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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLII n. 1 - 2016
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Fibrillazione atriale le donne più esposte a eventi CV maggiori rispetto agli uomini Nutrizione il potenziale dei polifenoli nella protezione articolare Ipertensione l’associazione ACE-inibitore/calcioantagonista nel controllo della PA Normativa patente di guida a rischio per i soggetti affetti da OSAS
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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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CLINICA
Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci
TERAPIA
Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci
> Domenico D’Amico
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Medico e paziente n. 1 anno XLII - 2016 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia
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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it
Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio
in questo numero
sommario
Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero:
In copertina: immagine tratta da Ratner M. Nature Biotechnology 2014; 32: 1069–1070. doi:10.1038/nbt1114-1069
p 6 p 8
Pneumologia FIBROSI POLMONARE IDIOPATICA Sintomi, stadiazione e indicazioni di terapia
L’IPF è una polmonite interstiziale fibrosante progressiva e spesso fatale, di origine ignota. È limitata al polmone ed è associata a pattern radiologico o istopatologico di polmonite interstiziale usuale Christian Gurioli, Sara Tomassetti, Claudia Ravaglia,
Christian Gurioli Raffaele Izzo Piera Parpaglioni Cesare Peccarisi Venerino Poletti Claudia Ravaglia Sara Tomassetti
letti per voi
Venerino Poletti
p 14 Nutrizione
Il “filo rosso” tra alimentazione, stato infiammatorio e artrosi Il potenziale dei polifenoli nella protezione articolare
A livello sperimentale i risultati finora ottenuti mostrano le potenzialità di alcuni micronutrienti, soprattutto polifenoli, nel contrastare lo stato infiammatorio e la progressione dell’osteoartrosi
>>>>
Piera Parpaglioni
MEDICO E PAZIENTE
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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli
>>>>>>
sommario
p 20 Terapia
Ipertensione L’associazione ACE-inibitore/calcioantagonista nel controllo della PA
Non vi sono dubbi sul fatto che la terapia di associazione sia considerata la migliore strategia per ridurre significativamente la pressione arteriosa e le complicanze cardiovascolari a essa associate
Raffaele Izzo
p 26
Farminforma
p 28
NEWSsanità
• Normativa Patente di guida a rischio per chi soffre di OSAS Anche in Italia entra in vigore la direttiva europea
Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
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MEDICO E PAZIENTE
• Aifa L’uso dei farmaci in Italia: i dati preliminari del rapporto Osmed 2015
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Un strumento in pi첫 per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo
letti per voi Patologie cardiovascolari
Diabete e ipertensione: un’analisi dell’ACCORD evidenzia i vantaggi di un trattamento “aggressivo” della PA sul danno d’organo cardiaco £
L’ipertensione si associa frequentemente allo sviluppo e alla progressione di alterazioni strutturali e funzionali a livello degli organi bersaglio, tra cui in primis il cuore. Un marker di danno d’organo terminale è rappresentato dall’ipertrofia ventricolare sinistra (IVS). La presenza di tali alterazioni modifica il rischio cardiovascolare (CV) globale dei pazienti ipertesi, conferendo un profilo di rischio elevato, indipendentemente dai valori di pressione arteriosa (PA). È ben noto che l’abbassamento della pressione sistolica (PAS) di per sé conferisca protezione nei confronti del danno d’organo, comportando una regressione dell’IVS. Tuttavia al
momento non è ben chiarito se un trattamento antipertensivo aggressivo, che miri a portare i valori di PAS <120 mmHg possa comportare una riduzione dell’IVS. La questione è stata affrontata da questo studio, che ha arruolato 4.331 pazienti con diabete e che avevano preso parte all’ACCORD BP, un RCT che confrontava gli effetti di due strategie di intervento sulla PA, una aggressiva che mirava a ridurre la PAS a valori <120 mmHg e una standard in cui il target era PAS <140 mmHg. Nel presente studio sono stati valutati gli effetti in termini di prevenzione dello sviluppo/progressione di danno d’organo cardiaco, definito come riscontro elet-
trocardiografico di IVS. Per la diagnosi elettrocardiografica di IVS è stato applicato il criterio di Cornell. Al basale la prevalenza di IVS era comparabile tra i due gruppi ovvero 5,3 e 5,4 per cento nel braccio trattamento aggressivo e in quello standard, rispettivamente; trend analogo è stato registrato per i valori medi dell’indice di Cornell (1.456 vs 1.470 µV). Dopo un follow up di 4,4 anni tuttavia, la strategia farmacologica che mirava a un controllo rigoroso della PAS ha determinato una notevole diminuzione del rischio di sviluppare danno d’organo cardiaco rispetto a quanto osservato nel gruppo trattato con la strategia farmacologica meno rigorosa, con una riduzione del 39 per cento di IVS (OR 0,61 CI 95 per cento 0,43-0,88; P =0,008). Tale effetto è stato osservato in tutti i sottogruppi di pazienti considerati, indipendentemente da età, sesso, etnia, condizioni cliniche concomitanti. Inoltre tra i pazienti nel braccio “terapia aggressiva” è stata osservata una maggiore regressione del
£ Sempre più evidenze suggeriscono le potenzialità dell’ecografia delle ghiandole salivari (SGUS) nel discriminare i pazienti affetti L’ecografia delle ghiandole da sindrome di Sjögren (SS) primaria da quelli con sindrome sicca non immunomediata. Molto pochi al momento sono tuttavia i dati salivari si delinea strumento relativi a questa tecnica di indagine nel differenziare la SS dalle altre altamente specifico nel patologie reumatiche. A colmare questa carenza arrivano i risultati dello studio qui presentato e condotto da un gruppo di ricerca itapercorso diagnostico liano, che aveva come finalità quella di testare il potere diagnostico differenziale della sindrome della SGUS nel discriminare pazienti con SS da soggetti affetti da xerostomia e/o xeroftalmia associate a diagnosi di patologia indiffedi Sjögren: i risultati di uno renziata stabile del connettivo. Lo studio ha incluso 109 soggetti: 55 studio italiano con SS (definita secondo i criteri dell’American-European consensus group) e 54 con connettivopatia indifferenziata. L’ecografia è stata eseguita a livello delle ghiandole sottomandibolari e parotidi bilaterali, con determinazione dei volumi, dell’ecogenicità del parenchima e della disomogeneità. Le alterazioni dell’ecostruttura sono state classificate da 0 a 3, con cut-off >2. Ebbene nei soggetti SS sono stati osservati score ecografici più elevati rispetto a quanto risultava nei pazienti con connettivopatie indifferenziate (media 2,2 vs 0,2, P <0,0001). La scelta di un cut-off >2 si associava con una sensibilità del 65 per cento, una specificità del 96 per cento, valore predittivo positivo e negativo per diagnosi di SS rispettivamente del 95 e 73 per cento. Una correlazione significativa dal punto di vista statistico è stata osservata tra lo score SGUS e il rapporto biopsia della ghiandola salivare minore/focus score (r =0,484, P <0,0001). Lo studio dunque conferma una buona sensibilità e un’alta specificità per l’ecografia delle ghiandole salivari maggiori nella diagnosi differenziale della sindrome di Sjögren. Si tratta di risultati importanti, alla luce del fatto che l’identificazione di questa sindrome è spesso complicata, e la patologia si confonde il più delle volte con altre malattie reumatiche per la sovrapposizione dell’ampio spettro sintomatologico.
Reumatologia
Luciano N, Baldini C, Tarantini G et al. Rheumatology 2015; 54 (12): 2198-204
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grado di ipertrofia ventricolare sinistra rispetto a quanto osservato nel gruppo standard: indice medio aggiustato di Cornell 1.352 vs 1.447 µV (P <0,001). Il ridotto rischio di IVS tra i pazienti trattati in modo più aggressivo, secondo gli Autori del lavoro, è da attribuire in parte alla maggiore regressione di danno d’organo basale e in parte al minore tasso di sviluppo di IVS di nuova diagnosi. In sintesi dunque, possiamo dire che nei soggetti ad alto rischio CV perché ipertesi e diabetici, abbassare i valori di pressione sistolica al di sotto dei 120 mmHg porta a limitare in ma-
niera significativa anche lo sviluppo e la progressione di danno d’organo terminale. Tali considerazioni si inseriscono in una serie di recenti evidenze, tra cui per esempio il trial SPRINT (Medico e paziente 2015; 6-8), che riaprendo il dibattito sui target pressori ottimali da raggiungere, permetteranno di fare chiarezza su quali dovranno essere gli obiettivi terapeutici soprattutto nei pazienti che appartengono alla fascia alta del profilo di rischio CV.
Medicina di genere
Soliman EZ, Byington RP, Bigger JT et al. Hypertension 2015; 66: 1123-9.
£
ciascuno dei quattro principali cuscinetti di grasso epicardici o a iniezioni di 1 ml di soluzione fisiologica allo 0,9 per cento. L’incidenza di FA postoperatoria nel periodo cruciale ovvero entro 30 giorni dall’intervento, è stata del 7 per cento nel gruppo “botulino” e 30 per cento nel gruppo placebo (P =0,024). Nell’intervallo compreso tra 30 giorni e 1 anno, il trend positivo è stato confermato; in particolare, FA ricorrente è stata osservata nel 27 per cento dei pazienti placebo, e in nessun paziente che aveva ricevuto la tossina botulinica. Dal punto di vista della sicurezza i dati sono stati positivi, dal momento che non sono state registrate complicanze a 1 anno. I risultati ottenuti sono molto incoraggianti, sottolineano gli Autori del lavoro, anche se naturalmente servono ulteriori e più numerosi dati prima che questa tecnica possa diventare di routine, ma proseguire la ricerca su questo filone potrebbe aprire nuovi orizzonti.
Ictus, scompenso cardiaco e altre cardiopatie, come pure la mortalità sembrano essere eventi molto più frequenti nelle donne che soffrono di fibrillazione atriale (FA) rispetto a quanto si osserva tra gli uomini affetti dalla stessa condizione. Sono queste le conclusioni di un’ampia metanalisi pubblicata sul BMJ. Crescenti evidenze indicano che i fattori di rischio cardiovascolare non hanno lo stesso impatto negli uomini e nelle donne. Così per esempio è noto che diabete e fumo di sigaretta hanno un peso maggiore nella determinazione del rischio di coronaropatie nelle donne che negli uomini. Poco noto era finora se la FA determinasse un profilo di rischio differenziato in base al genere. La metanalisi è stata condotta su 30 studi e una popolazione complessiva di oltre 4 milioni di pazienti. La FA è stata messa in relazione con la mortalità per tutte le cause, la mortalità cardiovascolare, stroke, eventi cardiaci (decesso e infarto miocardico non fatale) e scompenso cardiaco. Ecco che cosa indicano i risultati. La fibrillazione atriale è associata a un rischio relativo di mortalità per tutte le cause del 12 per cento in più nelle donne rispetto agli uomini (RRR 1,12 CI 95 per cento 1,071,17). In particolare, predispone in maniera importante a ictus (RRR 1,99, 1,46-2,71), mortalità cardiovascolare (RRR 1,93, 1,44-2,60), eventi cardiaci (1,55, 1,15-2,08) e scompenso cardiaco (RRR 1,16, 1,07-1,27). I motivi di questa disparità tra i due sessi al momento non sono noti. È auspicabile che questo possa essere chiarito in studi futuri. In attesa di indicazioni al riguardo, gli Autori del lavoro suggeriscono di non trascurare nella pratica clinica la fibrillazione atriale nella popolazione femminile, indirizzando più risorse alla prevenzione e al trattamento.
Pokushalov E, Kozlov B, Romanov A et al. Circulation 2015; 8: 1334-41
Emdin CA, Wong CX, Hsiao AJ et al. BMJ 2016; 352: h7013
Aritmie cardiache
L’iniezione di tossina botulinica nei cuscinetti di grasso epicardico previene l’insorgenza di fibrillazione atriale post-intervento in pazienti sottoposti a bypass coronarico £ L’iniezione di tossina botulinica nei cuscinetti adiposi epicardici dopo un intervento chirurgico di bypass potrebbe ridurre la fibrillazione atriale postoperatoria fino a 1 anno. A evidenziarlo ora sono i risultati dell’estensione a 12 mesi, di uno studio pilota pubblicato lo scorso anno e che aveva lo scopo di valutare gli effetti della tossina botulinica quando iniettata nei cuscinetti di grasso epicardico sulla fibrillazione atriale (FA) in pazienti candidati a bypass chirurgico coronarico. La FA colpisce circa il 30 per cento dei pazienti solitamente entro i primi 5 giorni dall’intervento e le attuali opzioni terapeutiche hanno un’efficacia variabile. La FA che si verifica dopo un intervento di cardiochirurgia, anche se in genere di breve durata, è associata a degenze più lunghe in terapia intensiva e a un aumento dei rischi di complicanze e di decesso. Lo studio è stato condotto su 60 pazienti con storia di FA parossistica già prima dell’intervento che sono stati randomizzati a iniezioni di tossina botulinica A (50 UI/ml) in
La fibrillazione atriale ha un impatto negativo maggiore sul rischio cv nelle donne rispetto agli uomini: a suggerirlo sono i risultati di un’ampia metanalisi
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Pneumologia
FIBROSI POLMONARE IDIOPATICA Sintomi, stadiazione e indicazioni di terapia l’ipf È una polmonite interstiziale fibrosante progressiva e spesso fatale, di origine ignota. è limitata al polmone ed è associata a pattern radiologico o istopatologico di polmonite interstiziale usuale (1)
di sigaretta, l’età media e avanzata, il sesso maschile e fattori genetici. Altri fattori di rischio ipotizzati o associati frequentemente all’IPF sono alcuni inquinanti ambientali, esposizioni lavorative, reflusso gastroesofageo (RGE), infezioni virali pregresse, diabete mellito [5].
w Prove di funzionalità ventilatoria
I
l processo fibrotico che caratterizza la fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è comunemente considerato il risultato di un danno ricorrente all’epitelio alveolare che conduce a esaurimento delle cellule precursori necessarie nella rigenerazione alveolare e seguito da un’incontrollata proliferazione di epitelio bronchiolare e fibroblasti [2]. La recente scoperta di alcuni dei meccanismi molecolari e di mutazioni e varianti geniche, riportate sia nelle forme familiari che in quelle sporadiche, fa ipotizzare che le cellule alveolari siano il target di processi accelerati di senescenza in quanto “geneticamente predisposte”. Nella IPF si ritiene che tali mutazioni costituiscano una sorta di fattore di rischio per lo sviluppo della malattia, ma che altri fattori quali quelli ambientali siano alla base del meccanismo di danno. Una recente review ha stimato un’incidenza globalmente in incremento con un picco di 3-9 casi per 100.000 abitanti in Europa e Nord America [3]. Uno studio condotto nella regione
A cura di Christian Gurioli, Sara Tomassetti, Claudia Ravaglia, Venerino Poletti
U.O. Pneumologia, Ospedale Morgagni-Pierantoni, Forlì
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Lazio stima un’incidenza in Italia tra i 7,5 e i 9,3 nuovi casi per 100.000 abitanti per anno, e la prevalenza tra i 25,6 e i 31,6 casi per 100.000 abitanti [4]. La mediana di sopravvivenza è stimata essere circa 3 anni.
Clinica I sintomi di presentazione nella maggior parte dei pazienti sono dispnea progressivamente ingravescente e tosse solitamente secca. Sintomi meno comuni comprendono alterazioni costituzionali quali febbricola, astenia e perdita di peso. Nell’IPF è assente l’interessamento di altri organi o apparati. Quasi tutti i pazienti hanno crepitazioni inspiratorie bibasali che sono qualitativamente descritte come rumori tipo “velcro”. Tale segno, pur essendo aspecifico, è presente fin dalle fasi iniziali della malattia e dovrebbe far nascere il sospetto di IPF nei soggetti che giungono all’osservazione clinica per la prima volta. Altro segno frequente è il clubbing ungueale presente nei due terzi dei pazienti. Nelle fasi avanzate l’esame obiettivo può anche far rilevare cianosi, segni di ipertensione polmonare e di cuore polmonare cronico. La valutazione clinico-anamnestica deve prendere in considerazione i fattori di rischio di sviluppo dell’IPF. Sono stati identificati come fattori di rischio certi il fumo
I test funzionali solitamente mostrano un’incapacità restrittiva con riduzione dei volumi polmonari e della capacità di diffusione (DLco). Nelle fasi precoci una riduzione della DLco può essere osservata in presenza di normali volumi polmonari ed è per questo che è ritenuto essere un parametro più sensibile nell’identificazione diagnostica rispetto alla capacità vitale forzata (FVC) [6]. L’emogasanalisi arteriosa può rivelare un incremento del gradiente alveolo-capillare della pressione parziale di ossigeno. Anche nei soggetti con normale pressione arteriosa di ossigeno a riposo si può osservare una desaturazione esercizio-indotta. Le prove di funzionalità respiratoria, oltre che in fase diagnostica, rappresentano un elemento imprescindibile per la valutazione prognostica, il monitoraggio nel tempo e le decisioni terapeutiche quale ad esempio il momento per l’inserimento in lista di trapianto polmonare.
Diagnosi Una diagnosi definitiva di IPF richiede evidenza di pattern UIP documentato dalla TC ad alta risoluzione (HRCT) o dalla biopsia polmonare chirurgica in assenza di caratteristiche “inconsistent” per UIP e previa esclusione di cause identificabili quali farmaci, malattie del connettivo ed esposizioni ad agenti inalanti. Poiché in tale
Figura 1
HRCT torace diagnostica di IPF In questa immagine il pattern radiologico è diagnostico per polmonite interstiziale usuale (UIP) per la presenza di ispessimento reticolare subpleurico prevalente ai lobi inferiori, alterazioni a favo d’api e assenza di elementi contrastanti la diagnosi quali estese aree a vetro smerigliato e noduli
definizione diagnostica sono incorporate caratteristiche cliniche, radiologiche e istopatologiche, la valutazione multidisciplinare incrementa l’accuratezza diagnostica come sottolineato dal documento di consenso internazionale [1]. La diagnosi differenziale comprende le polmoniti da ipersensibilità, la polmonite interstiziale non specifica (NSIP), la sarcoidosi e le malattie interstiziali polmonari secondarie a patologie del connettivo, all’utilizzo di farmaci e a cause occupazionali o ambientali. Il sospetto di IPF deve essere posto per ogni paziente che si presenta con le caratteristiche cliniche di seguito elencate: • età > 45 anni • dispnea da sforzo persistente • tosse secca persistente • rantoli crepitanti basali all’auscultazione del torace • ippocratismo digitale • valori spirometrici nei limiti di norma, oppure quadro restrittivo (talvolta anche ostruttivo). A seguire devono essere effettuate un’anamnesi accurata e valutazione clinica completa, una raccolta di campioni di sangue periferico per escludere diagnosi alternative, prove di funzionalità ventilatoria e HRCT. Quest’ultima è l’esame cardine nell’iter diagnostico, in quanto una diagnosi
confidente di IPF può essere posta in metàdue terzi dei casi tramite la sola HRCT (Figura 1) [7]. Una volta eseguita la TC il team multidisciplinare dovrebbe discutere le ipotesi diagnostiche e l’eventuale indicazione a effettuare metodiche di campionamento istologico e BAL in mancanza di una diagnosi di certezza di IPF o di altra pneumopatia infiltrativa diffusa. Sebbene la biopsia transbronchiale sia generalmente inadeguata per confermare la diagnosi di IPF, questa metodica e il lavaggio broncoalveolare possono permettere di porre diagnosi alternative di malattia interstiziale come sarcoidosi, polmonite da ipersensibilità, polmonite eosinofila, istiocitosi a cellule di Langerhans e proteinosi alveolare. Per esempio una linfocitosi oltre il 30 per cento nel lavaggio broncoalveolare in pazienti con sospetta IPF orienta verso una diagnosi di polmonite da ipersensibilità o NSIP [8]. Con l’avvento della criobiopsia transbronchiale, che permette di ottenere campioni più grandi e meno distorti rispetto alla biopsia convenzionale con pinza, la biopsia broncoscopica sta ricoprendo un ruolo sempre maggiore nell’iter diagnostico [9]. I risultati dei prelievi cito-istologici vanno successivamente ridiscussi sempre in ambito multidisciplinare per le conclusioni diagnostiche secondo i criteri schematizzati
dal consensus internazionale in Tabella 1.
fenotipi e decorso clinico Sebbene tutti i pazienti presentino graduale peggioramento della malattia, il decorso clinico individuale è estremamente diverso, in parte per l’andamento variabile della malattia polmonare stessa, in parte per le comorbidità che si possono associare [10]. Alcuni pazienti non hanno alcun peggioramento clinico e funzionale nel corso di diversi anni, mentre altri incorrono in un acuto deterioramento o in complicazioni legate all’insufficienza respiratoria progressiva e a coesistenti condizioni mediche. Le classificazioni cliniche schematiche non sono esaustive né universalmente condivise, ma possono essere utili nell’inquadramento e gestione dei singoli pazienti con IPF. Di seguito riportiamo i fenotipi clinici più facilmente categorizzabili.
w Fibrosi familiare L’IPF si presenta come forma sporadica nella maggioranza dei casi. Gli studi più recenti indicano che circa il 20 per cento dei pazienti affetti da fibrosi polmonare riporta familiarità significativa per malattia interstiziale polmonare [11]. I casi familiari di IPF sono clinicamente
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Pneumologia indistinguibili rispetto ai casi sporadici, sebbene le forme familiari possano svilupparsi a un’età più precoce. L’età media di diagnosi dei casi familiari è tipicamente inferiore, cioè di 55 anni, rispetto ai 66 anni medi della diagnosi dei casi sporadici. È stato inoltre descritto, come in altre malattie a trasmissione ereditaria, il fenomeno dell’anticipazione genetica, cioè la tendenza della malattia all’interno di una famiglia a manifestarsi nelle generazioni successive in età più precoce o con maggior gravità. Oltre il 45 per cento dei soggetti con forme ereditarie presenta eterogeneità fenotipica con differenti forme di polmoniti interstiziali idiopatiche rappresentate nella stessa famiglia. Questa osservazione suggerisce come i fattori genetici familiari siano predisponenti per fibrosi polmonare in generale, ma non per un particolare sottotipo patologico. La fibrosi familiare è diventata di interesse primario per ricerche sulla patogenesi della IPF da quando sono state scoperte alcune varianti genetiche comuni anche nei casi sporadici.
w Fibrosi lentamente progressiva
Tabella 1. Algoritmo
diagnostico di IPF basato su criteri tabellari radiologici e anatomo-patologici (ove indicato) che vanno integrati con il profilo clinico ed evolutivo della patologia nell’ambito della discussione multidisciplinare del caso HRCT
UIP
Biopsia polmonare chirurgica UIP
Diagnosi IPF
UIP probabile UIP possibile Fibrosi non classificabile
UIP possible
Non UIP
Non IPF
UIP
IPF
UIP probabile UIP possibile
IPF probabile
Fibrosi non classificabile
Non UIP
Non UIP
Non IPF
UIP
IPF possibile
UIP probabile
Non IPF
UIP possibile Fibrosi non classificabile Non UIP Note: HRCT, TC ad alta risoluzione; IPF, fibrosi polmonare
Alcuni pazienti presentano un idiopatica; UIP, polmonite interstiziale usuale decorso clinico-funzionale e raFonte: modificata da Raghu et al., 2011 diologico che progredisce molto lentamente. w Fibrosi rapidamente progressiva Sono stati identificati come elementi assoAnalogamente ai “lenti progressori” sono state identificate alcune caratteristiche raciati a tale comportamento della malattia alcune caratteristiche TC (assenza di hodiologiche associate a malattia rapidamente progressiva come ampia estensione di fibroneycombing, basso score di fibrosi e minima estensione di enfisema) e il riscontro si e alterazioni a favo d’api. alla biopsia polmonare chirurgica di elevata Un rapido declino di FVC nei primi mesi densità di mast-cellule. di osservazione è predittivo di prognosi Brown et al. hanno dimostrato che ci può infausta. essere uno spettro continuo di miglioraDiversi studi hanno inoltre identificato promento degli outcome del paziente in base fili genetici differenti associati a malattia alla durata della sopravvivenza: in questo lentamente o rapidamente progressiva. studio il concetto che la sopravvivenza Il riscontro di anticorpi anti heat shock genera sopravvivenza sembra sostenibile protein 70 sembra associarsi a maggior [12]. declino funzionale e mortalità [13].
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w Fibrosi MPO-ANCA associata Pazienti con diagnosi di IPF possono acquisire una positività degli anticorpi antineutrofili citoplasmatici antimieloperossidasi e meno di un quarto di essi sviluppa poliangite microscopica. La presenza di eosinofili nel BAL e di aree focali di ground glass alla TC può essere predittiva di MPO-ANCA conversione positiva [14].
w Fibrosi polmonare associata a enfisema (Combined pulmonary fibrosis emphysema – CPFE) La presenza di enfisema nei pazienti con IPF è un reperto frequente anche in ragione di alcuni meccanismi patogenetici e del fattore di rischio principale rappresentato dal fumo di sigaretta. Tuttavia manca ancora una definizione quantitativa dell’estensione di enfisema e di fibrosi che permetta di distinguere meglio questa entità. La distribuzione è solitamente di fibrosi ai lobi inferiori ed enfisema ai lobi superiori. La CPFE è associata a bassi valori di DLco, maggiore ipertensione polmonare e peggiore prognosi.
w Ipertensione polmonare (PH) La prevalenza di PH è stimata essere 30-40 per cento nella globalità dei pazienti con IPF e l’85 per cento nei pazienti con malattia avanzata. Essa è più frequente nella CPFE ed è associata a prognosi peggiore. Il riscontro di PH in alcuni pazienti con IPF in fase iniziale pone in questo particolare fenotipo il sospetto della presenza di meccanismi patogenetici di rimodellamento vascolare peculiari oltre la vasocostrizione indotta da ipossia cronica e la riduzione del letto vascolare da alterazioni fibrotiche o enfisematose. Trials terapeutici con farmaci specifici per PH non hanno dimostrato efficacia clinica
nei pazienti con IPF e pertanto non vi è indicazione al loro utilizzo.
w Esacerbazione acuta di IPF Nel decorso dell’IPF possono manifestarsi singoli o multipli episodi di rapido deterioramento che porta a rapido peggioramento clinico talora fatale [15]. La definizione in corso di esacerbazione acuta è stata posta da Collard secondo i criteri diagnostici riportati in Tabella 2. L’incidenza è stimata essere del 14,2 per cento nel primo anno e 20,7 per cento a 3 anni dalla diagnosi [16]. I fattori di rischio descritti sono mancanza di storia di fumo, bassa FVC alla diagnosi o in declino nei primi 6 mesi, malattia asimmetrica, DLco <47 per cento, alto punteggio di dispnea, alto body mass index (BMI), PH e resezione polmonare. Il BAL è generalmente utile per escludere cause infettive e repertare elementi citopatologici compatibili, tuttavia per le condizioni cliniche non è sempre eseguibile. La mortalità per fase accelerata rimane elevata nonostante la terapia comunemente utilizzata con alte dosi di steroidi e antibiotici. Un coinvolgimento esteso e un pattern TC multifocale e periferico sono associati a peggiore sopravvivenza [17].
comorbidità Come precedentemente detto il decorso dell’IPF è condizionato oltre che dalle manifestazioni proprie della malattia anche dalle comorbidità che possono associarsi. Alcune di queste risultano più frequenti nei pazienti con IPF rispetto alla popolazione generale. Sinteticamente di seguito si riassumono tali condizioni.
w Reflusso gastroesofageo (RGE) La prevalenza di RGE nell’IPF è elevata, stimata dal 67 al 94 per cento. Più di un terzo dei pazienti con reflusso documentato è asintomatico. Elevati livelli di pepsina sono stati riscontrati nel BAL di pazienti con fase accelerata di IPF suggerendo un possibile ruolo di microaspirazioni acide quale trigger per fase accelerata. Un altro studio ha dimostrato che pazienti IPF trapiantati sottoposti precedentemente a fundoplicatio secondo Nissen come trat-
Tabella 2. Definizione
di fase accelerata
1. Diagnosi accertata di IPF 2. Peggioramento della dispnea o peggioramento degli scambi gassosi con riduzione della PaO2 ≥ 10 mmHg, entro i trenta giorni antecedenti la visita 3. HRCT che documenta vetro smerigliato e/o consolidamenti sovrapposti al quadro di fibrosi polmonare (di nuova comparsa nei casi in cui siano disponibili precedenti radiologici per il confronto) 4. Nessuna evidenza di infezione respiratoria virale, batterica o opportunistica accertata con BAL o broncoaspirato 5. Esclusione di altre cause note di danno polmonare acuto tra cui l’embolia polmonare, lo scompenso cardiogeno, o altra causa identificabile di danno alveolare diffuso (es. tossicità da farmaci o da radioterapia, sepsi, traumi, contusione polmonare, aspirazione, embolia grassosa, danno da riperfusione, pancreatite acuta, trapianto di midollo, reazione trasfusionale) Note: La diagnosi è certa nei casi in cui siano presenti tutti i cinque criteri elencati, sospetta quando non sia possibile accertare tutti i criteri elencati, in particolare quando non sono soddisfatti il criterio 2 perché il peggioramento avviene in più di 30 giorni o il criterio 4 perché il paziente non può essere sottoposto a broncoscopia. BAL, lavaggio broncoalveolare; IPF, fibrosi polmonare idiopatica; HRCT, TC ad alta risoluzione Fonte: modificata da Colard et al., 2007
tamento di RGE severo hanno avuto un decorso post-trapianto migliore rispetto a quelli non sottoposti a tale procedura [18]. Infine, l’utilizzo di farmaci anti-RGE è un fattore indipendente predittivo di maggiore sopravvivenza nei pazienti con IPF [19].
w Tumore del polmone L’incidenza di Ca. del polmone è più elevata nei pazienti con IPF rispetto alla popolazione generale (rischio relativo di 7,31) [20]. L’incidenza è maggiore nei maschi fumatori e aumenta con l’anzianità della malattia. Solitamente si manifesta con noduli a margini spiculati posti alla periferia del polmone e spesso presenta peculiari istotipi quali carcinoma squamocellulare e adenocarcinoma a fenotipo enterico. Il tumore del polmone risulta più frequente nei rapidi progressori. Nelle opzioni terapeutiche occorre considerare che i trattamenti stessi per il tumore, chirurgici e non, sono gravati da significativo rischio di determinare fasi accelerate di malattia che come detto hanno un’elevata mortalità [21].
avanzate di malattia, diversi studi hanno dimostrato un’elevata attività procoagulante nei pazienti con IPF. In caso di tromboembolismo venoso, i pazienti IPF hanno una mortalità 3 volte più elevata. In uno studio retrospettivo il 6 per cento dei pazienti con IPF ricoverati in terapia intensiva per peggioramento acuto aveva embolia polmonare [22].
w Depressione È stato osservato che il 23 per cento dei pazienti affetti da IPF sviluppa depressione che correla con la gravità della dispnea e conseguente riduzione della qualità di vita.
w Sindrome delle apnee notturne La bassa qualità di vita dei pazienti con IPF correla anche con gli score di qualità del loro sonno. I vari studi hanno dimostrato frammentazione del sonno, riduzione delle fasi REM, episodi di desaturazione e numerosi risvegli. Alcuni Autori riportano anche alto indice dispnea/ipopnea [23].
w Diabete mellito w Malattia tromboembolica Oltre a una scarsa mobilizzazione nelle fasi
Come già riportato il diabete mellito è stato identificato come fattore di rischio per
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Pneumologia Tabella 3. GAP
index: indice multidimensionale basato su età, genere, FVC e DLco % del predetto Fattore predittivo
G: “gender” – genere
A: “age” – età
Femmina
0
Maschio
1
≤ 60
0
61 - 65
1
> 65
2
FVC
P: “physiology” – funzionalità
Stadio
Punteggio
DLco
> 75
0
50 - 75
1
< 50
2
> 55
0
36 – 55
1
≤ 35
2
Non eseguibile
3
I
II
III
0-3
4-5
6-8
1 anno
5,6
16,2
39,2
2 anni
10,9
29,9
62,1
3 anni
16,3
42,1
76,8
Punti totali Mortalità (%)
Note: I pazienti vengono assegnati alla categoria “DLco non eseguibile” quando i sintomi respiratori impediscono l’esecuzione di un’accurata DLco (DLco, capacità di diffusione) Fonte: modificata da Ley et al., 2012
sviluppo di IPF; tuttavia non ne è chiaro il meccanismo patogenetico e l’impatto sul decorso clinico.
Valutazione prognostica Lo sforzo di identificare elementi predittivi prognostici in una malattia a così variegato decorso clinico che comunque risulta immancabilmente progressivo, è stato dettato dalla necessità di prendere decisioni terapeutiche di ordine farmacologico, non farmacologico e timing di inserimento in lista per trapianto polmonare. Per la valutazione prognostica sono stati studiati i più diversi elementi che pongono il quadro della malattia, dai parametri funzionali, agli score
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radiologici fino alla presenza di markers biologici nel sangue periferico. Tra i vari sistemi di stadiazione proposti citiamo il sistema GAP (Tabella 3) che è stato validato su un’ampia casistica multicentrica [24]. Tale sistema utilizzando semplicemente i dati anagrafici e i parametri funzionali più comunemente usati (FVC e DLco), classifica i pazienti in tre categorie di gravità per le quali presenta un’elevatissima sensibilità nel predire la mortalità da uno a tre anni.
Terapia I progressi effettuati nella comprensione dei meccanismi patogenetici e l’avvento degli studi prospettici multicentrici randomizzati
controllati hanno permesso di validare o meno agenti farmacologici nel trattamento dell’IPF. Sono risultati inefficaci nel rallentare la progressione di malattia e la qualità di vita la terapia steroidea combinata o meno a immunosoppressori (azatioprina e ciclofosfamide), colchicina, interferon gamma, ciclosporina, etanercept, imatinib, warfarin, N-acetilcisteina, sildenafil, bosentan, ambrisentan.
w Pirfenidone Attualmente l’unico farmaco approvato in Italia per il trattamento dell’IPF è il pirfenidone. L’analisi combinata dei due studi di fase III CAPACITY 006 e CAPACITY 004, che hanno arruolato pazienti con IPF lieve o moderata, ha dimostrato una riduzione statisticamente significativa del declino della FVC a 72 settimane nei pazienti trattati con pirfenidone rispetto a quelli inclusi nel gruppo placebo [25]. Endpoints secondari raggiunti sono stati la riduzione di progressione di malattia e del declino del test del cammino dei 6 minuti. Un terzo studio di fase III per la valutazione dell’efficacia del pirfenidone nei pazienti con IPF moderata (ASCEND) ha confermato i risultati precedenti [26]. Lo studio ASCEND prevedeva inoltre, come analisi pre-specificata, la valutazione della mortalità nell’intera coorte dei pazienti trattati negli studi ASCEND, CAPACITY 004 e CAPACITY 006 (1.247 pazienti, in totale). Tale analisi ha documentato per la prima volta, rispetto al placebo, una riduzione della mortalità a un anno del 48 per cento per qualunque causa e del 68 per cento per IPF. Da luglio 2013, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato la prescrivibilità e la distribuzione del pirfenidone, alla dose di 2.403 mg/die, a carico del Servizio Sanitario Nazionale, per i pazienti con diagnosi di IPF lieve-moderata, definendo tale condizione sulla base dei criteri funzionali di arruolamento dei due più numerosi studi registrativi (FVC ≥50 per cento del predetto e DLco ≥35 per cento del predetto). In Italia, il farmaco può essere prescritto solo dai Centri identificati nelle delibere regionali. Attualmente vige l’obbligo di rivalutare l’efficacia del farmaco dopo i primi sei mesi di trattamento. La terapia viene sospesa se a sei mesi si osserva un declino della FVC
≥10 per cento. Il farmaco non può essere somministrato a pazienti in terapia con fluvoxamina e in pazienti con grave deficit funzionale epatico o renale. Il concomitante utilizzo di omeprazolo potrebbe portare ad alterazioni della farmacocinetica del pirfenidone e non dovrebbe essere utilizzato in questi pazienti. Il fumo aumenta l’attività degli enzimi coinvolti nel metabolismo del farmaco. È necessario un attento monitoraggio della tolleranza al farmaco e degli effetti collaterali, in particolare di quelli gastrointestinali (dispepsia, nausea, diarrea, perdita di appetito, calo ponderale), cutanei (eruzione cutanea e reazioni cutanee da fotosensibilità indotte dall’esposizione ai raggi ultravioletti) ed epatici (aumento delle transaminasi fino all’epatite acuta).
w Nintedanib Nintedanib è un farmaco sperimentato nei pazienti in fase lieve-moderata, già appro da EMA e FDA, ma non ancora da AIFA. Nintedanib è un inibitore delle kinasi, del recettore del fattore di crescita endoteliale (VEGFR), del recettore del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR) e del recettore del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR). Uno studio di fase III (INPULSIS) condotto su 1.066 pazienti, trattati per 52 settimane alla dose di 150 mg due volte al dì, con una randomizzazione farmaco:placebo di 3:2, ha mostrato efficacia nel ridurre il declino funzionale della malattia [27]. Lo studio non è stato disegnato per valutare l’impatto sulla mortalità e non vi sono, pertanto, al momento dati che documentino un beneficio in tal senso. L’evento collaterale più frequente è la diarrea che si verifica nel 62,4 per cento dei pazienti, ma è nella maggior parte dei casi di entità lieve-moderata. Sono stati inoltre segnalati eventi emorragici (10,3 vs 7,8 per cento nel gruppo placebo), tromboembolici (2,5 vs 0,7 per cento del placebo). Anche il nintedanib non è indicato in pazienti con gravi alterazioni della funzione epatica.
w Trattamenti di supporto L’ossigenoterapia migliora la dispnea e la tolleranza all’esercizio nei pazienti con ipossiemia a riposo o grave desaturazione allo sforzo. La riabilitazione respiratoria può essere effettuata in sicurezza nei pazienti con
IPF determinando un miglioramento della tolleranza all’esercizio fisico, della dispnea e di alcuni parametri di qualità di vita [28]. Tuttavia nei pazienti con fibrosi tali effetti si sono dimostrati transitori negli studi eseguiti con brevi cicli di riabilitazione. Vi sono alcune evidenze di un beneficio nei pazienti in lista di trapianto polmonare in termini di superamento di stress chirurgico.
w Trapianto polmonare Il trapianto di polmone ha dimostrato di conferire un guadagno nell’aspettativa di vita nella IPF, con una riduzione di rischio di morte del 75 per cento tra pazienti trapiantati e pazienti in lista d’attesa [29]. L’aspetto più delicato del riferimento alla lista trapianto di un paziente con patologia respiratoria terminale è rappresentato dalla scelta del timing ottimale, che si fonda su un accurato studio prognostico del singolo paziente. Il paziente con IPF ha una sopravvivenza mediana dalla diagnosi compresa tra 2,5 e 3,5 anni, ma il decorso clinico nel singolo paziente appare imprevedibile, talvolta rapidamente ingravescente. Pertanto, le linee guida internazionali suggeriscono un riferimento precoce del paziente al centro trapianti.
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nutrizione
Il “filo rosso” tra alimentazione, stato infiammatorio e artrosi Il potenziale dei polifenoli nella protezione articolare a livello sperimentale i risultati finora ottenuti mostrano le potenzialità di alcuni micronutrienti, soprattutto polifenoli, nel contrastare lo stato infiammatorio e la progressione dell’osteoartrosi
L
o stato infiammatorio dell’organismo come fattore cardine nello sviluppo delle maggiori patologie croniche di rilevanza sociale è da qualche anno oggetto di discussione in ambiti clinici diversi, cardiovascolare, metabolico e osteoarticolare in primis. L’obesità è un promotore di infiammazione sistemica ed è considerata un fattore di rischio maggiore per l’insorgenza e la progressione dell’osteoartrosi (OA) anche nelle articolazioni non sottoposte a carico, come quelle delle mani. Il tessuto adiposo è infatti un potente organo endocrino, che avvia e mantiene lo stato infiammatorio cronico ed è implicato nel rilascio di citochine, di adipochine, di acidi grassi liberi (FFA), di specie reattive dell’ossigeno (ROS) (1,2). Studi recenti indicano nella leptina un possibile link tra obesità e osteoartrosi. Questa adipochina, nota per i suoi effetti regolatori sull’assunzione di cibo e sul bilancio energetico, aumenta
A cura di Piera Parpaglioni
redazione Medico e paziente
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la produzione di fattori catabolici nella cartilagine e nei condrociti ed è implicata nella patofisiologia dell’OA a livello locale e sistemico (1,3,4). La ricerca guarda alla leptina come potenziale target terapeutico e come possibile marker per monitorare l’evoluzione dell’artrosi, dato che i suoi livelli sinoviali e plasmatici sono correlati con la progressione della malattia (3). Inoltre, il recente riscontro di una maggiore prevalenza e incidenza di OA nei soggetti obesi affetti da sindrome metabolica (MetS) rispetto a obesi “sani” ha portato alla descrizione di un nuovo fenotipo di osteoartrosi MetS-associata (2), nella quale fattori come diabete, dislipidemia, ipertensione, accrescono il rischio di insorgenza/ progressione dell’artrosi indotta dall’obesità. Queste pagine propongono alcuni spunti da un tema vasto e tuttora oggetto di indagine, che riporta la patologia cronica infiammatoria e degenerativa delle articolazioni allo stato di salute generale, all’alimentazione e allo stile di vita. La seconda parte dell’articolo sposta l’attenzione sul potenziale di alcuni fattori
dietetici nel ridurre lo stato infiammatorio dell’organismo e, nello specifico, nel prevenire o rallentare l’OA. Si tratta in gran parte di micronutrienti appartenenti al gruppo dei polifenoli, presenti in alimenti oggetto di attenzione anche per altre patologie croniche, dal melograno al tè verde, alla curcuma. Per quanto riguarda il potenziale protettivo nei confronti dell’OA, vi sono in linea generale buoni riscontri a livello sperimentale, ma ancora scarse evidenze cliniche. Alcune revisioni pubblicate di recente (5-8) aiutano a fare una sintesi dei dati disponibili.
OBESITÀ, SINDROME METABOLICA E OSTEOARTROSI Nell’ultimo decennio, l’obesità e i disordini metabolici sono stati messi in relazione con l’infiammazione sistemica cronica di basso grado, caratterizzata dalla produzione anomala di citochine e dall’attivazione di un network di vie e mediatori di flogosi. La massa grassa è il fattore chiave, ma anche diabete, dislipidemia e ipertensione contribuiscono a questo stato infiammatorio, a sua volta implicato nella patogenesi dell’OA (Figura 1). Che l’eccesso di massa grassa sia non solo causa di stress meccanico, ma abbia un ruolo sistemico dannoso anche sulle piccole articolazioni è testimoniato dall’incidenza di osteoartrosi delle mani, due volte più alta nei soggetti obesi che nei normopeso, come riporta una recente revisione sistematica (9). Il rischio di insor-
genza, dolore e progressione dell’artrosi del ginocchio, come pure il ricorso ad artroplastica del ginocchio e dell’anca (indice di severità della malattia) aumentano con l’accumulo dei disordini della sindrome metabolica (obesità addominale, ipertensione, insulinoresistenza, dislipidemia con elevati trigliceridi e basso colesterolo HDL, malattia cardiovascolare) (10,11). Come riferisce un lavoro di revisione di Courties e coll. da poco pubblicato su Osteoarthritis and Cartilage (2) l’obesità associata a componenti della MetS aumenta il rischio di osteoartrosi rispetto alla sola obesità. Da un altro punto di vista, vi è il riscontro che l’OA è associata con un’aumentata prevalenza di sindrome metabolica, soprattutto nella popolazione più giovane, e secondo alcuni Autori una diagnosi di OA prima dei 65 anni dovrebbe portare a uno screening sistematico per MetS (12). Ciascun disordine metabolico della sindrome è oggetto d’indagine per le connessioni con l’osteoartrosi anche separatamente. Le evidenze più rilevanti allo stato attuale sono a carico dell’iperglicemia e del diabete di tipo 2. I pazienti con questa forma di diabete hanno una necessità due volte maggiore di interventi di artroplastica dell’anca e del ginocchio, dopo l’aggiustamento per fattori confondenti, e hanno riscontri ecografici più frequenti di sinovite del ginocchio, rispetto ai soggetti con OA non diabetici (13). Altri dati mostrano che il diabete di tipo 2 aumenta il rischio di artrosi delle mani (in pazienti di 55-62 anni) e si associa con un dolore più severo nell’artrosi erosiva delle mani; risultati confermati da una metanalisi, che ha calcolato un aumento complessivo del rischio di osteoartrosi del 43 per cento nel diabete adulto (2, 14). Molti studi su pazienti con OA riportano un’alta prevalenza di ipertensione, tuttavia è raro che rimanga un’associazione indipendente dopo l’aggiustamento per fattori confondenti come l’età o la BMI. A oggi, l’ipertensione dovrebbe essere considerata un fattore aggravante per l’artrosi nei soggetti obesi o con altri disordini metabolici. Per quanto riguarda il profilo lipidico, l’ipercolesterolemia è stata associata con l’artrosi delle mani e con l’OA generalizza-
Figura 1
Associazione multifattoriale tra obesità e osteoartrosi La dislipidemia, l’infiammazione del tessuto adiposo e il carico articolare esercitano molteplici effetti negativi sui tessuti dell’articolazione Obesità
Dislipidemia Trigliceridi e HDL rilasciati dal fegato
Infiammazione del tessuto adiposo adipociti macrofagi
Sintesi HDL
TG
Carico articolare
LDL
HDL ROS
Lesioni LDL del midollo ossidate osseo
+dieta adiponectina FFA occidentale MMP e probabili fattori aggiuntivi
leptina, chemerina, visfatina, resistina, lipocalina-2, IL-6, TNF-alfa, VEGF
MMP e citochine pro-infiammatorie
Danno indotto su cartilagine, sinovia e/o osso subcondrale Osteoartrosi
Infiammazione sinoviale Rigonfiamento dell’articolazione (capsula) Perdita di cartilagine articolare Osteofiti Alterazioni nell’osso subcondrale
Note: TG, trigliceridi; ROS, specie reattive dell’ossigeno; MMP, metalloproteinasi della matrice; FFA, acidi grassi liberi; TNF-alfa, tumor necrosis factor-alfa; VEGF, vascular endotelial growth factor. Fonte: modificata da Thijssen E et al. Rheumatology 2015; 54: 588-600
ta indipendentemente dall’età, dal genere e dalla BMI (2,15).
STRESS METABOLICO E CIRCOLO VIZIOSO DEL DOLORE Nell’artrosi associata all’obesità e alla sindrome metabolica, anche il dolore assume
caratteri peculiari, che il citato lavoro di Courties e coll. compone in un circolo vizioso (Figura 2). Dal punto di vista patofisiologico, l’aumento di citochine pro-infiammatorie, di adipochine e il carico meccanico accrescono il rilascio di nerve growth factor (NGF), importante mediatore del dolore articolare, da parte
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nutrizione Figura 2
Come l’infiammazione cronica correlata con l’obesità e la sindrome metabolica può contribuire al circolo vizioso del dolore nell’osteoartrosi secondo le più recenti linee guida europee Obesità / Sindrome metabolica IL-1beta, IL-6, PgE2, TNF, adipochine
Lesione articolare (sinovite, sclerosi subcondrale)
Diminuzione dei livelli di serotonina
Rilascio di NGF
Attivazione cronica dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene
Depressione Dolore
Disabilità
Note: TNF, tumor necrosis factor; NGF, nerve growth factor Fonte: modificata da Courties A et al. Osteoarthritis and Cartilage 2015; doi:10-1016/j. joca.2015.05.016 (Epub)
dei condrociti. La depressione, frequente nei soggetti obesi, è anch’essa associata con un aumento di mediatori pro-infiammatori (IL-6 e TNF-alfa) i quali possono determinare una diminuzione dei livelli di serotonina, una stimolazione protratta dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e una conseguente resistenza al cortisolo (2,16). Partecipa al circolo anche la disabilità indotta dal dolore, a sua volta promotrice dell’obesità e dei disordini metabolici associati. I dati fin qui esposti si prestano ad alcune considerazioni cliniche. La prima, che la perdita di peso e la correzione della dieta possono portare un beneficio alle articolazioni che va oltre la riduzione del carico meccanico. Modificare la massa grassa e migliorare il controllo dei disordini metabolici può rallentare l’insorgenza e la progressione dell’artrosi e dovrebbe essere considerato obiettivo terapeutico primario nell’OA MetS-associata. La seconda, che dovrebbe essere raccomandata una die-
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ta a basso contenuto di grassi, dato che ridurre i livelli sistemici di FFA abbassa lo stato infiammatorio dell’organismo, e che l’elevato contenuto lipidico tipico di una dieta cosiddetta “occidentale” (40 per cento e oltre di introito calorico dai grassi), insieme a bassi livelli di colesterolo HDL, sono implicati nello sviluppo dell’artrosi (1). Infine, si profilano nuove strategie terapeutiche per l’artrosi dirette verso meccanismi specifici come lo stress ossidativo o su bersagli specifici quali adipochine (leptina) e citochine. La descrizione di un fenotipo di OA associata alla sindrome metabolica suggerisce anche l’utilità di studi clinici disegnati per gruppi specifici di pazienti.
EVIDENZE SULL’INTERVENTO ANTIOSSIDANTE Le alterazioni che compongono il quadro dell’osteoartrosi (degradazione della cartilagine articolare, infiammazione del-
la membrana sinoviale, riassorbimento dell’osso subcondrale) si accompagnano a una disregolazione delle vie pro-infiammatorie e antinfiammatorie. Numerosi studi hanno evidenziato uno squilibrio tra i processi anabolici di sintesi/riparazione dei componenti della matrice cartilaginea (proteoglicani e collagene di tipo II) e i processi catabolici di distruzione della matrice stessa da parte delle citochine infiammatorie, delle metalloproteinasi della matrice (MMP), di aggrecanasi e proteasi. Anche l’infiammazione della sinovia è strettamente legata alla degradazione della cartilagine e da questa sostenuta (5,17). Si pensa che ridurre lo stress ossidativo e il danno dei prodotti dell’infiammazione possa offrire un beneficio nella gestione dell’OA. Il ruolo protettivo dei polifenoli presenti in alcuni cibi di origine vegetale nei confronti dell’insorgenza/ progressione dell’artrosi è oggetto di studi in fase eterogenea di sviluppo (Figura 3) (5-8,18). Di seguito ricapitoliamo le evidenze disponibili su alcuni bio-attivi di tipo polifenolico, in gran parte flavonoidi e composti correlati: curcumina, antocianine e altri antiossidanti del melograno, catechine del tè verde, resveratrolo, genisteina della soia.
y Curcuma. La curcumina, componente principale della spezia derivata dalla Curcuma longa, è un forte agente antiossidante e antinfiammatorio. Il suo potenziale nei processi osteoartrosici è ampiamente studiato in vitro (su condrociti o espianti di cartilagine articolare): i dati riportano effetti anti-catabolici, con una potente azione inibitoria su mediatori ed enzimi dell’infiammazione e una riduzione dell’apoptosi dei condrociti (5-7). Alcuni studi clinici hanno valutato gli effetti di estratti di curcuma sulla sintomatologia dell’OA. Un trial randomizzato e incrociato con l’estratto (2 g/die) vs. ibuprofene (800 mg/die) riferisce un beneficio paragonabile a quello del farmaco nella riduzione del dolore durante 6 settimane di trattamento (19). Uno studio a lungo termine (8 mesi, 100 pazienti) effettuato con un integratore commerciale a base di curcumina riporta miglioramenti delle performance motorie (end point
clinico valutato con apposite scale) Figura 3 e di marker biochimici dell’infiamIl potenziale dei polifenoli contenuti nella dieta mazione (20). Le evidenze cliniche nel rallentare/arrestare la progressione dell’osteoartrosi disponibili combinate con i risultati in vitro suggeriscono un potenziale effetto benefico della supplementazio Assunzione di ne dietetica con curcumina, ma sono polifenoli con la necessari ulteriori dati, in particolare dieta (curcumina, Concentrazione (II) Attività infiammatoria EGCG, resveratrolo, per stabilire il dosaggio ottimale e per sistemica e tessutale Stimoli (iNOS, NO), enzimi (COX-2) genisteina ecc.) dei polifenoli e mediatori (PgE2) infiammatori approfondire le proprietà del com Citochine infiammatorie posto (es. di favorire la sintesi della (IL-1beta, IL-6, IL-8, TNF-alfa) (I) Degradazione della matrice matrice) (5). Sintesi proteine infiammatorie (CRP) Sintesi della matrice (collagene tipo II, GAG, y Melograno. È una ricca fonte di aggrecani) due tipi di composti polifenolici (an Citochine anaboliche Attività degli enzimi di degradazione tocianine e tannini), responsabili di della matrice (MMP) oltre il 90 per cento degli effetti del Inibitore MMP frutto. Le antocianine sono potenti Progressione dell’osteoartrosi antiossidanti in grado di ridurre significativamente la perossidazione dei lipidi e di innalzare l’attività di enzimi (III) Attività ossidativa/danno antiossidanti come catalasi, superos Attività enzimi antiossidanti sido dismutasi e sistema del glutatio Modulazione dei nutrienti antiossidanti (IV) Apoptosi cellulare Supplementazione con nutraceutici/fitochimici ne nel fegato. Sul tannino principale Apoptosi (caspasi) Proliferazione condrociti (punicalagina) vi sono riscontri di un effetto immunosoppressorio privo di citotossicità, che può interessare nelle Note: EGCG, epigallocatechina gallato; GAG, glucosaminoglicani; MMP, metalloproteinasi della matrice; iNOS, ossido nitrico sintetasi inducibile; NO, ossido nitrico; COX-2, ciclossigenasi-2; patologie di tipo immunitario. Studi CRP, proteina C reattiva. con estratti di melograno in modelFonte: modificata da Shen CL et al. J Nutr Biochem 2012; 23: 1367-77 li animali di artrosi mostrano effetti protettivi sulla cartilagine articolare e la capacità di ritardare l’insorgenza della osseo, attraverso la modulazione di target lecole possano avere un effetto protettivo malattia (21). Le evidenze in vitro e in multipli coinvolti nello sviluppo dell’OA nei confronti dell’osteoartrosi: la cartilagivivo suggeriscono che il frutto può essere (5). Mancano i dati da trial clinici. ne è un tessuto positivo ai recettori per gli un complemento nella prevenzione e nel y Zenzero. Il principale componente fe- estrogeni, i quali aumentano di numero trattamento dell’OA, ma mancano trial dopo la menopausa, condizione che a nolico presente nel rizoma di Zingiber clinici che ne dimostrino il beneficio nei sua volta può incrementare l’incidenza di officinale, il 6-gingerolo, è un potente soggetti con la malattia (5-8). OA. Studi di laboratorio mostrano che la inibitore della sintesi di ossido nitrico genisteina sopprime la produzione di NO (NO) e della produzione di mediatori y Tè verde. È una fonte di polifenoli e di COX-2 nei condrociti e aumenta la dell’infiammazione quali PgE2, TNF-alfa soprattutto sotto forma di catechine. La sintesi e il contenuto in solfati dei glucoprincipale, l’epigallocatechina 3-gallato e COX-2 nei sinoviociti (6-8). In clinica, (EGCG), ha una forte attività antinfiaml’estratto di zenzero è stato studiato come saminoglicani (GAG) (5). alternativa ai FANS nel trattamento di Uno studio clinico ha messo a confronto matoria, da 25 a 100 volte più potente condizioni artrosiche, in trial randomizzauna supplementazione con proteine della di quella delle vitamine C ed E secondo soia e una con proteine del latte, per tre alcuni Autori (8). Una serie di studi riti e controllati con placebo. Le evidenze mesi, in 64 uomini e 71 donne affetti finora raccolte tuttavia sono deboli (non porta che le catechine di questa bevanda da OA (22). Nel gruppo con la soia gli emerge una chiara superiorità rispetto al possiedono azione antimutagena, antiuomini, ma non le donne, hanno riportaplacebo), sarebbero utili nuovi studi con cancro, antidiabetica, antinfiammatoria, dosaggi differenti dell’estratto, da solo o in antibatterica, antivirale, antiobesità ed to miglioramenti del range motorio, del combinazione con altri trattamenti. effetti neuroprotettivi (6). La forte attività dolore, della qualità della vita e di alcuni antiossidante dell’EGCG è ampiamente y Soia. La genisteina è un isoflavone marker biochimici del metabolismo della dimostrata in vitro e in vivo, e vi sono cartilagine. Si auspicano ulteriori trial cli(composto difenolico con una struttura evidenze che il composto è in grado di simile agli estrogeni) contenuto nella soia nici per valutare gli effetti a lungo termine ridurre l’iperplasia sinoviale, la degradae nei suoi derivati e rientra nel gruppo dei in entrambi i sessi. fitoestrogeni. Vi è l’ipotesi che queste mozione della cartilagine e il riassorbimento y Resveratrolo. Questo composto polife-
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nutrizione nolico presente in alte concentrazioni nella buccia dell’uva, nel vino rosso, nei frutti di bosco può avere effetti anti-artrosici in virtù delle sue proprietà antiossidanti e antinfiammatorie. Vi sono evidenze di effetti protettivi verso alterazioni patofisiologiche tipiche dell’osteoartrosi: inibizione dell’apoptosi dei condrociti indotta dai mediatori infiammatori, down-regulation dell’attività delle MMP coinvolte nella degradazione della matrice, diminuita espressione di vascular endothelial growth factor (VEGF) (5,7). In modelli animali, l’efficacia è stata testata attraverso la somministrazione diretta di resveratrolo nell’articolazione; non è chiaro se la supplementazione dietetica possa fornire gli stessi benefici (5), e si attendono pertanto studi clinici adeguati. Degno di nota è il riscontro di effetti sinergici con la curcumina: entrambi i composti inibiscono l’NF-kB (che regola l’apoptosi dei condrociti indotta da stimoli infiammatori come NO, IL-1beta), ma con meccanismi differenti (23).
CONCLUSIONI I dati sulla correlazione tra dieta e osteoartrosi sono ancora limitati e i trial di intervento con nutrienti specifici sono eterogenei per disegno, numero di pazienti, durata e outcome. Sono necessari più dati e di maggiore qualità prima di arrivare a raccomandazioni su una integrazione dietetica a fini preventivi o terapeutici. Diminuire lo stress ossidativo e intervenire nei meccanismi patofisiologici dell’artrosi è una strategia promettente che riguarda sia l’intervento dietetico con alimenti funzionali di origine vegetale, sia la ricerca di nuovi farmaci ad azione diretta su molecole chiave come citochine e leptina.
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I QUADERNI
di Medico & Paziente MeP Edizioni presenta una collana di volumi dedicati ai capitoli della medicina che stanno vivendo una fase di profonda trasformazione. Per molte patologie “dai grandi numeri” la messa a punto di farmaci innovativi e l’introduzione di schemi di trattamento di nuova generazione stanno rivoluzionando le strategie di cura dei pazienti. Nella pratica questo comporterà una ridefinizione delle coordinate nell’approccio clinico e del ruolo del Medico di Medicina Generale. I Quaderni di Medico e Paziente si inseriscono in questo panorama e nascono come strumento di aggiornamento, da consultare ogni giorno e al bisogno.
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terapia
Ipertensione L’associazione ACE-inibitore/calcioantagonista nel controllo della PA Non vi sono dubbi sul fatto che la terapia di associazione sia considerata la migliore strategia per ridurre significativamente la pressione arteriosa e le complicanze cardiovascolari a essa associate
L’
ipertensione arteriosa è una delle malattie di più frequente riscontro nei Paesi industrializzati, soprattutto tra i pazienti anziani e attualmente è il principale fattore di rischio per lo sviluppo di patologie cardiovascolari (CV), quali infarto, ictus, scompenso o insufficienza renale [1]. Attualmente l’ipertensione è responsabile del maggior carico delle malattie nel mondo [1, 2]. La prevalenza dell’ipertensione sta aumentando, e in particolare dei pazienti con valori di pressione non controllati. Il 54 per cento degli ictus e il 47 per cento delle cardiopatie coronariche sono attribuibili all’ipertensione, così come 7,6 milioni di morti/anno (13,5 per cento della mortalità totale, e 6,3 milioni di anni di disabilità – 4,4 per cento del totale) [1, 2].
Il problema dell’aderenza terapeutica Questa condizione patologica è in continua crescita e costituisce un vero problema nella prevenzione del rischio cardiovascolare. Il motivo risiede sia nell’aumentata aspettativa di vita che nella pre-
A cura di
Raffaele Izzo Università Federico II di Napoli
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valenza di fattori di rischio, quali obesità, inattività fisica, dieta non sana e fumo. Obiettivo della terapia dell’ipertensione arteriosa è la riduzione dei valori pressori che può essere ottenuta con opportuni provvedimenti igienico-dietetici e con farmaci. È noto come una riduzione dei valori di pressione arteriosa sia sistolica che diastolica influiscano sull’incidenza di eventi cardiovascolari, in particolare una recente e ampia metanalisi ha dimostrato che un calo di 10 mmHg dei valori di pressione sistolica e di 5 mmHg di diastolica determini una corrispondente riduzione di oltre il 25 per cento dell’incidenza di cardiopatia ischemica e di oltre il 35 per cento del rischio di complicanze cerebrovascolari [3]. La riduzione dei valori pressori fornisce una protezione a tutti i livelli di rischio cardiovascolare, ma tale protezione risulta progressivamente crescente all’aumentare del rischio cardiovascolare basale [4], e tale effetto vale sia per la pressione sistolica che diastolica (Figura 1). Questo risultato è ancora più evidente [5] se la terapia antipertensiva riesce a raggiungere dei precisi target di intervento fissati in valori di pressione arteriosa inferiori a 140/90 mmHg, con un’ulteriore riduzione (< 130/80 mmHg) nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare e/o diabetici [6]. Tuttavia in Italia oltre il 70 per cento dei pazienti ipertesi
in trattamento non raggiunge il target pressorio adeguato [7] così come in tutta Europa [8]. Tra i motivi principali di un così basso numero di pazienti controllati vi è sicuramente la scarsa aderenza alla terapia. Spesso l’assunzione di più farmaci crea difficoltà e i pazienti tendono a non essere costanti nell’assunzione della terapia, soprattutto se devono assumere più compresse nell’arco della giornata. Da ciò deriva che il ricorso alla terapia di combinazione risulta essere un metodo efficace per migliorare l’entità del controllo pressorio nella popolazione ipertesa in aggiunta alle misure atte a migliorare sia la persistenza in terapia, sia la tendenza a utilizzare strategie di intervento più efficaci in presenza di una risposta solo parziale alla terapia antipertensiva.
Le linee guida Le linee guida ESH/ESC fin dal 2007 sottolineano che, indipendentemente dal farmaco utilizzato, la monoterapia può ridurre efficacemente i valori di pressione solo in un numero limitato di ipertesi mentre la maggior parte dei pazienti richiede l’associazione di almeno due farmaci per ottenere il controllo della pressione arteriosa. Quindi, il punto non è se la terapia di associazione sia utile, ma piuttosto se essa debba sempre seguire il tentativo di impiego della monoterapia, o piuttosto – e quando – la terapia di combinazione possa essere il primo approccio [5]. Una metanalisi di più di 40 studi ha dimostrato che la combinazione di due farmaci antipertensivi ha un’efficacia superiore a quanto ottenuto con l’incremento del dosaggio di un singolo farmaco [9]. Il vantaggio di iniziare la terapia con l’impiego di un’associazione risiede nel fatto che
Figura 1
Relazione tra riduzione dei valori di pressione sistolica (A) e diastolica (B) e protezione cardiovascolare
Eventi cardiovascolari risparmiati per 1000
A
Rischio CV a 5 anni (%) Riduzione pressione sistolica (mmHg)
B
Eventi cardiovascolari risparmiati per 1000
è possibile ottenere una pronta risposta in un gran numero di pazienti (con un potenziale beneficio nei pazienti ad alto rischio), una maggiore probabilità di raggiungere il target pressorio in pazienti con elevati valori di partenza, e una minore probabilità di ridurre la compliance dei pazienti con molte modifiche terapeutiche. Inoltre, una recente indagine ha dimostrato che i pazienti che assumono una terapia di associazione hanno una minore probabilità di andare incontro all’interruzione del trattamento [10]. Un ulteriore vantaggio è che esistono sinergie fisiologiche e farmacologiche tra differenti classi di farmaci, che non solo giustificano la maggiore efficacia dell’associazione, ma anche riducono l’incidenza di effetti collaterali e possono portare a un beneficio maggiore rispetto a quello offerto da un singolo farmaco. Le linee guida ESH/ESC 2013 oltre a ribadire l’opportunità di iniziare il trattamento antipertensivo con la terapia di associazione, sono a favore dell’impiego delle associazioni di due farmaci antipertensivi a dosaggio fisso in una singola compressa [11], giacché in questo modo è possibile ridurre il numero di compresse da assumere giornalmente aumentando l’aderenza alla terapia, che nell’ipertensione arteriosa è di solito modesta, consentendo così di aumentare la percentuale dei pazienti controllati [12, 13]. È stato dimostrato che aumentare l’aderenza alla terapia prescritta è in grado di ridurre i costi legati alla malattia. In particolare nell’ipertensione arteriosa un livello di aderenza alla terapia tra l’1 e il 19 per cento equivale a un costo medio annuo di 4.878 $ con un rischio di ospedalizzazione (RO) =28 per cento, un’aderenza tra 20 e 39 per cento corrisponde a un costo 6.062 $ con RO =24 per cento; un’aderenza tra 40 e 59 per cento determina un costo medio annuo di 5.297 $ con RO =24 per cento; un’aderenza tra 60 e 79 per cento genera un costo medio annuo di 5.262 $ con RO =20 per cento e infine un’aderenza tra 80 e 100 per cento un costo medio annuo di 4.871 $ con RO =19 per cento [14]. Un recente studio condotto negli Stati Uniti ha dimostrato che nei pazienti
Rischio CV a 5 anni (%) Riduzione pressione diastolica (mmHg)
ipertesi che necessitano di una triplice associazione di antipertensivi, l’impiego di una singola pillola si traduce in un miglioramento dell’aderenza e in una riduzione degli eventi cardiovascolari, senza aumentare i costi [15]. Moran et al. hanno recentemente pubbli-
cato su una prestigiosa rivista che la corretta applicazione delle ultime linee guida americane per il trattamento dell’ipertensione arteriosa [16], che suggeriscono fortemente la terapia di combinazione, porterebbe a una riduzione di 56.000 eventi cardiovascolari e 13.000 morti
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terapia ogni anno, con una conseguente importante riduzione dei costi per la comunità [17].
la Terapia di associazione La superiorità della terapia di associazione non risiede solo nel concetto che l’insieme di più sostanze farmacologiche determini un più efficace controllo pressorio, ma anche nella scelta di alcune associazioni preferenziali, suggerite oltre che dal profilo farmacologico-clinico generale anche dalle evidenze nella pratica clinica. Secondo le linee guida ESH-ESC affinché un’associazione possa essere considerata ideale (e soprattutto fissa) deve possedere determinate caratteristiche quali: una migliore efficacia sul controllo della pressione arteriosa in termini di effetto additivo o, possibilmente, sinergico tra i diversi farmaci antipertensivi rispetto alla monoterapia, la capacità di mantenere un buon controllo pressorio durante l’intervallo di 24 ore (con rapporto valle/picco alla 24a ora il più possibile vicino a 1) derivante da una compatibilità del profilo farmacologico delle molecole coinvolte e la possibilità di un potenziamento reciproco in termini di meccanismo d’azione antipertensivo, una buona tollerabilità soggettiva da parte del paziente al fine di aumentare la persistenza in trattamento, la compliance e, di conseguenza, migliorare la prognosi clinica dell’ipertensione arteriosa, una chiara riduzione della morbilità cardiovascolare con minore incidenza delle principali complicanze, quali la cardiopatia ischemica e le malattie cerebrovascolari, l’evidenza di una riduzione della mortalità cardiovascolare e totale. Gli elementi fin qui presentati vengono più volte ribaditi e confermati dalle diverse linee guida sulla gestione della terapia di associazione non solo in termini di migliore efficacia terapeutica rispetto alla semplice monoterapia, ma anche in relazione alla scelta di specifiche combinazioni in grado di potenziare l’effetto antipertensivo e migliorare il profilo di rischio CV. In particolare le ultime linee guida europee suggeriscono le associazioni consigliate e quelle da evitare per i possibili effetti negativi (Figura 2).
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Efficacia delle associazioni ed evidenze cliniche Le più recenti linee guida pongono l’accento sulla superiore efficacia terapeutica dei farmaci antipertensivi somministrati in associazione rispetto alla monoterapia basandosi soprattutto su evidenze cliniche che ne hanno dimostrato la capacità di modificare in senso positivo la prognosi e la riduzione del rischio CV. È possibile identificare specifiche classi farmacologiche che combinate insieme sono in grado di migliorarne l’efficacia e la tollerabilità. Per anni l’associazione tra inibitori del sistema renina-angiotensina (RAS), quali ACE-inibitori o AT1-antagonisti e un diuretico tiazidico è risultata essere l’associazione precostituita di più frequente uso nella pratica clinica. Recentemente la combinazione fissa di un inibitore del RAS con un calcio antagonista si è dimostrata di gran lunga più efficace e ben tollerata dai pazienti. Le linee guida proposte dal NICE [18], identificano l’associazione tra un inibitore del RAS e un calcio antagonista come la scelta da preferire nei pazienti che non hanno tratto beneficio in termini di efficacia antipertensiva dalle singole classi farmacologiche quando somministrate in monoterapia. Attualmente esistono molti studi condotti su ampie popolazioni di ipertesi che sottolineano l’efficacia di una tale combinazione sia in termini di controllo pressorio che di riduzione del rischio CV e quindi di prognosi. A tal proposito, i risultati dello studio ASCOT-BPLA mostrano che nei soggetti affetti da ipertensione arteriosa uno schema terapeutico a base di amlodipina riduce in maniera significativa la maggior parte degli eventi considerati come endpoint secondari e terziari, rispetto a uno schema a base di atenololo; inoltre, riduce in maniera non significativa l’endpoint primario dell’infarto miocardico non fatale (compreso l’infarto silente) e delle coronaropatie (CHD) fatali. Nel complesso, nel gruppo amlodipina +/- perindopril gli eventi cardiovascolari maggiori hanno subito una riduzione del 16 per cento, i casi di diabete di nuova insorgenza una riduzione del 30 per cento, gli ictus del 23
per cento e la mortalità dell’11 per cento, rispetto al gruppo atenololo +/- diuretico (bendroflumetiazide) [19]. Lo studio è stato interrotto anticipatamente dopo un follow-up di 5,5, anni, per il maggior numero di decessi nel gruppo atenololo. I risultati conclusivi evidenziano che la differenza di mortalità per tutte le cause tra il braccio “amlodipina” e quello “atenololo” era dovuta al minor numero di decessi cardiovascolari nel braccio amlodipina. I risultati dello studio ASCOT sono stati ulteriormente avvalorati dal sottostudio CAFÉ [20] nel quale è emerso che la combinazione perindopril +amlodipina determina un migliore controllo della pressione centrale aortica a parità di pressione brachiale e una significativa riduzione degli eventi CV. Mentre le linee guida NICE [18] suggeriscono chiaramente quale associazione di scelta quella tra RAS-inibitore e calcio antagonista, quelle ESH-ESC [5, 6, 11] mettono sullo stesso piano l’associazione RAS-inibitore +calcio antagonista e RASinibitore +diuretico tiazidico. Lo studio ACCOMPLISH ha dato una risposta a tale questione. L’ACCOMPLISH è stato il primo studio clinico ad aver valutato l’efficacia di due combinazioni di molecole tra le più utilizzate nella pratica medica, per ridurre eventi cardiovascolari in pazienti ipertesi ad alto rischio. A ottobre 2007 lo studio è stato precocemente interrotto per gli evidenti benefici raggiunti in uno dei due bracci di trattamento, in termini di riduzione degli eventi cardiovascolari di morbi/mortalità. Questo studio è stato condotto su più di 11.000 pazienti in 550 centri negli Stati Uniti e in Scandinavia. I pazienti sono stati suddivisi in due bracci di terapia: il primo ha assunto la combinazione fissa in un’unica compressa tra un ACE-inibitore e il calcio antagonista amlodipina; il secondo braccio ha preso sempre in un’unica compressa l’ACEinibitore con il diuretico idroclorotiazide. L’endpoint primario era rappresentato da infarto non fatale e ospedalizzazione per angina instabile o rivascolarizzazione e morte cardiovascolare. I risultati hanno mostrato che la combinazione di
Figura 2
Le associazioni farmacologiche consigliate (e quelle da evitare) secondo le più recenti linee guida europee Diuretici tiazidici
Betabloccanti
Antagonisti recettoriali dell’angiotensina II
Altri antipertensivi
Calcio antagonisti
ACE-inibitori
un farmaco che inibisce il sistema renina angiotensina e di un farmaco come amlodipina che blocca i canali del calcio, nei pazienti ipertesi ad alto rischio, riduce del 20 per cento l’incidenza di eventi cardiovascolari [21].
w Associazione ramipril-amlodipina L’ultima associazione precostituita entrata in commercio in Italia è rappresentata dall’associazione tra l’ACE-inibitore ramipril e il calcio antagonista amlodipina. Esistono numerosi studi che mostrano l’efficacia dei due farmaci presi singolarmente. Ramipril. Negli studi clinici, il ramipril è risultato efficace nel trattamento dell’ipertensione con un tasso di risposta dell’85 per cento in caso di ipertensione lieve-moderata e un’azione antipertensiva analoga a quella degli altri farmaci della stessa classe e dell’atenololo. In caso di ipertensione grave, la risposta al trattamento con ramipril in monoterapia si
assesta intorno al 40 per cento. Il ramipril si è mostrato efficace in molte condizioni cliniche nel migliorare nettamente la prognosi e ridurre le complicanze CV relative a ipertensione e cardiopatia ischemica Il ramipril è risultato superiore all’atenololo nell’indurre regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra. Nei pazienti con insufficienza cardiaca clinicamente dimostrata dopo infarto del miocardio, il farmaco è risultato efficace nel ridurre in modo significativo (27 per cento) il rischio di mortalità per tutte le cause (studio AIRE, Acute Infarction Ramipril Efficacy) sia a breve che a lungo termine. I benefici clinici del farmaco sono risultati ancora più evidenti nei pazienti con più grave compromissione del ventricolo sinistro [22]. L’efficacia del ramipril sulla sopravvivenza nei pazienti a elevato rischio cardiovascolare è stata dimostrata anche nei pazienti con frazione di eiezione ventricolare sinistra nella norma. Nello studio
HOPE (Heart Outcomes Prevention Evaluation), il ramipril (10 mg/die) è stato somministrato a pazienti con anamnesi di malattia vascolare a livello coronarico (80 per cento), cerebrale (11 per cento), o arteriopatia periferica (43 per cento). Sono stati inclusi nello studio anche pazienti diabetici (43 per cento) con almeno un fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo: ipertensione (47 per cento), microalbuminuria (21 per cento), ipercolesterolemia (66 per cento) e tabagismo (14 per cento). La durata dello studio è stata di circa 5 anni. Il ramipril ha ridotto significativamente il rischio di infarto miocardico, ictus e morte CV oltre ai nuovi casi di diabete e di complicanze microvascolari del diabete [23]. Nello studio SECURE (Study to Evaluate carotid Ultrasound changes in patients treated with Ramipril and vitamin E), l’ispessimento del complesso intima-media della carotide (marker di progressione del processo aterosclerotico) ha mostrato
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terapia di essere significativamente ridotto nei pazienti trattati con il ramipril e l’effetto è risultato dose-dipendente e non correlato all’azione antipertensiva del farmaco, per cui è stata ipotizzata un’azione diretta del ramipril sulla funzione endoteliale [23]. Lo studio SECURE ha evidenziato inoltre, tramite un monitoraggio ecocardiografico su un sottogruppo di pazienti, la capacità di ramipril di rallentare il declino della funzione miocardica tramite un’azione dose-dipendente sulla massa e sul volume ventricolare sinistro. Nello studio micro-HOPE, che ha preso in considerazione solo i pazienti con diabete (la maggior parte presentava diabete di tipo 2), la somministrazione di ramipril è stata associata a prevenzione o rallentamento del danno renale (marker: rapporto albumina/creatinina). Nel gruppo trattato con ramipril, la riduzione del rischio di sviluppare una nefropatia diabetica, rispetto ai pazienti trattati con placebo, è stata del 22 per cento; la riduzione del rischio cumulativo di nefropatia conclamata, di laser terapia e di dialisi è stata del 15 per cento [24]. Nei pazienti diabetici, i benefici clinici ottenuti con ramipril sono stati superiori a quelli attesi sulla base dell’abbassamento dei valori pressori. È probabile che l’angiotensina giochi un ruolo importante nell’attivazione di citochine infiammatorie e di sostanze ossidanti responsabili del danno tissutale associato al diabete. Gli effetti del ramipril potrebbero essere spiegati con l’interruzione del circolo vizioso pro-ossidativo instaurato dall’attivazione locale dell’angiotensina. Gli effetti del ramipril sulla funzione renale sono stati messi in evidenza nello studio REIN (Ramipril Efficacy in Nephropathy) condotto in pazienti non diabetici con proteinuria. In questo studio, multicentrico randomizzato placebo-controllato, la somministrazione di ramipril a pazienti con proteinuria <3 g/24 ore, in associazione a terapia antipertensiva, ha permesso di ridurre il declino del tasso di filtrazione glomerulare (GFR) e poiché in entrambi i gruppi la terapia antipertensiva era stata definita per mantenere la pressione diastolica sotto i 90 mmHg, l’effetto del ramipril sulla funzionalità renale può
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considerarsi indipendente dall’azione antipertensiva [25]. Amlodipina. Nei pazienti ipertesi, l’amlodipina è in grado di determinare una riduzione a lungo termine, dose-dipendente, della pressione arteriosa. Vari studi hanno dimostrato che dopo somministrazione di dosi terapeutiche a pazienti ipertesi, l’amlodipina determina una sensibile riduzione della pressione arteriosa in posizione supina, seduta e ortostatica. L’uso cronico dell’amlodipina non è associato a variazioni significative della frequenza cardiaca o dei livelli plasmatici di catecolamine. Inoltre nei pazienti ipertesi con funzionalità renale normale, dosi terapeutiche di amlodipina riducono la resistenza vascolare renale aumentando la velocità di filtrazione glomerulare e il flusso plasmatico renale effettivo, senza variazioni della frazione di filtrazione o della proteinuria. Nello studio PREVENT (Prospective Randomized Evaluation of the Vascular Effect of Norvasc Trial), l’amlodipina è risultata in grado di rallentare la formazione di placche ateromatose soprattutto nelle fase iniziale del processo [26]. Nei pazienti ipertesi l’amlodipina è capace di migliorare la perfusione renale indipendentemente dal complesso renina-angiotensina-aldosterone: il farmaco incrementa il flusso ematico renale (del 16 per cento), il tasso di filtrazione glomerulare (12 per cento) e diminuisce le resistenze renovascolari (25 per cento) e incrementa la diuresi agendo direttamente sul riassorbimento tubulare di sodio (incremento della natriuresi) [27]. Alcuni dati di letteratura hanno evidenziato un possibile ruolo antitrombotico per l’amlodipina; una riduzione dell’aggregazione piastrinica è stata evidenziata in pazienti ipertesi dopo somministrazione del farmaco (10 mg/die) [28].
Conclusioni È indubbio che la terapia di associazione sia ormai considerata la migliore strategia per ridurre significativamente la pressione arteriosa e le complicanze CV a essa correlate. Se in passato poteva essere
considerata un secondo step nell’algoritmo di scelta terapeutica solo in pazienti in cui la monoterapia non aveva ottenuto un buon controllo del valori pressori arteriosi a oggi, vista la sempre più difficile gestione dei pazienti ipertesi sia per la persistenza di elevati valori di PA sia per la scarsa aderenza alla terapia, un farmaco che combini in una singola somministrazione due principi attivi molto efficaci e sinergici tra loro risulta essere molto promettente per la riduzione del rischio CV associato all’ipertensione. Le ultime linee guida europee e quelle americane ribadiscono il ruolo primario della terapia di associazione e permettono di individuare le migliori combinazioni in termini di efficacia basandosi sui dati provenienti dai grandi trials clinici. A tal proposito il primato di efficacia spetta all’associazione ACE inibitore/calcio antagonista e in particolare la combinazione ramipril/amlodipina che rispetta tutte le richieste previste dalle linee guida e rappresenta la giusta sintesi tra pratica clinica e prevenzione CV.
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IBSA
Integratori o farmaci focus sugli omega-3 in prevenzione CV
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a prevenzione nel post-infarto rappresenta una sfida aperta in ambito cardiologico. La ricerca è da sempre orientata verso approcci nuovi in grado di prevenire o quanto meno ridurre la morte cardiovascolare (CV) nei pazienti ad alto rischio. Gli acidi grassi polinsaturi omega-3 da qualche anno ormai hanno assunto un ruolo in questo ambito. Se ne è parlato in un incontro, che si è tenuto lo scorso 22 gennaio a Milano e che è stato organizzato da Ibsa, azienda che ha messo a punto un farmaco equivalente a base di omega-3 (Olevia®). “Gli omega-3 rappresentano un interessante esempio di sostanza che è al contempo alimento, integratore alimentare e farmaco”, ha sottolineato Alessandro Mugelli, dell’Università degli Studi di Firenze. Sulla base degli effetti
di una dieta ricca di omega-3 esistono in commercio diversi integratori alimentari, che tuttavia contengono una minore quantità di sostanza rispetto al farmaco. In pratica ha spiegato Paola Minghetti, dell’Università degli Studi di Milano “gli integratori alimentari a base di omega-3 si propongono come un’alternativa a una dieta bilanciata”. Per gli omega-3, alle indicazioni nel trattamento dell’ipertrigliceridemia e nella prevenzione della morte cardiaca improvvisa, si aggiungono anche le evidenze sugli effetti favorevoli nello scompenso cardiaco. “Lo studio GISSI-HF ha dimostrato che la somministrazione a lungo termine di omega-3, in aggiunta alla terapia usuale è efficace nel ridurre sia la mortalità globale sia la frequenza di ricovero per cause CV nei pazienti con scompenso cardiaco”, ha sottolineato
all’incontro Aldo Pietro Maggioni, direttore del Centro studi ANMCO. I vantaggi oltre che clinici sono anche economici, dal momento che lo scompenso rappresenta una delle spese più rilevanti per il nostro Sistema sanitario. Il farmaco equivalente Olevia® è indicato nell’ipertrigliceridemia e nella prevenzione secondaria nel paziente con infarto miocardico, ed è in classe A (Note 13 e 94). “L’utilità della formulazione in capsule molli è la possibilità di fare prevenzione CV con un costo mese/terapia minore rispetto al costo di molti integratori, che come detto presentano una concentrazione inferiore di omega-3 senza i vincoli di efficacia che contraddistinguono i farmaci”, ha concluso Elena Tremoli, direttore scientifico dell’Irccs Centro cardiologico Monzino di Milano.
Lundbeck
Lo stato dell’arte della depressione
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lla depressione è stato dedicato un convegno internazionale che si è tenuto in Vaticano lo scorso 26 gennaio. All’incontro realizzato con il supporto di Lundbeck è stato fatto il punto sulla diagnosi e sulla terapia di una patologia che rappresenta una delle maggiori sfide sanitarie attuali. Tra le numerose tematiche emerge il problema delle comorbidità, in particolare con le patologie neurodegenerative quali l’Alzheimer (MA). Oltre il 50 per cento dei pazienti con MA sviluppa depressione maggiore. Nella fase preclinica, la prevalenza è del 40 per cento, a metà strada fra popolazione generale (20 per cento) e soggetti con MA. Peraltro la depressione maggiore non va considerata reattiva perchè non c’è associazione tra la depressione e l’insight di avere l’Alzheimer. Piuttosto potrebbe trattarsi di una conseguenza del processo neurodegenerativo della MA e in particolare della degenerazione dei nuclei del raphe (serotoninergici) e del locus coeruleus (noradrenergici). Esistono poi dati di carattere genetico: per esempio in anziani con depressione, la presenza dell’allele ε4 aumenta il rischio di sviluppare MCI e viceversa in donne con MA con alcune mutazioni del PS-1 aumenta il rischio di depressione. Il tentativo di
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integrare le nuove acquisizioni ha portato allo sviluppo degli RDoC (Research Domain Criteria) messi a punto dal National Institute of Mental Health, che classificano i disturbi mentali sulla base sia di criteri clinici comportamentali sia di dati neurobiologici. Come ha commentato Carlo Altamura, dell’Università di Milano, negli anni si è infatti capito che i sintomi da soli raramente possono portare alla migliore opzione di trattamento. Anche il manuale DSM, giunto alla quinta edizione, dovrà sempre più tenere conto dei dati strumentali. Assistiamo così al passaggio verso un continuum diagnostico dimensionale, in cui la depressione appare come una lunga sfumatura di grigi e non più come una serie di blocchi o tutti bianchi o tutti neri. In questo continuum a dividere i disturbi bipolari da quelli depressivi intervengono la differente familiarità, i marker genetici e la sintomatologia del singolo paziente. Nascono nuove entità come il disturbo disforico premestruale e ne spariscono altre come la depressione da lutto che viene declassata in grave fattore di stress psicologico. Al contrario la perdita di speranza per il futuro diventa criterio fondamentale per la diagnosi di depressione.
MSD
Malattie infettive 50 borse di studio destinate a giovani ricercatori
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ostenere i giovani ricercatori italiani impegnati nel campo delle patologie infettive, e mettere a punto soluzioni innovative per far fronte alla minaccia di infezioni quali HIV, HCV e infezioni fungine. Sono queste le finalità delle 50 borse di studio biennali (da 25mila euro) che Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) con il supporto di MSD Italia ha assegnato ad altrettanti giovani specialisti. La presentazione è avvenuta lo scorso 28 gennaio a Roma in un incontro per la stampa medico-scientifica. “Questa iniziativa offre nuove opportunità ai giovani ricercatori e consente loro di fare ricerca in autonomia” ha dichiarato Massimo Andreoni, dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Infezione da HCV e HIV, e infezioni fungine sono tra le condizioni infettive a maggior impatto sanitario, ma sono anche quelle dove in tempi recenti si sono registrati alcuni dei più significativi progressi terapeutici. Pensiamo per esempio ai nuovi trattamenti antivirali per l’infezione da HCV, che sono in grado di eradicare il virus in oltre il 90 per cento dei casi. L’efficacia di queste terapie deve fare i conti però con la sostenibilità per il SSN, e l’accesso alle terapie anti-HCV innovative rimane una questione da risolvere. Per quel che riguarda l’HIV, come sottolineato da Antonio Chirianni
presidente Simit, con l’avvento delle terapie combinate, a partire dagli anni Novanta si è avuto un calo drastico, del 90 per cento, della mortalità. L’introduzione degli inibitori dell’integrasi di ultima generazione ha migliorato non solo l’efficacia, ma anche la tollerabilità del trattamento. Un fenomeno in preoccupante e costante crescita è rappresentato dalle infezioni fungine invasive. Sebbene si tratti di patologie neglette e senza risorse, queste infezioni pongono seri problemi per la vita dei pazienti fragili (il 70 per cento dei ricoverati). Nei pazienti più critici per esempio, il tasso di letalità delle infezioni da Candida albicans supera il 60 per cento e dipende dalla tempestività della diagnosi e dell’introduzione di un’appropriata terapia. “Una pronta diagnosi e il tempestivo inizio di un adeguato trattamento sono strettamente necessari per ridurre l’impatto delle infezioni fungine invasive in particolar modo delle sepsi da Candida” ha spiegato Marco Tinelli, dell’AO di Lodi. “L’estensione della stewardship degli antimicotici, ovvero la gestione guidata da specialisti della terapia e delle politiche d’impiego dei farmaci antifungini, ai principali luoghi di cura rappresenta un indispensabile strumento per la razionalizzazione dell’impiego dei farmaci, il miglioramento del risultato e il contenimento dei costi”.
Cipi Medical Devices
Il “salvadita” che facilita la manipolazione delle siringhe
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ebbene il rischio di punture accidentali da ago cavo sia a volte sottovalutato, è un problema che può avere conseguenze importanti per la salute dell’operatore sanitario. Ogni anno in Italia sono stimati più di 100mila infortuni da esposizioni percutanee, il 63 per cento dei quali dovuti a punture accidentali con ago cavo. Oggi però esiste la possibilità di tutelarsi grazie al dispositivo Margherita FingerGuard, un nuovo e semplice presidio medico approvato peraltro dal Ministero della Salute. Il “salvadita” è stato creato da Carlo Giuberchio fondatore di Margherita Inventions, e permette di compiere in completa sicurezza le semplici operazioni di manipolazione delle siringhe. Il dispositivo è riutilizzabile e sterilizzabile; è prodotto e distribuito da Cipi Medical Devices. Per maggiori informazioni su Margherita FingerGuard, è possibile visitare il sito www.cipimedicaldevices.com.
Medtronic acquisisce l’italiana Bellco
L
o scorso primo febbraio Medtronic ha annunciato l’acquisizione di Bellco, azienda italiana con sede a Mirandola (Modena) e leader nelle soluzioni di emodialisi, una concreta testimonianza dell’impegno nel migliorare i risultati clinici, ampliare l’accesso alle terapie, ottimizzare i costi e perfezionare l’efficienza dei trattamenti per l’insufficienza renale terminale. Bellco è un’azienda all’avanguardia nelle soluzioni per il trattamento di emodialisi, e ha dato vita a terapie e sistemi per il trattamento dell’insufficienza renale, delle disfunzioni multiorgano e della sepsi. L’azienda che è diventata un simbolo dell’eccellenza italiana del polo tecnologico di Mirandola, possiede una linea completa di dializzatori e apparecchiature per la dialisi cronica e acuta negli adulti, nei bambini e nei neonati affetti da insufficienza renale terminale. A seguito di questa acquisizione il portafoglio Bellco andrà a consolidare l’offerta di Medtronic della nuova divisione “Renal care solutions”.
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sanitÀ l Normativa
Patente di guida a rischio per chi soffre di OSAS Anche in Italia entra in vigore la direttiva europea
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on il decreto del 22 dicembre 2015 (GU 13 gennaio 2016) il Ministero dei trasporti ha di fatto reso operativa la direttiva europea del primo luglio 2014, n. 2014/85/UE in materia di rilascio delle patenti di guida. Fra le novità apportate, quella che ha catturato l’attenzione dei mass media e della stampa di settore è indubbiamente il rinnovo o il rilascio della patente di guida ai soggetti affetti da OSAS (Sindrome delle apnee ostruttive del sonno). Secondo il decreto (riquadro a lato) la patente di guida non potrà essere rilasciata o rinnovata a soggetti che soffrono di disturbi del sonno causati da apnee ostruttive notturne che provochino sonnolenza diurna con conseguente calo dell’attenzione, qualora non siano adeguatamente trattati. l Un’epidemia silente che minaccia la sicurezza stradale…e non solo Sono più di 4 milioni i soggetti che soffrono di OSAS, dei quali oltre 2 milioni manifestano problemi di sonnolenza diurna. L’OSAS è una patologia respiratoria del sonno che causa ricorrenti episodi di ostruzione delle alte vie respiratorie, creando apnee notturne non percepite dal soggetto che però determinano frammentazione del sonno, ed è spesso associata ad alcuni “big killer” quali obesità, infarto miocardico, ictus, fibrillazione atriale, sindrome metabolica, disturbi cognitivi e diabete. Sebbene la prevalenza sia significativa, di
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OSAS poco si parla: è una patologia poco considerata dai medici, e praticamente sconosciuta a livello di popolazione generale. Anche l’impatto sociale è incisivo, con costi diretti e indiretti che si riflettono sull’intera comunità e che sfiorano il miliardo di euro all’anno (molto simili a quelli per esempio legati al diabete), ai quali si aggiungono risvolti medico-legali e assicurativi. È importante aggiungere che la patologia si manifesta in genere nella
fascia di età maggiormente produttiva e interessa soprattutto l’uomo. “Il 22 per cento degli incidenti stradali in Italia – ha commentato il prof. Sergio Garbarino, rappresentante per l’Italia della Commissione europea preposta ad approfondire la questione - è causato da problemi di sonnolenza diurna alla guida, prevalentemente originati dall’OSAS”. I dati Istat indicano 40.000 sinistri in Italia e circa 240.000 in tutta l’Unione Europea!
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI DECRETO MINISTERIALE
22 dicembre 2015 (G.U. n. 9 del 13.1.2016)
DISTURBI DEL SONNO DA APNEE OSTRUTTIVE NOTTURNE La patente di guida non deve essere né rilasciata né rinnovata a candidati o conducenti affetti da disturbi del sonno causati da apnee ostruttive notturne che determinano una grave ed incoercibile sonnolenza diurna, con accentuata riduzione delle capacità dell’attenzione non adeguatamente controllate con le cure prescritte. Il medico, di cui all’articolo 119, comma 2, del codice della strada, sottopone a particolare valutazione i soggetti per i quali sussistono sintomi riconducibili alla sindrome da apnea ostruttiva notturna. Nei casi in cui si possa concludere per l’assenza o lieve entità di sonnolenza diurna, il medico di cui all’articolo 119, comma 2, del codice della strada, certifica l’idoneità alla guida del conducente. Nel caso sussistano dubbi circa l’idoneità e la sicurezza di guida, l’accertamento dei requisiti di idoneità psichici e fisici è demandato alla commissione medica locale. La commissione medica locale può autorizzare alla guida i soggetti affetti da sindrome da apnee ostruttive notturne moderate o gravi che dimostrino un adeguato controllo della sintomatologia presentata con relativo miglioramento della sonnolenza diurna, se del caso confermato da parere specialistico di strutture pubbliche. La validità della patente rilasciata o rinnovata, eventualmente anche con prescrizioni da parte della Commissione Medica Locale, non può superare i tre anni per i conducenti del gruppo 1 ed un anno per i conducenti del gruppo 2.
sanitÀ l Gli interventi per evitare polisonnografie inutili ed eccessive Con la nuova normativa, nel corso della visita di idoneità per il rilascio/ rinnovo della patente dovranno essere ricercate e valutate le manifestazioni delle OSAS. “Il Ministero della Salute ha predisposto delle specifiche indicazioni operative al fine di assicurare criteri di valutazione uniformi su tutto il territorio nazionale ed evitare inutili richieste di esami specialistici in caso di sospetto di OSAS” sottolinea Giancarlo Marano, della Direzione Generale Prevenzione sanitaria, del Ministero della Salute, in un commento rilasciato sul sito dell’Associazione italiana pneumologi ospedalieri (www.aiponet.it), lo scorso 25 gennaio. “Con le procedure indicate dal Ministero si intende evitare che, nel corso degli accertamenti volti a stabilire l’idoneità alla guida, il medico monocratico o la Commissione Medica richiedano indistintamente, sempre e comunque esami polisonnografici in caso di sospetto di OSAS. I controlli da effettuare, avendo come obiettivo la valutazione della sicurezza alla guida, devono necessariamente essere centrati sull’accertamento della sussistenza o meno di una condizione di eccessiva sonnolenza diurna, in quanto è tale condizione a rappresentare un effettivo fattore di rischio di incidente. Al riguardo è opportuno sottolineare che tale fattore di rischio può anche non essere presente in casi di OSAS medio o grave e viceversa presentarsi anche con OSAS lieve. Per tale motivo assumono un’importanza assoluta, ai fini della valutazione dell’idoneità alla guida, le capacità di attenzione presentate dal soggetto e non il numero delle apnee notturne. Solo se è riscontrata la sussistenza di una condizione di eccessiva sonnolenza diurna ha un significato la richiesta, da parte della Commissione medica locale, di un esame polisonnografico. Sempre
che non si tratti di un soggetto già in cura presso un centro specialistico, con diagnosi accertata. In tale ipotesi sarà il medico monocratico o la Commissione Medica locale, a seconda dei casi, a interagire direttamente con il centro che ha in carico il paziente al fine di acquisire le informazioni relative all’aderenza alla terapia e all’efficacia della terapia praticata. In particolare, la Commissione Me-
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dica, in collaborazione con il centro specialistico, avrà la facoltà di decidere riduzioni individualizzate della validità della patente rilasciata o rinnovata, ed eventualmente potrà anche prevedere ulteriori prescrizioni aggiuntive. In ogni caso la validità della patente di guida non potrà superare i tre anni per i conducenti del gruppo 1 e un anno per i conducenti del gruppo 2 (autocarri e altri mezzi pesanti)”.
l Aifa
L’uso dei farmaci in Italia: i dati preliminari del rapporto Osmed 2015 In attesa del “tradizionale” rapporto annuale, lo scorso 28 gennaio l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha pubblicato il Rapporto sull’uso dei farmaci nei primi nove mesi del 2015. Nel periodo esaminato la spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) è stata pari a 21,3 miliardi di euro, di cui il 76,5 per cento è stato rimborsato dal SSN. La spesa farmaceutica territoriale pubblica è stata di 9.727 milioni di euro (circa 159 euro pro capite), con un aumento del 9,6 per cento rispetto allo scorso anno. Gli italiani hanno consumato 1.041,1 dosi ogni 1.000 abitanti in regime di assistenza convenzionata con un lieve incremento rispetto all’anno precedente (0,5 per cento) I consumi crescenti sono in linea con la tendenza dell’invecchiamento della popolazione e della cronicizzazione delle patologie. La situazione regionale vede i più alti livelli di consumo in regime di assistenza convenzionata nel Lazio (1.191,9 DDD/1.000 abitanti die), in Calabria e in Puglia, mentre i consumi più bassi sono stati nella Provincia autonoma di Bolzano (773,0 DDD/1.000 abitanti die), in Liguria e in Veneto. Le tre Regioni che hanno fatto registrare la spesa farmaceutica convenzionata di classe A-SSN più elevata sono state la Campania con 167,5 euro pro capite e la Puglia con 161,6 euro mentre la Provincia autonoma di Bolzano e l’Emilia Romagna hanno mostrato la spesa pro capite più bassa, pari rispettivamente a 97,0 euro, 103,0 euro (la media nazionale è risultata 134,4 euro). I farmaci antitumorali e immunomodulanti si confermano la classe a maggiore spesa pubblica, mentre quelli del sistema cardiovascolare sono stati superati nella spesa dai farmaci antimicrobici. Interessanti i riscontri degli indicatori di appropriatezza, che mostrano in primis un livello di aderenza al trattamento non sempre adeguato. Tra i pazienti affetti da patologie a carico dell’apparato cardiovascolare, quasi il 60 per cento (58,9 per cento) dei soggetti è risultato aderente agli antipertensivi, mentre meno della metà dei pazienti ha assunto regolarmente il trattamento con ipolipemizzanti. Un trend già precedentemente riscontrato è l’impiego non appropriato delle associazioni fisse di calcio antagonisti con molecole attive sul sistema RAS. Un dato significativo emerge da questo rapporto “parziale” ovvero il crescente uso dei biosimilari in pazienti mai trattati per una patologia, sebbene restino ancora margini di miglioramento e di incremento nel loro impiego. Le informazioni fin qui raccolte e che sono parte integrante di questo Rapporto costituiscono il “canovaccio” per la stesura del documento definitivo, che come ogni anno l’Agenzia del farmaco presenta per illustrare l’andamento e l’orientamento dei consumi e della spesa farmaceutica nel nostro Paese.
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