Medico e paziente 05 2013

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXIX n. 5 - 2013

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Fibrosi cistica dalla genetica le nuove frontiere della terapia Nefropatia cronica l’iperuricemia come fattore di rischio Polimialgia reumatica indicazioni sul percorso diagnostico e terapeutico Congressi le principali novità dal meeting ESC 2013

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

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CLINICA

DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

>s Domenico D’Amico

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Medico e paziente n. 5

in questo numero

sommario

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXIX n. 5 - 2013

FIBROSI CISTICA dalla genetica le nuove frontiere della terapia NEFROPATIA CRONICA l’iperuricemia come fattore di rischio POLIMIALGIA REUMATICA indicazioni sul percorso diagnostico e terapeutico CONGRESSI le principali novità dal meeting ESC 2013

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letti per voi

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Nefrologia L’iperuricemia come fattore di rischio per malattia renale cronica Evidenze cliniche ed epidemiologiche

L’aumento della nefropatia cronica e il suo impatto socioeconomico impongono una diagnosi tempestiva e l’avvio di una terapia mirata ai fattori di rischio, tra i quali è opportuno includere l’iperuricemia cronica

Alessandro Mantovani, Giovanni Targher

p 16 patologie metaboliche

La terapia insulinica nel diabete di tipo 2 Per quali pazienti e con quali modalità

In questo articolo, gli Autori analizzano il razionale e le evidenze scientifiche che supportano questo approccio terapeutico non solo in fase avanzata, ma anche in fase precoce di malattia, in considerazione anche delle future prospettive terapeutiche

Emanuela Setola, Lucilla D. Monti, PierMarco Piatti

p 24 reumatologia

POLIMIALGIA REUMATICA I criteri di classificazione proposti da EULAR e American College of Rheumatology

La polimialgia reumatica (PMR) è una malattia infiammatoria cronica a eziologia sconosciuta che colpisce

Medico e Paziente

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG)

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sommario

individui di oltre 50 anni, con un’età media di insorgenza intorno ai 73 anni. Studi statunitensi stimano un rischio di 2,43 per cento per le donne e di 1,66 per cento per gli uomini

Piera Parpaglioni

p 29

congressi

Meeting ESC - 31.08-4.09 - Amsterdam Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2012 - 31/12/2012 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.400 Certificazione CSST n° 2012-2333 del 27/02/2013 Società di revisione: REFIMI Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi)

I nuovi orizzonti della terapia ipolipemizzante all’attenzione dei Cardiologi europei

p 30

Farminforma

p 33 Notizie dal web

La carenza di vitamina D sembra essere di frequente riscontro nei soggetti con patologie neurologiche: i dati di uno studio italiano

Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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letti per voi PNEUMOLOGIA

UNA NUOVA ERA PER IL TRATTAMENTO DELLA FIBROSI CISTICA: LA CORREZIONE DEI DIFETTI DELLA PROTEINA CFTR £ La fibrosi cistica è causata dalla disfunzione o dal deficit della proteina CFTR (cystic fibrosis transmembrane conductance regulator), che ha un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi del liquido di superficie delle vie aeree (e delle secrezioni di numerosi apparati ghiandolari), mediante la sua funzione di canale del cloro e di regolazione del canale epiteliale del sodio ENaC. Sono state identificate oltre 1.900 mutazioni del gene CFTR che possono causare un malfunzionamento della proteina e risultare in uno dei fenotipi della fibrosi cistica. La conoscenza di queste mutazioni ha aperto una nuova epoca, con la ricerca di trattamenti progettati per

correggere il difetto della proteina CFTR determinato da mutazioni di classi differenti. Una revisione su Lancet Respiratory Medicine fa il punto della situazione. Sono state individuate sei classi di mutazioni in base al loro effetto sulla produzione, il trasporto, la funzione o la stabilità della proteina CFTR. Quelle della classe I comportano una proteina non funzionante e sono per lo più mutazioni non-sense che causano codoni di stop prematuro. Sono i difetti CFTR più difficili da trattare: le strade allo studio sono la terapia genica, oppure una strategia indirizzata ai codoni di stop prematuro che si avvale di un piccolo composto molecolare, ataluren,

attualmente in fase 3, ma con risultati da approfondire. Le mutazioni di classe II, le più comuni, impediscono il corretto trasporto della proteina dopo la sua produzione, con il risultato che solo minime quantità di CFTR funzionante raggiungono la membrana apicale delle cellule epiteliali. Nelle mutazioni di classe III e IV, la CFTR raggiunge la superficie cellulare, ma il canale proteico non funziona correttamente, rispettivamente a causa di un tempo di apertura insufficiente, oppure di una funzionalità ridotta anche a canale aperto. Nella classe V si ha una quantità insufficiente di CFTR normale sulla superficie cellulare e nella classe VI (rara) una diminuita stabilità della proteina matura sulla membrana cellulare. Tutte queste classi di mutazioni nel prossimo futuro potrebbero verosimilmente trarre vantaggio da un farmaco messo a punto per la classe III, ivacaftor, una piccola molecola che accresce il

£

Una campagna di informazione su più livelli, studiata per il contesto locale, a basso costo e di breve UNA CAMPAGNA DI INFORMAZIONE, LOCALE durata, può aiutare a ridurre in modo significativo la prescrizione di antibiotici. Lo dimostra sulle pagine del E A BASSO COSTO, PER RIDURRE LA BMJ uno studio condotto in Emilia Romagna. La campagna informativa comprendeva iniziative per sensibiPRESCRIZIONE DI ANTIBIOTICI: L’ESPERIENZA lizzare la popolazione sull’uso scorretto o inutile degli NELLE PROVINCE DI MODENA E DI PARMA antibiotici, attraverso poster, brochures e pubblicità sui media locali, più una newsletter inviata a medici e farmacisti sulla resistenza agli antibiotici nel territorio di pertinenza. L’intervento è stato attuato tra novembre 2011 e febbraio 2012 nelle province di Modena e di Parma (1 milione 150mila residenti), mentre le restanti province emiliano-romagnole (3 milioni 250mila residenti), non interessate dall’iniziativa, sono state impiegate come gruppo di controllo. I medici e i pediatri di base delle due province di intervento sono stati coinvolti nella messa a punto dei messaggi indirizzati alla popolazione, che erano focalizzati principalmente sull’uso inappropriato degli antibiotici in molte infezioni delle vie aeree superiori. Outcome primario era il cambiamento medio del tasso di prescrizione di antibiotici ai pazienti ambulatoriali nell’arco di cinque mesi, misurato in dosi giornaliere predefinite per 100mila abitanti/die. La prescrizione di antibiotici nell’area di intervento si è ridotta del 4,3 per cento su base bimestrale rispetto all’area di controllo (95 per cento CI, –7,1 a –1,5 per cento; P =0,008). La riduzione era maggiore per le penicilline betalattamasi resistenti (–13,5 per cento vs – 2,6 per cento) e minore per quelle betalattamasi sensibili (–4,7 vs –12,3 per cento), in linea con le indicazioni contenute nella newsletter inviata a medici e farmacisti. La riduzione della spesa per gli antibiotici (outcome secondario) non risultava statisticamente significativa nell’analisi su base bimestrale (analisi primaria), tuttavia assumeva significatività restringendo l’analisi a un mese o al medico prescrittore. Lo studio mostra che l’atteggiamento prescrittivo può essere modificato sia informando il medico sull’antibiotico-resistenza a livello locale, sia indirettamente informando la popolazione (in molti casi il medico pensa che il paziente si aspetti una prescrizione). Tuttavia l’indagine non ha dimostrato un cambiamento nelle conoscenze e nell’attitudine della popolazione verso il corretto impiego degli antibiotici, come effetto della campagna informativa. (p.p.)

PREVENZIONE

Formoso G, Paltrinieri B, Marata AM et al. BMJ 2013; 347: f5391

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letti per voi tempo di apertura del CFTR presente sulla superficie cellulare e in questo modo aumenta il flusso di cloruri attaverso il canale. FDA ed EMA hanno approvato il composto sulla base dei risultati dei trial di fase 3. Nelle mutazioni di classe II, le più frequenti, ivacaftor da solo non è tuttavia in grado di dare benefici clinici. Per questi pazienti sono allo studio due nuove piccole molecole, lumacaftor e VX-661, che aiuterebbero il trasporto di CFTR alla superficie cellulare, con ivacaftor che interverrebbe poi migliorando la funzione del canale. Vari altri correttori identificati inducono a pensare che esista il potenziale per agire sui difetti CFTR di tutte le classi, già a breve per le classi III e IV. Più tempo richiederanno invece i trattamenti per le mutazioni della classe I. (p.p.) Boyle MP, De Boeck K. Lancet Resp Med 2013; 1: 158-63

MALATTIE CARDIOVASCOLARI

QUATTRO IN UNO. LA COMBINAZIONE A DOSI FISSE DI UN ANTIAGGREGANTE, UNA STATINA E DUE AGENTI ANTIPERTENSIVI MIGLIORA L’ADERENZA A LUNGO TERMINE ALLA TERAPIA, LA PRESSIONE SISTOLICA E IL COLESTEROLO LDL £ Nei pazienti con diagnosi di malattia cardiovascolare (CVD) o a rischio elevato, una strategia di trattamento che impiega una combinazione a dosi fisse (FDC) invece dell’assunzione multipla di farmaci per tenere sotto controllo la pressione arteriosa, il colesterolo e l’aggregazione piastrinica, può migliorare in modo significativo l’aderenza a lungo termine alla terapia e i valori di due fattori di rischio come la pressione sistolica (PAS) e il colesterolo LDL. Sono i risultati riportati su

JAMA dello studio UMPIRE (Use of a Multidrug Pill in Reducing Cardiovascular Events), il primo a valutare per oltre un anno e in una popolazione ad alto rischio l’aderenza al trattamento e l’andamento dei parametri principali con una FDC rispetto alla terapia multipla tradizionale. Lo studio, condotto tra Europa e India, ha coinvolto oltre duemila pazienti con CVD o profilo di rischio elevato, metà dei quali trattati con la polipillola (aspirina 75 mg, simvastatina 40 mg,

£ Nella pratica clinica non è infrequente il riscontro di uomini con prostata di volume aumentato, ma con sintomatologia urinaria non rilevabile o minima. Questi soggetti PRIMO STUDIO SUL TRATTAMENTO sono generalmente esclusi dai trial clinici con inibitori DI UOMINI ASINTOMATICI CON PROSTATA della 5-alfa reduttasi. Lo studio REDUCE (Reduction by INGROSSATA. ANCHE IN QUESTI PAZIENTI Dutasteride of Prostate Cancer Events) è un ampio trial multinazionale prospettico e randomizzato che ha incluso DUTASTERIDE PREVIENE anche uomini asintomatici o con sintomatologia minima del tratto urinario inferiore. LA PROGRESSIONE CLINICA DELL’IPB I pazienti arruolati presentavano un punteggio dell’International Prostate Severity Scale (IPSS) <8 e un volume prostatico tra 40 e 80 ml all’ecografia transrettale iniziale, in assenza di precedente terapia per l’iperplasia prostatica benigna (IPB). Un’analisi post hoc a 4 anni ha confrontato il rischio di progressione clinica della patologia (definito come peggioramento ≥4 punti dell’IPSS, ritenzione urinaria acuta, infezione del tratto urinario o intervento chirurgico correlato all’ipertrofia prostatica) negli oltre 1.600 pazienti trattati random con dutasteride (0,5 mg/die) o placebo. Nell’arco di tempo considerato, un totale di 464 soggetti (29 per cento) ha manifestato una progressione clinica dell’IPB, 297 (36 per cento) nel gruppo placebo e 167 (21 per cento) nel gruppo dutasteride (P <0,001). Nei pazienti che hanno ricevuto il farmaco, la riduzione del rischio relativo è stata del 41 per cento e quella del rischio assoluto del 15 per cento, con un NNT (number needed to treat) di 7. All’analisi di regressione con aggiustamento per le covariabili, dutasteride ha ridotto significativamente la progressione clinica della malattia con un odds ratio di 0,47 (95 per cento CI 0,37-0,59; P <0,001) e l’analisi del tempo intercorso fino al primo evento ha dato un hazard ratio di 0,673 (P <0,001). Il profilo degli effetti sfavorevoli includeva disfunzione erettile, diminuzione della libido, del volume dell’eiaculato e ginecomastia. Questa analisi post hoc prospetta la questione se gli inibitori della 5-alfa reduttasi debbano essere presi in considerazione come trattamento preventivo nei pazienti con un aumento del volume della prostata e con sintomatologia assente o minima. (p.p.) urologia

Toren P, Margel D, Kulkarni G et al. BMJ 2013; 346: f2109

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lisinopril 10 mg, atenololo 50 mg) e metà con l’assunzione dei farmaci singoli (aspirina 75 mg, simvastatina 40 mg, lisinopril 10 mg e idroclorotiazide 12,5 mg o altro farmaco già in uso). Al basale i valori medi erano 137/78 mmHg per la PAS e 91,5 mg/dl per il colesterolo LDL; il 61,5 per cento dei partecipanti riferiva di essere già in trattamento con antiaggreganti, statine e due o più antipertensivi. Dopo un follow-up mediano di 15 mesi (range 12-18 mesi), l’aderenza alla terapia nel gruppo trattato con FDC risultava dell’86 per cento rispetto al 65 per cento con la terapia tradizionale (rischio relativo [RR] di mantenere l’aderenza, 1,33; 95 per cento CI, 1,261,41; P <0,001). Nel gruppo che assumeva la polipillola rispetto a quello di controllo si registravano alla fine dello studio riduzioni non ampie, ma statisticamente significative sia della PAS (–2,6 mmHg; 95 per cento CI, –4,0 a –1,1 mmHg; P <0,001) sia del colesterolo LDL (–4,2 mg/dl; 95 per cento CI, –6,6 a –1,9 mg/dl; P <0,001). Un netto miglioramento si riscontrava anche nel sottogruppo di partecipanti (circa un terzo del totale) che al basale risultava il meno aderente alle terapie già prescritte, per il quale alla fine dello studio l’aderenza era del 77 per cento con FDC vs. 23 per cento con schema tradizionale (RR 3,35; 95 per cento CI, 2,74-4,09; P <0,001 per interazione), la PAS si era ridotta in media di 4,9 mmHg (P =0,01 per interazione) e il colesterolo LDL di 6,7 mg/dl (P =0,11 per interazione). Non si riscontravano differenze significative per effetti sfavorevoli o eventi cardiovascolari tra i due gruppi (RR 1,45; 95 per cento CI, 0,94-2,24; P =0,09). Come notano gli Autori, la popolazione arruolata (motivata alla terapia) mostrava già al basale un livello di aderenza superiore a quello della popolazione generale. In pazienti non selezionati, i vantaggi della polipillola potrebbero essere anche maggiori. (p.p.)

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Nefrologia

L’iperuricemia come fattore di rischio per malattia renale cronica Evidenze cliniche ed epidemiologiche l’aumento della nefropatia cronica e il suo impatto socio-economico impongono una diagnosi tempestiva e l’avvio di una terapia mirata ai fattori di rischio, tra i quali è opportuno includere l’iperuricemia cronica

L

a malattia renale cronica (nota con l’abbreviazione inglese di CKD, chronic kidney disease) comprende uno spettro di differenti processi fisiopatologici associati a ridotta funzionalità renale e a progressivo declino del filtrato glomerulare renale (GFR) (1). Negli ultimi decenni, la prevalenza di CKD è progressivamente aumentata, raggiungendo proporzioni pressoché epidemiche, e rappresenta attualmente un problema di rilevante importanza clinica e socio-economica. Si stima che negli Stati Uniti la prevalenza della CKD nella popolazione generale adulta sia intorno all’11 per cento (2). Diversi studi epidemiologici hanno confermato un’elevata prevalenza di CKD anche nella popolazione europea e asiatica (1). È importante sottolineare che la maggior parte dei pazienti affetti da CKD sono pressoché asintomatici e progrediscono lentamente verso gli stadi più

Alessandro Mantovani, Giovanni Targher Sezione di Endocrinologia, Diabetologia e Metabolismo, Dipartimento di Medicina. Università e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, Verona

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MEDICO E PAZIENTE

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avanzati della malattia renale, mentre solo una piccola parte dei pazienti con CKD progredisce velocemente allo stadio terminale della malattia con conseguente necessità di trattamento dialitico cronico (1-3). È noto, tuttavia, che la presenza di CKD si associa a una ridotta qualità della vita e a un’aumentata mortalità e morbidità, soprattutto per cause cardiovascolari (1-3). Si stima che i pazienti in dialisi abbiano un rischio di morte che è circa 6-7 volte maggiore rispetto alla popolazione generale (1-3). Alla luce di questi dati è quindi essenziale, nella pratica clinica, porre una diagnosi precoce di CKD e attuare prontamente tutti quegli interventi terapeutici in grado di ridurne lo sviluppo e la progressione. A tale scopo è essenziale l’individuazione precoce e il trattamento aggressivo dei fattori di rischio tradizionali per CKD, quali l’ipertensione arteriosa, il diabete, l’obesità, la dislipidemia, il tabagismo e l’uso di farmaci potenzialmente nefrotossici. Tra i possibili fattori di rischio nuovi e potenzialmente modificabili per CKD, è stata recentemente inclusa anche l’iperuricemia cronica che sembra contribuire all’insorgenza e alla progressione di CKD.

L’iperuricemia è una condizione di frequente riscontro nella pratica clinica, raggiungendo una prevalenza attorno al 15-20 per cento nella popolazione generale adulta e una prevalenza ancora maggiore (>50 per cento) nei pazienti affetti da CKD (4,5). Per molti anni, l’iperuricemia asintomatica è stata considerata un’alterazione biochimica di scarsa rilevanza clinica, a meno che i suoi livelli non fossero particolarmente elevati (e solo in questi casi è stata trattata farmacologicamente). Attualmente invece vi è crescente evidenza di una significativa associazione fra livelli moderatamente elevati di uricemia e aumentato rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare sia nella popolazione generale che in pazienti a elevato rischio cardiovascolare (come i pazienti ipertesi, diabetici, dislipidemici e nefropatici) (4,5). Lo scopo di questa rassegna è quello di descrivere brevemente le recenti evidenze cliniche ed epidemiologiche che supportano un possibile ruolo dell’iperuricemia cronica nello sviluppo e nella progressione di CKD, e di analizzare i potenziali meccanismi fisiopatologici attraverso cui l’iperuricemia cronica potrebbe esercitare i suoi possibili effetti nefrotossici.

Cenni sul metabolismo dell’acido urico Nell’uomo l’acido urico rappresenta il prodotto finale del metabolismo delle purine (5). Le purine (adenina e guanina), assieme alle pirimidine, rivestono


Figura 1

Metabolismo dell’acido urico e principali siti d’intervento farmacologico Ribosio 5-fosfato Acidi nucleici

Acidi Nucleici PRPP

GMP Guanosina

HGPRT

IMP

AMP

Inosina

Adenosina

Ipoxantina Guanina Probenecid Benzbromarone Losartan Fenofibrato

Allopurinolo Flebuxostat

Xantina XO Acido urico

Le purine (adenina e guanina) derivano dagli acidi nucleici. L’enzima xantina ossidasi (XO) catalizza l’ossidazione dell’ipoxantina a xantina e della xantina ad acido urico. L’allopurinolo e il flebuxostat inibiscono entrambi la XO, mentre il probenecid e il benzbromarone aumentano l’escrezione urinaria di acido urico. Anche il losartan e il fenofibrato esercitano un modesto effetto uricosurico. un ruolo importante nella replicazione e trascrizione dei geni, nella produzione di energia cellulare (con sintesi dell’ATP), nella sintesi delle proteine e nel metabolismo cellulare. La Figura 1 mostra le principali tappe del metabolismo dell’acido urico nell’uomo e i principali siti in cui è possibile intervenire farmacologicamente. Le principali fonti di acido urico nel plasma sono rappresentate dalla sintesi endogena (circa 700 mg/die), dal catabolismo degli acidi nucleici (circa 100 mg/die) e dall’introito alimentare di purine (circa 200 mg/die). L’acido urico circola principalmente libero nel sangue (circa il 95-98 per cento), mentre è legato alle globuline per il 2-5 per cento. Anche se la sintesi e la degradazione dei nucleotidi purinici avviene in tutti i tessuti, l’acido urico nell’uomo viene prodotto nel fegato e nell’intestino (che sono i tessuti che contengono l’enzima xantina-ossidasi) e viene eliminato, per oltre i due terzi,

XO

Note: PRPP: fosforibosilpirofosfato; HGPRT: enzima ipoxantinaguanina fosforibosil transferasi; IMP: inosina monofosfato; GMP: guanosina monofosfato; AMP: adenosina monofosfato; XO: xantina ossidasi; APRT: adenina fosforibosiltransferasi. Fonte: modificato da Richette P et al. Gout. Lancet 2010; 375: 318-28.

dal rene (circa 700 mg/die) e per circa un terzo dall’intestino (circa 100-300 mg/die) (6). L’eliminazione a livello renale dell’acido urico avviene attraverso un sequenziale e complesso sistema di filtrazione glomerulare, riassorbimento e secrezione post-riassorbitiva a livello del tubulo prossimale attraverso specifici recettori di membrana (6). Approssimativamente solo l’8-10 per cento dell’acido urico filtrato dal glomerulo viene escreto nelle urine (6).

Principali quadri clinici dell’iperuricemia cronica L’iperuricemia è convenzionalmente definita come valori plasmatici di acido urico ≥6 mg/dl nella donna e ≥7 mg/dl nell’uomo. L’iperuricemia, come accennato in precedenza, è una condizione patologica che si riscontra frequentemente nella popolazione generale (15-20 per cento della popolazione generale

adulta in Italia risulta affetta da iperuricemia) e ancor più nei pazienti obesi, nei diabetici e in quelli affetti da CKD (4,5). L’iperuricemia viene classificata in primitiva (circa 20-30 per cento dei casi) o secondaria (circa 70-80 per cento dei casi), a seconda del fatto che dipenda da una patologia congenita o acquisita (6). Tra le principali patologie acquisite che si associano a elevati livelli di uricemia vanno senz’altro ricordate l’obesità, l’ipertensione arteriosa, il diabete tipo 2, la sindrome metabolica, la CKD, l’abuso alcolico, varie patologie ematologiche (anemie emolitiche e malattie mielo-proliferative) e l’uso di alcuni farmaci tra cui diuretici tiazidici e chemioterapici. Dal punto di vista fisiopatologico, l’iperuricemia è causata da un’aumentata sintesi, da una ridotta escrezione renale o da entrambe le cause. Nella maggior parte dei casi l’iperuricemia cronica rimane clinicamente asintomatica, mentre solo in una minoranza dei

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Nefrologia Tabella 1

Studi epidemiologici sulla relazione tra livelli moderatamente elevati di uricemia e rischio di CKD nella popolazione generale adulta Autore

Tipologia dello studio

Studio prospettico n=21.475 adulti sani Follow-up: 7 anni

Obermayr et al. J Am Soc Nephrol 2008; 19: 2407-13

End-point dello studio

Principali risultati

Incidenza di CKD (e-GFR <60)

Sia valori moderatamente elevati (7-8,9 mg/dl) che valori marcatamente elevati di acido urico (>9 mg/dl) erano indipendentemente associati ad aumentata incidenza di CKD: OR 1,26 (95% CI 1,02-1,5) e OR 1,63 (95% CI 1,2-2,3)

Incidenza di CKD (riduzione e-GFR ≥15 con e-GFR finale <60 o aumento della s-Cr ≥0,4 con s-Cr >1,4 nei maschi o ≥1,2 nelle femmine)

Valori elevati di acido urico erano associati a un rischio aumentato di CKD: OR 1,07 (95% CI 1,01-1,14) per ogni aumento di 1 mg/dl di acido urico

Weiner et al. J Am Soc Nephrol 2008; 19: 1204-11

Studio ARIC e CHS N =13.338 adulti Follow-up: 8,5 anni

Bellomo et al. Am J Kidney Dis. 2010; 56: 264-72

Studio prospettico N =900 adulti sani Follow-up: 5 anni

Riduzione e-GFR (>10)

Valori elevati di acido urico erano un fattore di rischio indipendente di riduzione e-GFR: HR 1,23 (95% CI 1,11,4); p =0,001

Sonoda et al. Am J Nephrol 2011; 33: 352-7

Studio prospettico N =7.078 adulti Follow-up: 4,5 anni

Incidenza di CKD (e-GFR <60)

Valori elevati di acido urico erano un fattore di rischio indipendente di aumentata incidenza di CKD: OR 1,1 (95% CI 1,01-1,2); p <0,05

Iseki et al. Am J Kidney Dis 2004; 44: 642-50

Studio prospettico N =48.177 adulti Follow-up: 7 anni

ESRD

Valori elevati di uricemia erano un fattore di rischio indipendente di ESRD nelle femmine: HR 5,8 (95% CI 2,3-14,4) con p <0,001

Madero et al. Am J Kidney Dis 2009; 53: 796-803

Studio MDRD N =840 adulti con CKD stadio 3e4 Follow-up: 10 anni

ESRD e mortalità

In CKD stadio 3 e 4, iperuricemia era significativamente associata ad aumentata mortalità totale e cardiovascolare, ma non era un fattore di rischio indipendente per ESRD: HR 1,02 (95% CI 0,97-1,1)

Chonchol et al. Am J Kidney Dis 2007; 50: 239-47

Studio CHS N =5.808 adulti Follow-up: 5 anni

Incidenza di CKD (e-GFR <60) o progressione di CKD (riduzione e-GFR ≥3/anno)

Valori elevati di acido urico erano significativamente associati ad aumentata progressione di CKD, ma non all’incidenza di CKD

Ishani et al. Hypertens Res 2001; 24: 691-7

Studio MRFIT N =12.866 adulti Follow-up: 25 anni

ESRD

Valori elevati di acido urico erano indipendemente associati ad aumentato rischio di ESRD: HR 1,16 (95% CI 1,04-1,29) con p <0,001 Valori elevati di acido urico erano un fattore di rischio indipendente per ESRD: HR 2,14 (95% CI 1,6-2,8) con p <0,0001

Hsu et al. Arch Intern Med 2009; 169: 342-50

Studio prospettico N =177.570 adulti Follow-up: 24,5 anni

ESRD

Mok et al. Nephrol Dial Transplant 2012; 27: 1831-5

The Severance cohort study in Korea N =14.939 adulti Follow-up: 10,2 anni

Incidenza di CKD (e-GFR <60)

Valori elevati di acido urico erano un fattore di rischio indipendente per CKD nei maschi: HR 2,1 (95% CI 1,6-2,9) con p <0,0001

Note: GFR ed e-GFR vengono espressi in ml/min/1,73 m2; CKD: malattia renale cronica; ESRD: malattia renale in stadio finale; HR: hazard ratio; OR: odds ratio. Fonte: adattata da Jalal D et al. Uric acid as a target of therapy in CKD. Am J Kidney Dis 2013; 61: 134-46.

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Tabella 2

Studi epidemiologici sulla relazione tra livelli moderatamente elvati di acido urico e rischio di CKD nella popolazione diabetica Autore

Tipologia dello studio

End-point dello studio

Zoppini et al. Diabetes Care 2012; 35: 99-104

Verona DM Study N =1.449 diabetici tipo 2 con normale e-GFR Follow-up medio: 5 anni

Incidenza di CKD (e-GFR<60 e/o proteinuria)

Ficociello et al. Diabetes Care 2010; 33: 1337-43

Second Joslin Kidney Study N =355 diabetici tipo 1 Follow-up medio: 6 anni

Riduzione precoce di e-GFR (definita come una riduzione di e-GFR >3,3% per anno)

Il rischio di riduzione precoce di e-GFR aumentava progressivamente per ogni categoria crescente di acido urico

Studio retrospettivo N =270 diabetici tipo 2 anziani con CKD stadio 3-4 Follow-up: 8 anni

Progressione della CKD (riduzione di e-GFR >2% per anno)

Valori elevati di acido urico erano indipendente associati a più rapida progressione di CKD: OR 1,2 (95% CI 1,1-1,4) con p =0,01

Hovind et al. Diabetes 2009; 58: 1668-71

Studio prospettico osservazionale N =263 diabetici tipo 1 Follow-up: 18 anni

Incidenza di micro- e/o macroalbuminuria

Valori elevati di acido urico erano indipendentemente associati allo sviluppo di macroalbuminuria: HR 2,9 (95% CI 1,2-6,8) per ciascun aumento di 100-umol/l di acido urico, p =0,013

Jalal et al. Nephrol Dial Transplant 2010; 25: 1865-9

Coronary Artery Calcification in T1DM Study. N =324 diabetici tipo 1 Follow-up: 6 anni.

Incidenza di micro- e/o macroalbuminuria

Valori elevati di acido urico erano indipendentemente associati ad aumentato rischio di microalbuminuria e/o macroalbuminuria: OR 1,8 (95% CI 1,2-2,8) per ciascun incremento di 1 mg/dl di acido urico, p <0,005

Altemtam et al. Nephrol Dial Transplant 2012; 27: 1847-54

Principali risultati Valori elevati di acido urico erano indipendentemente associati ad aumentata incidenza di CKD: OR 2,1 (95% CI 1,2–3,7) con p <0,001

Note: GFR ed e-GFR vengono espressi in ml/min/1,73 m2; HR: hazard ratio; OR: odds ratio. Fonte: adattata da Jalal D et al. Uric acid as a target of therapy in CKD. Am J Kidney Dis 2013; 61: 134-46

casi si associa a manifestazioni cliniche tipiche della gotta, che si manifesta con l’artrite acuta ricorrente (frequentemente a carico dell’articolazione metatarsofalangea dell’alluce), la comparsa di tofi e complicanze renali, come la nefrolitiasi da aumentata formazione di calcoli di acido urico, la nefropatia cronica interstiziale da urati (una rara complicanza dovuta a una deposizione di cristalli di urato monosodico nell’interstizio renale) e la nefropatia acuta ostruttiva (una rara forma di insufficienza renale acuta caratterizzata dal deposito massivo di cristalli di acido urico nei nei tubuli renali) (6).

Iperuricemia cronica e CKD: dati epidemiologici Benchè lo stretto legame dell’iperuricemia con i fattori di rischio cardiovascolare e renale classici (quali obesità, ipertensione arteriosa, diabete e dislipidemia) renda difficile chiarire un possibile

ruolo causale dell’iperuricemia cronica nello sviluppo e nella progressione di CKD, negli ultimi anni diversi Autori hanno valutato l’associazione tra valori moderatamente elevati di uricemia e rischio di CKD in diverse popolazioni (3). Anche se i dati disponibili in letteratura non sono del tutto concordi, la maggior parte di tali studi ha documentato una significativa associazione fra iperuricemia cronica e aumentato rischio di sviluppo e progressione di CKD sia nella popolazione generale (Tabella 1) che nei pazienti affetti da diabete mellito (Tabella 2); tale associazione sembra essere indipendente dai principali fattori di rischio cardio-renali concomitanti (incluso, tra gli altri, obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia e diabete). Per esempio, in un ampio studio prospettico che ha coinvolto oltre 21.000 soggetti sani seguiti per un periodo di 7 anni, Obermayr e coll. hanno osservato che l’iperuricemia si associava a un’aumentata incidenza di

CKD (definita come valori di e-GFR <60 ml/min/1,73 m2), indipendetemente da età, sesso, circonferenza vita, glicemia, profilo lipidico e pressione arteriosa (Tabella 1). Analogamente, Weiner e coll. analizzando 13.338 partecipanti dell’Atherosclerosis Risk in Communities e Cardiovascular Health Study, che erano seguiti per un follow-up medio di 8,5 anni, hanno documentato che livelli moderatamente elevati di acido urico erano indipendentemente associati a un’aumentata incidenza di CKD. Nella coorte di 12.866 partecipanti dello studio MRFIT, Ishani e coll. hanno dimostrato che livelli elevati di acido urico erano associati a un aumentato rischio di sviluppare CKD terminale-dialitica (ESRD) durante un follow-up di 25 anni, indipendentemente da età, razza, diabete, fumo, indice di massa corporea (BMI), pressione arteriosa, glicemia, profilo lipidico, proteinuria, ematocrito ed e-GFR. Analogamente, Hsu e coll., analizzando oltre 177.000

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Nefrologia Figura 2

Possibili meccanismi attraverso cui l’iperuricemia cronica è in grado di determinare danno renale

↓ GFR

↑ Acido urico

Disfunzione endoteliale

Infiammazione

↓ NO ↑ endotelina-1

↑ TNF-alfa ↑ NF-kB ↑ MCP-1 ↑ PKC

Diabete mellito Insulino resistenza Obesità Ipertensione arteriosa Dieta

Stress ossidativo

Attivazione del RAAS

↓ NA(D)PH ossidasi

↑ anione superossido

Danno renale L’iperuricemia è frequente nei pazienti con sindrome metabolica, diabete tipo 2 e CKD. Valori elevati di uricemia potrebbero causare danno renale o peggiorare una funzionalità renale già compromessa, attraverso vari meccanismi tra cui l’induzione di disfunzione endoteliale, stato infiammatorio cronico, aumentato rilascio di radicali liberi dell’ossigeno e attivazione pazienti per un periodo di circa 24 anni, hanno osservato che valori elevati di acido urico erano un fattore di rischio indipendente di ESRD. Analoghi risultati sono stati riscontrati nei pazienti affetti da diabete (Tabella 2). Nell’ampia coorte di diabetici tipo 2 del Verona Diabetes Study, il nostro gruppo di ricerca ha documentato che livelli moderatamente elevati di uricemia si associavano a un’aumentata incidenza di CKD durante un follow-up di 5 anni, indipendentemente da età, sesso, BMI, fumo, durata del diabete, compenso glicemico, terapia insulinica, albuminuria, pressione arteriosa e terapia antipertensiva. Simili risultati si sono osservati anche nei pazienti affetti da diabete tipo 1. Hovind e coll. studiando 263 diabetici tipo 1 per un periodo di 18 anni hanno osservato che livelli moderatamente elevati di acido urico erano indipendentemente associati a un aumentato rischio di sviluppare macroal-

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del sistema renina-angiotensina-aldosterone. Note: GFR: filtrato glomerulare; NO: ossido nitrico; TNF-alfa: tumor necrosis factor-alpha; NF-kB: fattore nucleare-kB; MCP-1: proteina chemiotattica monocitaria-1; PKC: proteina chinasi C; RAAS: sistema renina angiotensina aldosterone. Fonte: modificato da Jalal D et al. Uric acid as a target of therapy in CKD. Am J Kidney Dis 2013; 61: 134-46.

buminuria. Analogamente, in una coorte di 324 diabetici tipo 1 che erano seguiti per un periodo di 6 anni, Jalal e coll. hanno documentato che valori moderatamente aumentati di uricemia si associavano a un rischio elevato di sviluppare sia microalbuminuria che macroalbuminuria, indipendentemente dall’età, sesso, durata del diabete, BMI, circonferenza vita, pressione arteriosa, fumo, compenso glicemico, profilo lipidico, creatininemia e uso di ACE-inibitori/sartani. Un’estesa e più approfondita rassegna di tutti gli studi della letteratura che hanno valutato la relazione tra iperuricemia cronica e aumentato rischio di sviluppo e progressione di CKD è stata recentemente pubblicata dal nostro gruppo (3).

Iperuricemia cronica e danno renale: dati sperimentali I meccanismi fisiopatologici attraverso

cui l’iperuricemia cronica potrebbe contribuire all’insorgenza e alla progressione di CKD non sono ancora del tutto chiariti (3). Tuttavia, un crescente numero di studi sperimentali suggerisce che livelli moderatamente elevati di acido urico sarebbero in grado di determinare un danno renale attraverso molteplici meccanismi, tra cui: (a) disfunzione endoteliale con deplezione di ossido nitrico (NO), (b) induzione di uno stato infiammatorio cronico, (c) aumentato stress ossidativo sistemico, (d) attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) (3). Studi condotti in vitro e su animali hanno, per esempio, dimostrato che l’acido urico è in grado di ridurre il rilascio di NO da parte delle cellule endoteliali e di promuovere la produzione di endotelina-1 e l’attivazione del RAAS con conseguente disfunzione endoteliale e danno


renale. L’attivazione del RAAS potrebbe inoltre determinare ipertensione arteriosa sistemica e ipertensione glomerulare, favorendo così un’aumentata fibrogenesi a livello del glomerulo e dell’interstizio renale (4,5). Un tale meccanismo di danno indotto dall’iperuricemia è stato documentato anche in alcuni studi condotti nell’uomo. Altri dati hanno dimostrato un possibile ruolo proinfiammatorio dell’acido urico attraverso l’attivazione di molteplici fattori di trascrizione, tra cui il fattore di trascrizione nucleare-kB (NF-kB), di citochine e chemochine proinfiammatorie, come il tumor necrosis factor (TNF),

l’interleuchina 1, la proteina chemiotattica monocitaria (MCP-1) e l’attivazione di alcune chinasi, tra cui la proteina chinasi C (PKC). Oltre all’attivazione di questi molteplici meccanismi proinfiammatori, l’iperuricemia può anche contribuire a un’aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno (4,5). Nella Figura 2 sono schematicamente riportati i principali meccanismi attraverso cui elevati livelli di acido urico possono contribuire allo sviluppo e alla progressione del danno renale. Tali meccanismi sono gli stessi di quelli che sono potenzialmente implicati anche

nella patogenesi del danno cardiovascolare indotto dall’iperuricemia cronica (5).

Trattamento dell’iperuricemia cronica nella CKD: trial clinici di intervento È noto dai risultati di diversi trials clinici che il trattamento farmacologico dell’iperuricemia con allopurinolo è in grado di migliorare la vasodilatazione endoteliomediata a livello dell’avambraccio e di ridurre la pressione arteriosa e i livelli circolanti di diversi marcatori di stress ossidativo in vari gruppi di pazienti con

Tabella 3

Trials clinici di intervento dell’iperuricemia asintomatica in pazienti con CKD Autore

Tipologia dello studio

End-point dello studio

Goicoechea et al. Clin J Am Soc Nephrol 2010; 5: 1388-93

Trial clinico randomizzato. N =113 pz. con iperuricemia e CKD lieve-moderata. Randomizzazione ad allopurinolo (100 mg/die) o placebo Follow-up: 2 anni

Progressione della CKD (definita come una riduzione di e-GFR >0,2/mese), eventi cardiovascolari, ospedalizzazione e/o morte

Nel gruppo di controllo e-GFR si era ridotto di 3,3 ± 1,2 ml/min/1,73m2, mentre nel gruppo in trattamento e-GFR era aumentato di 1,3 ±1,3ml/min/1,73m2 (p =0,01)

Siu et al. Am J Kidney Dis 2006; 47: 51-59

Trial clinico randomizzato. N = 54. pz iperuricemici con CKD lieve-moderata Randomizzazione ad allopurinolo (100-300 mg/die) o placebo Follow-up: 1 anno

Riduzione della funzionalità renale con s-Cr ≥40% rispetto al baseline, inizio della dialisi e/o morte

Nessuna differenza significativa sulla riduzione dei valori di s-Cr tra i due gruppi (p =0,08). Il 16% dei pz. del gruppo in trattamento aveva raggiunto gli altri 2 end-point dello studio vs. il 46% dei pz. del gruppo di controllo (p =0,01)

Kanbay et al. Int Urol Nephrol 2007; 39: 1227-33

Studio caso-controllo N =59 pz. iperuricemici con e-GFR >60 vs. 21 pz. normouricemici. Pz. iperuricemici erano trattati con allopurinolo (300 mg/die) Follow-up: 3 mesi

e-GFR <60

Nel gruppo trattato si era osservato un significativo aumento di e-GFR (da 79 ±32 a 93±37, p <0,01), una riduzione significativa della pressione arteriosa e dei livelli di proteina C-reattiva. Nessuna modifica significativa si era osservata nel gruppo di controllo

Progressione della CKD (definita come raddoppio della s-Cr e/o ESRD)

Losartan aveva ridotto i valori sierici di acido urico di 0,16 mg/dl vs. il placebo (p =0,03). Si era osservata una riduzione del 6% del rischio di progressione del danno renale per ogni decremento di 0,5 mg/dl dei valori di acido urico dopo trattamento

Miao et al. Hypertension 2011; 58: 2-7

Talaat e el-Sheikh Am J Nephrol 2007; 27: 435-40

RENAAL trial N =1.342 diabetici tipo 2 con nefropatia diabetica. Analisi post hoc dei primi 6 mesi di trattamento con losartan (100 mg/die) Follow-up: 6 mesi Trial clinico di intervento dopo sospensione di allopurinolo N =50 pz. iperuricemici con CKD stadio 3-4 Follow-up: 12 mesi dopo sospensione di allopurinolo

Variazione di e-GFR e TGF-ß1 urinario

Principali risultati

Aumento significativo del tasso di perdita di e-GFR e incremento significativo della pressione arteriosa e di TGF-βß1 urinario solo nei pz. non trattati con ACE-inibitori

Note: GFR ed e-GFR sono espressi in ml/min/1,73 m2; RENAAL: Reduction of Endpoints in Non-Insulin-Dependent Diabetes Mellitus With the Angiotensin II Antagonist Losartan; s-Cr: creatinina sierica; TGF-βß1: transforming growth factor-βß1. Fonte: adattata da Jalal D et al. Uric acid as a target of therapy in CKD. Am J Kidney Dis 2013; 61: 134-46.

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Nefrologia e senza iperuricemia (5). Come riportato in dettaglio nella Tabella 3, alcuni investigatori hanno specificatamente valutato il potenziale effetto benefico del trattamento farmacologico con allopurinolo dell’iperuricemia cronica sull’insorgenza e sulla progressione di CKD. In uno studio caso-controllo condotto su 59 pazienti con iperuricemia asintoma-

Riteniamo molto importante che i Medici di medicina generale e i diversi specialisti coinvolti siano a conoscenza della stretta associazione esistente tra livelli moderatamente elevati di uricemia e aumentato rischio di CKD. La diagnosi di CKD dovrebbe essere tempestiva, e il trattamento precoce e mirato ai diversi fattori di rischio tica e normale funzione renale, Kanbay e collaboratori hanno dimostrato una significativa riduzione della pressione arteriosa e un significativo incremento dell’e-GFR dopo trattamento per 3 mesi con allopurinolo (300 mg/die). Goicoechea e collaboratori hanno condotto un trial clinico randomizzato su 113 pazienti con iperuricemia asintomatica e CKD, che erano randomizzati a terapia con allopurinolo (100 mg/die) o placebo. Dopo 2 anni di trattamento, l’eGFR era aumentato di 1,3 ml/min/1,73 m2 nel gruppo in trattamento mentre si era ridotto di 3,3 ml/min/1,73 m2 nel gruppo di controllo. In un altro trial clinico randomizzato, Siu e collaboratori hanno confrontato 54 pazienti con iperuricemia e CKD che erano trattati con allopurinolo (100-300 mg/die) o con placebo. Dopo 12 mesi di trattamento, i pazienti che assumevano allopurinolo avevano un minor rischio di morte e una minore necessità di trattamento dialitico rispetto al gruppo trattato con placebo. Recentemente, un’analisi post-hoc dello

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studio RENAAL ha suggerito un possibile ruolo nefroprotettivo della riduzione dell’uricemia con losartan nei diabetici tipo 2 con CKD. In questo studio infatti, si è osservata una riduzione di circa il 6 per cento del rischio di progressione di CKD per ogni riduzione di 0,5 mg/dl dei valori di acido urico, durante un periodo di trattamento di 6 mesi con losartan 100 mg/die. Un altro trial clinico ha invece valutato l’effetto della sospensione per 12 mesi della terapia con allopurinolo sulla funzionalità renale in 50 pazienti iperuricemici con CKD, osservando una riduzione dell’e-GFR e un incremento della pressione arteriosa dopo la sospensione dell’allopurinolo nel sottogruppo di pazienti che non assumevano inibitori del RAAS al baseline. Nonostante questi piccoli trial clinici suggeriscano un ruolo potenzialmente benefico del trattamento con allopurinolo dell’iperuricemia cronica nel ridurre il rischio di sviluppo e progressione di CKD, sono tuttavia necessari ulteriori e più ampi studi clinici randomizzati e controllati per concludere in maniera definitiva che il trattamento farmacologico dell’iperuricemia possa significativamente ridurre il rischio di CKD.

Conclusioni Diverse evidenze sperimentali suggeriscono che livelli moderatamente elevati di uricemia possono causare disfunzione endoteliale, infiammazione cronica, aumentato stress ossidativo e attivazione del RAAS. È logico supporre che tutte queste alterazioni, potenzialmente implicate anche nel danno cardiovascolare indotto dall’iperuricemia, possano contribuire all’insorgenza e alla progressione di CKD. In linea con questi dati, un sempre più crescente numero di studi epidemiologici ha recentemente documentato che livelli moderatamente elevati di uricemia si associano significativamente a un’aumentato sviluppo e progressione di CKD sia nella popolazione generale che in quella affetta da diabete mellito (Tabella 1 e 2). Tale associazione sembra essere indi-

pendente da molteplici fattori di rischio cardio-renale, suggerendo che l’iperuricemia non sia un semplice “marker”, ma possa svolgere un possibile ruolo causale nella patogenesi e nella progressione del danno renale. Alcuni piccoli trials clinici hanno, in parte, avvalorato tale ipotesi, suggerendo che il trattamento con allopurinolo dell’iperuricemia cronica sia in grado di ritardare l’insorgenza e la progressione della CKD (Tabella 3). Certamente sono necessari ulteriori dati clinici e sperimentali per avvalorare in maniera definitiva un ruolo causale dell’iperuricemia cronica nello sviluppo e nella progressione della CKD. Tuttavia, riteniamo che sia molto importante che i Medici di medicina generale e i diversi specialisti (tra cui nefrologi, diabetologi, cardiologi e internisti) siano a conoscenza della stretta associazione esistente fra livelli moderatamente elevati di uricemia e aumentato rischio di CKD. In considerazione del progressivo incremento della CKD e delle sue notevoli implicazioni socio-sanitarie, è essenziale che il medico ponga una diagnosi tempestiva di CKD e avvii un trattamento precoce e mirato di tutti i fattori di rischio per malattia renale cronica. Tra questi, sulla base delle attuali evidenze, riteniamo sia opportuno prendere in considerazione anche l’iperuricemia cronica.

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Patologie metaboliche

La terapia insulinica nel diabete di tipo 2 Per quali pazienti e con quali modalità Nonostante il trattamento insulinico determini un effettivo miglioramento del controllo glicemico nei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2, a oggi questo importantissimo approccio terapeutico rimane non completamente accettato sia da parte dei medici che dei pazienti, timorosi di un maggior rischio di ipoglicemie e di un incremento di peso. Questo dato contrasta con le Linee guida attuali, che propongono nei soggetti diabetici non adeguatamente controllati dal trattamento con metformina o ipoglicemizzanti orali, di intraprendere il trattamento con insulina basale e qualora il compenso glicemico non sia arrivato a target, di introdurre il trattamento insulinico prima dei pasti. Di seguito si vuole analizzare il razionale e le evidenze scientifiche che supportano questo approccio terapeutico non solo in fase avanzata, ma anche in fase precoce di malattia, in considerazione anche delle future prospettive terapeutiche

Emanuela Setola1, Lucilla D. Monti2, PierMarco Piatti1 Istituto Scientifico San Raffaele, 1. Unità Cardio-Metabolismo e Trials Clinici, Dipartimento di Medicina Interna e Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari; 2. Unità Cardio-Diabete e Core Lab., Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari, Milano

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l diabete mellito rappresenta un problema di salute pubblica che interessa un numero sempre maggiore di persone per la frequenza di comorbidità che si associano a questa malattia, quali la patologia cardiovascolare, l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia e l’obesità. Il numero di persone coinvolte da questa patologia a livello mondiale continua ad aumentare a un ritmo preoccupante, tanto che l’International Diabetes Federation prevede che l’incidenza globale di diabete aumenterà da 366 milioni di persone attualmente previsti a 552 milioni nel 2030, con un particolare coinvolgimento delle nazioni in via di sviluppo (1). La causa dell’aumentata incidenza del diabete è multifattoriale: i fattori più evidenti sono la dieta e lo stile di vita con una sempre più crescente riduzione dell’attività fisica che accompagnano l’occidentalizzazione, ma varianze genetiche, cure inadeguate prenatali o malnutrizione infantile che predispongono all’obesità o al diabete, additivi alimentari e tossine ambientali sono tutti possibili fattori di rischio. Inoltre, studi epidemiologici hanno dimostrato che le persone con diabete di tipo 2 (DMT2) presentano una maggiore incidenza rispetto alla popolazione generale di numerosi problemi di salute gravi, soprattutto legati alla comparsa di eventi cardiovascolari, quali angina pectoris, infarto del miocardio, ictus, vasculopatia arteriosa agli arti inferiori, ma anche insufficienza renale, dialisi, retinopatia diabetica, maculopatia diabetica e cecità. Non sorprende, quindi, che la minaccia mondiale rappresentata dal diabete di tipo 2 sia vista come una vera pandemia. Si può evincere da questi dati che impo-


Storia naturale del diabete di tipo 2 Diminuzione della secrezione insulinica, incremento dell’insulino-resistenza, iperglicemia postprandiale precoce, seguita da iperglicemia a digiuno

Glicemia (mg/dl)

Deterioramento della funzione ß-cellulare e trattamento insulinico

Figura 1

Funzione Beta-cellulare relativa (%)

stare degli interventi terapeutici precoci finalizzati a raggiungere e mantenere un adeguato controllo glicemico è di fondamentale importanza, con l’obiettivo di ottenere benefici nel lungo periodo in termini di riduzione delle complicanze sia microvascolari sia macrovascolari.

350 300 250 200 150

Diagnosi

Glicemia postprandiale Glicemia a digiuno

100 50 250

Insulino-resistenza

200

150 Bisogna considerare che già alLivelli di insulina 100 la diagnosi di diabete mellito di 50 Insufficienza Beta-cellulare tipo 2 si può riscontrare una ri0 duzione sia della massa che della Obesità IGT Diabete Iperglicemia funzione β-cellulare, che si stima non controllata essere intorno al 50 per cento. Evidenze Questo dato è stato evidenziato cliniche Modifiche microvascolari diversi anni orsono dallo studio Anni UKPDS (2), che definiva come -10 -5 0 5 10 15 20 25 30 il progressivo deterioramento della funzione β-cellulare è un Fonte: modificata da Kruger DF. The Diabetes Educator 2012; 38: Suppl. 1 (3) fattore decisivo per la comparsa dell’iperglicemia caratteristica del diabete mellito (Figura 1) (3). La glucosio nei diversi tessuti e al suo effetto tro è in grado non solo di migliorare la riduzione della funzionalità β-cellulare anti-lipolitico potenzialmente è in grado secrezione insulinica, ma anche di ridurre probabilmente inizia circa 10-12 andi ridurre l’esposizione della β-cellula lo stato d’insulino-resistenza presente in ni prima della diagnosi di diabete ed all’iperglicemia e agli effetti dannosi degli questi soggetti. è aggravata dall’incremento stesso dei acidi grassi liberi. livelli di glicemia (4). Si ritiene pertanto Diversi studi suggeriscono che alcune Quando iniziare e come che la perdita della funzione β-cellulare terapie farmacologiche potrebbero prevegestire la terapia insulinica: presenti un ruolo determinante affinché nire o ritardare il declino della β-cellula, trattamento precoce o si manifesti la perdita della prima fase di e, tra queste, la terapia insulinica precotardivo? secrezione insulinica con conseguente ce sembra aver mostrato risultati molto iperglicemia postprandiale. promettenti. Li et al. (6) hanno evidenSe quindi il DMT2 è causato da una reDiversi fattori sono coinvolti nel deterziato come la terapia insulinica intensiva lativa o assoluta ridotta secrezione insuminare la progressiva perdita di funzione somministrata per un breve periodo in linica, il trattamento insulinico dovrebbe della β-cellula come la glucotossicità, la lipazienti affetti da DMT2 di recentissima essere considerato la sua terapia naturale potossicità, la presenza di elevati livelli di diagnosi migliora a lungo termine la funsin dall’inizio. Attualmente il momento citochine pro-infiammatorie e di alcune zione β-cellulare. Weng et al. (7) hanno più indicato per l’inizio della terapia inadipochine quali la leptina, e la deposizioin seguito confermato questi dati in un sulinica rispetto alle altre terapie ipogline di sostanza amiloide (5). L’alterazione ampio numero di soggetti, definendo che cemizzanti è ancora un argomento molto della funzione e la riduzione della massa la terapia insulinica intensiva precoce in dibattuto. Pur tenendo conto che da un delle β-cellule sembrano essere reversipazienti con DMT2 porta a una remissiolato la terapia con insulina permette di bili, in particolare nelle fasi precoci della ne e a un migliore recupero della funzioraggiungere i risultati migliori in termini malattia, quando la soglia dell’irreversibine β-cellulare rispetto al trattamento con di controllo glicemico, dall’altro l’inizio lità del processo di danneggiamento della farmaci ipoglicemizzanti orali. Hu et al. della terapia insulinica stessa richiede β-cellula non è stata ancora oltrepassa(8) hanno infine evidenziato che la teraun maggiore impiego di risorse, tempo e ta. In particolare l’insulina grazie al suo pia insulinica intensiva a breve termine sforzi sia da parte del personale sanitario effetto favorevole sull’utilizzazione del nei pazienti con DMT2 di nuovo risconche da parte del paziente, se confrontata

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Patologie metaboliche Figura 2

Sintesi delle raccomandazioni ADA/EASD QUANDO LE MODIFICHE SULLO STILE DI VITA ASSOCIATE A METFORMINA O A OAD NON SONO Più SUFFICIENTI A RAGGIUNGERE IL CONTROLLO GLICEMICO, INIZIARE A OTTIMIZZARE IL TRATTAMENTO INSULINICO • Proseguire l’ottimizzazione dello stile di vita • Monitorare le glicemie capillari • Effettuare la titration dell’analogo insulinico a lento rilascio sino a ottenere una FPG <110 mg/dl Se la glicemia a digiuno è a target, ma l’HbA1c è >7 % dopo tre mesi

INTRODURRE UN BOLO DI INSULINA AL PASTO (APPROCCIO BASAL/BOLUS) • Richiedi al paziente di registrare per tre giorni la glicemia postprandiale a ogni pasto • Identifica il pasto che determina la maggiore iperglicemia e calcola la glicemia media dei 3 giorni • Imposta il trattamento insulinico al pasto fino a ottenere una glicemia postprandiale <180 mg/dl Se dopo tre mesi l’HbA1c è >7%

INTRODURRE UN SECONDO BOLO DI INSULINA AL PASTO • Inserisci una seconda insulina ai pasti in base all’escursione della glicemia postprandiale • Mantieni la glicemia a digiuno <110 mg/dl eventualmente modificando l’insulina basale Se dopo tre mesi l’HbA1c è >7%

INTRODURRE UN TERZO BOLO DI INSULINA AL PASTO • Inserisci la terza insulina ai pasti in base all’escursione della glicemia postprandiale • Mantieni la glicemia a digiuno <110 mg/dl eventualmente modificando l’insulina basale Se dopo tre mesi l’HbA1c è >7%

SE IL CONTROLLO GLICEMICO IN REGIME BASAL-BOLUS è ANCORA INADEGUATO Rivaluta: • Dieta ed esercizio fisico • La compliance nel monitoraggio glicemico domiciliare • La compliance nelle iniezioni di insulina e nell’assunzione della terapia orale • Le dosi di insulina e la modalità di somministrazione Fonte: modificata da Owens DR. Diabet Med 2012 (10)

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con i farmaci ipoglicemizzanti orali. Inoltre subentrano problematiche sia legate ai possibili effetti collaterali associati al trattamento insulinico (principalmente ipoglicemia e incremento ponderale) che alla difficoltà di accettazione da parte del paziente del trattamento per via iniettiva, motivazioni che negli anni hanno portato i clinici a procrastinare il trattamento insulinico nelle fasi avanzate di malattia. Le attuali Linee guida ADA/EASD (9) suggeriscono il trattamento insulinico basale sia all’esordio di malattia sia in aggiunta a metformina dopo il fallimento del trattamento con la sola metformina (Figura 2) (10). In una recente metanalisi, Fonseca et al. (11), valutando i costi e i benefici di iniziare il trattamento insulinico in una fase precoce di malattia, hanno mostrato che aggiungere un analogo insulinico lento s.c. a pazienti da poco tempo diagnosticati per la comparsa di DMT2 e in terapia con un solo farmaco ipoglicemizzante, determinava una maggiore riduzione dell’emoglobina glicata (HbA1c) e una minore incidenza di episodi ipoglicemici rispetto all’aggiunta dell’analogo lento, a pazienti diabetici di più lunga durata e in terapia con due farmaci ipoglicemizzanti orali. Questi dati suggeriscono che alcuni pazienti DMT2 potrebbero trarre beneficio da un inizio della terapia insulinica più precoce rispetto a quanto accade ancora nella pratica clinica. Nel dibattito attuale s’inserisce lo studio ORIGIN (12) che si era posto un obiettivo ancora più ambizioso, ossia comprendere in pazienti ad alto rischio cardiovascolare con differenti gradi di alterazione del metabolismo glucidico (alterata glicemia a digiuno, intolleranza ai carboidrati, nuova diagnosi di diabete mellito di tipo 2 e diabetici di tipo 2 già noti in trattamento con massimo un ipoglicemizzante orale), se il trattamento con insulina glargine (analogo lento) rispetto al trattamento standard potesse determinare una remissione o un ritardo dell’iperglicemia e delle sue complicanze in particolare quelle cardiovascolari, con un follow up di 7 anni. Questo studio definiva che il trattamento con insulina glargine in fase precoce di malattia


Figura 3

Algoritmo terapeutico e complessità di trattamento

Pazienti non in trattamento insulinico

Numero Complessità di iniezioni del trattamento

Solo insulina basale

1

bassa

2

media

3+

alta

(di solito associata a metformina o ipoglicemizzanti orali)

Insulina basale +1 iniezione di analogo ultrarapido al pasto

Insulina premiscelata due volte al giorno

Insulina basale + ≥2 iniezioni di analogo ultrarapido ai pasti

Più flessibile

Meno flessibile

Flessibilità

Fonte: modificata da Owens DR. Diabet Med 2012 (10)

non influenza gli eventi cardiovascolari e le neoplasie mentre determina una riduzione dell’incidenza di DMT2 nei pazienti con alterata glicemia a digiuno o intolleranza ai carboidrati. Questi risultati però hanno determinato un incremento degli episodi ipoglicemici e un modesto incremento di peso nei pazienti in terapia con insulina glargine (12). Pertanto per il paziente già affetto da diabete, non sembra esserci una reale controindicazione nell’introdurre l’insulina in fase precoce, mentre potrebbe avere un fondamento l’utilizzo del trattamento insulinico nel prevenire il diabete (13). Lo scenario attuale prevede che al paziente con inadeguato controllo glicemico in trattamento ipoglicemizzante orale sia associato un trattamento con insulina a

lunga durata d’azione con l’obiettivo in primis di ottenere una normalizzazione dei livelli di glicemia a digiuno (intorno ai 110-120 mg/dl) e in associazione una riduzione dei livelli glicemici nelle 24 ore (sia pre- che postprandiali). Diversi studi hanno dimostrato che la terapia insulinica con analogo basale è semplice e sicura e ha una buona probabilità di portare il paziente a ottenere un buon compenso glicemico (HbA1c <7 per cento) (14). Un approccio successivo è rappresentato dagli analoghi premiscelati a colazione e a cena. Il razionale di quest’approccio è che in tal modo si riesce a trattare sia la glicemia pre- che postprandiale; infatti, diminuendo i livelli di glicemia postprandiali si dovrebbe diminuire il ruolo aterogeno di quest’ultima (15).

Diversi trial di confronto tra le insuline premiscelate e l’insulina basale associata o meno a ipoglicemizzanti orali hanno evidenziato un’efficacia similare nel miglioramento del controllo glicemico a scapito però di un aumentato numero di eventi ipoglicemici e di un incremento di peso da parte degli analoghi premiscelati (16, 17). Similari risultati sono stati riscontrati nello studio APOLLO, che valutava l’efficacia dell’approccio con insulina analogo ultrarapida lispro ai pasti in confronto a insulina glargine (18). Holman et al. (19) hanno studiato come iniziare ed eventualmente intensificare il trattamento insulinico. Questi Autori hanno valutato pazienti non responsivi al trattamento con metformina e sulfaniluree, che venivano randomizzati ad ana-

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Patologie metaboliche Tabella 1

Effetto metabolico e rischi di ipoglicemia: confronto tra insulina glargine (IGlar) e insulina degludec (IDeg) in pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 e 2 Trattamento e tipo di pazienti studiati

HbA1c

Glicemia a digiuno

Episodi di ipoglicemia notturna

Durata dello studio

Birkeland, 2011 (33)

IDeg (600 μM) +ASP vs IDeg (900 μM) +ASP vs IGlar +ASP Pazienti affetti da DMT1

=

=

⇓ 58 % ⇓ 29 %

16 settimane

Heller, 2012 (34)

IDeg +ASP vs IGlar +ASP Pazienti affetti da DMT1

=

=

⇓ 25 %

52 settimane

Garber, 2012 (32)

IDeg +ASP vs IGlar +ASP Pazienti affetti da DMT2

=

=

⇓ 25%

52 settimane

Zinman, 2012 (35)

IDeg +OAD vs IGlar+OAD Pazienti affetti da DMT2

=

=

⇓ 36%

52 settimane

Autore

logo rapido pre-prandiale vs una singola iniezione di insulina basale (in questo caso insulina detemir) vs due iniezioni di insulina premiscelata per un anno, al termine del quale a chi non aveva raggiunto il target terapeutico veniva intensificata la terapia (rispettivamente prandiali/basale vs basale/prandiali vs 3 iniezioni di premiscelata) e venivano poi seguiti per altri due anni. Tutti i regimi di trattamento intensivo permettevano il raggiungimento del target terapeutico, ma i pazienti del gruppo basale/prandiali presentavano minori eventi ipoglicemici e minore incremento ponderale; pertanto gli Autori suggerivano che l’approccio più utile in questi pazienti è quello di impostare prima l’insulina basale alla quale associare in caso di necessità gli analoghi rapidi ai pasti (19). Analogo suggerimento si evince anche dalle Linee guida ADA/EASD che propongono un approccio a steps, iniziando il trattamento con analogo basale e poi associando gli analoghi ai pasti (Figura 3) (10). La possibilità di impiegare un dispositivo d’infusione insulinica continua (microinfusore) nel paziente affetto da DMT2 ha aumentato le possibilità terapeutiche che possono essere utilizzate in questi pazienti. Studi di confronto con l’approccio

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insulinico intensivo (basal/bolus) hanno evidenziato una non inferiorità del trattamento con microinfusore senza individuare beneficio in termini di ipoglicemie. Rimane quindi controversa la sua utilizzazione in questi pazienti anche se gli Autori riportano un alto grado di accettabilità del microinfusore da parte dei pazienti inseriti negli studi (20).

Effetti collaterali del trattamento insulinico Nonostante i benefici della terapia insulinica sovra menzionati, bisogna tener conto che quando il paziente affetto da DMT2 intraprende il trattamento insulinico è esposto più frequentemente ad alcuni effetti collaterali, quali l’ipoglicemia e l’incremento di peso. L’ipoglicemia è una complicanza frequente e, raramente, fatale della terapia con insulina, e rappresenta il principale ostacolo al raggiungimento in sicurezza della glicemia ottimale, con importanti ricadute sulla qualità di vita. Il rischio di ipoglicemia aumenta all’intensificare del trattamento insulinico e all’introduzione dell’insulina ai pasti. Inoltre una più lunga durata di malattia espone i pazienti con DMT2 a un maggiore rischio di ipogli-

cemia (simile a quello dei pazienti con diabete di tipo 1). Negli ultimi anni sono stati oggetto di fervida discussione tre grandi trials volti a dimostrare il beneficio di uno stretto controllo glicemico nel DMT2 sugli eventi cardiovascolari (21); questi studi hanno evidenziato che a causa dell’aumento degli episodi ipoglicemici, in particolare in alcuni sottogruppi di pazienti (lunga durata di malattia, presenza di complicanze, comorbidità), si perde il beneficio stesso dato dal controllo glicemico. Una recente rivalutazione dello studio ADVANCE ha mostrato che c’è una correlazione positiva nel diminuire gli eventi macrovascolari per una HbA1c di 7,0 per cento e per gli eventi microvascolari pari a 6,5 per cento; al di sotto di questi livelli non si evidenziano ulteriori benefici (22). La variabilità nell’assorbimento e nella durata di azione, e le diverse cinetiche di azione delle preparazioni insuliniche possono contribuire all’ipoglicemia. Pertanto, la ricerca continua a dirigersi verso formulazioni insuliniche basali con un profilo di azione prolungato, senza picco, stabile, ripetibile, quindi con ridotto rischio di ipoglicemia (23). È noto che la terapia insulinica è associata inoltre con l’incremento di peso.


Fattori implicati nell’aumento di peso dovuto all’insulina sono le interazioni tra il migliorato controllo glicemico e una diminuzione della glicosuria, la soppressione della produzione di glucosio epatico, effetti anabolici dovuti all’aumentata deposizione di grasso, e una maggiore assunzione di cibo da spuntino difensivo per prevenire l’ipoglicemia. Tuttavia, il grado di incremento di peso può variare in base al tipo di insulina utilizzata. Quando aggiunta alla terapia con farmaci orali, infatti, l’insulina detemir, in singola o doppia somministrazione giornaliera, determina minore incremento di peso rispetto a insulina glargine, a parità di controllo glicemico (24). Si è evidenziato che l’insulina glargine ha una maggiore attività metabolica e una più lunga durata di azione rispetto a detemir, sia nei pazienti con DMT1 che nei pazienti con DMT2, mentre quest’ultima presenta una minore variabilità intra-individuale e un minor effetto antilipolitico rispetto all’insulina glargine (25). La riduzione della variabilità inter-individuale dell’insulina detemir rispetto all’insulina glargine è stata anche confermata dallo studio eseguito da Klein et al. (26) in pazienti affetti da DMT2. L’approccio attualmente in via di sviluppo per contrastare l’incremento di peso è l’associazione tra insulina e i GLP-1 analoghi (27,28).

Trattamenti insulinici del futuro Una nuova insulina basale è in via di sviluppo, un nuovo analogo insulinico ad attività prolungata, l’insulina degludec, che ha un meccanismo di prolungamento della sua azione particolare poiché in presenza di fenolo e zinco forma un diesamero solubile e stabile, ma dopo l’iniezione per effetto di diluizione del fenolo, la struttura si riorganizza per formare catene di multi-esameri che rimangono depositate per lungo tempo nel sito di iniezione. In seguito, con la progressiva diffusione dello zinco, queste catene si disassemblano in maniera progressiva per rilasciare monomeri dalle estremità dei multi-esameri (29); di conseguenza

questa insulina ha una durata di azione ipoglicemizzante di oltre 42 ore, e quindi raggiunge uno “steady state” con monosomministrazione giornaliera e con un profilo farmacocinetico e farmacodinamico stabile (30). I risultati clinici ottenuti hanno mostrato una maggiore flessibilità di dosaggio e un ridotto rischio di ipoglicemia notturna rispetto alle altre insuline basali (31). Uno studio clinico controllato di fase 3 (32) ha recentemente mostrato che, in pazienti con DMT2, il controllo glicemico e i livelli di HbA1c dopo terapia insulinica basal-bolus effettuata con insulina degludec non sono inferiori al risultato ottenuto con insulina glargine, determinando altresì una netta riduzione degli episodi ipoglicemici, soprattutto notturni (-25 per cento). Risultati analoghi sono stati ottenuti anche in pazienti affetti da DMT1 (Tabella 1) (33,34).

Conclusione In conclusione, la terapia insulinica è un caposaldo del trattamento del DMT2 anche in fase precoce. Nonostante sia ampiamente condivisa dalle Linee guida internazionali, i medici e i pazienti con DMT2 sono spesso restii a iniziare la terapia con insulina, che viene, quindi, ritardata anche di anni rispetto a quanto sarebbe invece più appropriato. Questo atteggiamento è determinato sicuramente da alcuni pregiudizi da parte del paziente (dolore per l’iniezione sottocute, minore libertà nella gestione dei pasti) che la terapia insulinica s.c. attuale ha però risolto, e da alcune problematiche non ancora risolte, legate soprattutto alla paura da parte dei pazienti e dei medici stessi per la possibilità che, con questa terapia, si possano incrementare il numero e la gravità degli episodi ipoglicemici e si possa verificare un moderato aumento di peso. Pertanto sembra interessante pensare a un approccio associato tra insuline a più lunga durata d’azione e più costanti, quali analoghi insulinici ad azione lenta e gli analoghi del GLP-1 che potrebbero contrastare contemporaneamente l’incremento delle ipoglicemie e ponderale.

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La terapia insulinica è un caposaldo del trattamento del DMT2 anche in fase precoce. I medici e i pazienti sono spesso restii a iniziare la terapia con insulina che viene, quindi, ritardata anche di anni. Tale atteggiamento è determinato da alcuni pregiudizi da parte del paziente che la terapia s.c. attuale ha risolto, e da problematiche non ancora risolte legate alla paura di pazienti e medici per la possibilità di aumento del numero degli episodi ipoglicemici, e del peso Nutr Metab & Cardiovasc Disease 2012; 22:1007-12 14. Giugliano D, Maiorino MI, Bellastella G et al. Treatment regimens with insulin analogues and haemoglobin A1c target of <7% in type 2 diabetes: a systematic review. Diabetes Res Clin Pract 2011; 92: 1-10 15. O’Keefe JH, Bell DS. Postprandial hyperglycemia/hyperlipidaemia (postprandial dysmetabolism) is a cardiovascular risk factor. Am J Cardiol 2007; 100: 899-904 16. Raskin P, Allen E, Hollander P et al. Initiating insulin therapy in type 2 diabetes: a comparison of biphasic and basal insulin analogs. Diabetes Care 2005; 28: 260-5

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POLIMIALGIA REUMATICA I criteri di classificazione proposti da EULAR e American College of Rheumatology La polimialgia reumatica (PMR) è una malattia infiammatoria cronica a eziologia sconosciuta che colpisce individui di oltre 50 anni, con un’età media di insorgenza intorno ai 73 anni (1). Studi statunitensi stimano (2) un rischio di 2,43 per cento per le donne e di 1,66 per cento per gli uomini

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’incidenza della PMR aumenta con l’età e varia a seconda dell’area geografica. Più elevata nei Paesi scandinavi e del Nord Europa (in Norvegia, 112,6 per 100.000 individui di età ≥ 50 anni), decresce procedendo verso sud: in Italia e in Spagna va da 12,7 a 18,7 per 100.000 persone oltre i 50 anni (1).

La complessità della diagnosi La PMR rappresenta spesso una sfida diagnostica per il medico di Medicina generale e lo specialista reumatologo. I sintomi classici, il dolore e la rigidità delle articolazioni prossimali (cingolo scapolo-omerale e pelvico), possono essere comuni a molte altre patologie. Un terzo dei pazienti presenta sintomi sistemici (febbre, anoressia, perdita di peso) e molti manifestano anche sintomi muscolo-scheletrici distali. Una sindrome polimialgica può accompagnare vari disordini reumatologici, neoplasie e infezioni (1,3). La diagnosi differenziale vede in causa in primo luogo varie forme

a cura di Piera Parpaglioni

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di artrite infiammatoria, quali per esempio spondiloartriti e artrite reumatoide (AR) (Tabella 1). La malattia è caratterizzata da un aumento dei marker dell’infiammazione, tuttavia non esistono esami di laboratorio specifici. La risposta alla terapia corticosteroidea è stata spesso utilizzata come criterio per definire questa affezione, nonostante siano molte le condizioni che migliorano se trattate con antinfiammatori potenti. L’eterogeneità del decorso e la non specificità dei parametri clinici possono accrescere le difficoltà di gestione della PMR. Inoltre, la mancanza di criteri di classificazione standard ha rappresentato fino a oggi un ostacolo per lo sviluppo di approcci terapeutici mirati e la valutazione dei pazienti negli studi clinici. Per superare queste difficoltà, un gruppo di lavoro nato da un’iniziativa congiunta di European League Against Rheumatism (EULAR) e American College of Rheumatology (ACR) ha elaborato nel 2012 i criteri di classificazione per la PMR (4). Come specificano gli Autori, tali criteri hanno un valore esclusivamente classificatorio e non sono proposti ai fini diagnostici; sono definiti “provvisori” perché suscettibili di ulteriori valutazioni e modifiche, e saranno utili

per la selezione dei pazienti da arruolare nei trial clinici su nuovi trattamenti per la PMR e per effettuare studi a lungo termine su coorti omogenee di pazienti (4,5).

Il processo di definizione dei criteri classificativi L’accordo sui nuovi parametri classificatori ha richiesto tre passaggi. Nel primo, un gruppo di 27 esperti internazionali ha assegnato in modo anonimo un punteggio a 68 potenziali criteri, identificati attraverso una revisione sistematica della letteratura. Sulla base di questi primi risultati, gli esperti hanno di nuovo dato un punteggio a ciascun criterio e infine, nella terza fase, i criteri con un consenso superiore al 50 per cento sono stati valutati da una più ampia platea composta da 111 reumatologi e 53 non reumatologi, europei e nord-americani. In questo terzo round, un nucleo di sette criteri (che avevano avuto tutti un consenso del 100 per cento nella fase due) ha ottenuto oltre il 70 per cento di consensi da parte degli specialisti: w l’età ≥50 anni, w una durata dei sintomi di 2 o più settimane, w il dolore bilaterale alla spalla e/o all’anca, w una durata della rigidità mattutina superiore a 45 minuti, w l’elevata velocità di eritrosedimentazione (VES), w l’aumento della proteina C-reattiva (CRP), w una rapida risposta ai corticosteroidi. Hanno ricevuto un consenso elevato anche la valutazione del dolore e della limitazione funzionale della spalla (84


per cento) e/o dell’anca (76 per cento). L’accordo era invece basso sulla valutazione di segni periferici quali sindrome del tunnel carpale, tenosinovite, artrite periferica e altri. Gli esperti hanno inoltre concordato sulla necessità di effettuare uno studio prospettico con pazienti arruolati sulla base del dolore e della rigidità delle articolazioni prossimali, sottoposti a trattamento corticosteroideo standard e valutati per oltre 6 mesi, come anche sulla valutazione ecografica muscolo-scheletrica come parte dei criteri di classificazione della PMR. Può essere utile considerare le premesse poste dal gruppo di lavoro EULAR/ACR allo studio clinico effettuato per valutare i criteri classificativi appena messi a punto. 1) I pazienti che presentano una sindrome polimialgica dovrebbero ricevere una diagnosi per step successivi, basata su criteri di inclusione e di esclusione (Figura 1), sulla risposta al trattamento corticosteroideo standard e su un followup di conferma. 2) La risposta alla terapia corticosteroidea standard rientra tra i criteri di classificazione della PMR. Come si valuta questa risposta? Dovrebbe essere una risposta globale superiore al 75 per cento, entro 7 giorni di trattamento con 15 mg/die per os di prednisone o di prednisolone, con la risoluzione conseguente degli indici di infiammazione. 3) Il dolore bilaterale di nuova insorgenza alla spalla è stato adottato come criterio di selezione principale. I pazienti con PMR che si presentano con dolore all’anca e senza dolore alla spalla sono infatti un’esigua minoranza (<5 per cento), e il dolore all’anca riguarda uno spettro di condizioni assai ampio. 4) L’ecografia muscolo-scheletrica rientra fra i criteri di classificazione della PMR, ed è stata valutata in un sotto-studio apposito.

Il punteggio assegnato ai criteri Il trial ha valutato in un arco di tempo di oltre 6 mesi 125 pazienti con PMR di nuova insorgenza e 169 controlli nonPMR, ma con varie condizioni cliniche che simulavano una sindrome polimialgica,

reclutati in dieci Paesi europei e negli Stati Uniti. Tutti avevano più di 50 anni e un dolore bilaterale di nuova insorgenza alla spalla, non trattato con corticosteroidi. La terapia con prednisone orale è stata iniziata durante lo studio secondo il seguente protocollo: 15 mg/die nelle prime due settimane, 12,5 mg/die la terza e la quarta settimana, 10 mg/die nelle settimane dalla 6° alla 11°, 10 o 7,5 mg/die nelle settimane 12°-15°, 7,5 mg/die dalla 16° alla 25° settimana e a seguire, con aggiustamenti opportuni in base alla risposta. I pazienti sono stati valutati al basale e a 1, 4, 12 e 26 settimane. Un sistema di punteggio è stato sviluppato sulla base della rigidità mattutina >45 minuti (2 punti), del dolore/limitazione funzionale dell’anca (1 punto), dell’assenza di fattore reumatoide (RF) e/o di anticorpi anti-peptidi citrullinati (ACPA) (2 punti), e dell’assenza di dolore alle articolazioni periferiche (1 punto) (Tabella 2). Lo studio ha mostrato che un punteggio ≥4 aveva una sensibilità del 68 per cento e una specificità del 78 per cento nel distinguere i soggetti di controllo da quelli con PMR. La specificità era maggiore (88 per cento) nel discriminare tra disordini della spalla e PMR, e minore (65 per cento) nel distinguere tra AR e PMR. In totale, 40 soggetti con PMR (32 per cento) e 38 controlli (22 per cento) sono stati classificati in modo non corretto. Il valore predittivo positivo risultava del 69 per cento e il valore predittivo negativo del 77 per cento. Con l’aggiunta dell’indagine ecografica (Tabella 2), un punteggio ≥5 mostrava una sensibilità del 66 per cento e una specificità dell’81 per cento nel discriminare i controlli dai casi di PMR. La specificità risultava maggiore (89 per cento) nella distinzione tra disordini della spalla e PMR, e più bassa (70 per cento) nella distinzione tra AR e PMR. Hanno ricevuto una classificazione non corretta 41 pazienti con PMR (34 per cento) e 30 controlli (19 per cento). Il valore predittivo positivo in questo caso era del 72 per cento e quello negativo del 75 per cento. Sulla base di questi risultati, sono state tratte le conclusioni riportate nel paragrafo successivo.

Tabella 1

Diagnosi differenziale nei pazienti che presentano una sindrome polimialgica Malattie reumatologiche • Polimialgia reumatica • Artrite reumatoide • Spondiloartropatie • Artrite da cristalli (di pirofosfato di calcio e di idrossiapatite) • Sindrome RS3PE (Remitting seronegative symmetric synovitis with pitting edema) o malattia di Mc Carty • Malattie del tessuto connettivo • Vasculiti (arterite a cellule giganti di Horton, vasculite associata ad anticorpi citoplasmatici antineutrofili) • Miopatie infiammatorie (dermatomiosite, polimiosite)

Disordini muscolo-scheletrici non infiammatori • Disordini della cuffia dei rotatori • Capsulite adesiva • Malattia articolare degenerativa • Fibromialgia

Endocrinopatie • Malattie della tiroide • Disordini delle paratiroidi Infezioni • Virali • Sepsi batterica, endocardite, infezione dello spazio discale, artrite settica • Micobatteriosi, es. tubercolosi

Tumori maligni • Solidi, ematologici

Miscellanea • Parkinsonismi • Depressione • Ipovitaminosi D • Miopatia indotta da farmaci, es. da statine Fonte: Kermani TA, Warrington KJ. Lancet 2013; 381: 63-72

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reumatologia Figura 1

L’approccio alla diagnosi e al trattamento della polimialgia reumatica secondo le Linee guida BSR/BHPR

Step 1 Inclusione

Dolore bilaterale alla spalla e/o al cingolo pelvico Rigidità articolare mattutina > 45 min. Insorgenza improvvisa Età >50 anni Durata > 2 settimane Indici di infiammazione acuta (VES/CRP aumentate)

Step 2 Esclusione Esami di laboratorio prima della terapia steroidea: • Emocromo con formula • VES • CRP • Ematocrito • Urea ed elettroliti • Indici epatici • Calcio, fosfatasi alcalina • Elettroforesi proteica/proteina di Bence Jones • TSH • CPK • Fattore reumatoide • Anticorpi anti-nucleo (ANA) • Rx torace (casi con sintomatologia sistemica prevalente) • Analisi delle urine

Neoplasia attiva Infezione Arterite di Horton (GCA) attiva (consultare linee guida specifiche) Affezioni infiammatorie: • Artrite reumatoide, altre artropatie • Lupus eritematoso sistemico, miopatie, altre connettiviti Affezioni non infiammatorie: • Disordini locali della spalla o dell’anca • Fibromialgia/sindromi dolorose

Step 3 Steroidi a basse dosi

Invio precoce allo specialista raccomandato per: Pazienti che presentano caratteristiche atipiche o elementi che accrescono la probabilità di una diagnosi non-PMR: • Età <60 anni • Insorgenza con andamento cronico • Assenza di coinvolgimento della spalla • Assenza di rigidità infiammatoria • “Semafori rossi”: sintomatologia sistemica prevalente, perdita di peso, dolore notturno, segni neurologici • Artrite periferica o altri segni di connettiviti/malattie muscolari • VES/CRP normali o molto aumentate Dilemmi terapeutici come: • Risposta incompleta o nulla ai corticosteroidi

Step 4 Follow-up (4-6 settimane)

Prednisolone 15-20 mg/die Risposta clinica in 1 settimana > Almeno 70 per cento di miglioramento globale > Risoluzione degli indici di laboratorio

Nessuna diagnosi alternativa

Polimialgia reumatica Riduzione graduale dei corticosteroidi depomedrone i.m. nei casi lievi Protezione dall’osteoporosi Sintomi da monitorare • Dolore prossimale • Rigidità mattutina • Disabilità correlate alla PMR • Effetti collaterali • Rischio di osteoporosi • Sintomi che possono suggerire una diagnosi alternativa

Monitoraggio degli indici di laboratorio ogni 3 mesi • Emocromo con formula • VES/CRP • Elettroliti, urea • Glucosio

Ricadute: Aumentare gli steroidi al dosaggio più alto precedente per la prima e la seconda ricaduta Considerare farmaci immunosoppressori, es. metotrexate Ricaduta della GCA: steroidi ad alto dosaggio (40-60 mg prednisolone)

Note: GCA, arterite a cellule giganti o arterite di Horton; PMR, polimialgia reumatica Fonte: modificato da Dasgupta B, Borg FA et al. Rheumatology 2010; 49: 186-90

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Figura 2

L’approccio alla valutazione del dolore e della rigidità delle articolazioni prossimali SINTOMI DI PRESENTAZIONE

ARTICOLARI/ PERI-ARTICOLARI/ NON-ARTICOLARI

Sintomi infiammatori Rigidità mattutina Gonfiore articolare

Dolore o rigidità prossimali

CARATTERISTICHE CLINICHE

DIAGNOSI

Età >50 anni, sintomi predominanti alla spalla e all’anca, simmetricità

Polimialgia reumatica

Sintomi predominanti alle articolazioni periferiche, Rx

Artrite reumatoide, altre artriti infiammatorie

Edemi periferici a mani/piedi

Sindrome RS3PE

Malattie sistemiche da autoanticorpi

Lupus eritematoso sistemico Vasculite Altre connettiviti

Debolezza muscolare, CPK elevata

Articolari

Spalla, ACJ, colonna cervicale, anca, Rx

Peri-articolari

Restrizione capsulare, ecc. Ecografia Aumento VES/CRP, anamnesi rilevante, esami di laboratorio e delle urine

Sintomi non-infiammatori/ infettivi/neoplastici/ neuro/endocrini

Non-articolari

Miopatia infiammatoria Artrosi Artrite settica Capsulite adesiva Lesioni della cuffia dei rotatori Sepsi concomitante, es. infezione urinaria

Microematuria, febbre, soffio Perdita di peso, parametri associati Punti di dolorabilità, sintomatologia cronica

TSH, indici ossei (PTH, vitamina D) Rigidità, tremori, insorgenza graduale

Sepsi occulta e profonda, es.midollo spinale, anca, endocardite batterica Neoplasia, es. mieloma

Fibromialgia, sindromi dolorose croniche Depressione Endocrinopatie, malattie ossee metaboliche Parkinsonismi

Note: ACJ, articolazione acromioclavicolare; Sindrome RS3PE: (Remitting seronegative symmetric synovitis with pitting edema) sinovite simmetrica sieronegativa ad andamento remittente associata a edema molle o Malattia di Mc Carty; TSH, ormone tireostimolante; PTH, paratormone Fonte: modificato da Dasgupta B, Borg FA et al. Rheumatology 2010; 49: 186-90

I punti chiave dei criteri classificativi EULAR/ACR I pazienti di età ≥50 anni, che presentano un dolore bilaterale di nuova insorgenza alla spalla, non meglio spiegato da diagnosi alternative, e un aumento di

CRP e/o VES, possono essere classificati come affetti da polimialgia reumatica in presenza di: w rigidità mattutina di durata superiore a 45 minuti; w coinvolgimento dell’anca (dolore, dolorabilità alla palpazione, limitazione funzio-

nale) di nuova insorgenza; w la probabilità di PMR aumenta in assenza di sinovite periferica o di sierologia positiva per AR; w il riscontro ecografico di alterazioni bilaterali della spalla (borsite sottoacromiale/ tenosinovite del bicipite/versamento gle-

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reumatologia Tabella 2

Tabella 3

Punteggio dei criteri di classificazione della polimialgia reumatica*

Rischi della terapia corticosteroidea a lungo termine

Requisiti: età ≥ 50 anni, dolore bilaterale della spalla, CRP e/o VES anomale Punteggio senza ecografia (0-6)

Punteggio con ecografia** (0-8)

Durata della rigidità mattutina > 45 min.

2

2

Dolore o limitazione funzionale dell’anca

1

1

Assenza di fattore reumatoide o di ACPA

2

2

Assenza coinvolgimento altre articolazioni

1

1

Almeno una spalla con borsite sottodeltoidea e/o tenosinovite del bicipite e/o sinovite gleno-omerale (posteriore o ausiliaria) e almeno un’anca con sinovite e/o borsite trocanterica

Non applicabile

1

Entrambe le spalle con borsite sottodeltoidea, tenosinovite del bicipite o sinovite gleno-omerale

Non applicabile

1

Le Linee guida BSR/BHPR per la diagnosi e il trattamento della PMR Come abbiamo specificato all’inizio, i criteri di classificazione EULAR/ACR per la polimialgia reumatica non sono stati redatti ai fini diagnostici. Ci sembra utile pertanto richiamare in questa sede almeno i punti chiave di alcune delle più recenti Linee guida di riferimento per la PMR, quelle pubblicate nel 2010 (3) da British Society for Rheumatology (BSR) e British Health Professionals in Rheumatology (BHPR), dalle quali riprendiamo, nelle Figure 1 e 2, gli schemi di approccio diagnostico e terapeutico. Queste le raccomandazioni salienti delle Linee guida: w Usare i criteri basilari di inclusione e di esclusione e i fattori previsti per ciascuno step del processo diagnostico. w Iniziare con corticosteroidi a basse dosi e diminuire gradualmente il dosaggio. w Effettuare una valutazione sistematica della risposta ai corticosteroidi: osservare se è rapida, completa e sostenuta. w Inviare tempestivamente allo specialista

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Aumento di peso Strie rubre cutanee Aumento della pressione arteriosa Alterazioni della glicemia Depressione Scompenso cardiaco Aumento del rischio di infezioni Cataratta Glaucoma

* Classificazione come PMR per un punteggio di 4 o più nell’algoritmo senza ecografia e di 5 o più nell’algoritmo con ecografia. ** Criteri ecografici opzionali.

no-omerale) o di alterazioni a una spalla e un’anca (versamento, borsite trocanterica) può migliorare in modo significativo la specificità dei criteri clinici.

Osteoporosi

reumatologo i casi atipici e quelli che rappresentano un dilemma terapeutico. w Monitorare assiduamente il dolore prossimale, la rigidità mattutina, la disabilità, i fattori di rischio per l’osteoporosi e ogni altro sintomo che possa suggerire una diagnosi alternativa. w Prevenire le complicanze dell’osteoporosi (Tabella 3). w Le recidive della malattia polimialgica dovrebbero essere trattate aumentando la terapia corticosteroidea. La comparsa di sintomi di arterite temporale di Horton (arterite a cellule giganti-GCA, cefalea, disturbi visivi acuti, disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare, aumento degli indici di infiammazione) richiede la somministrazione di 40-60 mg/die di prednisolone. Una terapia aggiuntiva con DMARD dovrebbe essere presa in considerazione dopo la seconda recidiva.

Conclusioni La PMR è una malattia infiammatoria e rappresenta una delle indicazioni più comuni per una terapia corticosteroidea a lungo termine. Si caratterizza per il dolore e la rigidità delle grandi articolazioni prossimali (spalla e anca), e l’aumento degli indici di infiammazione aspecifici. Non sono al momento disponibili biomarker specifici per questa malattia. La terapia

Sindrome di Cushing Fonte: Van Heche O. Austr Fam Phys 2011; 40: 303-6

corticosteroidea è altamente efficace sui sintomi, tuttavia le ricadute sono frequenti e lo stesso trattamento comporta una morbilità associata. Studi prospettici in cui i pazienti siano valutati e trattati secondo criteri standard, come quelli messi a punto con l’iniziativa congiunta EULAR-ACR, potranno aiutare a comprendere meglio la patogenesi, a individuare marker specifici della malattia e a sviluppare terapie, che tengano conto del carico infiammatorio e del rischio di recidiva individuale.

Bibliografia 1) Kermani TA, Warrington KJ. Polymyalgia rheumatica. Lancet 2013; 381: 63-72. 2) Crowson CS et al. The lifetime risk of adultonset rheumatoid arthritis and other infiammatory autoimmune rheumatic disease. Arthritis Rheum 2011; 63: 633-39. 3) Dasgupta B et al. BSR and BHPR guidelines for the management of polymyalgia rheumatica. Rheumatology 2010; 49: 186-90. 4) Dasgupta B et al. 2012 provisional classification criteria for polymyalgia rheumatica: a European League Against Rheumatism/American College of Rheumatology collaborative initiative. Ann Rheum Dis 2012; 71: 484-92. 5) Spiera R, Westhovens R. Provisional diagnostic criteria for polymyalgia rheumatica: moving beyond clinical intuition? Arthritis Rheum 2012; 64: 955-7. 6) Van Heche O. Polymialgia rheumatica. Diagnosis and management. Austr Fam Phys 2011;40:303-6.


CONGRESSI

Meeting ESC – 31 agosto-4 settembre - Amsterdam

I nuovi orizzonti della terapia ipolipemizzante all’attenzione dei Cardiologi europei

I

l tema portante del congresso dell’European Society of Cardiology di quest’anno è stato “il cuore che interagisce con gli altri organi” proprio per sottolineare come il dialogo tra questo organo con tutte le parti del corpo possa essere il punto di partenza per superare definitivamente la visione “a compartimenti stagni” che in passato si è rivelata pericolosa. In quest’ottica va dunque vista la malattia cardiovascolare (CV), non più isolata, ma una patologia che ha una forte componente sistemica alla base, dato che il cuore interagisce con polmoni, cervello, reni, apparato gastrointestinale e riproduttivo. Non è possibile esaurire tutti gli argomenti in poco spazio, e quindi presentiamo alcuni spunti che ci sembrano significativi per la Medicina generale. Cominciamo con lo studio ACCOAST. Nei pazienti con SCA (sindrome coronarica acuta) senza elevazione del tratto ST (NSTE), destinati ad angioplastica, il pretrattamento con prasugrel non apporta alcun beneficio in termini di prevenzione degli eventi ischemici e aumenta il rischio di complicanze emorragiche maggiori. In sintesi sono questi i risultati dello studio, interrotto precocemente per motivi legati alla safety. ACCOAST era stato disegnato con l’obiettivo di verificare se nei pazienti con SCA NSTE destinati a una procedura di emodinamica invasiva, il pretrattamento con prasugrel avrebbe offerto vantaggi, rispetto all’approccio standard, cioè senza pretrattamento, in termini di prevenzione degli eventi CV. Il disegno originale prevedeva la randomizzazione di 4.100 pazienti; in realtà il numero di pazienti si è fermato a 4.033. Gli Autori riassumono così i risultati chiave: nei pazienti SCA NSTE

sottoposti a emodinamica invasiva entro 48 ore dalla randomizzazione, il pretrattamento con prasugrel non riduce gli eventi ischemici maggiori fino a 30 giorni e aumenta le complicanze emorragiche maggiori; i risultati in termini di efficacia e sicurezza sono coerenti in tutti i pazienti sottoposti a PCI; nessun sottogruppo di pazienti sembra mostrare un rapporto rischio/beneficio favorevole con il pretrattamento. Tra i commenti a questi risultati riportiamo quello del dott. Spencer King, del St. Joseph’s Hospital di Atlanta. “Probabilmente i risultati di ACCOAST non avranno un impatto significativo sull’impiego off label di prasugrel, anche perché nella pratica pochi clinici adotterebbero un simile approccio di pretrattamento, almeno in questi pazienti (SCA NSTE), che rappresentano una classe di non particolare urgenza. Ora sarà da stabilire se una molecola potente e con elevata rapidità d’azione, come il prasugrel possa avere un’utilità in pretrattamento, in soggetti a più elevato rischio, compresi quelli con infarto miocardico ed elevazione del tratto ST”. In prevenzione CV spesso non si raggiungono i valori target di colesterolemia-LDL. Questo è il motivo che ha determinato il rapido sviluppo di una nuova classe di farmaci ipolipemizzanti: gli inibitori della PCSK9. Il PCSK9 è una proteina regolatrice dei livelli di LDL circolanti. Agisce legandosi ai recettori LDL che, di conseguenza, vengono degradati e diventano meno disponibili sulla superficie degli epatociti per la rimozione dell’eccesso di colesterolo LDL dal sangue. Va ricordato che le terapie tradizionali (come le statine) stimolano la produzione di PCSK9, che pertanto limita la loro efficacia ipocolesterolemizzan-

te. In sintesi, bloccando la PCSK9 si ha un nuovo meccanismo per la riduzione della colesterolemia LDL. Tra le molecole in via di sperimentazione dotate di questo meccanismo d’azione, segnaliamo alirocumab (Sanofi Regeneron). Si tratta di un anticorpo monoclonale completamente umanizzato diretto contro PCSK9 che viene somministrato per via sottocutanea. Agendo attraverso il blocco del PCSK9, aveva già dimostrato in studi preclinici di aumentare il numero di recettori LDL sugli epatociti, riducendo così la colesterolemia-LDL. Alirocumab è oggetto di un ampio programma di ricerca, ODYSSEY, che ne valuterà le potenzialità in diverse classi di pazienti, in aggiunta alle statine, oppure in monoterapia in confronto con ezetimibe. In attesa dei risultati degli studi ODYSSEY è doveroso precisare comunque che si tratta di una molecola che potenzialmente avrà indicazioni di nicchia, per esempio nei soggetti intolleranti alle statine oppure in quelli affetti da ipercolesterolemia familiare, oppure nei pazienti con ipercolesterolemia non controllata e ad alto rischio CV.

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AstraZeneca

Disponibile in Italia il primo farmaco contro una rara forma di tumore tiroideo

I

l carcinoma midollare della tiroide (CMT) è una forma rara, molto aggressiva, e costituisce il 5 per cento dei casi di cancro tiroideo. In Italia vengono colpite circa 200 persone ogni anno, mentre a livello europeo le stime indicano un’incidenza di 2.400 casi/anno. Il CMT si manifesta con maggiore frequenza in giovane età, e origina dalle cellule C della tiroide che secernono calcitonina. In presenza di proliferazione tumorale la calcitonina viene prodotta in eccesso, con conseguente alterazione dei livelli di calcio nel sangue. Il tumore può rimanere asintomatico per lungo tempo, ed è caratterizzato da segni aspecifici come per esempio gonfiore in prossimità della gola, alterazione improvvisa della voce, oppure raucedine, mal di gola, difficoltà respiratorie o nella deglutizione. Nelle

forme avanzate, il CMT è accompagnato da sintomatologia a carico dell’apparato gastrointestinale (a carattere diarroico) o da flush cutaneo. In caso di ritardo diagnostico e di mancato intervento tempestivo, il CMT si diffonde con metastasi ai linfonodi paratracheali e cervicali, spingendosi al fegato, al polmone e alle ossa. La terapia di prima linea finora era costituita dall’asportazione della lesione cancerosa, oppure dell’intera ghiandola, anche se per la malattia in fase molto avanzata non vi erano a disposizione strumenti di cura validi. E questo soprattutto perché la chemio- e la radioterapia si sono rivelate inefficaci. Ora, la prospettiva dei malati cambia decisamente grazie all’introduzione, anche nel nostro Paese, della prima molecola innovativa in grado di ridurre la velocità di crescita tumorale e addirittura

roche

Astellas

Bevacizumab contro le recidive del Ca. ovarico

Nuova opzione di terapia, efficace e sicura, per la vescica iperattiva

L

a sindrome della vescica iperattiva è una patologia dal grande impatto sociale, sia per la sua frequenza (circa il 17 per cento della popolazione adulta ne soffre) che per le ripercussioni della sintomatologia sulla qualità di vita del paziente. L’approccio terapeutico attuale prevede l’impiego di farmaci antimuscarinici, che però sono gravati da pesanti effetti collaterali. La conseguenza più evidente è un alto tasso di abbandono della terapia. Questo gap potrà essere superato grazie all’introduzione, a breve anche in Italia, di un farmaco, il mirabegron, che costituisce una vera e propria novità. La molecola infatti ha un meccanismo d’azione del tutto diverso ed è il capostipite di una nuova classe, quella degli agonisti dei recettori beta-3 adrenergici. Negli studi registrativi, mirabegron alla dose di 50 mg/die ha mostrato un’efficacia superiore al placebo e sovrapponibile a quella degli antimuscarinici nel ridurre la frequenza minzionale e gli episodi di incontinenza. Il miglioramento è stato osservato a 1 mese, e si è mantenuto fino a 1 anno. Il “plus” del nuovo farmaco riguarda la tollerabilità, confermata da una bassa incidenza di eventi avversi negli oltre 5.000 pazienti trattati.

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di bloccare le cellule tumorali. Vandetanib è un inibitore della tirosin-chinasi che agisce attraverso due meccanismi: da una parte inibisce il VEGF (fattore di crescita vascolare endoteliale), bloccando così la crescita dei vasi che apportano sangue al tumore, e dall’altra blocca i recettori del fattore di crescita epidermico (EGFR) e RET, riducendo la crescita e la sopravvivenza del tumore. Vandetanib è indicato per il trattamento del CMT sintomatico e aggressivo in pazienti con tumore non asportabile chirurgicamente avanzato a livello locale o metastatico. La terapia prevede l’assunzione di una compressa/ die, non richiede ospedalizzazione e può essere gestita direttamente dal paziente, a domicilio. Una svolta nella terapia quindi, che trasforma una malattia particolarmente aggressiva, in cronica.

T

ra tutti i tumori ginecologici, quello ovarico è senza dubbio il più aggressivo e con più elevata mortalità. Nella maggior parte dei casi viene scoperto in fase molto avanzata, e nonostante l’asportazione chirurgica e l’efficacia della chemioterapia, le recidive entro 2 anni si verificano nel 70-80 per cento delle donne. Sul fronte della terapia, possiamo dire che negli ultimi 15 anni non ci sono stati particolari risvolti. Ora però esiste un’arma in più che potrebbe permettere di contrastare la progressione del tumore e procrastinare la comparsa delle recidive. Bevacizumab è stato approvato in Europa, ed è il primo “biologico” a essere indicato nel caso di donne con Ca. ovarico in fase avanzata non pretrattate. La molecola non è nuova; infatti bevacizumab è il capostipite dei farmaci antiangiogenetici e rappresenta già un importante strumento nel trattamento di diversi altri tumori. La nuova indicazione recentemente ottenuta da bevacizumab ne conferma le potenzialità terapeutiche anche nelle patologie tumorali per le quali finora non vi erano a disposizione risultati confortanti, come appunto è il cancro ovarico.


Pfizer Consumer Healthcare

Teva Italia

Serve maggiore attenzione per le carenze nutrizionali

La cura e la sanità del futuro secondo gli italiani

U

n’indagine realizzata da Doxa per conto di Teva Italia i cui risultati sono stati presentati in un incontro a Milano, lo scorso 15 ottobre, rivela i desideri e le aspettative dei pazienti italiani in ambito di assistenza sanitaria e cure. Ne emerge un quadro interessante, in cui spicca prima di tutto il fatto che nonostante siamo immersi in un mondo digitale e di comunicazione/informazione “fai da te”, gli italiani si fidano sempre e comunque dei consigli del proprio medico o del farmacista. Altro dato da segnalare è che sebbene persista la preoccupazione per l’instabilità economica, la maggioranza degli interpellati ha fiducia nel futuro della sanità. Le speranze dei pazienti vanno poi nella direzione di percorsi di cura in grado di monitorare il decorso della malattia con nuove tecnologie, velocizzare la diagnosi, fare sì che un solo farmaco possa curare più di una patologia e aumentare il numero e la varietà dei farmaci disponibili. E, i medicinali equivalenti stanno andando proprio in quest’ultima direzione. Tra l’altro, l’indagine ha rivelato che tra le persone che hanno provato un farmaco equivalente e hanno avuto un’esperienza positiva (77 per cento), oltre il 70 per cento è propenso al loro utilizzo ed è favorevole alla loro diffusione.

P

iù di 7 italiani su 10 dichiarano di mangiare in modo sano, ma solo il 15 per cento riesce a consumare la giusta quantità giornaliera di frutta e verdura. Questo è il quadro che emerge da una recente indagine condotta da GfK Eurisko, realizzata con il contributo incondizionato di Pfizer Consumer Healthcare. Dalla ricerca, che era focalizzata sulle abitudini alimentari degli “over 50” emerge inoltre come più del 60 per cento degli interpellati ignori quale sia il corretto apporto consigliato di tutti quei nutrienti indispensabili per la salute dell’organismo; inoltre quasi il 70 per cento dichiara di non consumare integratori, perché ritiene di non essere a rischio di deficit nutrizionali. Per sensibilizzare sull’importanza di assicurare all’organismo la giusta quota di micronutrienti è stato realizzato un position paper, curato da un gruppo di studio multidisciplinare con il patrocinio di SIGG, SOI, SIMG e FOFI. L’obiettivo è diffondere la consapevolezza che nei soggetti anziani a rischio di carenze, un uso appropriato dell’integrazione multivitaminica e multiminerale rappresenta uno strumento sicuro ed efficace nel lungo periodo, per promuovere un buono stato di salute e un “healthy ageing”.

Bayer HealthCare

Il benessere della pelle con un probiotico

L’

eczema atopico o dermatite atopica è una patologia infammatoria cronica e recidivante che può colpire gli adulti, ma soprattutto i bambini con manifestazioni cutanee fastidiose che nel complesso limitano la vita sociale e di relazione. Al momento non esiste una cura, e la terapia attuale prevede l’impiego di prodotti topici a base di cortisonici ed emollienti, e all’occorrenza di antistaminici. In ambito di trattamento, nuovi e stimolanti risultati stanno emergendo con l’uso dei batteri probiotici. Diversi studi hanno infatti dimostrato che i probiotici riducono l’estensione, la severità e i sintomi soggettivi dell’eczema nei bambini. In questo contesto si inserisce la ricerca che ha portato alla realizzazione di un nuovo integratore probiotico, Bifiderm, che contiene Lactobacillus salivarius LS01 e il Bifidobacterius breve BR03, brevettati e selezionati per la loro capacità di colonizzare l’intestino. Il prodotto è privo di allergeni ed è frutto di un processo di produzione innovativo. Bifiderm si colloca quindi come un coadiuvante della terapia tradizionale per la dermatite atopica, ed è disponibile in farmacia, in confezione da 21 bustine da sciogliere in acqua.

Lundbeck

Nalmefene rivoluziona la terapia della dipendenza da alcol

D

opo un lungo periodo di “silenzio”, ora stiamo vivendo una svolta nel trattamento dell’alcoldipendenza. Dal 1 ottobre è disponibile in Italia nalmefene, farmaco autorizzato per la riduzione del consumo di alcol in pazienti con consumo a elevato rischio. Da un approccio interamente basato sull’astensione completa, obiettivo terapeutico non realistico per molti pazienti e barriera all’inizio e al mantenimento del trattamento nell’alcoldipendenza, si passa a una nuova strategia basata sulla riduzione del consumo, obiettivo più realistico e più accettabile, quale step intermedio verso la completa astensione; approccio che può motivare un numero maggiore di pazienti ad avviare il trattamento e proseguirlo. In Italia i soggetti dipendenti dall’alcol si stima siano circa 1 milione e, di questi, solo 58.000 circa si rivolgono ai Servizi per la cura e riabilitazione dell’alcoldipendenza. Un gap ampio che conferma i dati europei, in cui abuso e dipendenza da alcol risultano essere il disturbo meno trattato se confrontato con altre patologie mentali. L’auspicio è che con nalmefene questo trend possa essere invertito.

Medico e Paziente

5.2013

31


notizie dal web

epidemiologia La carenza di vitamina D sembra essere di frequente riscontro nei soggetti con patologie neurologiche: i dati di uno studio italiano www.vitaminad.it Il ruolo della vitamina D nei processi fisiologici e patologici del Sistema nervoso centrale si sta consolidando sempre più. Nel corso degli ultimi anni numerosi lavori pubblicati in letteratura hanno puntato l’attenzione su questo aspetto, evidenziando in particolare una correlazione tra deficit di vitamina D e patologie neurodegenerative. In questo contesto si colloca anche il presente lavoro (Triggiani L, Corona R, Barracchini A, Minisola G. Assessment of Vitamin D deficiency in patients with neurological disorders), che è stato presentato all’ultimo meeting dell’American Academy of Neurology di San Diego, e che è recensito sul sito www.vitaminad.it. Lo scopo del lavoro era diagnosticare la prevalenza del deficit di vitamina D in pazienti ricoverati in day-hospital al fine di stimare un possibile legame con i disordini neurologici. Nel periodo 1 aprile 2010-31 agosto 2012 sono

stati sottoposti al dosaggio della vitamina D (25-OH D) 458 pazienti (240 uomini e 218 donne), con età media di 58,4 ± 16,5 anni. I dati hanno evidenziato che il 58,1 per cento dei pazienti presentava livelli di 25(OH)D <20 ng/ ml. Il valore medio calcolato è risultato essere 11,6 ± 4,5 ng/ml, senza una significativa differenza legata al sesso. La carenza di vitamina D si riscontrava con maggiore frequenza nei pazienti affetti da sindromi atassiche (72,7 per cento), sclerosi laterale amiotrofica (66,7 per cento), lesioni spinali (63,3 per cento) e ictus (62,6 per cento). Nella fascia di età “over 65”, la carenza di vitamina D si è rivelata più frequente nei pazienti affetti da ictus (77,0 per cento), polineuropatie (72,7 per cento), lesioni cerebrali traumatiche (66,6 per cento), lesioni spinali (64,3 per cento) e malattia di Parkinson (64,0 per cento). Sebbene i risultati di questo studio possano essere stati influenzati dalla piccola dimensione del campione e dal tipo di popolazione studiata (pazienti ospedalizzati), secondo gli Autori sarebbe opportuno studiare la carenza di vitamina D nella pratica clinica quale utile parametro di importanti implicazioni terapeutiche. Nei pazienti con più di 65 anni inoltre, la carenza di vitamina D potrebbe essere determinante in alcuni processi patologici a carico del sistema nervoso.

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