravate da problemi, non sono adeguatamente trattate e le grandi differenze d’approccio alla malattia, e di cure che il paziente riceve, tra i diversi Paesi rappresentano un ulteriore ostacolo a un progresso nella sua gestione.

Il Gruppo di lavoro europeo L’European Expert Working Group for Healthcare in Psoriasis (EEWGH), composto da medici e da esponenti delle associazioni di pazienti, ha pubblicato un libro bianco (JEADV 2012; 26(4): 1-16) che individua le criticità nell’approccio alla psoriasi, proponendo una serie di interventi risolutivi da sottoporre a tutti gli attori coinvolti. Di seguito riportiamo una sintesi degli obiettivi e delle azioni da compiere per raggiungerli.

w Promuovere l’attenzione sulla psoriasi e stabilirne il reale impatto Gli obiettivi e le azioni da intraprendere individuati per questo primo punto sono i seguenti: y Fare in modo che tutti gli attori dell’area

È urgente mettere a fuoco questa patologia, contraddistinta da un forte impatto negativo su chi ne è affetto e dai pesanti costi sociali ed economici. Il libro bianco di un gruppo di studio europeo dedicato definisce minuziosamente ruoli degli “stakeholders” e azioni da compiere a tal fine

sanitaria siano consapevoli della serietà della psoriasi; per arrivarci, è necessario che lo riconoscano le organizzazioni sanitarie come l’Oms e i governi. y Diffondere informazioni corrette sulla psoriasi (malattia cronica, immunomediata, non trasmissibile, in grado di inficiare gravemente la qualità di vita, di chi ne è affetto). I governi, l’industria e il mondo accademico, in collaborazione con associazioni e operatori sanitari, tra cui i MMG e i dermatologi, devono approntare campagne educative sui media per informare la popolazione. y Migliorare supporto e trattamento offerti al paziente. A tal fine, governi e industria devono destinare fondi, formare e offrire supporto agli operatori sanitari, con programmi dedicati. y Ottimizzare il rapporto costo-efficacia dei trattamenti per ridurre l’impatto economico della patologia. Anche in questo caso spetta ai governi e all’industria adoperarsi per un tale utilizzo delle risorse.

w Promuovere Linee guida per il trattamento Le Linee guida (LG) sono strumento fondamentale per migliorare la qualità dell’assistenza, ma molti Paesi non

ne dispongono o occorre renderle più stringenti. y I professionisti e le organizzazioni della sanità devono guidare e promuovere a livello nazionale lo sviluppo di LG, secondo indicazioni di LG europee, in quei Paesi che non ne dispongano e rendere più efficaci quelle già esistenti. y Spetta agli organismi europei come l’European Dermatology Forum (EDF) e l’European Academy of Dermatology and Venereology (EADV), che supportano lo sviluppo di LG, comunicarne il ruolo di riferimento, specie su punti chiave come l’inizio e la durata della terapia, delle LG europee e promuoverne la conoscenza nei singoli Paesi, dove esperti, accademici ed esponenti dell’industria saranno coinvolti nella formazione degli operatori sanitari sulle LG. Anche la popolazione deve essere sensibilizzata sulla loro esistenza. Organizzazioni e professionisti della salute devono fare in modo che il tempo dedicato alla visita del paziente permetta di far riferimento alle LG.

A cura della Redazione

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Dermatologia Figura 1

w Definire gli obiettivi e le strategie di gestione

Impatto “sociale” della psoriasi

Questo aspetto risulta fortemente eterogeneo in ambito europeo e rappresenta un ostacolo reale verso il miglioramento della gestione. Occorre standardizzare su scala europea l’uso degli strumenti di valutazione clinica: il PASI, attuale gold standard, e i diversi altri esistenti, sono discordanti e macchinosi e nella pratica clinica non vengono applicati sistematicamente. Da ciò derivano eterogeneità di diagnosi e trattamento. Inoltre devono essere avviati programmi educazionali all’indirizzo di tutti gli attori coinvolti, che possano essere estesi anche alle Associazioni, sull’esistenza e la necessità di utilizzare con metodo tali strumenti. Bisogna inoltre implementare le aree dell’assistenza meno soddisfatte dagli strumenti esistenti, sviluppando su scala europea un questionario per gli operatori sanitari che le identifichi. Per esempio, per valutare le comorbidità, o i benefici del trattamento per il paziente; lo strumento dovrebbe essere di facile utilizzo, veloce e validato da trial clinici. Grazie all’interazione con i pazienti, gli “addetti ai lavori” devono definire a livello europeo obiettivi di trattamento appropriati per arrivare a una standardizzazione della pratica clinica, in considerazione che quelli attuali si basano su popolazioni omogenee, dei trial clinici. I medici devono coinvolgere i pazienti condividere con loro gli obiettivi iniziali del trattamento e della strategia di gestione della patologia.

Per il 70% peggioramento per le conseguenze del trattamento e dall’attività di cura (es. lavoro domestico extra dovuto alle conseguenze del trattamento)

Per il 37% peggioramento per limitazioni nelle relazioni personali con i pazienti (es. tensioni nei rapporti)

Per il 57% peggioramento dovuto all’impatto psicologico (es. disagio e preoccupazione per la situazione del paziente)

Aspetti di scadimento della vita riferiti dai pazienti e dalla loro cerchia sociale

Per il 37% peggioramento dovuto a limitazioni nelle attività quotidiane

Per il 55% peggioramento per problemi di socialità

Per il 44% peggioramento dovuto a limitazioni nello sport e nel tempo libero

(es. fare compere, disturbi del sonno)

(es. ridotto o limitato svolgimento di funzioni sociali)

(es. limiti nella pianificazione delle vacanze, dello sport o del tempo libero)

Fonte: Psoriasis white paper, 2012

Figura 2

Prevalenza di comorbidità nei soggetti con psoriasi

w Facilitare l’accesso a interventi precoci, alle nuove terapie, a un’assistenza nel tempo e di supporto

Tutte le comorbidità (almeno una) Obesità Ipertensione arteriosa Iperlipidemia Ischemia del miocardio Colite ulcerosa

senza psoriasi

Diabete mellito

(n. 1.310.090 soggetti)

con psoriasi

Malattia di Crohn

(n. 33.981 soggetti)

Sindrome metabolica Artrite reumatoide Fonte: Psoriasis white paper, 2012

18

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0

10

20

30

40

50

tasso di prevalenza (%)

60

70

Si tratta di aspetti rilevanti, che incidono fortemente sulla qualità di vita del paziente. Le azioni da compiere sono sintetizzate come segue. I pazienti in Europa devono poter accedere precocemente all’assistenza e al trattamento di cui abbisognano, soprattutto in caso di psoriasi da moderata a severa. Questo, è dimostrato, non avviene, a dispetto dei numerosi trattamenti disponibili. Per dare impulso a questa via, governi, organismi sanitari, industria e mon-


do accademico devono adoperarsi per raccogliere dati di follow up sull’impatto della terapia sistemica precoce. Secondo l’EEWGHP occorre dunque investire in registri paneuropei e ogni Paese deve istituire registri nazionali, sul modello dell’italiano Psocare, da connettere a un network europeo come Psonet. Gli organismi sanitari devono garantire le risorse per un’assistenza adeguata ai pazienti con psoriasi. Organismi sanitari, medici, Società scientifiche devono promuovere su scala europea l’utilizzo del PASI con punteggio almeno di 10 come criterio, non esclusivo, ma unitamente alla valutazione della storia clinica dei singoli pazienti, per avviare la terapia biologica (sistemica). Fondamentale è anche il controllo periodico dei pazienti, un comportamento che permette l’appropriata gestione della patologia e la messa a punto nel tempo della terapia, ma ancora non adottato. Sembra appropriato, nella maggioranza dei casi, un intervallo di tre mesi. La psoriasi deve essere gestita secondo criteri multidisciplinari, con strategie condivise a livello di assistenza di primo e secondo livello. Occorre assicurarsi che l’accesso a un’assistenza multidisciplinare, che può prevedere oltre al dermatologo, il reumatologo, lo psicologo, un infermiere che aiuti a risolvere problemi della quotidianità, sia parte di un processo standardizzato.

w Definire il ruolo delle Associazioni di pazienti Il documento definisce anche il ruolo delle Associazioni di pazienti, fondamentali per l’orientamento attuale dell’assistenza, sempre più centrata sul paziente. I pazienti e loro associazioni, come tutti gli altri attori coinvolti, devono cooperare per raggiungere gli obiettivi comuni. Le associazioni, numerose e importanti, devono creare alleanze e lavorare in modo organico, per diffondere messaggi coerenti ed efficaci. Inoltre, una loro maggiore collaborazione con gli organismi sanitari nazionali ed europei (soggetti preposti alla stesura delle LG) è indispensabile a che le Linee guida riflettano effettivamente le necessità e le preferenze dei pazienti e siano loro comprensibili. Allo stesso modo, una maggiore collaborazione tra le Associazioni e le società che raccolgono e trasmettono dati da trial clinici o modelli economici e che influenzano i decisori clinici o economici (Health Tecnology Assessment, HTA) deve portare a raccogliere anche le informazioni dalla prospettiva dei pazienti, troppo spesso solo “invitati” ad assistere al tavolo dei decisori. Le Associazioni, infine, devono adoperarsi perché documenti quali Linee guida o report delle HTA siano prodotti anche in un linguaggio accessibile a tutti, e non solo agli “addetti ai lavori”.

Giornata mondiale della psoriasi all’insegna della tecnologia Il 29 ottobre si celebra la Giornata mondiale della psoriasi e con l’occasione viene lanciata APPelle, la prima Campagna che sfrutta più canali di comunicazione per diffondere informazioni, consigli, risposte sulla psoriasi, ma che è anche un’applicazione gratuita per smartphone e tablet ed è accompagnata, e accessibile, da un sito web (www.appelle.it). L’iniziativa è dell’Associazione per la difesa degli psoriasici (ADIPSO) per rispondere alla realtà di necessità non soddisfatte, evidenziate anche da una ricerca dell’Istituto Eikon Strategic Consulting che ha analizzato per due anni le conversazioni su web e social network dei malati. APPelle si configura come strumento per aiutare nella vita di tutti i giorni gli psoriasici, in Italia circa 2,5 milioni, evitando che ricorrano a cure “fai da te”. Il sistema offre anche un servizio di geo-localizzazione per trovare il Centro di cura più vicino, un diario personale per monitorare il decorso della malattia, ricordare appuntamenti e terapie, fotografare le parti del corpo colpite e registrare il proprio stato d’animo.


FARMACI

Osteoporosi L’importanza dell’aderenza nel trattamento con bisfosfonati cento) il che, lo ricordiamo, indica che il paziente ha assunto il

Vania Braga USL 20 - Verona Centro Osteoporosi

trattamento prescritto (seguendo tutte le indicazioni, il numero di assunzioni, il numero di pillole ecc.) per almeno l’80 per cento dei giorni prescritti, e dalla persistenza alla terapia (assunzione farmaco per tutto il periodo prescritto).

I

l successo di un trattamento farmacologico è naturalmente correlato all’efficacia della molecola, oltre che ai

Diffusione e cause della scarsa aderenza

parametri farmacologici e alla tollerabilità. Ma ci sono

altri fattori che contribuiscono all’esito di una terapia. Tali

L’aderenza alla terapia condiziona significativamente i risultati di

fattori sono dipendenti in gran parte dal comportamento

un trattamento a lungo termine. A questo riguardo i dati disponi-

del paziente e dall’intervento del medico, e sono relativi ai

bili sono piuttosto negativi. Si calcola infatti, che un paziente su

concetti di compliance, persistenza e aderenza alla terapia

due in terapia per una patologia cronica ha scarsa aderenza al

in oggetto, termini che talvolta sono considerati equivalenti. In

trattamento (5) con conseguente progressione della malattia, e

realtà, pur essendo strettamente correlati, essi rappresentano

aumento della morbilità (complicanze, ricoveri ecc.) e mortalità

fattori che descrivono diversi aspetti del trattamento. La com-

correlate. Inoltre, dalla letteratura si evince che il 50 per cento

pliance riguarda il rispetto delle indicazioni nell’assunzione del

dei pazienti interrompe la terapia farmacologica entro i 12 mesi

farmaco. La persistenza è definita come il proseguimento del

(6). La scarsa aderenza alla terapia può essere la conseguenza

trattamento per tutta la durata prescritta. L’aderenza è infine una

di fattori relativi sia al paziente che al medico (Tabella 1). Dalla

combinazione di compliance e persistenza, e riflette il rispetto

tabella appare chiaro che il medico potrebbe avere un ruolo

delle indicazioni nell’assunzione del farmaco per tutto il periodo

significativo nel migliorare l’aderenza alla terapia, innanzitutto

prescritto (1). Per misurare la compliance, uno degli indici più

scegliendo le prescrizioni più idonee per ogni singolo paziente,

impiegati è il cosiddetto MPR, ovvero il tasso di possesso del

preferendo quelle con uno schema posologico più semplice e,

farmaco (MPR, Medication Possession Ratio) che è il numero di

in secondo luogo, fornendo al paziente tutte le informazioni e le

giorni complessivi in cui il paziente ha la disponibilità del farmaco

spiegazioni necessarie a illustrare i vantaggi del trattamento e i

(2,3). L’MPR corrisponde in pratica, alla somma dei giorni per

pericoli di una scarsa aderenza a esso correlata.

i quali il farmaco viene fornito realmente dalla farmacia, diviso il numero di giorni di trattamento prescritti teoricamente dal medico (4). Il risultato di questo calcolo viene poi rapportato

Aderenza e outcome clinici del trattamento con bisfosfonati

a 100 ottenendo così una percentuale. I dati per calcolare questo indice derivano dalle schede di erogazione del farmaco

Anche nel trattamento dell’osteoporosi la scarsa aderenza co-

registrate dalla farmacia e dalle ricette del farmaco registrate

stituisce un problema rilevante in quanto non più di un terzo dei

dal medico. In generale, si ritiene che un paziente che, per

soggetti dimostra un’aderenza appropriata (5). Anche quando

esempio, assuma realmente ≥80 per cento delle dosi farmaco-

l’assunzione è corretta, la persistenza in terapia è purtroppo

logiche teoricamente prescritte (ovvero MPR ≥80 per cento) sia

largamente carente. I bisfosfonati rappresentano il caposaldo del

compliante alla terapia prescritta (2). Una buona aderenza alla

trattamento farmacologico dell’osteoporosi (8). Questa classe di

terapia è data da una compliance alta (ovvero un MPR >80 per

farmaci è in grado di ridurre l’incidenza di fratture da osteoporosi

20

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post-menopausale (PMO) dal 20 al 45 per cento (8). Anche nella terapia con bisfosfonati la compliance al trattamento gioca un

Tabella 1. Cause di scarsa aderenza alla terapia

ruolo molto importante nel determinarne il successo. Le donne con alti tassi di compliance (MPR ≥80 per cento) presentano

Fattori relativi al paziente

rischi di frattura inferiori del 25 per cento (2) rispetto a quelle

w Dimenticanza w w Altre priorità w w Scarsa informazione w Decisione autonoma di omettere una o più assunzioni del farmaco

con MPR più basso. Anche i livelli di marcatori del turnover osseo e la risposta della BMD al trattamento migliorano con l’aumento della compliance (2). Uno studio osservazionale di coorte condotto negli Stati Uniti (8) su un campione di più di 35.000 donne, di età ≥45 anni, trattate con bisfosfonati ha dimostrato che l’aderenza alla terapia riduce il numero di fratture a 24 mesi. Rispetto alle donne che persistono in terapia, le pazienti con

Fattori relativi al medico

Prescrizioni di terapie complicate o costose Scarsa informazione al paziente su benefici ed effetti collaterali del trattamento

ridotta compliance (basso MPR) presentano un rischio di fratture vertebrali, e non, più elevato. In uno studio condotto da Siris e

non assumeva il farmaco seguendo le indicazioni prescritte

coll. (2006), il rischio di fratture rimaneva invariato per valori di

(aderenza pari al 48 per cento). In realtà, l’indagine non identi-

MPR fino al 50 per cento. Il dato interessante è che tale rischio

fica precisi fattori che influenzano la non-aderenza alla terapia,

si riduceva drasticamente con l’aumento della compliance, ossia

tuttavia risulta che le pazienti con precedenti fatture presentano

per valori di MPR tra 50 e 75 per cento e ancora di più per MPR

un’aderenza maggiore.

da 75 a 100 per cento.

Uno dei fattori associati alla non-aderenza sembra essere le-

Un’elevata aderenza al trattamento permette dunque, di ridurre

gato alle difficoltà pratiche nell’assunzione del bisfosfonato, in

significativamente la morbilità correlata con l’osteoporosi. Pur-

particolare alla percezione che i dosaggi siano troppo frequenti,

troppo, nella pratica clinica si assiste sovente a un fenomeno

che si debbano assumere troppe pillole. Un altro fattore che

di bassa compliance per questo tipo di trattamento, con conse-

scoraggia l’aderenza è la difficoltà a includere la terapia nella

guenze negative in termini di efficacia terapeutica (per esempio

routine quotidiana.

comparsa di fratture, invalidità ecc.). Una review sistematica che

Interessanti sono anche i risultati di un altro studio condotto

ha esaminato quindici studi, per un totale di 704.134 pazienti

l’anno scorso (12) negli Stati Uniti, che individua altri fattori

(per la maggior parte donne in menopausa in trattamento con

critici per l’aderenza alla terapia dell’osteoporosi. La scarsa co-

bisfosfonati) ha confermato che sia la persistenza che la compliance sono subottimali, e ciò determina un aumento del rischio di fratture (9). Un altro studio re-

Figura 1 Pazienti

trospettivo condotto a Liegi in Belgio (10) su un’ampia

persistenti in terapia con bisfosfonati a 12 mesi

100

popolazione di donne in trattamento con bisfosfonato ha riportato un basso tasso di persistenza in terapia a

80

I fattori che influenzano l’aderenza e la persistenza Una survey condotta in Inghilterra qualche anno fa (11) ha studiato i fattori correlati all’aderenza e alla persistenza nel trattamento con bisfosfonati, in un campione di più di 500 donne ultracinquantenni. Circa metà delle donne studiate in trattamento con bisfosfo-

Pazienti in terapia (%)

12 mesi, pari a 39,45 per cento. 60

58.5% N=90,107

40

39,0% N=12,592

Settimanale Giornaliero Estrapolazione

20 0 0

2

4

6

8

10

12 mese di studio

Fonte: Emkey RD, Ettinger M. Am J Med 2006; 119 (4A): 18S-24S

nati con somministrazione giornaliera o settimanale

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21


FARMACI Figura 2 La

riduzione della frequenza di somministrazione aumenta la compliance nel trattamento con bisfosfonati 100

Se queste raccomandazioni non vengono seguite “alla lettera” i bisfosfonati sono scarsamente assorbiti, e questo si traduce nella non efficacia del farmaco.

Pazienti con MPR ≥ 80% a 1 anno (%)

I dati di farmacocinetica e i dati teorici relativi al rimodellamento

Settimanale Giornaliero

osseo permettono di prevedere che la somministrazione gior-

80 60

naliera e quella settimanale avranno efficacia sovrapponibile, a Incremento del 15% (p≤0,0001)

Incremento del 13% (p<0,001)

Secondo altri dati, sembra che la somministrazione mensile di un bisfosfonato sia superiore in termini di incremento della

Incremento del 11% (p<0,05)

40

condizione che le dosi cumulative siano equivalenti.

BMD lombare. La somministrazione settimanale dei bisfosfonati è una pratica

20

molto comune. In effetti il protocollo di somministrazione settimanale ha aumentato la probabilità che la paziente persista

0 NDC Health1

IMS Mediplus2

IHCIS3

1. Recker RR et al. Mayo Clin Proc 2005; 80: 856-61; 2. Barti R et al. Osteoporosis Int 2005; 16 (Suppl. 3): S45 (Abstract P 195); 3. Cramer JA et al. Curr Med Res Opin 2005; 21: 1453-60. Fonte: Bianchi G. osteoporosi.it-numero 1, 2007

in terapia, riducendo la necessità di rispettare tutte le regole e le raccomandazioni relative al dosaggio, a una sola seduta settimanale (14) (Figura 1). Diverse esperienze dimostrano che il passaggio dall’assunzione giornaliera a quella settimanale comporta un significativo aumento della compliance (di circa 15 per cento di MPR)

(Figura 2) (5). noscenza della malattia (gravità e conseguenze cliniche), l’insod-

A dimostrazione dell’importanza della frequenza di somministra-

disfazione per la qualità della visita medica, gli effetti collaterali

zione nella genesi dei risultati, uno studio pubblicato di recente

e la difficoltà o incapacità di ricordare tutte le istruzioni relative

da Muratore e coll. ha confrontato due regimi di somministrazio-

all’assunzione dei farmaci, sono i fattori segnalati dal paziente

ne intramuscolare dello stesso bisfosfonato (100 mg settimanali

che interferiscono con l’aderenza alla terapia (8). Da parte loro,

e 200 mg bisettimanali di clodronato). Le donne trattate (n=60)

invece, i medici segnalano la scarsa informazione acquisita da

sono state seguite per 12 mesi. Al termine del follow-up i due

parte del paziente, le barriere strutturali, gli effetti collaterali e

protocolli hanno riportato risultati simili in termini di efficacia

l’impossibilità di “tracciare” l’aderenza del paziente.

(incremento della BMD lombare e femorale, riduzione di marker

Quali strategie per migliorare compliance e persistenza

di riassorbimento, riduzione del dolore). A confermare questi dati è stato uno studio successivo condotto da Frediani e coll. e pubblicato nel 2011, che ha analizzato gli effetti sulla BMD di clodronato 100 mg una volta a settimana rispetto a 200 mg ogni

I bisfosfonati sono i farmaci anti-riassorbitivi più potenti tra quelli

2 settimane in una popolazione di 60 donne di età compresa fra

disponibili. Il trattamento tuttavia, talora risulta piuttosto “impe-

50 e 80 anni, affette da osteoporosi post-menopausale (Figura

gnativo” e ciò può impattare negativamente sulla persistenza a

3). Lo studio ha dimostrato che l’aumento della BMD lombare

lungo termine in terapia. In particolare, i bisfosfonati orali devono

rispetto al basale risultava significativo per entrambi i gruppi di

essere assunti secondo le rigide raccomandazioni delle linee

trattamento sia a uno sia a due anni. La BMD del collo femorale

guida allo scopo di ottenere il massimo effetto e minimizzare

aumentava in entrambi i gruppi, ma mentre per il gruppo 100 mg

i rischi di eventi avversi (per esempio gastrointestinali) (14):

raggiungeva la significatività statistica rispetto al basale già al

❱ le pazienti non possono assumere cibi o bevande dai 30 ai

primo anno, per il gruppo trattato con 200 mg ogni 2 settimane

60 minuti prima di prendere il farmaco;

l’incremento raggiungeva una significatività statistica solo al

❱ la dose deve essere assunta solo con acqua;

secondo anno.

❱ è necessario che le pazienti rimangano in piedi per circa 30

Dopo aver dimostrato che iniezioni del farmaco “più diluite” nel

minuti dopo la somministrazione.

tempo con un dosaggio diverso (ma equivalente) danno pari

22

MEDICO E PAZIENTE

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efficacia, un dato interessante è quello relativo all’aderenza alla terapia. Nello studio condotto da Muratore e coll., 6 pazienti

Figura 3 Variazioni

della BMD lombare e femorale dopo 1 anno e dopo 2 anni di trattamento con clodronato 100 mg a settimana e 200 mgg ogni g 2 settimane

trattate con lo schema a somministrazione più frequente (settimanale) hanno interrotto l’assunzione del clodronato, mentre nessuna paziente del gruppo a somministrazione bisettimanale

Clodronato 100 mg una volta a settimana

ha interrotto il trattamento. Risulta quindi evidente che la somministrazione meno frequente di bisfosfonati migliora la compliance nere somministrazioni più diluite nel tempo. Naturalmente nelle somministrazioni più distanziate diventa ancora più importante la compliance per la terapia, in quanto saltare una somministrazione bisettimanale di bisfosfonato avrà conseguenze terapeutiche

Variazione dal basale (%)

e la persistenza in terapia, e che le pazienti preferiscono in ge-

4 3

nale o giornaliera del farmaco (14). ❱ la riduzione della frequenza di dosaggi di bisfosfonato produce miglioramenti incrementali della compliance e della persistenza ❱ la convenienza di dosaggi meno frequenti potrebbe essere

❱ anche la compliance delle pazienti più anziane con osteoporosi (che spesso presentano molteplici comorbilità e conseguente

3,9**

4 Variazione dal basale (%)

attivo (14);

Colonna lombare

Collo femorale

Clodronato 200 mg una volta ogni 2 settimane

in terapia (14);

di vista lavorativo o che comunque hanno uno stile di vita più

2,5*

2,3*

2

0

Possiamo concludere quindi che:

relativamente giovane, che sono ancora impegnate dal punto

2,8*

1 anno 2 anni

1

più significative che non saltare una somministrazione settima-

di particolare vantaggio per le pazienti in menopausa, di età

3,5**

3

1 anno 2 anni

2,7*

2,8* 1,9§

2 1

politerapia) viene incrementata sostanzialmente dalla ridotta frequenza di dosaggi (14); ❱ il legame particolare che si instaura tra le pazienti e il medico di famiglia (o il ginecologo o un altro specialista) promuove la comunicazione e la fiducia in relazione alle scelte che medico

0

Colonna lombare

Collo femorale

Note: *p<0,05; **p<0,01; §p=ns Fonte: modificato da Frediani, 2011

e paziente insieme attuano ai fini del corretto approccio al trattamento (14);

3. Santi I et al. G Gerontol 2010;58:110-16.

❱ dal momento che questi medici hanno con la paziente un rap-

4. Eakin MN. J Cyst Fibros 2011 July; 10(4): 258–64.

porto consolidato nel tempo, essi svolgono un ruolo critico nella

5. Bianchi G. osteoporosi.it - NUMERO 1 – 2007.

prevenzione e nel trattamento di patologie quali l’osteoporosi

6. Adachi J et al. BMC Muscoloskelet Disord 2007; 8: 97.

e delle sue complicanze invalidanti. Assicurando un regolare

7. Miselli V. G It Diabetol Metab 2011; 31: 121-4.

trattamento e un regolare follow up, questi medici possono

8. Siris ES et al. Mayo Clin Proc 2006; 81(8): 1013-22.

avere un impatto decisivo sulla salute a sulla qualità di vita a

9. Imaz I et al. Osteoporos Int 2010; 21: 1943–51.

lungo termine delle loro pazienti.

10. Rabenda V et al. Osteoporos Int 2008; 19: 811–18.

Bibliografia

11. Karr A J et al. Osteoporos lnt 2006 ; 17: 1638-44. 12. Iversen M et al. J Geriatr Phys Ther 2011; 34(2): 72–81.

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13. Lau E et al. Can Fam Physician 2008; 54: 394-402.

Vol XIII – n 2 – Marzo 2012.

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2006; Vol 119 (4A): 18S-24S.

MEDICO E PAZIENTE

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Daiichi-Sankyo

Fibrillazione atriale Nuovo agente anticoagulante orale in fase avanzata di sviluppo

A

l recente congresso dell’European Society of Cardiology (Monaco di Baviera, 25-29 agosto) particolare attenzione è stata dedicata alla gestione della fibrillazione atriale (FA), una condizione che insieme all’ipertensione rappresenta una delle grandi sfide per la ricerca dei prossimi anni. Nella gestione terapeutica della FA persistono tuttora alcuni punti critici, che condizionano l’aderenza al trattamento da parte del paziente. L’indagine EUPS-AF, che è stata condotta su 1.507 pazienti in diversi Paesi, tra cui l’Italia, ed è stata presentata nell’ambito di un simposio promosso da Daiichi-Sankyo, ha messo in evidenza come i pazienti sentano il bisogno di potenziare l’accesso ai medici curanti e di un miglioramento

della qualità della comunicazione con il medico riguardo al tipo di trattamento prescritto. Uno dei nodi da sciogliere sembra essere la complessità del trattamento, che condiziona fortemente l’aderenza. I limiti delle attuali terapie anticoagulanti impiegate per la prevenzione dell’ictus nei pazienti con FA a rischio, sono ben noti. Gli antagonisti della vitamina K, warfarin in primis, sono lo standard di trattamento, ma presentano effetti avversi e un management complesso, dato dall’interazione con farmaci e alimenti e da un range terapeutico molto stretto; vi è la necessità di ripetuti monitoraggi in modo da garantire un INR all’interno del range richiesto. Per superare questi gap, la ricerca negli ultimi anni si è orientata verso

lo sviluppo di anticoagulanti nuovi, tra cui rientra anche edoxaban, un inibitore orale, diretto e specifico del fattore Xa. Il farmaco è attualmente in fase avanzata di studio, con due importanti trial nella FA e nel tromboembolismo venoso ricorrente. Il trial di fase 3 ENGAGE AF-TIMI 48 è condotto in oltre 21mila pazienti con FA per stabilire l’efficacia e la sicurezza di edoxaban in monosomministrazione giornaliera (30 mg/die e 60 mg/die) vs. warfarin nella prevenzione di ictus ed embolia sistemica. Lo studio HokusaiVTE sta valutando l’efficacia/sicurezza di uno schema sperimentale eparina/edoxaban rispetto a quello standard eparina/ warfarin in pazienti con trombosi venosa profonda e/o embolia polmonare.

Nycomed

La colite ulcerosa, una patologia insidiosa che colpisce anche la psiche

U

na malattia con un forte impatto negativo sulla qualità di vita sia per i sintomi “organici” sia per le conseguenze psichiche, e per la quale i pazienti chiedono maggiori tutele sul lavoro e supporto psicologico. Questo è lo spaccato della colite ulcerosa (CU) che emerge da un’indagine, i cui risultati sono stati presentati in un recente incontro (10 ottobre, Milano). L’indagine “Cogli la Vita - La mia vita con la colite ulcerosa”, prima nel suo genere nel nostro Paese, ha coinvolto 858 pazienti e 31 Centri specialistici sul territorio nazionale ed è stata realizzata da DoxaPharma, in collaborazione con l’associazione AMICI Onlus. Oltre 60.000 persone sono affette da CU, per lo più in età giovane, e ogni anno sono circa 80

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Medico e paziente

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i nuovi casi diagnosticati per milione di abitanti. “Non vi è dubbio che vivere con questa malattia sia una sfida a seguito di una sintomatologia a volte continua e invalidante, una necessità di terapie giornaliere e modificabili nel tempo in aggiunta all’esecuzione di esami diagnostici da effettuare nel corso della vita”, ha sottolineato nel corso dell’incontro il prof. Francesco Pallone, dell’Università romana di Tor Vergata. “Questo ci deve spingere a prenderci cura non solo della malattia, ma del malato in quanto persona. I fattori di rischio della CU non sono ancora noti, rendendo difficile sia una diagnosi tempestiva, ma anche le riacutizzazione cliniche della stessa”. La diagnosi avviene con un ritardo di oltre

2 anni rispetto all’inizio dei sintomi. Se l’impatto fisico è noto, meno conosciute sono le conseguenze sulla sfera emotiva. I pazienti descrivono imbarazzo, timore, ansia, rabbia e frustrazione: un quadro che pesa sulla vita sociale, lavorativa e privata. Sul piano terapeutico, l’indagine ha messo in evidenza come il farmaco di riferimento per le fasi acute e croniche sia la mesalazina (assunta dall’80 per cento degli intervistati). Infine, i pazienti chiedono una maggiore sensibilizzazione sulla malattia a livello di istituzioni e di popolazione, come anche di incentivare il dialogo tra malati e di migliorare la capacità di ascolto da parte del medico di riferimento, che per oltre la metà dei pazienti è rappresentato dal MMG.


Abbott

Nuovo “device” per migliorare l’autogestione della terapia insulinica

È

disponibile anche nel nostro Paese un nuovo sistema per calcolare in modo semplice la dose di insulina rapida da assumere al pasto. FreeStyle InsuLinx è un dispositivo che potrà offrire un grande supporto per i diabetici nell’autocontrollo della terapia insulinica, e anche per il medico. Con un elevato grado di precisione, il device calcola la dose necessaria di insulina e apporta le eventuali correzioni alle unità da assumere, permettendo di personalizzare la terapia. Ogni paziente infatti, ha un piano di cura “tagliato” in base alle necessità; e InsuLinx risponde bene a questa esigenza: il medico può inserire impostazioni differenziate a seconda dei bisogni dell’utilizzatore. Nell’incotro di presentazione, che si è tenuto lo scorso 10 ottobre a Milano, il dottor Stefano Genovese, del Gruppo Multimedica di Milano, ha sottolineato come a dieci mesi dal lancio del dispositivo, sono stati osservati i primi risultati che sembrano indicare un migliore controllo glicemico, con minori ipoglicemie e una migliore gestione delle dosi di insulina. Raggiungere e garantire un buon controllo glicemico resta il modo migliore per ridurre il rischio delle complicanze croniche del diabete. Secondo alcuni recenti dati inoltre, un’attenta applicazione delle Linee guida in tema di autocontrollo comporta una riduzione del numero e della durata delle ospedalizzazioni, un miglioramento della qualità di vita del paziente, e un risparmio sui costi legati alla malattia. E in quest’ottica, FreeStyle InsuLinx facilitando il controllo da parte del paziente, potrà contribuire a migliorare la gestione della patologia nel suo complesso.

Leo Pharma

Una svolta nel trattamento della psoriasi lieve-moderata

I

l peso psicologico e sociale della psoriasi è oneroso; più della metà dei malati non si cura in modo costante, ma si rivolge allo specialista solo nel momento in cui i sintomi diventano “insopportabili”. I risultati derivano da un’indagine che è stata realizzata in Lombardia e che è stata presentata in occasione della campagna nazionale di sensibilizzazione “Che ne sai di psoriasi? Conoscerla per curarla”. Partita lo scorso 4 ottobre da Milano, l’iniziativa è promossa da ADIPSO con il supporto di Leo Pharma. La psoriasi ha un peso incisivo sulla qualità di vita sia per i sintomi correlati, sia per il trattamento particolarmente laborioso. I trattamenti topici convenzionali finora disponibili infatti, richiedono una lunga e complessa applicazione, più volte al giorno; le caratteristiche di untuosità e viscosità poi, costituiscono un ulteriore ostacolo alla vita di relazione. Ecco perché è importante segnalare la disponibilità di un trattamento innovativo, anche in formulazione gel, che potrebbe rivoluzionare la quotidianità e la qualità di vita dei pazienti con psoriasi lieve-moderata. Si tratta della combinazione, in un unico prodotto, di calcipotriolo (un derivato della vitamina D) e betametasone. Rispetto alle terapie topiche convenzionali (cortisonici, derivati del catrame, derivati della vitamina D ecc.) la combinazione esplica un’efficacia sinergica, e la monosomministrazione giornaliera permette di migliorare la compliance da parte del paziente. Il prodotto è disponibile come unguento per la psoriasi del corpo, e come gel per quella del cuoio capelluto, e il ciclo di terapia, in monosomministrazione giornaliera, ha una durata di 4-8 settimane.


Bayer HealthCare

Nathura

Melatonina “pulsatile” per un buon ritmo del sonno

U

n nuovo prodotto è disponibile per le persone che soffrono di disturbi del sonno. Si tratta di un integratore alimentare a base di melatonina a rilascio pulsatile (Armonia® Pulse 5 mg), sviluppato da Nathura. La corretta produzione endogena di melatonina contribuisce a favorire un sonno fisiologico e adeguato alle esigenze della persona. Vi sono però condizioni (invecchiamento, stress, esposizione ai campi elettromagnetici, assunzione di farmaci come, FANS e beta-bloccanti) che possono influire negativamente sulla sua secrezione notturna, provocando un’alterazione dei ritmi circadiani. Il risultato è un riflesso negativo sulla qualità del sonno, con difficoltà nell’addormentamento e/o fastidiosi risvegli notturni. Questo nuovo prodotto è una formulazione multifasica di melatonina, caratterizzata da un rilascio pulsatile: i primi 2 mg, rilasciati immediatamente, favoriscono l’addormentamento, 1 successivo mg viene rilasciato in modo ritardato e gli ultimi 2 mg garantiscono una buona durata e una migliore qualità del sonno durante tutta la notte. Analogamente agli altri prodotti della linea, Armonia® Pulse è melatonina con grado di purezza certificato, non inferiore al 99,9 per cento.

Un farmaco, tre indicazioni: i progressi della terapia

L

e Linee guida cliniche sul trattamento del tromboembolismo venoso, pubblicate recentemente dall’autorevole NICE britannico, raccomandano l’utilizzo di rivaroxaban (Xarelto, Bayer HealthCare) come unica terapia che permette un approccio con un solo farmaco orale sin dal primo giorno per il trattamento della trombosi venosa profonda (TVP) e nella prevenzione della TVP e dell’embolia polmonare (EP) dopo diagnosi di TVP acuta in pazienti adulti. Rivaroxaban è un inibitore selettivo del fattore Xa della coagulazione, ad assunzione orale, che non necessita di un monitoraggio costante dei parametri della coagulazione e non risente di interazioni con altri farmaci e alimenti, come avviene invece nel caso dei trattamenti tradizionali. Lo stesso ente britannico aveva raccomandato nel maggio scorso rivaroxaban per la prevenzione dell’ictus e dell’embolia sistemica periferica in pazienti adulti con FA non valvolare e uno o più fattori di rischio trombotico. Le due nuove indicazioni erano state approvate alla fine del 2011 nell’Unione europea, e si aggiungono a quella relativa alla prevenzione del tromboembolismo venoso in adulti sottoposti a sostituzione elettiva di anca o ginocchio.

Merck Serono

Come parlare delle biotecnologie: senza sensazionalismo e nel contesto

L

e biotecnologie applicate alla salute rappresentano una realtà importante e dalle numerose declinazioni, che richiede un’informazione corretta e attendibile. Si tratta infatti di un argomento estremamente delicato e difficile, implicato, tra le altre cose, nella ricerca di nuove e concrete modalità per la prevenzione, la diagnosi e la cura delle più gravi patologie. La comunicazione in questo campo è stata oggetto di un recente incontro tra giornalisti e scienziati, promosso da Merck Serono e organizzato per discutere delle principali difficoltà del rapporto tra i due mondi e che vanno poi a ripercuotersi negativamente sulla qualità delle notizie pubblicate. Entrambe le parti, per motivi diversi, sono soggette a errore. Le nuove possibilità offerte dalla ricerca in questo campo devono essere contestualizzate sia in ambito divulgativo che professionale per farne comprendere il vero significato, specie ora che le promesse dalle biotecnologie sempre più spesso troveranno un’attuazione reale. La stampa scientifica deve riuscire a trasmettere le informazioni utili senza tradire la loro natura e banalizzarne la complessità.

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Medico e paziente

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Abbott

Ibuprofene in studio nelle condizioni dolorose orofacciali

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eviazione o deflessione nel movimento di apertura e chiusura dell’articolazione temporomandibolare, dolori articolari o muscolari e rumori articolari: sono sintomi talvolta riferiti al proprio medico la cui presenza dovrebbe indirizzare verso una diagnosi ben precisa, quella di patia disfunzionale: una condizione più comune di quanto si possa pensare, ma spesso misconosciuta. L’obiettivo terapeutico per i pazienti con patie disfunzionali all’articolazione temporomandibolare è quello di diminuire il dolore articolare, l’infiammazione e qualsiasi dolore muscolare associato, con conseguente aumento della funzione e limitazione alla progressione della malattia e della disfunzione e morbilità associate. È attualmente in corso uno studio che si propone di verificare l’efficacia di una terapia complessa nel controllo del dolore delle patie disfunzionali. Lo studio è condotto all’Università di Milano su 100 pazienti (età 15-65 anni), sofferenti da almeno 6 mesi di patia disfunzionale e prevede l’uso combinato di un FANS, un miorilassante e un tranquillante. Fra i FANS impiegati vi è ibuprofene (Brufen), farmaco di cui sono largamente note l’efficacia analgesica e la sicurezza.


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