Medico e paziente 06 2012

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Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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demenze gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali Iperuricemia quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale Diabete di tipo 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè Psoriasi lieve-moderata progressi nel trattamento topico

MP



anno XXXVIII - 2012 Mensile di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it

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Medico e paziente n. 6

in questo numero

sommario

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

6

demenze gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IperurIcemIa quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale dIabete dI tIpo 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè psorIasI lIeve-moderata progressi nel trattamento topico

MP

Immagine tratta da http://www.ucdenver.edu/

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letti per voi

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Oncologia Nello screening del cancro del polmone con TC a basso dosaggio, il tempo di raddoppio del volume tumorale può essere utilizzato come indicatore di eccesso diagnostico

Redazione Giorgia Diana Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Disturbi del sonno Negli ipertesi in terapia con beta-bloccanti, la supplementazione con melatonina si rivela utile per controllare l’insonnia

Hanno collaborato a questo numero: Angelo Briganti Giovanni Colli Giovanna Leoncini Marianna Morani Fausta Natella Piera Parpaglioni Roberto Pontremoli Elena Ranza Francesca Viazzi

Neurologia Valore di cinque biomarcatori nel liquido cerebrospinale nella diagnosi differenziale di demenza e parkinsonismi Prevenzione Nelle disfunzioni tiroidee esiste una relazione tra attività della tiroide, livelli di TSH e fibrillazione atriale di nuova insorgenza Psichiatria Nella demenza, gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali giovano ai malati e ai caregiver

p 10 ortopedia

Chirurgia per protesi d’anca Interventi riabilitativi per un buon recupero postoperatorio

In letteratura non esistono protocolli riabilitativi standard per il post-intervento, ma proposte di trattamento generali che devono essere adeguate a ogni singolo paziente.

Medico e Paziente

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sommario

Esistono comunque precauzioni da rispettare che garantiscono un buon recupero

Angelo Briganti, Giovanni Colli, Marianna Morani, Elena Ranza

p 16 prevenzione cv

Iperuricemia Quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale

Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2011 - 31/12/2011 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.342 Certificazione CSST n° 2011-2246 del 27/02/2012 Società di revisione: REFIMI

Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

Come abbonarsi a medico e paziente

Medico e paziente

Francesca Viazzi , Giovanna Leoncini, Roberto Pontremoli

p 22 nutrizione

Diabete di tipo 2 Gli effetti protettivi del consumo di caffè sul rischio di patologia

Diversi studi epidemiologici indicano una stretta relazione inversa tra consumo moderato e costante di caffè e rischio di diabete di tipo 2 non attribuibile alla caffeina, ma forse a un’attività antinfiammatoria e antiossidante

Psoriasi lieve-moderata L’associazione fissa calcipotriolo-betametasone in gel come terapia di prima linea

p 28 segnalazioni

TEVA Quando una vocazione si fa concreta nell’impegno sociale

p 30

Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it

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Fausta Natella

p 26 farmaci

Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00

Numeri arretrati € 10,00

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Numerosi studi epidemiologici descrivono una stretta correlazione tra aumentati livelli di acido urico (AU) e condizioni cliniche a elevato rischio cardiovascolare (CV), e danno renale

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letti per voi ONCOLOGIA

NELLO SCREENING DEL CA. POLMONarE CON TC A BASSO DOSAGGIO, IL VDT PUÒ essere UTILIZZAto COME INDICATORE DI ECCESSO DIAGNOSTICO £ Lo screening del Ca. del polmone con TC a basso dosaggio (LDTC) può evidenziare tumori che non diventerebbero sintomatici nel corso della vita e non causerebbero il decesso, perché a crescita molto lenta, o perché destinati a non progredire o addirittura a regredire. Il tasso di crescita del tumore, volume-doubling time (VDT), è stato proposto come parametro per distinguere i tumori aggressivi da quelli con scarsa probabilità di diventare sintomatici. Uno studio ha valutato quale indicatore di

overdiagnosi il VDT di tumori identificati durante un programma di screening con LDTC. Oltre 4.000 volontari asintomatici (≥50 anni), fumatori abituali (≥20 pacchetti/anno) o che avevano smesso da non più di 10 anni sono stati sottoposti a una LDCT annuale per i successivi 5 anni: obiettivo era l’analisi retrospettiva del VDT delle formazioni identificate. In base al VDT i tumori erano classificati a rapido accrescimento (<400 giorni), lento (tra 400 e 599 giorni) o asintomatici (≥600 giorni).

Cinquantacinque i casi diagnosticati al basale e 120 nei controlli successivi. In quest’ultimo gruppo, 19 casi (15,8 per cento) erano di nuova insorgenza e a rapido accrescimento; 101 erano progressivi, di cui 70 (58,3 per cento) a crescita rapida e 31 (25,8 per cento) a crescita lenta (15,0 per cento) o asintomatici (10,8 per cento). Pertanto i tumori a lento accrescimento o asintomatici erano circa il 25 per cento, e per molti di essi si poteva trattare di un eccesso diagnostico. Ulteriori studi aiuteranno a chiarire se il VDT può aiutare a ridurre l’overdiagnosi nei programmi di screening per Ca. polmonare e il conseguente eccesso di trattamento. (P.P.) Veronesi G, Maisonneuve P, Bellomi M et al. Ann Intern Med 2012;157:776-84

£ I beta-bloccanti sono farmaci usati da milioni di persone per il trattamento non solo dell’ipertensione, ma Negli ipertesi in terapia anche delle aritmie, nel post-infarto, e nello scompenso cardiaco. con beta-bloccanti, la Solo negli Stati Uniti si stima che le persone in trattamento supplementazione con siano circa 22 milioni. Un effetto negativo associato alla melatonina si rivela utile per terapia con beta-bloccanti è costituito dal fatto che molti pazienti lamentano la comparsa di disturbi del sonno, e in controllare l’insonnia particolare la difficoltà ad addormentarsi. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che questi farmaci sopprimono la produzione notturna di melatonina. Sulla base di queste considerazioni, un’équipe di ricercatori afferenti a diversi Centri statunitensi, tra cui il Brigham and Women’s Hospital di Boston, ha voluto verificare se la supplementazione con melatonina in questa categoria di pazienti potesse avere effetti positivi sul sonno. Al trial randomizzato in doppio cieco e controllato verso placebo hanno preso parte 16 pazienti (9 donne) ipertesi in terapia con atenololo e metoprololo, con età compresa tra 45 e 64 anni. I partecipanti sono stati assegnati a ricevere melatonina (2,5 mg) o placebo, alla sera per un periodo di 3 settimane. La principale misura di outcome era la differenza rispetto al basale delle misure polisonnografiche relative alla durata totale del sonno, all’efficienza del sonno e alla latenza del sonno. In queste valutazioni, i pazienti trattati con la melatonina hanno mostrato significativi miglioramenti rispetto a quelli trattati con placebo. In particolare, rispetto ai controlli, nei pazienti in trattamento attivo la durata del sonno è stata superiore di 36 minuti (P= 0,046), e l’efficienza del sonno maggiore del 7,6 per cento (P= 0,046), mentre la latenza per arrivare allo stadio 2 si è ridotta di 14 minuti (P = 0,001). Seppure di piccole dimensioni, questo studio aggiunge ulteriori evidenze sui potenziali benefici associati alla supplementazione con melatonina nei pazienti ipertesi, trattati con beta-bloccanti, che soffrono di problemi legati al sonno. Il risultato dovrebbe essere approfondito in ulteriori e più ampie casisitiche, anche in virtù del fatto che, oltre all’impatto positivo della melatonina sul ritmo del sonno, la supplementazione non sembra presentare effetti collaterali; non sono stati evidenziati nemmeno tolleranza o insonnia da “rebound” dopo interruzione della melatonina. Infine, secondo gli Autori il risultato potrebbe avere implicazioni anche per altre popolazioni trattate con beta-bloccanti, così come per soggetti con una produzione ridotta di melatonina per altre ragioni, quali per esempio un danno spinale. Disturbi del sonno

Scheer FAJL, Morris CJ, Garcia JI et al. Sleep 2012; 35 (10): 1395-402

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letti per voi NEUROLOGIA

Valore clinico di cinque biomarcatori nella diagnosi differenziale di demenza e parkinsonismi £ A causa della sovrapposizione dei sintomi, soprattutto nelle fasi iniziali, è spesso difficile distinguere clinicamente la malattia di Parkinson (PD) dai parkinsonismi atipici, e differenziare le diverse forme di demenza. Uno studio svedese ha valutato l’accuratezza diagnostica di cinque biomarcatori presenti nel liquido cerebrospinale (CSF) di pazienti con sindromi parkinsoniane e/o demenza: alfa-sinucleina, beta-amiloide 1-42, proteine tau totali (T-tau) e iperfosforilate (P-tau), e catene leggere di neurofilamenti (NF-L).

Sono stati valutati 453 campioni di CSF provenienti da individui sani utilizzati come controlli e da soggetti con: malattia di Parkinson, Parkinson con demenza (PDD), demenza con corpi di Lewy (DLB), malattia di Alzheimer (AD), paralisi sopranucleare progressiva (PSP), atrofia multisistemica (MSA) e degenerazione corticobasale (CBD). I livelli di alfa-sinucleina risultavano diminuiti nei pazienti con PD, PDD, DLB e MSA, e aumentati in quelli con AD. I livelli di beta-amiloide 1-42 erano diminuiti nella DLB e ancor di più nell’AD. I livelli di T-tau e P-tau erano aumentati nell’AD. L’analisi multivariata ha rivelato che questi biomarcatori erano in grado di differenziare la malattia di Alzheimer dalla DLB e dal PDD. I marker che contribuivano maggiormente al modello erano alfa-sinucleina e T-tau. Il livello

di NF-L nel liquor era aumentato nei parkinsonismi atipici (PSP, MSA e CBD) e l’analisi multivariata ha evidenziato che questo marcatore da solo può differenziare la malattia di Parkinson dalle sindromi parkinsoniane atipiche. Varie ricerche attualmente in corso su possibili terapie disease-modifying per i disordini neurodegenerativi, vertono su meccanismi patogenetici specifici come l’accumulo di beta-amiloide, l’iperfosforilazione delle proteine tau e l’aggregazione di alfa-sinucleina. Come questo studio evidenzia, è più che mai necessario disporre di indicatori che aiutino a identificare precocemente la patologia cerebrale sottostante al quadro sintomatologico. (P.P.) Hall S, Ohrfelt A, Constantinescu R et al. Arch Neurol 2012; Aug 27:1-8. doi: 10.1001/ archneurol.2012.1654. (Epub ahead of print)

£ È noto che l’ipertiroidismo conclamato è associato con un rischio aumentato di fibrillazione atriale (FA). TutNelle disfunzioni tiroidee esiste tavia pochi studi avevano finora indagato il rischio legato all’ipertiroidismo subclinico, alle condizioni di funzionalità una relazione tra attività tiroidea ai limiti superiori e inferiori della norma, e all’ipodella tiroide, livelli di TSH e tiroidismo. Uno studio osservazionale, il più ampio finora fibrillazione atriale di nuova condotto su una popolazione di pazienti ambulatoriali, mostra che i soggetti con ipertiroidismo subclinico (dimiinsorgenza nuita concentrazione di TSH nel siero, ma livelli di tiroxina libera all’interno dei valori di riferimento) hanno un rischio di FA aumentato del 30 per cento rispetto agli eutiroidei, e gli individui con funzione tiroidea ai limiti superiori della norma un rischio aumentato del 12 per cento. L’ipotiroidismo, conclamato e subclinico, si associa invece con un rischio di FA più basso rispetto ai soggetti eutiroidei. Lo studio è stato condotto nella città di Copenhagen, su un registro di dati di 586.460 adulti che avevano effettuato per la prima volta una valutazione della funzione tiroidea su prescrizione del medico di base tra il 2000 e il 2010. Il quadro tiroideo risultava così composto: 96,0 per cento eutiroidismo, 0,3 ipotiroidismo conclamato, 2,0 ipotiroidismo subclinico, 0,7 ipertiroidismo conclamato e 1,0 per cento ipertiroidismo subclinico. Rispetto agli individui eutiroidei, il rischio di FA aumentava con il decrescere dei livelli di TSH, quando si passava da una funzione tiroidea ai limiti superiori della norma (rate ratio 1,12, IC 95 per cento 1,03-1,21) all’ipertiroidismo subclinico con TSH ridotto (1,16, 0,99-1,36), all’ipertiroidismo subclinico con soppressione del TSH (1,41, 1,25-1,59). Lo studio evidenzia una relazione lineare apparente tra i livelli di funzione tiroidea e il rischio di FA, basso nelle condizioni di ipotiroidismo conclamato o subclinico, ed elevato in quelle di ipertiroidismo. Per tutti i livelli di ipertiroidismo, dai limiti superiori della norma, il rischio aumentava col decrescere del TSH. Degno di nota anche il fatto che il rischio relativo di FA era maggiore nei soggetti più giovani, nei quali l’ipertiroidismo è spesso la causa principale di FA, rispetto agli anziani, nei quali è principalmente legato alla morbilità cardiovascolare (ipertensione, scompenso, patologia valvolare, diabete). In tutti i casi di ipertiroidismo subclinico o di stato eutiroideo ai limiti superiori della norma dovrebbe essere eseguita di routine una valutazione per la FA. Questo è inoltre il primo studio che dimostra un effetto protettivo dell’ipotiroidismo nei confronti della FA. (P.P.) PREVENZIONE

Selmer C, Olesen JB, Hansen ML et al. BMJ 2012; 345:e7895

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Psichiatria

Nella demenza, gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali giovano ai malati e ai caregiver £ La demenza è un’emergenza di salute pubblica. Il suo devastante impatto sanitario, sociale, economico ed emotivo su malati, familiari e caregiver, deve infatti essere declinato su numeri impressionanti: si prevede che nel 2050 i malati nel mondo supereranno i 115,4 milioni. La maggior parte delle persone con demenza è assistita a casa da familiari, e caregiver in genere, che se ne occupano per tutto il decorso della malattia. Uno degli aspetti più difficili dell’assistenza riguarda la gestione delle molte anomalie comportamentali e psicologiche associate alla patologia. Poterle fronteggiare rappresenta spesso, per chi si prende cura di questi malati, una priorità rispetto ad altri aspetti più strettamente “clinici” della demenza. Non sono disponibili, però, trattamenti farmacologici specifici per questi problemi. Di particolare interesse in questo contesto è l’efficacia dimostrata, sui pazienti istituzionalizzati, dagli interventi psico-sociali (non farmacologici). Un gruppo di studio ha condotto una metanalisi per valutarne gli effetti anche su pazienti assistiti da una rete

di caregiver a livello familiare e, vicendevolmente, su questi ultimi. Sono stati analizzati 23 studi che valutavano gli outcome degli interventi sui pazienti e sui loro caregiver, 3.279, in relazione alla frequenza e alla gravità dei sintomi comportamentali della demenza e alle reazioni a questi attribuibili dei familiari. Gli interventi non farmacologici si dimostravano efficaci nel ridurre i sintomi comportamentali e psicologici nei pazienti, con un effetto complessivo misurabile in 0,34 (IC 95 per cento 0,20-0,48; z =4,87; p<0,01), e nel migliorare la capacità dei caregiver di confrontarsi con questi comportamenti, con un effetto complessivo di 0,15 (IC 95 per cento 0,04-0,26; z =2,76; p=0,006). I risultati, con effetti di dimensioni quantomeno uguali a quelle ottenute con i farmaci, e con l’ulteriore merito di ridurre gli effetti negativi sui caregiver, sono stati sottolineati dagli Autori della metanalisi. Gli interventi dimostratisi efficaci includevano da 9 a 12 sessioni calibrate sulle necessità del paziente e del caregiver e somministrate separatamente, con diverse modalità e

in un arco temporale di 3-6 mesi, con follow up periodico. Sullo stesso numero del The American Journal of Psychiatry, un editoriale dà enfasi a questi risultati, specie in considerazione della scarsità di risorse in quet’ambito medico. I sintomi comportamentali, infatti, compaiono in ogni stadio della malattia e spesso con più di una modalità in contemporanea. Se non trattati sono associati a una più rapida progressione della patologia, a maggiori disabilità e necessità di risorse assistenziali, minore qualità di vita e bisogno di un presidio infermieristico domiciliare. Ne risentono anche i caregiver, con stati d’ansia, depressione, affaticamento, dimenticanze e aumento dei costi di assistenza. Nonostante la ridotta o media entità, questi risultati, sono paragonabili a quelli degli interventi farmacologici, sono clinicamente significativi e in grado di aiutare malati e familiari; evidenziano che ridurre lo stress nei caregiver aiuta a ridurre i sintomi comportamentali nei pazienti, anche se ulteriori ricerche dovranno specificare come, quali e quando gli interventi siano più efficaci. Se questi risultati, conclude l’editoriale, fossero stati ottenuti con dei farmaci, avrebbero avuto un’enorme risonanza. Brodaty H., Arasaratnam C. Am J Psychiatry 2012; 169: 946-53 Gitlin L.N. Am J Psychiatry 2012; 169: 89497


Ortopedia

Chirurgia per protesi d’anca Interventi riabilitativi per un buon recupero post-operatorio In letteratura non esistono protocolli riabilitativi standard per il post-intervento, ma proposte di trattamento generali che devono essere adeguate a ogni singolo paziente. Esistono comunque precauzioni da rispettare che garantiscono un buon recupero

È

dimostrato che la sostituzione protesica dell’articolazione dell’anca ottiene un notevole successo nei pazienti affetti da artrite reumatoide, artrosi, necrosi asettica della testa del femore e frattura o pseudoartrosi del collo del femore. Tali condizioni patologiche sono causa di dolore e impotenza funzionale, e possono portare a disabilità, depressione e un calo nella percezione della qualità della vita, con abuso di farmaci analgesici (1). Attualmente, come stabilito nel 1994 dalla Dichiarazione di Consenso del National Institute of Health (NIH), “la protesi d’anca rappresenta un’opportunità per quasi tutti i pazienti affetti da patologie dell’anca che provocano disturbi cronici e limitazione funzionale significativa”.

Angelo Briganti, Giovanni Colli, Marianna Morani, Elena Ranza Unità Riabilitativa, Ospedale S. Sebastiano di Correggio (RE)

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TIPOLOGIA DI INTERVENTO Esistono tre tipi di intervento di sostituzione protesica dell’anca: la sostituzione parziale (endoprotesi), che prevede di preservare l’acetabolo o cotile naturale, utilizzata quasi esclusivamente in caso di frattura del collo del femore; la sostituzione totale (artroprotesi), che prevede di intervenire su entrambe le componenti articolari femorale e acetabolare, e infine il reintervento (revisione) che prevede la sostituzione di una protesi precedentemente impiantata. Una protesi d’anca (Figura 1) può essere formata, in senso disto-prossimale, dai seguenti componenti: stelo, collo, testina, inserto e coppa acetabolare (o cupola nel caso di un endoprotesi). Le protesi possono essere classificate anche in base alla metodica utilizzata per ancorare l’impianto all’osso. In questo caso si distinguono protesi cementate e non cementate. In alcuni casi si sceglie di utilizzare due metodi di fissazione diversi per la coppa al cotile e per lo stelo alla diafisi femora-

le. Si parla allora di protesi ibrida (stelo cementato e coppa non cementata). Viene utilizzata talvolta anche la soluzione ibrida inversa (stelo non cementato e coppa cementata). Un’altra caratteristica distintiva è data dall’accoppiamento. Con questo termine si intende l’abbinamento di materiali tra la testina femorale e l’interno della coppa: metallopolietilene, ceramica-polietilene, ceramica-ceramica e metallo-metallo.

COMPLICANZE POST-CHIRURGICHE In generale è possibile suddividere le complicanze post-chirurgiche in due gruppi: intraoperatorie e postoperatorie.

Complicanze intraoperatorie Fratture: incidenza 0,1-1 per cento per le protesi cementate e 3-18 per cento per le protesi non cementate (1). Lesioni nervose: incidenza da 0 a 3 per cento (2). La più comune è la lesione del nervo sciatico (soprattutto nella sua componente che andrà a costituire il nervo peroneale), ma sono possibili anche lesioni a carico dell’otturatorio, del nervo femorale e del gluteo superiore. La causa spesso è sconosciuta (almeno nel 50 per cento dei casi), ma può dipendere da compressione dovuta all’ematoma, trauma diretto, lesione chirurgica, eccessivo allungamento dell’arto inferiore, ischemia. Dal punto di vista prognostico una lesione solo della componente peroneale recupera maggiormente rispetto a una lesione che interessa tutto il nervo sciatico.


Lesioni vascolari: incidenza 0,2-0,3 per cento (3). I vasi maggiormente interessati sono i vasi iliaci, femorali e l’arteria otturatoria. Le lesioni sono costituite da lacerazioni o piccole forature dei vasi che vengono poi riconosciute in fase postoperatoria come pseudoaneurismi, fistole artero-venose, trombosi arteriose (4). Ipotensione correlata al cemento: incidenza inferiore al 5 per cento (1). Può essere legata a tossicità del cemento, rilascio di anafilotossine o prostaglandine. Tra le possibili complicanze intraoperatorie rientrano anche il delirium (5) e la ritenzione urinaria acuta (6).

Figura 1. Protesi d’anca Coppa

Testa

Stelo

Complicanze postoperatorie Trombosi venosa profonda (TVP): è la complicanza che è legata al maggior rischio di mortalità perioperatoria dopo ATA (artroprotesi totale d’anca). In letteratura l’incidenza in varie casistiche oscilla dall’8 al 70 per cento. Con l’uso della trombo-profilassi c’è un’incidenza di 0,1 per cento di embolie polmonari fatali nei 3 mesi dopo l’intervento (7-8). Infezioni: l’incidenza varia da 0,4 a 1,5 per cento. Dislocazioni: incidenza 0-2 per cento. La maggior parte delle volte la dislocazione è posteriore, tipicamente con flessione, rotazione interna e adduzione dell’anca (9). Se la dislocazione avviene nelle prime settimane dopo l’intervento si può trattare con riduzione e uso di tutore. Se è più tardiva spesso l’unica terapia è rappresentata dalla revisione chirurgica (9). Osteolisi: è il riassorbimento dell’osso a livello periprotesico. È asintomatico, e diventa doloroso quando si accompagna a mobilizzazione della protesi o a fratture patologiche. Il trattamento è quasi sempre chirurgico. Lussazione asettica: è causata spesso da consumo delle componenti protesiche. È quasi sempre associata a dolore. La lussazione della componente femorale causa dolore profondo a livello del III prossimale mediale della coscia che si accentua con il carico e si riduce con il riposo. Il trattamento è la revisione della protesi. Fratture periprotesiche: la maggior parte delle volte la causa è una caduta banale.

Fattori di rischio sono sesso femminile, osteoporosi, età avanzata (10). Eterometria arti inferiori: può essere vera o dipendere invece da uno squilibrio muscolare. Se non inficia il trattamento riabilitativo non si deve correggere nei primi 3 mesi poiché in questo periodo si può modificare. Dopo i 3 mesi o se l’eterometria è tale da rendere difficoltoso il training del cammino si corregge con un rialzo. Ossificazioni eterotopiche: derivano dall’ossificazione dei tessuti molli attorno all’anca. La sede tipica è a livello del gran trocantere. La patogenesi è sconosciuta; i sintomi sono dolore e limitazione articolare.

FATTORI PREDITTIVI DI BUON RECUPERO Nel valutare le caratteristiche del paziente che influenzano la prognosi dell’artroprotesi totale d’anca emerge che l’età più giovane (inferiore ai 45 anni) e il sesso maschile sono associati a un rischio di revisione aumentato di 3-5 volte, probabilmente per la tendenza ad abusare dell’arto operato; l’età più anziana è correlata a un peggiore recupero funzionale articolare, soprattutto nella popolazione

femminile. L’età e il sesso non sembrano influenzare l’outcome per quanto riguarda il dolore post-operatorio (11) e la qualità di vita correlata alla salute percepita (12). L’influenza del peso sul rischio di revisione è contraddittoria (11). I pazienti obesi però, tendono ad avere risultati sul piano funzionale moderatamente inferiori e maggiori livelli di dolore residuo post-intervento, rispetto ai non obesi, ma soprattutto mostrano un aumentato rischio di infezione della ferita chirurgica e della dislocazione della protesi (13). Arrivare all’intervento con un buon trofismo muscolare è un’indicazione comunemente accettata da tutti. Gli studi, al momento, dimostrano, che il gruppo muscolare, la cui forza nella fase preoperatoria è indice prognostico di recupero funzionale maggiormente rapido nel post-intervento, è l’estensore del ginocchio (quadricipite) (14). La persistenza di un’atrofia muscolare dopo l’intervento è stata dimostrata in numerosi studi un fattore importante di ridotto miglioramento funzionale. I pazienti con coxartrosi che avevano uno stile di vita sedentario dovuto al dolore prima dell’intervento e alla scarsa mobilità articolare spesso persistono in questa inattività anche dopo l’intervento (15). L’intervento chirurgico di ATA normalmente riduce significativamente e rapidamente il sintomo dolore, migliora il range articolare attivo, in particolare l’estensione che è richiesta per aumentare la lunghezza del passo, ma il recupero della forza muscolare e la conseguente destrezza del cammino migliorano molto più lentamente. Molti pazienti arrivano all’intervento dopo anni di disabilità fisica e conseguente ridotta attività motoria, con secondaria atrofia muscolare da non uso e scarso condizionamento cardiovascolare responsabili di una notevole faticabilità muscolare. Alcuni studi hanno dimostrato che programmi di esercizi adattati al tipo di paziente (isometrici e isotonici di rinforzo dei muscoli degli arti inferiori, aerobici, di coordinazione e di destrezza), eseguiti 2 mesi prima dell’intervento, hanno consentito un miglioramento della resistenza e dell’abilità del cammino più rapido, rispetto a pazienti non sottoposti a tale trattamento (16-

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Ortopedia 17). C’è evidenza che i pazienti sottoposti a intervento di ATA hanno outcomes migliori quando informati tempestivamente ed educati correttamente prima dell’intervento in merito a tutti gli aspetti chirurgici e riabilitativi riguardanti il pre e post-intervento. I pazienti adeguatamente informati hanno dimostrato minori livelli di ansia pre-intervento, minore intensità del dolore post-intervento, migliore recupero funzionale postintervento e minore durata dei tempi di ricovero ospedaliero (18).

Figura 2. Precauzioni da attuare in posizione seduta

COSA SI INTENDE PER BUON RECUPERO L’ATA migliora la percezione della qualità della vita in relazione allo stato di salute. Tale miglioramento viene mantenuto rispetto ai pazienti artrosici anche a lungo termine (16 anni di follow-up) (19). Con l’aumentare del numero di pazienti giovani che si sottopongono a intervento di ATA, aumentano le aspettative relative ai risultati dell’intervento, non si chiede più solo la risoluzione della sintomatologia algica e il recupero articolare, ma il paziente si aspetta un buon recupero funzionale che includa anche il ripristino della propria figura sociale e delle sue specifiche attività. Vediamone alcune. Attività lavorativa. In base al Dictionary of Occupational Titles Classification of Job Demands le attività lavorative possono essere distinte in tre macrogruppi: sedentarie, di media intensità e attività pesanti. In caso di decorso standard privo di complicanze e a fronte di un’attività lavorativa sedentaria, tipo lavoro d’ufficio, si può pensare a un rientro quando il paziente è in grado di farlo in sicurezza per cui 4-6 settimane dopo l’intervento. Per attività più impegnative che prevedano la stazione eretta prolungata, alzarsi frequentemente da una sedia, il trasporto di pesi leggeri c’è indicazione al rientro lavorativo quando il paziente può camminare senza una stampella (6-12 settimane). È consigliabile attendere almeno

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12 settimane per i lavori più pesanti (20). Guida. L’American Academy of Orthopaedic Surgeons raccomanda di attendere 4-8 settimane prima di ritornare alla guida di una macchina automatica, non ci sono però indicazioni relative all’uso della macchina con cambio manuale o distinzioni relative al lato dell’intervento. Due sono gli elementi da considerare prima di ritornare alla guida di un autoveicolo: la necessità di difendere l’impianto e il recupero dei tempi di reazione per i quali sono necessarie 6 settimane (21-22). Sport. Non esistono in letteratura Linee guide relative al ritorno all’attività sportiva dopo protesi totale di anca. In generale, il ritorno ad attività fisica a bassa intensità nel giro di 3-6 mesi dall’intervento deve essere incentivato mentre vanno sconsigliate le attività sportive ad alta intensità e a rischio di contatto: queste ultime comportano infatti un rischio aggiuntivo di lussazione e frattura periprotesica. Inoltre, sottoporre l’impianto a forze di torsione può favorire lo sviluppo di osteolisi e quindi la mobilizzazione della protesi. Per quanto riguarda la tipologia di attività sportiva, ogni attività va valutata in base all’entità delle forze di carico e torsionali alle quali è sottoposto l’impianto e alla frequenza di ripetizione dei movimenti, oltre che in base al rischio di caduta e di impatto (23). Le attività sportive possono essere così suddivise in:

y Attività a basso impatto: vanno incoraggiate, importanti per il ricondizionamento cardiovascolare e il mantenimento di un buono stato di salute. y Potenzialmente a basso impatto: richiedono buon equilibrio e propiocezione, i pazienti devono essere monitorati dal chirurgo. Per questo tipo di attività è indicato concentrarsi sul numero di ripetizioni con minima resistenza. Rientrano in questo gruppo la danza, il pilates e la bicicletta. y Impatto intermedio: include tennis, sci, snowboard; tali tipologie di attività sono concesse solo per un gruppo selezionato di pazienti, allenati e con un’esperienza precedente dell’attività sportiva. y Attività ad alto impatto: sono fortemente controindicate, incluse quelle ad alto rischio di contatto.

INDICAZIONI E PRECAUZIONI PER IL POST-INTERVENTO In letteratura non esistono protocolli riabilitativi standard per l’ATA, ma proposte di trattamento generali che devono essere adeguate a ogni singolo paziente. Vi sono però indicazioni comuni su come il paziente deve gestire l’arto operato nei primi 2 mesi per prevenire il rischio maggiore post-intervento, la lussazione, evitando movimenti di flessione dell’articolazione oltre i 90°, adduzione e rotazione interna. Le principali precauzioni da rispettare dopo l’intervento sono di seguito descritte.


Posizione seduta w Non sedere su sedie o sgabelli bassi, eventualmente rialzare con un cuscino la seduta; sulla toilette è indicato l’utilizzo di “alza-water”. y In posizione seduta non accavallare le gambe. Per infilare calze/scarpe esistono ausili specifici (infilacalze, infilascarpe modificati) onde evitare movimenti pericolosi. y Nell’alzarsi e nel sedersi, come in tutti i trasferimenti, si consiglia di tenere le ginocchia leggermente aperte; per sedersi in macchina disporsi in modo che l’arto operato sia orientato verso la vettura e spostare gli arti all’interno uno alla volta (Figura 2).

Trasferimenti w Nel salire e scendere dal letto muovere per primo l’arto operato, non rimanere seduti sul letto con le anche a 90°; nei cambi di postura (dal lato sano/malato a prono e viceversa) utilizzare un cuscino tra le ginocchia per mantenere gli arti inferiori distanziati. Si consiglia durante la notte l’utilizzo di un distanziatore anche in posizione supina. Utilizzo di canadesi e scale w Nel cammino porre l’arto malato in mezzo alle due canadesi evitando di strisciarlo in rotazione interna. w Salire le scale con la sequenza stampella-gamba sana- gamba operata (con una mano tenere la stampella con l’altra te-

nere il corrimano); scendere le scale con la sequenza stampella-gamba operatagamba sana. Indicazioni generali y Utilizzare sedie con braccioli. y Evitare di camminare su terreni accidentati. y Non raccogliere oggetti dal pavimento (utilizzo di pinza). y Non sollevare oggetti pesanti. y Evitare un aumento ponderale. y Proseguire programma di esercizi domiciliari. Dopo un intervento di protesi d’anca i “goals” riabilitativi da perseguire sono il recupero dell’articolarità passiva, libera da dolore, il recupero della forza muscolare, guadagnare l’indipendenza nelle attività quotidiane (ADL) e il recupero di un cammino funzionale e corretto. Da studi in letteratura si evidenzia che, dopo un intervento di artroprotesi d’anca, solitamente si va incontro a importanti rigidità articolari; quando è necessario, per precoce affaticabilità dal paziente o dolore, si può abbinare l’esercizio attivo all’utilizzo di un mobilizzatore passivo (24). Il recupero articolare è contemporaneo a quello muscolare per rinforzare nello specifico i muscoli stabilizzatori dell’articolazione coxo-femorale e allenare globalmente tutto l’arto inferiore, in particolare il quadricipite femorale.

L’intervento chirurgico di ATA normalmente riduce significativamente e rapidamente il sintomo dolore, migliora il range articolare attivo, in particolare l’estensione che è richiesta per aumentare la lunghezza del passo, ma il recupero della forza muscolare e del cammino migliorano molto più lentamente. Molti pazienti arrivano all’intervento dopo anni di disabilità, con conseguente atrofia muscolare da non uso Le proposte di recupero muscolare vengono eseguite in progressione: esercizi al lettino, seduti e in stazione eretta. La difficoltà dell’esercizio terapeutico può essere modificata con l’utilizzo di zavorre ed elastici modificando il numero di ripetizioni dell’esercizio, la velocità nell’esecuzione del movimento (stabilizzazione) oppure la tenuta statica (contrazione isometrica di forza). L’allenamento muscolare, seguendo le linee biomeccaniche di forza e di carico, è incentrato principalmente sul lavoro


Ortopedia del grande gluteo, medio gluteo, bicipite femorale, tensore della fascia lata. È necessario che il rinforzo muscolare sia accompagnato da esercizi di stretching quotidiano soprattutto a carico dei muscoli flessori d’anca. Nel grande capitolo del ricondizionamento muscolare viene riconosciuto strumento efficace l’utilizzo dell’idrokinesiterapia (25). Sfruttando i principi fisici dell’acqua, l’esercizio in vasca riabilitativa si rivela un’ottima proposta di trattamento, abbinando il rinforzo muscolare, grazie alla resistenza dell’acqua e lo sgravio del peso corporeo. In relazione alle diverse scelte di impianto protesico (cementata/non) e alle vie d’accesso (posteriore, laterale), la proposta dell’esercizio terapeutico deve tenere in considerazione la progressione del carico del peso corporeo sull’arto operato e il distacco di alcuni gruppi muscolari. Il carico precoce, già a una settimana dall’intervento chirurgico, se non sussistono complicanze post-chirurgiche viene concesso negli interventi di artroprotesi d’anca cementata. Maggiore attenzione al carico, per evitare fenomeni di mobilizzazione della protesi, viene posta negli interventi di artroprotesi non cementata. Se non vi sono indicazioni specifiche ortopediche, il carico parziale viene concesso dopo 4 settimane, raggiungendo il carico completo dopo circa due mesi dall’impianto protesico. Nelle fasi intermedie e finali del trattamento riabilitativo e successivamente per il mantenimento del trofismo muscolare, si deve tener conto dell’utilizzo di diverse attrezzature come cyclette a sella alta (sgravio del peso corporeo ed esercizio aerobico), step (esercizio in carico aerobico), piani instabili (esercizio in carico di stabilizzazione dell’articolazione) e treadmill (esercizio in carico aerobico specifico per migliorare lunghezza, resistenza e velocità del passo sfruttando il lavoro in estensione dell’anca) (26).

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prevenzione cv

Iperuricemia Quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale Numerosi studi epidemiologici descrivono una stretta correlazione tra aumentati livelli di acido urico (AU) e condizioni cliniche a elevato rischio cardiovascolare (CV), e danno renale

L

a gotta rappresenta la più comune forma di artrite nell’uomo, e la sua prevalenza sta progressivamente crescendo nelle ultime decadi. L’iperuricemia è il più importante fattore di rischio per il suo sviluppo e poiché i valori di acido urico (AU) tendono a essere significativamente più elevati nell’uomo che nella donna, gli episodi gottosi sono cinque volte più frequenti proprio nell’uomo. Nonostante questa stretta associazione, la maggioranza dei pazienti con iperuricemia non sviluppa la gotta conclamata: l’incidenza annuale di questa dolorosa artrite è stata stimata essere solo del 5 per cento nei pazienti con livelli di AU superiori a 9 mg/dL (1). Nonostante vi siano forti evidenze che legano gotta e aumentati livelli di AU alla presenza di malattia aterosclerotica in tutte le sue manifestazioni e all’aumentato sviluppo di eventi cardiovascolari (CV) (2) e renali (3), l’iperuricemia asintomatica continua

Francesca Viazzi , Giovanna Leoncini, Roberto Pontremoli Dipartimento di Cardionefrologia, Università di Genova IRCCS Azienda Ospedaliera Universitaria San Martino-IST Istituto Nazionale per la ricerca sul Cancro, Genova

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a non essere un’indicazione alla terapia con farmaci ipouricemizzanti. Numerosi studi sperimentali suggeriscono diversi meccanismi patogenetici attraverso i quali l’AU sarebbe in grado di promuovere il danno aterosclerotico. Johnson e collaboratori hanno avuto il merito di sviluppare un modello di ratti resi moderatamente ipertesi mediante la somministrazione di acido oxonico che, inibendo l’enzima uricasi, rende i ratti incapaci di metabolizzare l’AU ad allantoina, e quindi più simili all’uomo che nel processo evolutivo è rimasto privo di questo enzima. I ratti così trattati non solo diventano iperuricemici, ma sviluppano anche ipertensione con un meccanismo legato da un lato allo sviluppo di arteriolosclerosi con inibizione della liberazione di ossido nitrico (ON) e attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA), dall’altro allo sviluppo di sodiosensibilità. L’iperuricemia persistente si è dimostrata capace di indurre lo sviluppo di danno renale con un meccanismo indipendente dalla precipitazione tubulare di cristalli (4), e di favorire la progressione della malattia renale tramite lo sviluppo di vasocostrizione e aumento della pressione trans-glomerulare. Inoltre, l’AU è in grado di stimolare le cellule muscolari lisce vascolari del ratto alla liberazione

di monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1) (5), che, a sua volta, richiama i macrofagi a infiltrare la parete dei vasi aterosclerotici. In questa revisione cercheremo di approfondire se l’AU possa essere considerato un promotore attivo del danno aterosclerotico o solo un marcatore indipendente di un aumentato rischio di malattia.

AU e fattori di rischio CV Numerosi studi epidemiologici sottolineano una relazione tra livelli di acido urico e condizioni cliniche quali ipertensione, insulino-resistenza, malattia renale e cardiovascolare. Inoltre, la rapida diffusione di ipertensione, diabete, e malattia renale cronica (MRC) alla quale si è assistito negli ultimi decenni, coincide con il progressivo aumento dei valori medi di AU nella popolazione generale (da 3,5 mg/ dL negli anni ’20 a 6,5 mg/dL negli anni ’70) (6). È stato ipotizzato che l’aumento dell’AU in pazienti con malattia aterosclerotica dei vasi possa essere il risultato di una sua ridotta escrezione renale imputabile al concomitare di ridotto filtrato glomerulare, iperinsulinemia, vasocostrizione e uso di diuretici. Ma potrebbe anche riflettere un’aumentata generazione di AU causata da ischemia tissutale, stress ossidativo o eccessiva assunzione di alcol, o fruttosio (3).

Ipertensione. La prima osservazione di un’associazione positiva tra AU e ipertensione risale a più di un secolo fa (7). In uno studio multicentrico condotto su 2.145 ipertesi Taiwanesi, la presenza di iperuricemia era 1,5 volte più alta negli


Sindrome metabolica. Il fatto che la prevalenza della sindrome metabolica (SM) e di ciascuna delle sue componenti (11) aumenti in maniera progressiva all’aumentare dei livelli di AU, ha indotto alcuni Autori a proporre che l’iperuricemia venisse inclusa nella definizione della SM. Inoltre, è stato ipotizzato che la presenza di valori elevati di AU in corso di SM non potesse essere interpretata come un puro effetto dell’insulino-resistenza. Viceversa, l’AU potrebbe giocare un ruolo determinante nella patogenesi della SM; infatti, grazie alla sua capacità di ridurre la liberazione di ON promuove lo sviluppo di disfunzione endoteliale. L’AU si è dimostrato in grado di predire

lo sviluppo di SM nell’uomo, e correla con i valori di glicemia in maniera diretta nella popolazione sana.

Diabete. Questa relazione non si è invece confermata nei pazienti diabetici, nei quali a stati iperglicemici corrispondono bassi livelli di acido urico. Una recente metanalisi che descrive la relazione tra livelli di AU e rischio di sviluppare diabete nella popolazione generale, riporta come a ogni aumento di 1 mg/dL di acido urico corrisponda un rischio di sviluppare diabete di tipo 2 aumentato del 17 per cento (12). Più recentemente, la capacità dell’AU di predire lo sviluppo futuro di diabete è stata descritta in diversi setting clinici: dai soggetti normali agli ipertesi sia ad alto che a relativamente basso rischio (13) (Figura 1). È interessante notare come i ratti sottoposti a una dieta ricca di fruttosio diventino non solo iperuricemici (14), ma sviluppino anche ipertensione, ipertrigliceridemia, iperinsulinemia, ipertensione glomerulare, vasocostrizione delle arteriole corticali e aterosclerosi dell’arteriola preglomerulare (14). Il fruttosio induce iperurice-

mia stimolando la conversione dell’ATP epatico ad ADP tramite la fruttochinasi; al consumo dell’ATP corrisponde un accumulo di AMP che attivando l’AMP deaminasi porta alla sintesi di AU. Per quanto concerne l’uomo, un’analisi epidemiologica ha sottolineato come l’assunzione di bevande dolcificate, la maggior fonte di fruttosio nella nostra dieta, porta all’aumento dei livelli di AU e si associa a un rischio aumentato di gotta, ipertensione e diabete.

Danno d’organo. Nonostante alcuni studi non trovino una correlazione stretta tra AU e danno d’organo (15), la maggior parte dei dati disponibili in letteratura riporta una forte e indipendente associazione tra livelli di AU e segni subclinici di aterosclerosi quali, l’ispessimento miointimale a livello carotideo (16), stenosi dell’arteria renale e arteriopatia periferica. Tuttle KR è stata la prima Autrice a descrivere un legame tra incrementi di AU e arteriopatia coronarica (CAD) in un gruppo di pazienti sottoposti a coronarografia. Successivamente, l’associazione tra iperuricemia e calcificazioni coronariche

Figura 1

Aumentati livelli di acido urico (AU+) predicono lo sviluppo di diabete di tipo 2 indipendentemente dalla presenza di sindrome metabolica (SM+) nei pazienti ipertesi (758 pz. seguiti per 11 anni) 24 22,7

20 Incidenza di diabete, %

uomini e 1,7 volte più alta nelle donne rispetto alla popolazione generale (7). Nonostante la relazione tra AU e valori pressori sia complicata da numerosi fattori confondenti quali età, diabete, obesità, assunzione di alcol o di sale, e lo stato dei volumi, i dati che descrivono questa relazione sono consistenti in numerosi studi. Inoltre, una recente metanalisi su studi prospettici indica che i pazienti iperuricemici presentano un rischio maggiore di sviluppo futuro di ipertensione, indipendentemente dai comuni fattori di rischio. Tale relazione è più forte nei giovani e nelle donne (8). Studi sperimentali condotti sia su animali che nell’uomo suggeriscono l’esistenza di due step nei meccanismi patogenetici che legano l’AU allo sviluppo di ipertensione (9). Inizialmente l’AU attiva il SRAA e sopprime l’ON, portando ad aumento delle resistenze vascolari a livello sistemico. A questo segue lo sviluppo di arteriosclerosi dell’arteriola afferente e l’instaurarsi di sodio-ritenzione. Inoltre, in uno studio controllato, doppio cieco, con crossover, viene descritto come in 30 adolescenti ipertesi iperuricemici la terapia con allopurinolo per 4 settimane portava a riduzione dei valori pressori (10). Sebbene questi dati supportino un ruolo patogenetico dell’acido urico nello sviluppo di ipertensione in questo specifico contesto demografico, rimane da confermare l’applicabilità di questi risultati a una popolazione adulta.

16 P<0,0001

12 8

8,9 6,4

4 2,7 0 SM-AU-

SM-AU+

SM+AU-

SM+AU+

Fonte: Viazzi F et al. Diabetes Care 2011; 34: 126-8

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prevenzione cv (CAC) è stata confermata in una serie di studi condotti su popolazioni a rischio perché caratterizzate dalla presenza di diabete tipo 1, ipertensione, o SM. Più recentemente, Krishnan E (17) ha descritto un legame tra la presenza e la severità delle CAC e la concentrazione di AU in giovani adulti sani, confermando l’ipotesi che aumentati valori di AU possano essere coinvolti nel processo aterosclerotico, indipendentemente da altri fattori di rischio convenzionali. I livelli di AU sono risultati correlati anche all’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) sia negli ipertesi (17) che in uomini Giapponesi apparentemente sani. Iwashima e colleghi hanno dimostrato che l’AU è associato all’indice di massa ventricolare sinistra (LVMI) in maniera indipendente e hanno proposto la presenza simultanea di IVS e iperuricemia come un potente predittore di malattia CV (18). La relazione tra AU e massa ventricolare sinistra potrebbe essere conseguenza della tendenza dell’iperuricemia ad associarsi con altre condizioni cliniche ad alto rischio quali la disfunzione renale, l’ipertensione e l’obesità. Inoltre l’AU potrebbe riflettere la produzione di superossido e di uno stato di stress ossidativo legato all’attivazione della xanthinossidasi. Alternativamente, l’IVS potrebbe essere attribuibile, almeno in parte, alla stimolazione della disfunzione endoteliale, della proliferazione delle cellule muscolari lisce vascolari, e dell’infiammazione dovuta proprio agli aumentati livelli di AU.

Malattia renale. Poiché la concentrazione dell’AU è funzione dell’equilibrio tra il catabolismo delle purine e l’escrezione di AU, la malattia renale può causare iperuricemia. In particolare, in caso di insufficienza renale si assiste a una riduzione della filtrazione dei sali di urato, l’acidosi, spesso concomitante, riduce la secrezione tubulare di AU e in corso di terapia diuretica la frequente comparsa di iperuricemia è imputabile a un aumentato riassorbimento di AU a opera del nefrone (19). L’associazione tra artrite gottosa e malattia renale è storicamente ben documentata. La nefropatia uratica è caratterizzata dai depositi

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di cristalli di urato che stimolano fibrosi interstiziale e arteriolosclerosi. Ciò nonostante, i depositi di cristalli di urato non sono molto comuni nei pazienti gottosi sottoposti a biopsia renale, mentre sono molto più frequenti arteriolosclerosi e nefroangiosclerosi. Anche un aumento solo moderato dei livelli di AU può associarsi a segni subclinici di sofferenza renale indagati con ecografia e Doppler (20). È stata descritta anche una relazione positiva tra valori di AU e livelli di escrezione urinaria di albumina in pazienti con diabete tipo 2, ipertensione (15,16), e in un’ampia coorte di soggetti preipertesi con funzione renale nella norma. Infine, i livelli di AU sono linearmente associati alla severità dell’atrofia tubulare osservata in biopsie di pazienti con nefropatia a depositi di IgA. In accordo con questi risultati, in un modello animale la presenza di iperuricemia si è mostrata in grado di accelerare la progressione della malattia renale grazie all’aumento dei valori pressori a essa associato e all’attivazione della cascata ciclossigenasica che essendo implicata nello sviluppo di disfunzione endoteliale e nella produzione di tromboxano contribuisce all’aterosclerosi glomerulare. Tenendo conto di queste osservazioni, non stupisce che l’iperuricemia si associ in maniera indipendente a un aumentato rischio di presentare MRC come risulta da numerosi studi cross sectional condotti in Europa, Asia, USA e Cina sia nella popolazione generale che in ipertesi (19). Nonostante questa evidenza, aumentati livelli di AU non vengono ancora universalmente considerati un vero e proprio fattore di rischio per la MRC, principalmente per la frequente concomitanza di più tradizionali fattori di rischio che possono giustificarne di per sé l’insorgenza quali diabete, ipertensione, dislipidemia, obesità, abitudine al fumo e insulino-resistenza.

Acido urico come predittore di malattia CV e renale I pazienti con iperuricemia mostrano un’aumentata incidenza di eventi e decessi per cause CV (21, 22) principalmente nelle popolazioni a più alto rischio.

Nello studio LIFE (23), gli eventi CV erano correlati ai livelli di acido urico, anche se, dopo la correzione per la stratificazione del rischio secondo Framingham, tale relazione persisteva solo nelle donne. Risultati simili, che evidenziano un maggiore ruolo predittivo dell’acido urico nelle donne, derivano dalle analisi condotte su 4.300 soggetti dello studio Rotterdam (24) e sulla popolazione dell’NHANES I (25). Un’associazione indipendente tra infarto cardiaco e gotta o iperuricemia è stata descritta nello studio MRFIT condotto su 12.866 uomini senza pregressa storia di cardiopatia ischemica (CHD), seguiti per 6,5 anni. Due recenti metanalisi condotte su studi prospettici mostrano una significativa, indipendente relazione tra iperuricemia anche lieve e sviluppo di CHD (HR 1,09) e morte cardiaca (HR 1,16) da un lato (26), e incidenza di stroke (HR 1,47) e morte cerebrovascolare (1,26) dall’altro (27). Indubbiamente, molti studi non hanno tenuto conto del ruolo confondente della disfunzione renale, un ben noto fattore di rischio per lo sviluppo di eventi CV (21, 22, 25). Questo potrebbe aver indotto a sovrastimare la relazione tra iperuricemia e gli incidenti CV. Ciò nondimeno, in numerosi studi più recenti, i livelli di acido urico sono risultati associati con la morbilità CV anche dopo aver corretto per la funzione renale (28). Nello studio di Neri et al. (28), la correlazione tra AU e malattia CV era maggiore nei pazienti con MRC avanzata. Sebbene questo dato sia dibattuto, viene confermato in un sottogruppo di 839 pazienti arruolati nel trial MDRD e in altri studi condotti su pazienti portatori di trapianto renale. Infine, nonostante sia stato suggerito un ruolo attivo dell’iperuricemia nella perdita del rene trapiantato, aumentati livelli di acido urico non sembrano essere un fattore di rischio addizionale allo score di Framingham nel predire l’infarto cardiaco, la rivascolarizzazione coronarica o la morte cardiaca nei riceventi di trapianto di rene. L’AU può avere un effetto tossico diretto sul rene. Inoltre, potrebbe essere il fattore intermedio che lega la presenza


di ipertensione al danno renale, infatti causando sia vasocostrizione renale sia aumento della pressione arteriosa sistemica, determina, di fatto, progressione della MRC. Studi condotti allo scopo di valutare se l’AU possa essere considerato un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo della malattia renale hanno fornito dati contrastanti (29). Ishani et al. (29), esaminando un lungo follow-up dello studio MRFIT, descrivono un’associazione diretta tra AU e sviluppo di malattia renale terminale, anche se si attenuava con l’esclusione dei pazienti con presistente MRC (stima del filtrato glomerulare <60 ml/min o proteinuria). Mentre questi risultati suggeriscono che l’AU possa essere un marker di ridotta funzione renale anziché una causa diretta di malattia renale incipiente, recentemente sono state pubblicate forti evidenze a favore dell’ipotesi che elevati valori di AU possano contribuire direttamente allo sviluppo della malattia renale. Uno studio condotto su 21.475 soggetti sani seguiti per un follow-up medio di 7 anni ha analizzato la relazione tra livelli di acido urico e lo sviluppo di danno renale. Gli Autori concludono che livelli anche lievemente aumentati di AU sono in grado di aumentare del 26 per cento il rischio di sviluppare malattia renale de novo, anche tenendo conto di numerosi fattori di rischio confondenti inclusa la stima del filtrato glomerulare al basale (6). Inoltre, negli studi ARIC e CHS, condotti su più di 13.000 partecipanti con funzione renale normale, il modello statistico più complesso e sfavorevole mostrava un rischio di sviluppare danno renale aumentato del 7 per cento per ogni aumento di 1 mg/dl dei livelli di acido urico al basale (30). Tutto considerato, l’AU potrebbe indurre la malattia renale sia direttamente che indirettamente favorendo altri noti meccanismi di danno.

Terapia ipouricemizzante per una maggiore protezione cardio-renale? Sebbene il ruolo patogenetico dell’AU nello sviluppo degli eventi CV e renali sia oggetto di numerose pubblicazioni,

al momento attuale solo piccoli studi con ridotta potenza statistica hanno indagato l’effetto di una riduzione dell’AU secondaria a intervento farmacologico. Questi, peraltro, suggeriscono il raggiungimento di un miglior controllo pressorio e di un rallentamento della progressione renale imputabile all’assunzione di terapie ipouricemizzanti (31). In una popolazione di 9.924 veterani iperuricemici, l’impiego di allopurinolo, la molecola più usata in tale condizione clinica, si è associata con una riduzione del 25 per cento della mortalità per tutte le cause (32). Studi randomizzati mostrano riduzione dei valori pressori (10), del danno CV e della velocità di progressione della MRC nei pazienti in allopurinolo. Anche nello studio di Goicoechea (33), i pazienti in allopurinolo per un adeguato follow-up di 24 mesi, si giovavano di una ridotta progressione della MRC, ridotta infiammazione subclinica, e minor rischio di ospedalizzazione e di eventi CV. Rimane da chiarire se questi effetti, indubbiamente positivi, siano totalmente da ricondurre alla riduzione dell’AU o alternativamente al meccanismo d’azione del farmaco che, inibendo la xantinossidasi, è in grado di migliorare la disfunzione endoteliale. In un’analisi post hoc condotta su 1.342 nefropatici con diabete tipo 2 partecipanti allo studio RENAAL, i pazienti in trattamento con losartan avevano valori più bassi di AU e minor rischio di eventi renali rispetto a quelli in placebo (34). L’effetto di losartan sull’AU spiegava circa il 20 per cento della sua azione nefroprotettiva. Questi dati confermano e ampliano quelli derivanti dallo studio LIFE (79) che segnalavano una relazione lineare tra la riduzione dell’AU e quella degli eventi CV nei pazienti in losartan. L’effetto protettivo in termini CV e renali che si è osservato potrebbe essere, almeno in parte, dovuto all’azione uricosurica del losartan. Infatti, questa molecola aumenta l’escrezione urinaria di urato inibendo l’assorbimento renale mediato dall’URAT 1. Questo trasportatore di anioni organici è stato recentemente descritto non solo a livello delle cellule tubulari prossimali, ma anche in cellule

muscolari lisce di aorta umana (35). Si potrebbe pertanto speculare che losartan possa attuare il suo effetto protettivo prevenendo l’entrata dell’AU nelle cellule muscolari lisce vascolari, riducendo così la proliferazione cellulare e l’infiltrato infiammatorio mediato dalll’espressione di MCP-1. Ulteriori studi con un disegno prospettico sono necessari per confermare questi dati incoraggianti.

Conclusioni Numerosi studi suggeriscono che l’iperuricemia anche lieve sia da considerarsi un predittore indipendente di eventi CV e renali, e che possa essere implicato nello sviluppo iniziale del danno CV e renale. Dati preliminari farebbero ipotizzare che la riduzione farmacologica dei livelli di acido urico possa contribuire alla protezione CV e renale. Sono necessari ulteriori studi per poter confermare il ruolo dell’AU come potenziale target della terapia cardiorenale.

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Nutrizione

Diabete di tipo 2 Gli effetti protettivi del consumo di caffè sul rischio di patologia Diversi studi epidemiologici indicano una relazione inversa tra consumo moderato e costante di caffÈ e rischio di diabete non attribuibile alla caffeina, ma forse a un’attività antinfiammatoria e antiossidante

w Effetto protettivo: i possibili meccanismi

I

l diabete di tipo 2, malattia cronicodegenerativa caratterizzata da un aumento del glucosio nel sangue, rappresenta la quarta causa di morte nei Paesi industrializzati. In Italia, e nel resto del mondo, l’incidenza di questa malattia risulta in aumento: nell’ultimo decennio, infatti, è passata dal 3,7 per cento nel 2000, al 4,9 per cento nel 2010 (ISTAT, Serie storiche e Annuario statistico 2011), con previsioni a lungo termine che sembrano indicare un raddoppio per il 2025. Oggi, quindi, circa 3 milioni di italiani soffrono di questa patologia, ma a questo numero deve aggiungersi circa 1 milione di persone che ne sono affette senza saperlo. L’insorgenza del diabete di tipo 2 è legata a numerosi fattori di rischio: alcuni di questi non sono modificabili (età, razza e familiarità), mentre altri possono essere modulati attraverso opportune modifiche nello stile di vita (sovrappeso, obesità e scarso esercizio fisico). La dieta, insieme all’esercizio fisico, rappresenta uno degli strumenti più importanti nella prevenzione del diabete.

Fausta Natella Istituto Nazionale di Ricerca Alimenti e Nutrizione, INRAN (ora accorpato al Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura, CRA)

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7 per cento (rispetto al consumo nullo) per ogni tazza/die di caffè consumato (Figura 1), mentre il rischio di ammalarsi diminuisce di un terzo (rispetto al consumo nullo) per chi consuma 3-4 tazze di caffè decaffeinato al giorno.

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Negli ultimi anni, numerosissimi studi epidemiologici hanno suggerito che il consumo moderato e prolungato di caffè sia associato a una riduzione del rischio di sviluppare diabete di tipo 2.

Caffè e diabete: quale relazione? All’inizio degli anni ’70 venne osservato che un aumento nel consumo di caffè era in grado di ridurre i livelli plasmatici di glucosio (1). Nel 2002 viene pubblicato il primo studio epidemiologico che dimostra come un abituale consumo di caffè sia associato a un minore rischio di sviluppare diabete di tipo 2 (2). Questa osservazione è stata poi confermata da numerosi studi epidemiologici e da due metanalisi. Questi studi hanno dimostrato che l’azione preventiva del caffè è valida in molti gruppi di popolazioni e regioni del mondo (studi differenti sono stati condotti in diverse zone del mondo, dall’America al Giappone), non è relativa al sesso (maschi e femmine sono ugualmente protetti), né alla tipologia del caffè consumato (con caffeina o senza). Gli studi di metanalisi (3,4) dimostrano che l’effetto protettivo del caffè è dosedipendente: la riduzione del rischio è maggiore quanto maggiore è il consumo di caffè, con una diminuzione di circa il

La caffeina, quindi, non sembra essere responsabile dell’effetto protettivo del caffè. Oltre alla caffeina, il caffè contiene altre centinaia di molecole biologicamente attive, tra cui polisaccaridi, lipidi acidi fenolici e minerali. Alcune di queste molecole potrebbero avere un ruolo nella prevenzione del diabete, ma al momento non c’è certezza su quale sia/siano gli attori principali e quale sia/siano i meccanismi d’azione con cui viene esplicato questo effetto. Studi sperimentali dimostrano che la caffeina ha un effetto negativo sul metabolismo del glucosio: il suo consumo occasionale, infatti, riduce la sensibilità all’insulina e aumenta i livelli plasmatici di glucosio. Ma questi effetti potrebbero essere attenuati da un consumo regolare. I composti fenolici presenti nel caffè sembrerebbero avere un effetto positivo sull’omeostasi del glucosio: studi su modelli animali dimostrano che l’acido clorogenico riduce i livelli plasmatici di glucosio e aumenta la sensibilità all’insulina. Anche il magnesio, la trigonellina e le melanoidine potrebbero avere effetti più o meno diretti sul controllo dei livelli plasmatici del glucosio. Sono anche state prese in considerazione azioni diverse da quella del controllo della glicemia e dell’insulinemia: dall’attività antinfiammatoria a quella antiossidante,


Figura 1

Relazione tra consumo di caffè e rischio di contrarre DT2* 1,2 1,0

0,8 Rischio Relativo

ma al momento nessuno dei meccanismi ipotizzati può essere indicato come certo. Le osservazioni epidemiologiche fanno ipotizzare che la metodologia di preparazione (filtrato, bollito, moka, espresso ecc.), la modalità di consumo (con o senza zucchero, dolcificanti, latte ecc.) e l’origine (Robusta o Arabica) non abbiano influenza sull’azione preventiva del caffè. La relazione inversa tra consumo di caffè e rischio di diabete sembra permanere anche quando vengono presi in considerazione endpoints intermedi, come livelli plasmatici di glucosio e insulina, e stato di infiammazione. È stato, infatti, osservato che il consumo di caffè è consistentemente associato con una più bassa prevalenza di impaired-glucose tolerance (IGT), iperglicemia (a digiuno e dopo carico di glucosio), iperinsulinemia e sensibilità all’insulina (5,6,7). Diversi studi epidemiologici dimostrano un’associazione inversa tra consumo di caffè e markers di infiammazione e disfunzione endoteliale, sia in soggetti sani che diabetici (8,9). Mentre c’é qualche indicazione epidemiologica (tutta da confermare) che il consumo di caffè sia inversamente associato alla sindrome metabolica (patologia fortemente correlata al diabete) (10) e positivamente associato ai livelli plasmatici di adiponectina (ormone che regola positivamente il catabolismo del glucosio e la sensibilità all’insulina) (11). A conferma di tutte queste osservazioni epidemiologiche, però, non sono ancora stati condotti trial clinici che abbiano come endpoint la mortalità per diabete. Qualche studio sperimentale (su uomini e modelli animali) è stato condotto sugli endpoints intermedi, ma i risultati non sono ancora sufficienti per trarre conclusioni.

0,6

0,4

0,2

0

≤1

2

6

7

Note: *in diverse categorie di consumatori di caffè. Fonte: Huxley et al. Arch Intern Med 2009.

di caffè non aumenti il rischio di morte per malattie cardiovascolari (che è una delle principali cause di morte in questo gruppo di popolazione) in soggetti diabetici (12,13,14). Inoltre uno studio epidemiologico ha mostrato che il consumo di caffè può ridurre il rischio di sviluppare diabete in individui che hanno una ridotta tolleranza ai carboidrati (15). Al momento, quindi, non sembra ci sia alcuna controindicazione al consumo di caffè anche nei soggetti diabetici, purché moderato; il diabetologo potrebbe al limite consigliare di passare al consumo di caffè decaffeinato per evitare i possibili effetti negativi della caffeina sul controllo della glicemia e della pressione.

w Il ruolo nel diabete Il caffè, quindi, sembra avere un ruolo preventivo: individui sani che consumano caffè hanno un minor rischio di contrarre la patologia; ma qual è l’effetto del consumo di caffè nei soggetti già affetti da diabete? Gli studi condotti a oggi sono insufficienti per dare indicazioni chiare, ma ci sono evidenze epidemiologiche che indicano come il consumo

4

Numero di tazzine

w Caffè e salute Se il caffè, nella sua globalità, può risultare protettivo nei confronti del diabete, la caffeina (una delle più importanti e studiate molecole del caffè) può avere anche altri effetti sulla salute, alcuni dei quali possono essere negativi: dall’aumento della pressione arteriosa all’insonnia. Per questo motivo, bisogna fare una certa

attenzione alla quantità giornaliera di consumo. Sebbene, al momento, non sia stato ancora stabilito un livello di consumo massimo accettabile, la revisione della letteratura indica come sicuro un apporto di 4-5mg di caffeina/kg/die in individui adulti sani; questo limite va ridotto a 3mg/kg/die nelle donne in gravidanza, e a 2 mg/kg nei bambini (Tabella 1). Uno studio epidemiologico (16) appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica The New England Journal of Medicine conferma l’esistenza di un’associazione inversa tra consumo di caffè e rischio di diabete, e sembra aggiungere un nuovo elemento per il ruolo del caffè sulla salute. In questo studio è stata valutata la relazione tra consumo di caffè e tutte le cause di mortalità in una popolazione di circa 400.000 individui. Il risultato è che il consumo di caffè è inversamente associato con la mortalità generale e con la mortalità causa-specifica per malattie cardiovascolari, respiratorie, ictus e diabete; nessuna associazione (né negativa, né positiva) è invece osservata con la morte per cancro.

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23


Nutrizione Tabella 1

Consumi di caffè indicati per età e condizione fisica Dose massima

Caffè/die

Attenzione

4-5 mg/Kg/die

85 Kg→ 380 mg/die

≤4-5

Cardiopatici, ipertesi, chi soffre di turbe dispeptiche o ha problemi d’ansia e d’insonnia, dovrebbero ridurre il consumo (o passare al caffè decaffeinato)

Donne in gravidanza/ allattamento

3 mg/Kg/die

60 Kg→ 180 mg/die

≤3

La caffeina attraversa la placenta ed è escreta nel latte materno

Bambini

2 mg/Kg/die

10 anni, 30Kg→ 60 mg/die

<1

Bevande a base di cola, tè e cioccolata sono fonti importanti di caffeina nei bambini

Adulti sani

Conclusioni Concludendo, la numerosità e la coerenza delle osservazioni epidemiologiche fornisce una chiara indicazione che individui sani, consumatori moderati e abituali di caffè, siano protetti, rispetto ai non consumatori, dal rischio di contrarre il diabete di tipo 2. Nonostante ciò, al momento non si può raccomandare un aumento del consumo a scopo preventivo, poiché la caffeina presente nel caffè può avere anche effetti negativi sulla salute. A oggi, non ci sono evidenze scientifiche che indichino il caffè come alimento negativo per la nostra salute; ci sono, per contro, indicazioni che sembrano andare nel senso contrario. Come per tutti gli altri alimenti, il consumo di caffè va inserito in una dieta sana, equilibrata e variegata, limitando gli eccessi. Bisogna, infine, ricordare che il modo migliore per prevenire il diabete è combattere il sovrappeso e l’obesità e praticare un buon livello di attività fisica.

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Esempio

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FARMACI

Psoriasi lieve-moderata L’associazione fissa calcipotriolo-betametasone in gel come terapia di prima linea

U

na patologia fortemente invalidante che compromette la

negativamente sull’aderenza. Come per altre patologie croniche,

qualità di vita, condizionando la sfera sociale e lavorativa.

anche nel caso della psoriasi l’aderenza è fondamentale. Le

È questo il ritratto della psoriasi, di cui nel nostro Paese

conseguenze di una scarsa aderenza sono molteplici, soprattutto se

si stima siano affetti circa 2,5 milioni di persone, che emerge da

consideriamo i dati italiani. Il 60 per cento degli psoriasici non ha mai

una recente indagine condotta da Datanalysis su 600 pazienti con

usato terapie topiche e circa un terzo si autoprescrive il trattamento;

psoriasi da lieve a moderata. La ricerca ha interessato 5 Regioni

molti pazienti utilizzano addirittura shampoo anti-forfora al posto

(Lombardia, Piemonte, Campania, Puglia e Basilicata) ed è stata

delle terapie specifiche indicate. Il risultato è un aggravamento della

condotta per verificare l’impatto della patologia sulla vita quotidiana

patologia e della condizione psicologica del paziente, ma anche un

e per comprendere le esigenze di cura dei malati. Complessiva-

incremento dei costi sociali ed economici derivanti dalla perdita di

mente oltre l’84 per cento dei pazienti ritiene che i sintomi

giornate lavorative e da un aumento nel numero di visite mediche.

rendano la vita di tutti i giorni abbastanza o molto difficile. Concentrandosi sui dati della Lombardia, si può vedere che i sintomi

Le terapie topiche “tradizionali”

più gravosi sono il prurito continuo che porta a frequente grattamento (indicato dal 32,3 per cento dei pazienti), il dolore spesso

Nella psoriasi lieve-moderata, la terapia d’elezione è rappresentata

presente (23,7 per cento) e il sanguinamento conseguente al grat-

dai trattamenti topici. Questi si applicano direttamente sulle aree

tamento (22,9 per cento). A questi si accostano i disturbi di natura

cutanee interessate dalle manifestazioni psoriasiche. In genere si

psicologica, con forte senso di imbarazzo e vergogna (38,1

tratta di prodotti in diverse formulazioni a base di creme, pomate

per cento), frustrazione verso il partner e i figli (45,2 per cento),

e unguenti .

isolamento e ansia. Nei casi estremi, si arriva a stati depressivi

La sola terapia cortisonica dovrebbe essere usata per brevi perio-

gravi. A quest’ultimo riguardo le stime nazionali e internazionali

di, principalmente nella fase di attacco, e su aree limitate (evitando le

identificano l’associazione psoriasi-depressione nel 60 per cento dei

zone delle pieghe cutanee), ed è riservata agli adulti; è una terapia

malati, e di questi ben il 10 per cento arriva a stadi talmente gravi da

a rapida azione, ma dopo sospensione la malattia può aggravarsi in

portare verso idee suicidarie. È un quadro molto poco confortante,

breve tempo.

a cui si aggiunge il pregiudizio nei confronti del malato. Nel nostro

Il ditranolo ha un’azione antiproliferativa. Le indicazioni prevedono

Paese, molti considerano la psoriasi una patologia contagiosa, con la

di usare la sostanza ad alte concentrazioni (0,3-3 per cento in cre-

conseguenza che il malato viene evitato, e quindi spesso è costretto

ma o unguento). Il prodotto è applicato sulle lesioni psoriasiche e

a frequentare esclusivamente persone con psoriasi.

lasciato agire per 10-30 minuti. Il ditranolo è in grado di indurre una

Il problema dell’aderenza terapeutica

prolungata remissione della malatta. Lo svantaggio è legato al fatto che si tratta di una sostanza che può provocare irritazioni nella cute circostante la zona di applicazione.

Sull’elevato disagio legato ai sintomi pesa anche la frustrazione

I derivati del catrame presentano un’azione simile al ditranolo, ma

derivante dalle terapie topiche tradizionali che, in cambio di

sono in disuso a causa dei loro effetti irritanti e dell’odore sgradevole.

una risoluzione di breve durata, impongono trattamenti laboriosi che

Possono inoltre essere causa di follicoliti.

spesso vincolano il paziente a estenuanti medicazioni e influiscono

Tra i derivati della vitamina D3 rientrano il calcitriolo, il tacal-

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MEDICO E PAZIENTE

6.2012


citolo e il calcipotriolo. Questi composti hanno un’elevata attività sulla regolazione cellulare, e hanno un’efficacia sovrapponibile ai cortisonici, senza però gli effetti collaterali associati a questi ultimi quando usati non in associazione. Possono essere impiegati per periodi di trattamento prolungati. Il tazarotene è un retinoide in gel che va usato per un periodo di 12 settimane, e applicato la sera. A causa degli effetti irritanti andrebbe impiegato solo nelle zone interessate dalle manifestazioni di malattia. È efficace anche nei casi di psoriasi ungueale. Infine, nei periodi di remissione possono essere usati prodotti emollienti (creme idratanti). Vitamina D e betametasone in gel in sinergia per un trattamento innovativo ed efficace Nonostante l’ampia disponibilità di opzioni terapeutiche, i pazienti

Psoriasi del cuoio capelluto

affetti da psoriasi lieve-moderata si mostrano poco soddisfatti della

Fonte: Girolomoni G. Medico e paziente 2012; 5: 14-16

gestione clinica della patologia. I più recenti dati, relativi alla Lombardia, mostrano come quasi il 60 per cento dei pazienti si senta

2008) su 1.505 adulti con psoriasi moderata, la formulazione in gel

insoddisfatto della terapia topica e per quasi il 40 per cento i trat-

che è stata sviluppata per il cuoio capelluto ha mostrato efficacia

tamenti topici attualmente utilizzati non risolvono nulla o apportano

superiore sia rispetto alla monoterapia con i due componenti che

solo benefici temporanei. Il trattamento “ideale”, secondo i pazienti,

rispetto a placebo, già dopo la seconda settimana di terapia. In un

dovrebbe essere efficace sul prurito, di facile impiego, comportare

altro studio su 458 pazienti, della durata di 8 settimane, l’efficacia e

una perdita di tempo limitata, e infine essere accettabile dal punto di

la superiorità del gel si evidenziavano nelle prime fasi di trattamento,

vista cosmetico. Vi è quindi la necessità di un trattamento in grado di

e la quota di pazienti in remissione completa o quasi è risultata del

coniugare efficacia e semplicità d’impiego. In quest’ottica si è mossa

39,9 per cento rispetto al 17,9 per cento osservato per il trattamento

la ricerca farmacologica, sviluppando un prodotto innovativo in grado

con tacalcitolo unguento (Langley et al. 2011). Dagli studi è risultato

di colmare i bisogni insoddsfatti dei pazienti. Si tratta dell’associa-

inoltre, che la formulazione in gel e quella in unguento hanno un’ef-

zione fissa calcipotriolo-betametasone dipropionato in gel. È

ficacia sovrapponibile, e un profilo di tollerabilità favorevole anche

un importante passo avanti nella gestione di questa patologia, tanto

sul lungo periodo. In tutti gli studi, il trattamento con l’associazione

che in un recente consensus, presentato a novembre in occasione

calcipotriolo-betametasone comportava significativi miglioramenti

del Congresso nazionale SIDeMaST di Roma, l’associazione

in termini di qualità di vita. I pazienti inoltre, mostravano un elevato

fissa è stata “eletta” come trattamento di prima linea nella

livello di soddsfazione verso la terapia. In uno studio multicentrico

psoriasi lieve-moderata. Il documento (G. Girolomoni et al. Gior

internazionale (Clareus et al., 2009), a cui hanno preso parte 1.124

Ita Dermatol Venereol 2012; 147: S2, n. 5) è frutto della revisione

pazienti, il tasso di soddisfazione è risultato molto elevato (73,6 per

degli studi clinici sulla terapia di associazione, pubbblicati in lettera-

cento nel primo ciclo di trattamento e 80 per cento nel terzo ciclo).

tura. I due principi attivi svolgono un’azione sinergica: il calcipotriolo

Il motivo di gradimento più citato è stata l’efficacia (94,9 per cento),

migliora la differenziazione delle cellule e ne ripristina il normale

seguita da maneggevolezza (32,5), tollerabilità (28,5) e accettabilità

funzionamento, mentre il betametasone riduce l’eritema, il prurito e

cosmetica (27,8). Concludendo possiamo dire che l’associazione in

l’infiltrato infiammatorio. L’azione sinergica si esplica anche attraverso

gel è stata “promossa“ a buon diritto come terapia di prima scelta

la soppressione da parte del betametasone, dell’effetto irritativo del

nella psoriasi lieve-moderata, in quanto in grado di garantire efficacia,

calcipotriolo. Dalla valutazione di tutti i dati (popolazione complessiva

tollerabilità e una semplice gestione da parte del paziente. Il suo

di 11.000 pazienti) è risultato che l’associazione fissa in un’unica

impiego potrebbe dunque essere potenzialmente utile per invertire

somministrazione giornaliera ha un’efficacia superiore rispetto a

il negativo trend dell’aderenza, che come abbiamo visto costituisce

tutte le terapie “classiche” di confronto. In uno studio (Jemec et al.,

tuttora un problema clinico e socio-economico oneroso.

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SEGNALAZIONI dalle aziende

TEVA

Quando una vocazione si fa concreta nell’impegno sociale “C

urare il presente, sostenere il futuro” è il motto che Teva, una delle prime industrie farmaceutiche al mondo, ha voluto scegliere per presentarsi: un biglietto da visita che è sintesi della sua attitudine aziendale. La società, infatti, come leader mondiale nella produzione di farmaci equivalenti, è impegnata nell’accrescere l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità attraverso lo sviluppo di farmaci a prezzi accessibili. L’impegno al fianco dei pazienti viene ora ampliato con un’iniziativa di Corporate Social Responsability (CSR), con la quale l’azienda intende dare ulteriore impulso alla sua vocazione verso “l’altro”, ambito nel quale ha già supportato diversi progetti di sostenibilità sociale ed ecologica, per affermare un nuovo modo di fare impresa in Italia. E l’impegno va oltre i “pazienti”, per estendersi alle attività di prevenzione, di sviluppo e di crescita, con la promozione di una cultura di solidarietà sociale. Emblematica in tal senso è stata la Giornata del volontariato aziendale del 15 novembre scorso, un’iniziativa che ha offerto ai dipendenti della sede milanese l’opportunità di spendere una giornata lavorativa in attività fuori dall’ufficio a favore di soggetti fragili o disagiati. L’adesione al progetto è stata grande e per molti ha rappresentato anche, e appunto, l’occasione di vedere da vicino per la prima volta il mondo del volontariato. Grazie al lavoro di coordinamento di Vita Consulting, società specializzata in CSR e marketing sociale, questi lavoratori hanno potuto scegliere tra quattro realtà del non profit che Teva sta sostenendo, assecondando ciascuno le proprie inclinazioni. ❱❱ CAF Onlus, Centro per il bambino maltrattato. Si tratta di un’associazione che si occupa di minori vittime di abusi e maltrattamenti, fondata nel 1979 da Ida Borletti. I volontari, divisi in gruppi, si sono occupati di lavori manuali come giardinaggio, pulizia, guardaroba, parco biciclette, cucina e raccolta fondi. ❱❱ Fondazione Don Gnocchi. Questa Onlus offre assistenza sanitaria e sociale ad anziani e disabili ed è presente con 28 Centri in tutto il nostro Paese. I volontari Teva nel corso della giornata hanno messo in scena uno spettacolo insieme agli ospiti. ❱❱ AISM, Associazione italiana sclerosi multipla. Presso questa

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organizzazione, presente da 40 anni in Italia col fine di sostenere i malati, promuovere la ricerca e offrire servizi socio-sanitari, i volontari hanno approfondito i temi legati alla donna e alla sclerosi multipla, incontrando giovani pazienti e caregiver, ma svolgendo anche attività operative come il confezionamento di pacchi viveri per le visite domiciliari. ❱❱ Arché Onlus. Questa associazione di volontariato è nata nel 1991 e si occupa di disagio sociale grave di bambini e famiglie, di emarginazione, di prevenzione, di malattia e sofferenza minorile in Italia e nel “Sud del mondo”. I volontari hanno svolto attività di riordino, tinteggiatura, allestimenti natalizi e hanno tenuto compagnia ai piccoli ospiti. Lo sport come valore sociale Tra le attività nelle quali Teva ha voluto investire compare anche lo sport, in quanto efficace strumento di prevenzione e dal fondamentale valore sociale. L’azienda è diventata sponsor ufficiale dell’iniziativa FuturFisi, dedicata ai giovani tra i 15 e i 20 anni. Questo progetto si sviluppa su tempi medio-lunghi e intende offrire supporto e visibilità ai giovani atleti che saranno i campioni di domani. Gli esperti della Federazione italiana sport invernali individueranno talenti di tutte le 10 discipline federali degli sport invernali, da seguire e sostenere nel tempo, grazie anche all’impegno della Divisione preparazione olimpica del Coni. Il progetto ha anche l’obiettivo di formare e aggiornare i tecnici della Federazione. L’azienda è stata inoltre tra i principali sponsor della Corsa della speranza, che si è svolta il 14 ottobre scorso a Milano. Questa tradizionale marcia non competitiva è finalizzata alla raccolta di fondi, destinati quest’anno a favore dell’Associazione Dynamo Camp Onlus, per un progetto di terapia ricreativa per piccoli malati oncologici, e dell’Istituto nazionale tumori di Milano, per Passport of cure, Linee guida e metodiche per il follow up clinico di pazienti guariti da tumore. Teva sviluppa, produce e commercializza farmaci equivalenti di qualità a prezzi accessibili, farmaci innovativi, specialità farmaceutiche e principi attivi.



Premio Galeno

Fingolimod e l’antidepressivo agomelatina sono i farmaci più innovativi del 2012

L

o scorso 28 novembre a Milano, negli splendidi spazi cinquecenteschi di Palazzo Spinola, sede della storica Società dei Giardini, si è tenuta la cerimonia finale del Premio Galeno 2012. I farmaci che quest’anno si sono aggiudicati, a pari merito, il riconoscimento per l’innovazione farmacologica sono fingolimod (Gilenya), molecola orale svluppata da Novartis per il trattamento della sclerosi multipla (SM), e l’antidepressivo agomelatina (Valdoxan), frutto della ricerca Servier. Fingolimod è la prima molecola orale registrata per la SM, con un evidente vantaggio in termini di compliance da parte del paziente. Analogo della sfingosina, fingolimod ne desensibilizza i recettori: proprio questo mecca-

nismo d’azione lo differenzia dai farmaci con la stessa indicazione terapeutica. In particolare, fingolimod agisce sui recettori localizzati sui linfociti, promuovendone una ritenzione selettiva e reversibile nel tessuto linfonodale, così come sui recettori degli oligodendrociti, con un potenziale effetto a livello del sistema nervoso centrale, in grado di favorire i meccanismi di riparazione e rimielinizzazione. Agomelatina è un antidepressivo innovativo: si comporta come agonista dei recettori della melatonina 1 e 2 e come antagonista del recettore per la serotonina 5HT2C, promuovendo una risincronizzazione dei ritmi biologici, che sono alterati nel paziente depresso. Gli effetti collaterali sembrano essere estremamente

Novartis

Gli inibitori della DPP-IV, terapia “ideale” nell’anziano diabetico

L

a qualità dell’assistenza e della cura nei soggetti anziani con diabete è al centro del recente rapporto “Anziani con diabete” che rientra nel progetto Annali AMD (Associazione medici diabetologi). Nel nostro Paese su circa 3 milioni di diabetici, due terzi hanno un’età superiore ai 65 anni, con il 25 per cento “over 75”. Nella popolazione anziana la qualità dell’assistenza è buona. Lo testimonia l’elevata quota di persone “over 65”, che raggiunge valori di HbA1c del 7-8 per cento: 30 e 25 per cento rispettivamente. Per quel che riguarda le terapie, le sulfaniluree sono ancora i farmaci più usati (mediamente nel 36 per cento degli over 65). Questi farmaci tuttavia, espongono a un elevato rischio di ipoglicemia e alle complicanze correlate. I trattamenti antidiabetici in questa classe di pazienti devono tenere conto dell’età e della loro fragilità, garantendo efficacia e un elevato profilo di tollerabilità. E al riguardo, gli inibitori della DPP-IV (per esempio vildagliptin) sembrano essere molecole particolarmente indicate, in quanto si associano a un minore rischio di crisi ipoglicemiche e di disabilità conseguente.

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contenuti e il farmaco può quindi coprire una nicchia di pazienti per i quali le terapie disponibili non sono sufficienti oppure nei quali la depressione si associa ad altre patologie neurodegenerative, cardiovascolari e oncologiche che spesso limitano la compliance alla terapia antidepressiva. Il premio per la ricerca clinica o sperimentale in Italia è stato assegnato a una giovane biologa ricercatrice, Sofia Francia. Il suo lavoro, pubblicato su Nature, dimostra per la prima volta l’esistenza di molecole di RNA non codificante, che svolgono un ruolo cruciale nell’attivazione della risposta al danno al DNA. Infine, un premio speciale alla carriera è stato conferito al prof. Rodolfo Paoletti, presidente del Premio Galeno Italia.

Lilly

Un’unica opzione per sintomi urinari e disfunzione erettile

I

mportanti novità arrivano per gli uomini che soffrono di sintomi delle basse vie urinarie (LUTS, lower urinary tract symptoms), spesso collegati all’iperplasia prostatica benigna, e di disfunzione erettile. È disponibile infatti, la prima terapia indicata nel trattamento di queste due condizioni. Si tratta di tadalafil in monosomministrazione giornaliera (5 mg/die). Il trattamento era già indicato nei pazienti affetti da disfunzione erettile; ora è stato approvato anche per la LUTS correlata all’aumento di volume della prostata in pazienti con disfunzione erettile, già trattati per questa patologia. Secondo le stime, nel nostro Paese sono circa 3,5 milioni gli uomini di mezza età affetti dalle due patologie, per i quali dunque questa nuova opzione di terapia potrebbe rappresentare una svolta. Per ottimizzare le potenzialità del trattamento, è essenziale individuare i pazienti in cui le due patologie coesistono. In questo caso il rapporto medicopaziente è fondamentale. Il curante dovrebbe agire come una sorta di “detective” scientifico cercando di scoprire la presenza di sintomi riconducibili alle due patologie: non dimentichiamo infatti che il paziente spesso mostra reticenza nell’affrontare e parlare della propria condizione.



AstraZeneca

tumore al polmone: I progressi scientifici e la consapevolezza del paziente

F

ino a due anni fa un paziente con diagnosi di tumore al polmone poteva contare solo sulla chemioterapia che, per via dell’azione indiscriminata sia sulle cellule tumorali che su quelle sane, ha spesso un impatto negativo sulla qualità di vita. Due anni fa, però, con l’introduzione di gefitinib nel trattamento dei tumori positivi per mutazione del gene EGFR, si è assistito a un radicale cambio di direzione nella pratica clinica. Lo ha spiegato Giorgio Vittorio Scagliotti, dell’Università di Torino, in occasione della presentazione a Milano della mostra fotografica “Piccoli respiri di normalità”, di Massimo Mastrorillo, voluta da Walce Onlus (Women against lung cancer in Europe)

e AstraZeneca. Il fotografo ha voluto celebrare il valore prezioso della quotidianità, rivalutata e vissuta fino in fondo da chi ha “incontrato” sul suo cammino il tumore al polmone, per trasmettere un messaggio di ottimismo e positività. Il cancro al polmone, con i suoi oltre 32mila nuovi casi annuali nel nostro Paese e una mortalità dell’80 per cento nel primo anno dalla diagnosi, rappresenta un vero big killer che fa più vittime di quelli al seno, al colon e alla prostata insieme. Negli ultimi anni, la conoscenza sempre più sofisticata dei meccanismi genetici e molecolari della malattia ha consentito lo sviluppo di sistemi di diagnosi e cura mirati alla specificità del paziente. La forma non a piccole cellule (NSCLC)

Lilly

Novembre, mese del “Lung Cancer Awareness”

R

iflettori accesi su una delle forme tumorali più temibili lo scorso novembre, dichiarato mese della sensibilizzazione sul tumore al polmone dalla Lung Cancer Alliance. Nonostante l’impatto di questa malattia, per numero di persone colpite (in Italia 38mila nel 2011), difficoltà di trattamento e decessi, e le proiezioni sul futuro, che vedono l’incidenza in aumento (circa 45.000 nuovi casi nel 2020 e 51.500 nel 2030 nel nostro Paese), i fondi destinati alla ricerca di soluzioni per il tumore al polmone sono meno di quelli per altre malattie oncologiche. Secondol’AIOM, quelle del polmone costituiscono l’11 per cento di tutte le nuove diagnosi di tumore nella popolazione generale. Secondo le stime CNESP – Iss, la sua incidenza è in diminuzione fra gli uomini e in aumento fra le donne, tra le quali, in particolare è notevolmente cresciuta anche la mortalità, con un tasso quasi raddoppiato fra il 1970 e il 2002. L’innovazione terapeutica comunque, sta portando sempre maggiori risultati sulla sopravvivenza e sulla qualità di vita dei pazienti, anche se tanto ancora si può fare sia per le terapie che per il supporto assistenziale al malato.

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rappresenta l’85 per cento dei casi e il 1015 per cento circa di questi, mostrando positività alla mutazione dell’EGFR-TK, può essere trattato con gefitinib, che è in grado di ottenere un tasso di risposta superiore al 70 per cento. Il farmaco è la prima monoterapia orale a bersaglio molecolare autorizzata in Italia per il trattamento in prima linea dei pazienti con NSCLC localmente avanzato o metastatico con positività alla mutazione EGFR-TK: gefitinib si è dimostrato superiore alla chemioterapia a base di platino sia in prima che in seconda linea. La mostra fotografica, inaugurata nel mese mondiale della sensibilizzazione sul cancro al polmone, è “visitabile” sul sito www.womenagainstlungcancer.eu.

MSD

Gestire la chemioterapia per curare la qualità di vita

G

li effetti collaterali della chemioterapia, nausea e vomito in primis, costituiscono un aspetto importante e negativo della vita del paziente con tumore. In una recente ricerca su 850 pazienti, più del 45 per cento sottolinea il forte impatto negativo delle terapie oncologiche. La ricerca fa parte del progetto ONCOMovies® promosso da Salute Donna onlus, dalla Società italiana di Psico-oncologia e realizzato con il sostegno di MSD, che ha voluto richiamare l’attenzione sulla qualità di vita di questi pazienti, attraverso i film che si sono occupati di cancro e che offrono la possibilità di mettere in evidenza i problemi dei malati. Sul sito www.nonausea.it è possibile guardare i trailer tratti dai grandi classici del cinema e commentate da un board scientifico e anche inviare le proprie storie. La necessità di promuovere l’attenzione su questi temi è dovuta alla scarsa rilevanza di cui “godono” e alla gestione non appropriata, nonostante possano essere adeguatamente contrastati con terapie di supporto efficaci e innovative; tra queste, aprepitant previene la nausea e il vomito da chemioterapia ed è stato individuato dalle più importanti Società scientifiche nazionali e internazionali come terapia di prima scelta nelle Linee guida di riferimento.


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