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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIII n. 2 - 2017
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Ricerca le mutazioni "casuali" del DNA tra i fattori eziologici dei tumori Pneumologia inquadramento clinico delle OSAS nell’adulto Prevenzione quali vantaggi da un impiego più esteso di ASA Deontologia Riflessioni sulle conseguenze sociali della malattia in MG
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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Medico e paziente n. 2 anno XLIII - 2017 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia
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Direttore editoriale Anastassia Zahova
in questo numero
sommario
Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi Piera Parpaglioni Cesare Peccarisi Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Massimo Colombo, Loreta Di Michele, Roberta Galentino, Ivan Gardini, Luigi Marino, Sandro Petrachi, Mauro Porta, Antonio Sanna, Mario Schisano, Domenico Toraldo, Carlotta Zanaboni Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio
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6 letti per voi
p 10 Pneumologia
La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno dell’adulto Inquadramento clinico e terapeutico
L’OSAS è una patologia dal significativo impatto sanitario e sociale, tanto che il Ministero della Salute ha recentemente pubblicato le indicazioni per la prevenzione e la diagnosi precoce a cura di cura di Antonio Sanna, Loreta Di Michele, Luigi Marino, Mario Schisano, Domenico Toraldo
p 16 approfondimenti
Epatite C Al via i nuovi criteri di accesso alle cure
Con una decisione storica, l’AIFA ha recentemente esteso ai pazienti meno gravi l’accesso alle cure con antivirali di nuova generazione. L’obiettivo è arrivare a un’eradicazione dell’infezione in tre anni
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a cura della Redazione
MEDICO E PAZIENTE
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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia)
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sommario
p 22 prevenzione
Estendere l’impiego di ASA Quali vantaggi a lungo termine per i pazienti ad alto rischio CV
Ampliare l’uso di aspirina nei soggetti a elevato rischio cardiovascolare potrebbe generare vantaggi a livello di salute generale della popolazione per i prossimi vent’anni. Sono in estrema sintesi le conclusioni di un recentissimo lavoro statunitense, che presentiamo in queste pagine a cura della Redazione
p 26
Farminforma
p 32 Deontologia
Riflessioni sulle conseguenze sociali legate alla sindrome di Tourette e al disturbo ossessivo compulsivo in Medicina generale
Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna
La sindrome di Tourette e il disturbo ossessivo compulsivo spesso comportano la necessità di intervenire in prima istanza sul disagio sociale e sulla sofferenza causati dalla malattia
Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi)
a cura di Sandro Petrachi, Carlotta Zanaboni, Roberta Galentino, Mauro Porta
Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
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MEDICO E PAZIENTE
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e n i l n o
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letti per voi Eziologia del cancro
Molte mutazioni driver all’origine dei tumori sono casuali, ma l’insorgenza del cancro, in numerosi casi si può prevenire. La contraddizione è solo apparente, come spiegano gli Autori di uno studio che approfondisce i risultati clamorosi di due anni fa £
Un graduale accumulo di mutazioni genetiche driver che successivamente incrementano la proliferazione cellulare incontrollata: è questa l’ipotesi eziologica universalmente accettata per il cancro. La ricerca biomedica in campo oncologico tuttavia non ha ancora fornito una risposta esauriente a una domanda fondamentale: qual è l’origine di queste mutazioni? In questo nuovo articolo pubblicato su Science, Cristian Tomasetti del Dipartimento di Biostatistica della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, e colleghi, riprendono e approfondiscono lo studio pubblicato poco più di due anni fa sulla stessa rivista, e che fu pubblicizzato in maniera per lo più sconsiderata dai media di tutto il mondo, alcuni dei quali, soprattutto in Italia, titolarono che i “due terzi dei casi di tumore sarebbero dovuti alla sfortuna”. I sottotitoli richiamavano paradossalmente all’importanza della prevenzione, senza spiegare peraltro perché. La confusione fu generata dal non aver compreso un assunto di base cruciale: un conto sono le mutazioni che danno origine ai tumori, di cui parlano Tomasetti e colleghi, un conto i casi di tumore. La questione è semplice, almeno nelle sue linee generali. A causare le mutazioni primarie sono tre ordini di fattori: ambientali, ereditari e casuali. I primi sono stati evidenziati in numerosi studi e su di essi si basano tutte le misure di prevenzione in campo oncologico. Il ruolo dell’ereditarietà è emerso sia dagli studi sui gemelli sia dall’identificazione di specifici geni responsabili delle sindromi di predisposizione allo
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sviluppo di forme tumorali. Per quanto riguarda il terzo ordine di fattori, Tomasetti e colleghi hanno recentemente ipotizzato che le mutazioni dovute a errori casuali durante la normale replicazione del DNA – in numero di tre, in media per ogni evento di replicazione, come documentato da alcuni studi genetici – possono spiegare perché i tumori insorgono più comunemente in alcuni tessuti che in altri. Questa ipotesi è scaturita dall’osservazione che il rischio di tumori nell’arco della vita a carico di 25 differenti tessuti è fortemente correlato al numero totale di divisioni a cui vanno incontro le cellule staminali di quei tessuti. Da qui l’accesa polemica che si è sviluppata nel mondo accademico così come sui media. In realtà spiegano gli Autori, l’intento non era di indicare una percentuale di contributo di ciascun fattore all’insorgenza dei diversi tipi di tumore, quanto piuttosto il rischio relativo dei tre diversi tipi di mutazioni. Il alcuni pazienti – spiegano Tomasetti e colleghi – il contributo dei fattori ereditari e casuali potrebbe essere sufficiente a causare tutte le mutazioni richieste per il cancro che hanno sviluppato. In altri pazienti, alcune mutazioni potrebbero essere dovute in parte ai fattori ambientali, in parte a quelli ereditari e in parte a quelli casuali. In altre parole, stabilire il contributo relativo dei tre diversi ordini di fattori in un dato caso di tumore è un compito estremamente arduo. In questo nuovo studio, gli Autori conducono una valutazione critica dell’ipotesi che gli errori casuali di replicazione cellulare possano svolgere un ruolo determinante nel cancro. Mentre le precedenti analisi erano confinate
alla popolazione statunitense, in questo studio hanno valutato l’incidenza del cancro in 69 Paesi, considerando così una varietà di ambienti e una popolazione di 4,8 miliardi di persone, pari ai due terzi della popolazione mondiale. L’incidenza dei tumori è stata determinata analizzando 423 registri dei casi di tumore resi disponibili dall’International Agency for Research on Cancer (IARC): per 17 tipi di tumore, il database dell’IARC forniva anche i dati relativi alle cellule staminali e ai loro tassi di replicazione. Il primo dato emerso dall’analisi è che in tutti i Paesi esiste una forte correlazione tra il rischio di tumore a carico di un tessuto nell’arco della vita e il numero medio di divisioni cellulari di quello stesso tessuto nell’arco della vita. Ciò è sorprendente, considerato che, per molte forme tumorali, i dati epidemiologici mostrano grandi differenze nell’esposizione ai fattori cancerogeni ambientali. Per spiegare questa discrepanza, gli Autori hanno elaborato un costrutto teorico su base biostatistica per determinare quali frazioni delle mutazioni cancerogene siano il risultato di fattori ambientali, ereditari o casuali. E i risultati spiegano molti dei fraintendimenti generati dal precedente studio. Il risultato più importante da tenere a mente è infatti che la prevenibilità dei tumori e l’eziologia delle mutazioni che ne sono alla base si misurano con metriche differenti: le percentuali che le esprimono non sono direttamente correlate e non devono dare come somma il 100 per cento, banalmente. Il dato fondamentale è che più mutazioni concorrono all’insorgenza di un tumore, e quindi i calcoli sono leggermente più complessi. Un caso esemplare è quello dell’adenocarcinoma del polmone: secondo i dati epidemiologici, quasi il 90 per cento dei casi di questo tumore è attribuibile a fattori ambientali e si potrebbe quindi prevenire. Il tabacco è il principale di questi fattori, mentre giocano un ruolo secondario il fumo secondario, le esposizioni occupazionali, le radiazioni ionizzanti, l’inquinamento atmosferico
e la dieta. Per questo tumore, inoltre, non sono noti fattori di rischio ereditari. Quanto contano dunque le mutazioni casuali dovute a errori di replicazione? Non il 10 per cento come si potrebbe pensare, bensì il 35 per cento. In altre parole, fatto 100 il numero complessivo di mutazioni driver che possono portare all’adenocarcinoma, quelle dovute a errori casuali sono 35. Lo stesso approccio analitico si può applicare ad altri tipi di tumore in cui
il ruolo dei fattori ambientali è meno determinante. Nel caso per esempio dell’adenocarcinoma del dotto pancreatico, i dati epidemiologici indicano che si potrebbe prevenire il 37 per cento dei casi. Se si guarda alle mutazioni che ne sono alla base, le percentuali per i diversi fattori determinanti sono le seguenti: 18 per cento fattori ambientali, 5 per cento fattori ereditari, 77 per cento fattori casuali di replicazione. C’è poi una terza classe di tumori in cui
i fattori ambientali ed ereditari contano molto poco, mentre quelli casuali rendono conto di oltre il 90 per cento delle mutazioni alla base del cancro. E questo dato rimarrebbe tale anche se le future analisi epidemiologiche documentassero che un’alta percentuale di casi si potrebbe evitare con la prevenzione. Tomasettti C, Li L, Voglestein B. Science 2017; 355: 1330-1334.
£ A meno di un anno dalla pubblicazione dello studio TRILOGY che aveva dimostrato una maggioLa “triplice” fissa ICS/LABA/LAMA re efficacia dell’associazione tripla rispetto alla terapia combinata a dose fissa ICS/LABA, sempre sulla dimostra superiore efficacia rivista Lancet arrivano ora i risultati di TRINITY che evidenzia per la prima volta la superiorità nei sulle riacutizzazioni rispetto allo confronti delle temute riacutizzazioni, della terapia “standard” tiotropio: lo studio tripla a dose fissa extrafine ICS/LABA/LAMA (beclometasone dipropionato/formoterolo fumarato/ TRINITY contribuisce a ridefinire il glicopirronio bromuro), rispetto al LAMA tiotropio, trattamento del paziente con BPCO uno dei trattamenti più comunemente utilizzati nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Lo studio randomizzato in doppio cieco a gruppi paralleli è stato condotto su 2.691 soggetti con età superiore ai 40 anni e con un quadro di BPCO grave o molto grave: FEV1 <50 per cento dell’atteso e almeno un episodio di riacutizzazione da moderato a grave nei precedenti 12 mesi l’arruolamento. I partecipanti sono stati suddivisi in tre bracci: un gruppo è stato trattato con l’associazione tripla a dose fissa (ICS/LABA/LAMA, 1.078 pz.), un altro gruppo con la terapia tripla estemporanea (combinazione a dose fissa ICS/LABA più LAMA, assunti con due diversi inalatori, 538 pz.) e un terzo gruppo con il tiotropio (1.075 pz.). Endpoint primario del trial era il tasso di riacutizzazioni da moderate a gravi, mentre la variazione rispetto al basale del FEV1 a 52 settimane era l’endpoint secondario. Al termine delle 52 settimane di trattamento, l’associazione tripla a dose fissa è risultata superiore al tiotropio in maniera statisticamente significativa sulla base dei seguenti risultati: il tasso annuale di riacutizzazioni moderate e severe è stato ridotto del 20 per cento (rate ratio 0,80 CI 95 per cento 0,69-0,92) e la funzionalità polmonare espressa dal FEV1 è aumentata di 0,061 l (p <0,0001). Gli effetti associati alla triplice fissa sulla funzionalità polmonare sono risultati sovrapponibili a quanto osservato con la tripla estemporanea (-0,003 l, p =0,85). Il profilo di efficacia e sicurezza dell’associazione tripla fissa inoltre, è risultato paragonabile a quello della tripla estemporanea. È da notare che nel trial non è stato riscontrato un incremento del rischio di polmonite legato all’impiego di ICS. La pubblicazione dello studio TRINITY è accompagnata da un editoriale a firma di Leonardo Fabbri, professore ordinario di Medicina interna e respiratoria dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, e colleghi. L’editoriale fa il punto sulla terapia di associazione per la BPCO alla luce dei nuovi risultati pubblicati e della recente revisione del GOLD Report 2017, l’ultima edizione della Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease (GOLD). Nell’editoriale, Fabbri e coll. sottolineano come rispetto al tiotropio, la terapia tripla abbia mostrato una riduzione significativa del tasso di riacutizzazioni da moderate a gravi e un miglioramento notevole della funzione polmonare, entrambi obiettivi primari. Lo studio di Vestbo et al. fornisce la prima evidenza della superiorità della terapia tripla rispetto al solo LAMA, in particolare al tiotropio, il farmaco meglio studiato e il più efficace dal punto di vista clinico, sulle riacutizzazioni da moderate a gravi e, fatto molto importante, senza un aumento del rischio di polmonite dovuto a trattamento con ICS, come riportato in un ampio e recente studio real life (Vestbo J et al. New Engl J Med 2016; 375(13): 1253-60).
Pneumologia
Vestbo J, Papi A et al. The Lancet 2017, published online April 3, 2017. Doi: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(17)30188-5; Fabbri LM, Roversi S et al., The Lancet 2017, published online April 3, 2017. Doi: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(17)30567-6.
MEDICO E PAZIENTE
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letti per voi Neurologia
Dormire più a lungo potrebbe essere un marker precoce di demenza? Le indicazioni da una coorte del Framingham Heart Study £ Gli anziani che prolungano le ore di sonno potrebbero essere esposti a un maggiore rischio di demenza, e la relazione diventa evidente soprattutto per i soggetti che dormono più di 9 ore per notte. Il rischio a 10 anni è risultato significativo per le persone che normalmente avevano l’abitudine di dormire meno di 9 ore, ma che a un certo punto hanno manifestato un progressivo incremento nelle ore di sonno. Chi invece dormiva regolarmente più di 9 ore e non ha mostrato variazioni non era esposto a tale rischio. Lo studio ha valutato 2.457 soggetti del Framingham Heart Study, con età media di 72 ±6
anni, in cui è stato calcolato il rischio di demenza sulla base della durata del sonno nell’arco di 10 anni. Sono stati osservati 234 casi di demenza, di cui 181 malattia di Alzheimer (MA). All’inizio, 96 soggetti hanno dichiarato di dormire più di 9 ore per notte, e 75 hanno invece riscontrato un incremento nelle ore di sonno da 9 o meno ore a più di 9. L’analisi multivariata ha portato a una correlazione positiva tra aumento della durata del sonno e rischio di malattia, con un hazard ratio pari a 2,1 (CI 95 per cento 1,24-3,26). Tra i 96 soggetti che dormivano più di 9 ore, circa il 20 per cento ha sviluppato una forma di
demenza rispetto a circa il 9 per cento tra coloro che dormivano meno di 9 ore. Tra quelli che hanno sperimentato un aumento rispetto all’inizio dello studio nelle ore di sonno, il rischio di andare incontro a demenza in un arco di tempo di 13 anni era addirittura di 2,5 volte superiore e circa doppio di MA clinicamente manifesta (HR 2,20 CI 95 1,17-4,13). In conclusione dunque, un aumento della durata del sonno potrebbe essere un segnale precoce di alterazioni cognitive e di neurodegenerazione e secondo gli Autori, potrebbe rappresentare un utile strumento prognostico per valutare il passaggio a forme di demenza clinicamente manifeste. Westwood AJ, Beiser A et al. Neurology 2017. Published online February 22, 2017. Doi: http://dx.doi.org/10.1212/ WNL.0000000000003732
£ Le maratone sono praticate da milioni di persone in tutto il mondo, e stanno riscuotendo molto successo già da alcuni anni. Queste competizioni possono tuttavia rivelarsi non Lo stress fisico conseguente prive di insidie, e soprattutto per i reni. È quanto sostiene un a una maratona potrebbe causare piccolo studio prospettico osservazionale, che per la prima un danno renale (fortunatamente volta ha voluto indagare l’impatto sui reni dei maratoneti coniugando la microscopia ai biomarcatori di lesione e ripasolo temporaneo) razione. Secondo la ricerca pubblicata sull’American Journal of Kidney Diseases, lo sforzo fisico associato a questo sport potrebbe compromettere, nel breve termine, la funzionalità renale. Il danno non sembrerebbe persistente, dal momento che per fortuna si risolve in circa due giorni. Lo studio è stato condotto su 22 partecipanti alla maratona di Hartford (capitale dello stato del Connecticut) nel 2015. I corridori avevano un’età media di 44 anni (41 per cento uomini). In tutti sono stati raccolti campioni di urina e di sangue, prima e dopo la corsa (appena terminata la corsa e il giorno successivo) utili per la ricerca di marcatori di danno renale, come i livelli di creatinina nel sangue e la presenza di proteine nelle urine. I campioni sono stati anche sottoposti all’analisi microscopica delle cellule renali. Per la stadiazione di danno renale acuto sono stati applicati i criteri AKIN (Acute Kidney Injury Network): stadio 1 era definito da un aumento da 1,5 a 2 volte (o 0,3 mg/dl) nei livelli di creatinina sierica entro 48 ore (dalla misurazione pre-gara), e lo stadio 2 come un aumento di 2 o 3 volte nei suddetti valori. Al termine della gara nell’82 per cento dei corridori è stato riscontrato un aumento nei livelli di creatinina compatibile con un danno renale acuto di stadio 1 e 2; inoltre nel 73 per cento è stato riscontrato a livello microscopico un danno tubulare. Immediatamente dopo la gara, i valori di creatinina sierica, albumina nelle urine e di biomarcatori di danno e riparazione raggiungono un valore massimo, che è risultato essere significativamente più elevato rispetto ai valori pre-gara e ai valori a 48 ore. Sebbene il limite maggiore di questo studio sia la dimensione del campione, i risultati dimostrano come lo stress indotto da una maratona si ripercuota sui reni con sviluppo di danno acuto. L’aumento osservato di biomarcatori di lesione e riparazione suggerisce la presenza di danno renale a livello dei tubuli. Già precedenti lavori avevano evidenziato come nei maratoneti si verifichino cambiamenti nella funzionalità cardiaca, e ora da questo studio emerge come anche il rene reagisca allo stress della corsa. È un tema di interesse data la popolarità di questa disciplina sportiva, e meritevole dunque di ulteriori approfondimenti.
Nefrologia
Mansour SG, Verma G et al. AJKD 2017; doi: http://dx.doi.org/10.1053/j.ajkd.2017.01.045
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MEDICO E PAZIENTE
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I QUADERNI
di Medico & Paziente
A partire dal mese di gennaio 2017 è disponibile il secondo Quaderno dedicato al DIABETE
Come ricevere i Quaderni di Medico e Paziente Tutti gli abbonati di Medico e Paziente riceveranno gratuitamente il Quaderno Chi sottoscrive un nuovo abbonamento alla rivista Medico e Paziente al costo di 20,00 euro riceverà gratuitamente il Quaderno In assenza di abbonamento è possibile richiedere il Quaderno versando un contributo di 9,00 euro comprensivo di spese di spedizione Le modalità di pagamento sono le seguenti:
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Pneumologia
La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno dell’adulto Inquadramento clinico e terapeutico Ampiamente diffusa nella popolazione, l’osas è una patologia che ha un significativo impatto non solo in ambito sanitario, ma anche sociale, tanto che il ministero della salute ha recentemente pubblicato le indicazioni per la prevenzione e la diagnosi precoce
A cura di Antonio Sanna1,
Loreta Di Michele2, Luigi Marino3, Mario Schisano4, Domenico Toraldo5 1. U.O. Pneumologia; Azienda USL Toscana Centro, Ospedale San Jacopo - Pistoia 2. U.O.C. Pneumologia e Infettivologia Respiratoria, Azienda San Camillo Forlanini - Roma 3. Azienda ULSS7 Regione Veneto, U.O. Pneumotisiologia, Ospedale di Vittorio Veneto - Vittorio Veneto (TV) 4. Medicina Territoriale ASP 8 - Siracusa 5. ASL Lecce, Ospedale Vito Fazzi, U.O.C. di Riabilitazione Cardiorespiratoria - San Cesario (LE)
L
a sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (OSAS), malattia cronica ad ampia diffusione nella popolazione generale, consiste in ricorrenti episodi di ostruzione completa (apnea) o parziale (ipopnea) della faringe che causano riduzioni fasiche della saturazione ossiemoglobinica, fluttuazioni della frequenza cardiaca, aumento della pressione arteriosa sistemica,
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MEDICO E PAZIENTE
2.2017
alterazioni della quantità e qualità del sonno. L’OSAS rappresenta un grave e crescente problema sanitario, sociale ed economico. La sua mancata diagnosi o mancato trattamento determinano infatti: 1) l’aumento della morbilità e della mortalità della popolazione affetta; 2) la comparsa e/o l’aggravarsi di alterazioni metaboliche e/o neurocognitive, causa o concausa della comorbidità cardio- e cerebrovascolare; 3) l’elevato rischio di complicanze perioperatorie; 4) la perdita di produttività imputabile a un aumento delle giornate di assenza dal lavoro e a una ridotta performance lavorativa. È stato inoltre, recentemente documentato che l’OSAS raddoppia il rischio di incidenti sul lavoro e che i soggetti che ne sono affetti causano il 7 per cento degli incidenti stradali. Quest’ultimo aspetto è di tale rilevanza che un recente decreto legge ha reso obbligatoria la ricerca e valutazione dell’OSAS in tutti i richiedenti la patente o il suo rinnovo. La rilevanza socio-sanitaria dell’OSAS è tale che il Ministero della Salute ha recentemente pubblicato le indicazioni per la prevenzione e diagnosi precoce dell’OSAS.
Epidemiologia I fattori di rischio per OSAS sono molteplici e vanno dalle alterazioni anatomo-funzionali delle vie aeree superiori, all’obesità, al tabagismo, al consumo di alcol, all’età adulta, al sesso maschile e alla menopausa. I più recenti dati epidemiologici, ottenuti in una popolazione adulta non selezionata, indicano una prevalenza del 49,7 per cento nel sesso maschile e del 23,4 per cento in quello femminile. Pur essendo stato osservato che tale incremento è associato all’aumento della prevalenza e severità dell’obesità, l’OSAS è significativamente presente anche in soggetti normopeso. Nella donna, la sua prevalenza aumenta nella fase più avanzata della gravidanza e dopo la menopausa. È di particolare rilevanza ai fini non solo della cura, ma anche della prevenzione che l’OSAS è presente in età neonatale e adolescenziale, con tassi di prevalenza che, in base ai criteri di inclusione dei pazienti e ai criteri strumentali utilizzati per la diagnosi, variano tra 0,9 e 13 per cento. Pur essendo documentata la sua ampia diffusione è stimato che
Tabella 1. Prevalenza
dell’OSAS in gruppi di soggetti con malattia cronica o esiti di malattia acuta
Malattia
Prevalenza (%)
Ipertensione arteriosa sistemica
23-30
Ipertensione arteriosa sistemica farmaco resistente
65-83
Malattia coronarica
30-38
Scompenso cardiaco
12-26
Fibrillazione atriale
32-49
Stroke
58-72
Diabete mellito tipo II
86
Insufficienza renale
31–44
Broncopneumopatia cronica ostruttiva
9–52
circa l’80 per cento dei soggetti OSAS non è diagnosticato come tale. È noto che l’OSAS è associata a comorbidità (Tabella 1) spesso numerose e tali da renderne particolarmente complessa la cura. I valori di prevalenza indicati in tabella 1 sono così elevati da identificare categorie di soggetti a elevato rischio per OSAS e nei quali quindi, l’OSAS andrebbe comunque ricercata anche nel caso in cui il singolo paziente fosse asintomatico o paucisintomatico. Più recenti studi indicano che è spesso associata anche con altre patologie croniche quali, aritmie cardiache diverse dalla fibrillazione atriale, disturbi cognitivi e dell’umore, sindrome depressiva, insonnia, asma bronchiale, neoplasie e fibrosi epatica. Diagnosi La diagnosi di OSAS è basata su criteri condivisi a livello internazionale (Tabella 2). Il russamento abituale (tutte le notti) e persistente (da almeno sei mesi), le apnee e ipopnee, e l’eccessiva sonnolenza diurna (ESD) sono i sintomi di gran lunga più frequenti. Tale sintomatologia deve essere sempre ricercata e quindi seguita dalla documentazione strumentale notturna di apnee e ipopnee ostruttive, mediante monitoraggio cardiorespiratorio o polisonnografia.
Sulla base dell’indice di apnea ipopnea (AHI) l’OSAS è definita di grado lieve (AHI compreso tra 5 e 14), moderato (AHI compreso tra 15 e 29), grave (AHI pari o superiore a 30). L’indicazione di severità è determinante per la scelta terapeutica. Terapia Scopo di ogni trattamento dell’OSAS è: 1) garantire la completa pervietà della faringe durante il sonno; 2) risolvere la sintomatologia; 3) evitare la comparsa delle comorbilità e/o migliorarne il controllo; 4) garantire una buona performance lavorativa; 5) ridurre il rischio di incidenti stradali e infortuni sul lavoro. Le diverse opzioni terapeutiche oggi disponibili comprendono programmi educazionali e terapie comportamen-
tali. Le terapie comunque in grado di garantire la completa pervietà della faringe durante il sonno sono i dispositivi a pressione positiva, i dispositivi orali, la chirurgia otorinolaringoiatrica o maxillo-facciale. La pressione positiva continua nelle vie aeree (CPAP, acronimo dell’inglese continous positive airway pressure) è generata da un compressore biomedicale e agisce sulle vie aeree superiori abitualmente per il tramite di una maschera nasale applicata non invasivamente nel momento in cui paziente decide di dormire la notte. La CPAP impedisce il restringimento della faringe, causa del russamento e/o delle apnee e ipopnee, con normalizzazione dell’attività respiratoria durante il sonno, il ripristino di una corretta architettura del sonno e la risoluzione della sintomatologia notturna e diurna. Tra le diverse opzioni terapeutiche oggi disponibili, è quella per la quale è maggiore l’evidenza di un effetto positivo sulla morbidità cardio- e cerebrovascolare con riduzione della mortalità. La riduzione dei valori pressori sistemici è risultata maggiore quando tale trattamento è stato superiore ad almeno 4 ore per notte suggerendo che il successo terapeutico sia correlato a una corretta aderenza al trattamento. Nei soggetti con scompenso cardiaco, il trattamento con CPAP dell’OSAS ha migliorato la funzione cardiaca con un minor rischio di ospedalizzazione e di morte. È stata inoltre, dimostrata la prevenzione della recidiva di fibrillazione atriale e, nei sopravvissuti all’ictus affetti da OSAS, il miglioramento del quadro neurologico, il recupero motorio dopo l’ictus con
Esistono diverse opportunità terapeutiche per l’OSAS, la cui efficacia è documentata sia nel breve che nel lungo periodo. Una diagnosi precoce permette di instaurare un approccio corretto al fine di migliorare la qualità di vita del paziente
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Pneumologia prevenzione o ritardo della comparsa di nuovi eventi cardiovascolari. È ancora controverso l’effetto della CPAP sul metabolismo glicidico e lipidico. È invece documentata e universalmente riconosciuta la sua efficacia nel ridurre il numero di incidenti stradali ai valori osservati nei soggetti non affetti da OSAS. Analogamente, sembra in grado di ridurre gli infortuni sul lavoro anche se non dovuti alla guida di veicoli. Tale trattamento è sicuro ed efficace, e non ha controindicazioni assolute. I suoi più comuni effetti avversi sono la comparsa di sintomatologia rinitica, secchezza delle mucose nasali e orofaringee, congiuntivite, lesioni e ulcere del ponte nasale, sensazione di soffocamento. È descritta una relazione indicante che maggiore è il numero di ore per notte e di giorni di utilizzo della CPAP maggiore è il miglioramento della sonnolenza,
Tabella 2.
del dispositivo, patologie a carico del naso; 2) il soggetto non vuole effettuare la terapia. In questo caso è ragionevole proporre terapie alternative quali, quella posizionale o con dispositivi odontoiatrici. Poiché l’aderenza al trattamento è determinante nel garantire la piena efficacia della cura sono diversi gli interventi proposti, in particolare quello educazionale, finalizzati a migliorarla e mantenerla elevata a lungo termine. Il dispositivo a pressione positiva autotarante (APAP), più comunemente nota come auto-CPAP, eroga nelle vie aeree una pressione positiva che, diversamente dalla CPAP e grazie a uno specifico algoritmo, cresce o decresce in funzione della severità dell’ostruzione a livello faringeo. Ciò permette di applicare la minima pressione positiva efficace nel risolvere l’ostruzione faringea riducendo il valore pressorio
Criteri diagnostici per l’OSAS nell’adulto
a. Apnea-ipopnea index (AHI) di almeno 5 associato a segni/sintomi (eccessiva sonnolenza diurna, fatica, insonnia, russamento, disturbi respiratori notturni soggettivi, apnee osservate) o quadri medici e/o psichiatrici (ipertensione arteriosa, patologia coronarica, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca cronica, ictus, diabete, disfunzioni cognitive, disturbi dell’umore) b. AHI di almeno 15, indipendentemente da altri segni/sintomi o quadri medici o psichiatrici Note: AHI, indice di apnea ipopnea
della qualità della vita e del controllo dei valori pressori sistemici. A seconda dei criteri utilizzati per definirla, l’aderenza a lungo termine varia dal 46 all’85 per cento. È accettato che l’aderenza è buona se la terapia è realizzata per >4 ore/notte per oltre il 70 per cento delle notti. La non corretta aderenza al trattamento impone la ricerca delle eventuali cause, spesso riconducibili a due situazioni: 1) il soggetto vuole effettuare la terapia, ma non vi riesce; in genere le motivazioni sono da ricondursi all’uso di una maschera non idonea, a scarsa umidificazione delle vie aeree, cattivo funzionamento
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medio terapeutico per l’intera notte. La CPAP sembra comunque superiore all’APAP nel ridurre fattori di rischio cardiovascolare quali i valori pressori sistemici e l’insulino-resistenza. Qualora la CPAP non risolva il quadro clinico-strumentale dell’OSAS e/o le apnee-ipopnee siano associate ad altro e predominante disturbo respiratorio notturno (ipoventilazione, periodismo respiratorio tipo Cheyne-Stokes), il trattamento di elezione è la terapia con dispositivi a doppio livello di supporto pressorio. Tali dispositivi, oltre a quelli odontoiatrici, trovano indicazione anche nei soggetti OSAS che non
tollerano la CPAP. La prescrizione del trattamento con CPAP è subordinata all’esito della procedura di titolazione, realizzabile con diverse modalità ben definite e codificate, che consiste nell’individuare il minimo valore pressorio terapeutico. Tale valore pressorio è quello che risolve le apnee-ipopnee e che pertanto verrà prescritto quale trattamento domiciliare cronico. La titolazione manuale del dispositivo protesico, realizzabile nel laboratorio del sonno, è considerata la metodica di riferimento e prevede lo studio con polisonnografia. Tuttavia, essendo validata la sua efficacia, è spesso preferita quella con dispositivo APAP, realizzabile a domicilio del paziente piuttosto che nel laboratorio del sonno. Tale modalità di titolazione è però indicata solo in tipologie di pazienti ben definite. La prescrizione di un trattamento con dispositivo a doppio livello di supporto pressorio prevede diverse strategie di titolazione da effettuarsi comunque in modalità manuale, in un laboratorio a questo dedicato. I dispositivi orali (OD, acronimo dell’inglese oral devices o OA, acronimo dell’inglese oral appliances) si applicano la notte e, stabilizzando le vie aeree superiori con aumento dei diametri, inducono una ridotta collassabilità faringea. Tra questi, quelli oggi abitualmente prescritti sono i MAD (acronimo dell’inglese mandibular advancing devices) che avanzano e distraggono la mandibola verso il basso con controllo della posizione mandibolare garantito da un ancoraggio dentale. È dimostrato che la loro efficacia terapeutica è comparabile a quella della CPAP nell’OSAS con severità di grado lieve o moderato, e l’aderenza al trattamento è superiore alla CPAP. È inoltre, una terapia raccomandata nel russamento primario (senza apnee ostruttive) come anche nel soggetto OSAS che rifiuti il trattamento con CPAP. Anche in questo caso la loro prescrizione è subordinata alla titolazione che consiste nel graduale avanzamento della mandibola fino alla sua maggiore protrusione, abitualmente ottenuta in diverse settimane per evi-
tare la comparsa di tensioni muscolari. Il razionale della chirurgia otorinolaringoiatrica è disostruire le vie aeree superiori o allargare i siti di ostruzione, aumentare la tensione della componente muscolare delle pareti faringee, conservare un’adeguata elasticità delle superfici mucose. I siti su cui più frequentemente bisogna intervenire sono il palato molle, le tonsille, la base della lingua, l’epiglottide e le pareti laterali faringee. La chirurgia del naso non è efficace per il trattamento delle apnee ma, riducendo l’ostruzione delle vie nasali, può migliorare l’efficacia terapeutica della CPAP e la sua accettazione da parte del paziente. Lo sviluppo di nuove tecniche chirurgiche più conservative e reversibili come anche l’applicazione della chirurgia robotica hanno determinato un miglior “gradimento” del paziente nei confronti di tali terapie con più ridotti tempi di recupero postchirurgici. Nei casi di OSAS severa, in cui il problema ostruttivo non è dovuto a un eccesso di tessuti molli nel cavo faringeo, ma a una ridotta dimensione dello scheletro osseo la chirurgia maxillo-facciale può dare ottimi risultati. Tale chirurgia comporta l’avanzamento del mascellare e della mandibola con incremento dello spazio faringeo. Obiettivo comune per tutte le terapie per l’OSAS è ridurre l’AHI a valori ˂5 con consensuale risoluzione della sintomatologia OSAS, o <15 nel caso di un paziente asintomatico. Per quanto la terapia possa essere adeguata ciò non è sempre possibile. In tal caso, con un AHI >15 pur associato alla percezione del miglioramento della sintomatologia e della qualità della vita, il soggetto OSAS rimane comunque esposto a un rischio potenzialmente rilevante per complicanze metaboliche, neurofunzionali, cardio- e cerebrovascolari. Follow-up Trattandosi di una malattia cronica il paziente OSAS necessita di un followup spesso ultradecennale, i cui obiettivi sono:
Stando ai dati, l’OSAS è una patologia ad ampia diffusione tra la popolazione. Ciononostante circa l’80 per cento dei pazienti che ne sono affetti, è privo di diagnosi 1. Il controllo della sintomatologia
Bibliografia essenziale
2. La verifica dell’efficacia e aderenza al trattamento
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3. La ricerca delle eventuali cause che possano determinare la perdita di efficacia del trattamento e/o la scarsa aderenza allo stesso 4. L’eventuale modifica della prescrizione terapeutica La prima visita di follow up va programmata non oltre 3 mesi dall’inizio del trattamento domiciliare con successive visite a cadenza preferibilmente annuale. La visita prevede la valutazione clinico-strumentale con verifica oggettiva dell’aderenza al trattamento, se non chirurgico. Ciò è possibile attraverso l’analisi dei dati delle schede di memoria che consentono di verificare il reale utilizzo del dispositivo a pressione positiva o di quello odontoiatrico. La valutazione oggettiva dell’aderenza al trattamento è oggi determinante anche nella valutazione dell’idoneità psicofisica alla guida, finalizzata alla concessione della patente o al suo rinnovo. Conclusioni L’OSAS è una malattia cronica ampiamente diffusa nella popolazione generale, in entrambi i sessi e a tutte le età. Ne sono note le caratteristiche, sono condivisi i criteri diagnostici, le diverse opzioni terapeutiche sono efficaci sia a breve che a lungo termine. La diagnosi precoce dell’OSAS e la sua cura rendono concretamente possibile offrire al paziente una migliore qualità e aspettativa di vita.
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Pneumologia L’Istituto Superiore di Sanità ha stimato che i costi totali, diretti e indiretti, derivanti dall’OSAS si aggirano fra 3,5 e 5 miliardi di euro, ovvero circa lo 0,5 per cento del PIL. Oltre che un problema di salute e di qualità della vita, l’OSAS ha un impatto economico e sociale elevatissimo Mancardi GL, Magnavita N. Risk of occupational accidents in workers with obstructive sleep apnea: systematic review and meta-analysis. Sleep 2016 Feb 29. pii: sp-00566-15. Epub ahead of print. • Garbarino S, Pitidis A, Giustini M, Taggi F, Sanna A. Motor vehicle accidents and obstructive sleep apnea syndrome: A methodology to calculate the related burden of injuries. Chronic Respiratory Disease 2015 Nov; 12(4): 320-328. • Giles TL, Lasserson TJ, Smith BJ, White J, Wright J, Cates CJ. Continuous positive airways pressure for obstructive sleep apnoea in adults. Cochrane Database Syst Rev 2006; (1): CD001106. • Jordan AS, McSharry DG, Malhotra A. Adult obstructive sleep apnoea. Lancet 2014 Feb 22; 383(9918): 736-747. • Kushida CA, Littner MR, Hirshkowitz M, Morgenthaler TI, Alessi CA, Bailey D, Boehlecke B, Brown TM, Coleman J Jr, Friedman L, Kapen S, Kapur VK, Kramer M, Lee-Chiong T, Owens J, Pancer JP, Swick TJ, Wise MS; American Academy of Sleep Medicine. Practice Parameters for the Use of Continuous and Bilevel Positive Airway Pressure Devices to Treat Adult Patients With Sleep-Related Breathing Disorders. Sleep 2006 Mar 1; 29(3): 375-80. • Kushida CA, Chediak A, Berry RB, Brown LK, Gozal D, Iber C, Parthasarathy S, Quan SF, Rowley JA. Clinical Guidelines for the Manual Titration of Positive Airway Pressure in Patients with Obstructive Sleep Apnea. J Clin Sleep Med 2008; 4(2): 157-171.
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Epatite C Al via i nuovi criteri di accesso alle cure Con una decisione storica, l’AIFA ha recentemente esteso ai pazienti meno gravi l’accesso alle cure con antivirali di nuova generazione. L’obiettivo è arrivare a un’eradicazione dell’infezione in tre anni A cura della Redazione (Folco Claudi)
N
on capita spesso che, in tema di politica sanitaria, vengano prese decisioni che soddisfano pienamente le aspettative dei pazienti. Nella maggior parte dei casi, gli atti formali sono frutto di un compromesso tra diverse esigenze, prima fra tutte quella di dover far quadrare i conti. È per questo che è stata salutata come una svolta epocale la recente decisione dell’AIFA di rimuovere tutte le restrizioni di accesso alle cure innovative per l’epatite C. L’obiettivo è ambizioso: eliminare entro tre anni l’infezione dal nostro Paese, al ritmo di 80.000 pazienti trattati all’anno. Un piano di eradicazione che non trova eguali nel resto dell’Unione Europea. “Da oggi tutti i pazienti con epatite C potranno essere presi in carico nelle strutture specializzate e iniziare quindi il percorso verso la terapia e la cura”, ha spiegato Mario Melazzini, direttore generale di AIFA, durante la conferenza stampa in cui è stata resa pubblica la decisione dell’Agenzia del farmaco. “Si tratta di un percorso che abbiamo e continuiamo a fare insieme, perché tutti insieme abbiamo l’obiettivo di rispondere alla domanda di salute delle persone affette da epatite C: la salute non ha un costo, ma ovviamente si impongono obbli-
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ghi di sostenibilità del sistema, un obbligo che però deve essere chiamato alla responsabilità di tutti gli attori”. Grande soddisfazione è stata espressa da Epac Onlus, l’associazione che raccoglie i pazienti infetti da epatite C. L’AIFA ha infatti accolto in pieno le sue richieste, cambiando radicalmente i criteri di eleggibilità al trattamento con nuovi farmaci antivirali a carico del Sistema sanitario nazionale entrati in vigore più di due anni fa, e che avevano suscitato più di una perplessità tra clinici e pazienti. Come sì ricorderà, tali norme davano la priorità di accesso alle cure ai soggetti più gravi, con epatite C cronica cirrotica o precirrotica. In sostanza, per motivi di sostenibilità finanziaria, dato che i farmaci di nuova generazione erano molto costosi, si preferì destinarli ai pazienti in pericolo di vita.
Che cosa cambia con i nuovi criteri A due anni di distanza, il computo dei pazienti trattati è arrivato a circa 65mila (Tabella 1). I tempi erano quindi maturi per estendere il diritto di accesso alle cure ai pazienti meno gravi. E con una lunga concertazione tra Agenzia del farmaco, società scientifiche, associazioni di malati e aziende farmaceutiche produttrici, si è arrivati all’estensione di pochi giorni fa, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.75 del 30/03/2017 (Determina AIFA n.500/2017), che si articola in
11nuovi criteri di eleggibilità (Tabella 1). Aumenta dunque il numero dei pazienti da trattare ma, essendo casi meno gravi, si potrà procedere con cicli di terapia più brevi, anche di sole otto settimane. Si prevede in ogni caso un aggravio di lavoro, e aumenterà di conseguenza anche il numero dei centri abilitati alla prescrizione: in accordo con le Regioni, si passerà infatti dagli attuali 226 a un numero massimo di 273. Quasi contestualmente alla pubblicazione dei nuovi criteri di eleggibilità al trattamento per l’epatite C, il Ministero della salute ha emesso una nuova circolare che estende le norme, contenute nel Decreto ministeriale dell’11 febbraio 1997, che consentono di importare dall’estero farmaci che pur essendo già disponibili nel nostro Paese, non sono accessibili a soggetti che non rientrano nei suddetti criteri. “Secondo i principi generali e le disposizioni vigenti in materia – si legge nella circolare – nessun medicinale può essere commercializzato in Italia senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione a livello comunitario (art. 6 d.lgs. n. 219 del 2006 e s.m.). Nonostante ciò, eccezionalmente, e in deroga a tale principio, viene ammessa l’importazione per il solo uso personale di medicinali regolarmente autorizzati in un Paese estero in due ipotesi specificamente individuate: a) medicinali posti regolarmente in vendita in Paesi esteri,
Tabella 1. Confronto tra vecchi
e nuovi criteri di eleggibilità al trattamento con antivirali di nuova generazione
Vecchi criteri
Nuovi criteri
(tra parentesi, il numero di pazienti trattati per ciascun criterio al 3 aprile 2017)
1. Pazienti con cirrosi in classe di Child A o B e/o con HCC con risposta completa a terapie resettive chirurgiche o loco-regionali non candidabili a trapianto epatico nei quali la malattia epatica sia determinante per la prognosi (N= 45.269)
2. Epatite ricorrente HCV-RNA positiva del fegato trapiantato in paziente stabile clinicamente e con livelli ottimali di immunosoppressione (N =1.932)
3. Epatite cronica con gravi manifestazioni extraepatiche HCV-correlate (sindrome crioglobulinemica con danno d’organo, sindromi linfoproliferative a cellule B) (N= 3.465)
4. Epatite cronica con fibrosi METAVIR F3 (o corrispondente Ishack) (N= 20.030)
5. In lista per trapianto di fegato con cirrosi MELD <25 e/o con HCC all’interno dei criteri di Milano con la possibilità di una attesa in lista di almeno 2 mesi (N= 297)
6. Epatite cronica dopo trapianto di organo solido (non fegato) o di midollo con fibrosi METAVIR ≥2 (o corrispondente Ishack) (N= 349)
7. Epatite cronica con fibrosi METAVIR F0-F2 (o corrispondente Ishack) (solo per simeprevir) (N= 628)
1. Pazienti con cirrosi in classe di Child A o B e/o con HCC con risposta completa a terapie resettive chirurgiche o loco-regionali non candidabili a trapianto epatico nei quali la malattia epatica sia determinante per la prognosi 2. Epatite ricorrente HCV-RNA positiva del fegato trapiantato in paziente stabile clinicamente e con livelli ottimali di immunosoppressione 3. Epatite cronica con gravi manifestazioni extra-epatiche HCV-correlate (sindrome crioglobulinemica con danno d’organo, sindromi linfoproliferative a cellule B, insufficienza renale)
4. Epatite cronica con fibrosi METAVIR F3 (o corrispondente Ishack) 5. In lista per trapianto di fegato con cirrosi MELD <25 e/o con HCC all’interno dei criteri di Milano con la possibilità di una attesa in lista di almeno 2 mesi 6. Epatite cronica dopo trapianto di organo solido (non fegato) o di midollo in paziente stabile clinicamente e con livelli ottimali di immunosoppressione 7. Epatite cronica con fibrosi METAVIR F2 (o corrispondente Ishack) e/o comorbilità a rischio di progressione del danno epatico [coinfezione HBV, coinfezione HIV, malattie croniche di fegato non virali, diabete mellito in trattamento farmacologico, obesità (body mass index ≥30 kg/m2), emoglobinopatie e coagulopatie congenite] 8. Epatite cronica con fibrosi METAVIR F0-F1 (o corrispondente Ishack) e/o comorbilità a rischio di progressione del danno epatico [coinfezione HBV, coinfezione HIV, malattie croniche di fegato non virali, diabete mellito in trattamento farmacologico, obesità (body mass index ≥30 kg/m2), emoglobinopatie e coagulopatie congenite] 9. Operatori sanitari infetti 10. Epatite cronica o cirrosi epatica in paziente con insufficienza renale cronica in trattamento emodialitico 11. Epatite cronica nel paziente in lista d’attesa per trapianto di organo solido (non fegato) o di midollo
ma non autorizzati all’immissione in commercio sul territorio nazionale, spediti dall’estero su richiesta del medico curante; b) medicinali registrati in Paesi esteri, che vengono personalmente portati dal viaggiatore al momento dell’ingresso nel territorio nazionale, purché destinati a uso personale per un trattamento terapeutico non superiore a 30 giorni”.
La circolare si è resa necessaria, ha spiegato il ministro Lorenzin in una nota stampa perché “non può sussistere una valida alternativa terapeutica per il paziente italiano quando il farmaco autorizzato in Italia non è effettivamente accessibile a tutti, in quanto troppo costoso, come avviene con i farmaci contro l’epatite C e gli altri farmaci innovativi. Pertanto,
abbiamo rimosso un odioso ostacolo burocratico sulla via della libertà ed effettività delle cure”. È una risposta concreta alla paradossale situazione di chi, soprattutto negli ultimi mesi prima dell’uscita delle nuove norme, organizzava viaggi all’estero (in India in particolare) per acquistare antivirali a basso costo con cui poi poteva essere curato in Italia.
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Il serbatoio delle nuove infezioni e i pazienti infetti senza diagnosi: i nodi da sciogliere Intervista a Ivan Gardini, presidente di EpaC Onlus stava sfuggendo di mano, perché se c’era spazio per curare quelli col generico, avrebbe dovuto esserci anche per curare altri pazienti meno gravi con il Sistema sanitario nazionale.
Dott. Gardini, iniziamo facendo un bilancio di questi ultimi due anni di cure dell’epatite C con i nuovi farmaci... Due anni fa abbiamo accettato i criteri stabiliti dal Ministero che limitavano le cure ai casi più gravi; leggendo i dati relativi alle persone trattate settimanalmente, ultimamente si poteva notare una flessione, il che rappresentava una chiara indicazione del fatto che stava diminuendo il numero di persone con malattia avanzata e avanzatissima presente nei centri autorizzati. Era quindi necessaria una rimodulazione immediata di questi criteri di arruolamento. È nato poi il fenomeno di un numero sempre crescente di pazienti che si procurava all’estero questi farmaci a prezzi decisamente inferiori, recandosi in India o acquistandoli online: si tratta di un fenomeno rischioso, soprattutto nel secondo caso. Inoltre, si creava anche una discriminazione nella discriminazione, perché chi si presenta in un centro autorizzato con un farmaco veniva curato prima rispetto alle persone che sono in lista di attesa. La situazione, in sostanza,
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Dunque i tempi erano maturi per allargare la platea delle persone che possono accedere alla cura e finalmente così è stato: il Ministero ha comunicato che potranno avere accesso alle cure tutti i malati... Certo, è la soluzione che noi auspicavamo tra quelle prospettate. Ora si tratta di contrattare con le case farmaceutiche un prezzo che sia il più basso possibile, tenendo conto che per i prossimi tre anni ci saranno da spendere 500 milioni all’anno per i farmaci innovativi, stando a quanto comunicato. Per quanto riguarda i nuovi “criteri” di accesso stabiliti da AIFA e pubblicati in GU il 30/3/2017 con determina 500/2017, il Direttore dell’Agenzia ha specificato che non sono criteri di rimborsabilità, bensì di accesso in base a una gravità clinica e sociale. Questo sta a significare che avranno accesso prima le persone più gravi, ma comunque il medico avrà la facoltà di curare pazienti con situazioni particolari secondo scienza e coscienza, esattamente come succede in tutte le altre patologie. Praticamente un ritorno alla normalità. Quindi si può pensare che in 4-5 anni si possa azzerare il numero di pazienti infetti noti? L’Agenzia del Farmaco ha presentato un piano secondo cui in tre anni si potrebbero eliminare tutte le infezioni: in effetti 4-5 anni sarebbe un tempo
più ragionevole, ma è comunque apprezzabile la volontà dell’Agenzia del Farmaco. Sottolineo però che tutto dev’essere accompagnato da un piano che preveda anche un aumento dei centri autorizzati. In buona sostanza, da ora in avanti la differenza la faranno le regioni che dovranno meglio strutturare la rete di cura per l’epatite C per velocizzare la cure di migliaia di pazienti in attesa. Che cosa possiamo dire dei pazienti che costituiscono attualmente il serbatoio di nuove infezioni, cioè i detenuti e i tossicodipendenti? Nel caso dei detenuti, è chiaro che c’è anche un problema di logistica, nel senso che per ogni malato servono 2-3 agenti penitenziari che lo portino in ospedale per la somministrazione del farmaco, con un notevole investimento di risorse. Un piano eradicazione deve passare quindi anche per una semplificazione delle procedure per la cura di questi pazienti. Per quanto riguarda i tossicodipendenti attivi, noi pensiamo che l’opportunità di somministrare i farmaci innovativi andrà valutata caso per caso. Complessivamente, ora che si è deciso un piano di eradicazione si potrà procedere a definire tutti i dettagli del caso. Ma si pensa dunque che la cura dell’HCV nei tossicodipendenti attivi debba essere compresa in un percorso complessivo dell’uscita dalla dipendenza? In questo momento non ci sono vincoli specifici. Tuttavia ritengo che le società scientifiche dovrebbero elaborare qualche indicazione più precisa.
La strada per la cura dei pazienti infetti sembra dunque segnata, ma sappiamo che esiste una popolazione di soggetti che, pur avendo l’infezione, rimane senza diagnosi. Come si può procedere per far emergere questo “sommerso”? Quello che sappiamo certamente è
che la popolazione infetta attualmente è diversa da quella di 25 anni fa, e che la prevalenza in Italia è diversa per le regioni del nord, del centro e del sud. Chiaramente procedere a uno screening generalizzato sarebbe poco praticabile, mentre sarebbe molto utile, soprattutto per usare i fondi disponibili nel modo corretto,
condurre a campagne di screening mirate su specifiche popolazioni, individuate con criteri di età o per fattori di rischio, per esempio su persone sottoposte a trasfusioni anni fa. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno fatto uno screening sui cosiddetti baby boomer, che rappresentano una fascia di età particolare.
Ridurre le complicanze cliniche gravi dell’epatite C Intervista a Massimo Colombo
Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano Prof. Colombo a che punto siamo con la cura dei malati di epatite C? In Italia abbiamo trattato 65mila pazienti, la maggior parte dei quali con cirrosi o malattia precirrotica, altri con tumore del fegato, trapianto o complicanze extraepatiche del virus C. Probabilmente, il serbatoio italiano di epatite C contiene altri 300.000 individui infetti con vari livelli di danno epatico, un valore che comprende un certo numero di cirrotici e un numero maggiore con malattia epatica lieve o intermedia. Non abbiamo numeri certi, in quanto non è mai stata lanciata una campagna nazionale di screening per epatite C. Quindi come si procederà a trattare questa popolazione, tenendo conto dei nuovi criteri di eleggibilità alle cure appena annunciati, che
consentiranno di trattare con i farmaci innovativi tutte le persone con diagnosi d’infezione? A seguito della competizione tra aziende produttrici, il prezzo dei regimi orali anti-HCV in Italia è calato sensibilmente, equiparandolo al prezzo delle cure a base di interferone. Di conseguenza, potremo trattare e guarire ogni anno almeno 50.000 pazienti dei circa 300.000 rimasti da trattare, mettendo così sotto controllo il problema clinico dell’epatite C nel volgere di pochi anni. AIFA ha di recente modificato i criteri di accesso alle cure orali rimborsate dal SSN, al punto di permettere il trattamento di pazienti con malattia epatica modesta (fibroscan uguale o inferiore a 7,1 kPa) e di pazienti con comorbilità difficili da trattare in presenza di HCV. Che cosa intende per controllo del problema clinico dell’HCV? Intendo ridurre ai minimi termini le complicanze cliniche gravi come morte, tumore e necessità di trapianto, l’obiettivo che, a livello planetario, si è dato l’OMS nel 2030. Non sarà comunque facile, visto che per le ragioni sopraddette, non conosciamo la dimensione del problema epatite C sul territorio italiano. In passato, lo screening di massa per epatite C non
era proponibile poiché non garantiva accesso alle cure per tutti i pazienti identificati; ora la cura per tutti esiste in teoria, ma non disponiamo di risorse economiche sufficienti per un trattamento di massa immediato. Di necessità, le cure saranno spalmate su diversi anni a venire. E che cosa possiamo dire delle nuove infezioni? L’altro problema da affrontare sono le migliaia di nuove infezioni C che, a differenza del passato, non provengono più dall’ambiente ospedaliero o dall’uso domiciliare di aghi riciclati, ma dai cosiddetti gruppi a rischio di infezione parenterale, soprattutto tossicodipendenti attivi e detenuti, in particolare i soggetti HIV-positivi altoviremici maschi che hanno rapporti omosessuali. Quindi come ci si rapporta a questa popolazione? Se dovessimo seguire le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità per eliminare epatite virale B e C entro il 2030, dobbiamo iniziare a trattare i gruppi a rischio parenterale, nell’ottica di prevenire la trasmissione sessuale della infezione alla popolazione generale. Il problema è che queste persone sono social-
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mente stigmatizzate e in una fase storica in cui si fatica a reperire fondi per trattare la eptite C nella popolazione generale, è difficile pensare di poter coagulare un consenso politico per ottenere fondi ulteriori per trattare gruppi a rischio parenterale. Quindi vuol dire che questa popolazione a rischio sta aumentando rispetto agli scorsi anni? La popolazione a rischio più che aumentare in senso assoluto sta aumentando in rapporto alla popolazione storica di pazienti con epatite C. Alla fine degli anni Ottanta, agli arbori delle conoscenze sulla epatite C, il 90 per cento delle infezioni riguardava persone che avevano contratto l’epatite con trasfusioni infette o con uso di siringhe infette, utilizzate nella sanità domestica o in ospedale. A latere vi era un piccolo gruppo infettato con i rapporti sessuali e una minoranza di persone giovani che aveva contratto l’infezione con l’assunzione di droghe in vena. Negli ultimi 30 anni, un gran numero di pazienti storici è morto per complicanze epatiche perché mancavano cure capaci di arrestare l’evoluzione dell’epatite: a un tasso di 10-15 mila pazienti l’anno, si stima siano globalmente deceduti circa 300mila pazienti della coorte storica. Nello stesso periodo, è aumentata la diffusione dell’epatite C nella popolazione più giovanile, che si è infettata con i comportamenti a rischio comprese le infezioni tra i detenuti, avvicinando così il profilo epidemiologico dell’epatite C in Italia a quello dell’Europa del nord come Germania, Scandinavia e Regno Unito, dove predominano casi giovanili di epatite trasmessa da droga o rapporti sessuali. Veniamo al trattamento farmacologico: l’armamentario terapeutico si è arricchito sempre di più... Certamente. Rispetto al settembre
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2013 quando è entrato in commercio il primo regime tutto orale costituito dalla combinazione dell’analogo nucleotidico, che inibisce la polimerasi virale, sofosbuvir associato a ribavirina, attualmente disponiamo di due regimi evoluti: Harvoni di Gilead che combina sofosbuvir e ledipasvir e un altro regime che combina sofosbuvir con l’inibitore NS5A daclatasvir di Bristol-Myers Squibb. Altro regime privo di analogo nucleotidico è il regime AbbVie che combina tre farmaci di classe diversa, cioè inibitore delle proteasi, NS5A e polimerasi non analogo nucleotidico. Da pochi giorni, è prescrivibile il regime MSD privo di analogo nucleotidico, basato sulla combinazione di un inibitore della regione NS5A e di un inibitore delle proteasi. Riassumendo, oggi abbiamo prescrivibili teoricamente cinque regimi privi d’interferone, alcuni a base dell’analogo nucleotidico altri a base di inibitori della proteasi, mentre tra breve dovrebbe arrivare sul mercato un nuovo regime Gilead con un inibitore della regione NS5A di seconda generazione combinato con sofosbuvir (Epclusa). È dunque probabile che entro la fine dell’anno avremo sei regimi prescrivibili, mentre in prospettiva avremo una combinazione Gilead di terza generazione, costituita da una tripletta di principi attivi: analogo nucleotidico, inibitore della regione NS5A e inibitore delle proteasi. Su quali genotipi virali sono efficaci tutte queste combinazioni? I regimi attuali basati sull’analogo nucleotidico sono multigenotipici, sono cioè efficaci su diversi genotipi virali; la seconda generazione Gilead dovrebbe garantire efficacia terapeutica su tutti i sei genotipi esistenti e in particolare sui primi quattro che circolano in Italia. Lo stesso vale per la combinazione sofosbuvir e daclatasvir. Il nuovo regime AbbVie, che associa un inibitore della regione NS5A un inibitore della proteasi di
seconda generazione che arriverà nel 2018, è multigenotipico. I nuovi farmaci riescono a soddisfare alcune esigenze terapeutiche che attualmente rimangono senza risposta adeguata, come il trattamento di alcuni gruppi di pazienti infettati con genotipo 2 e 3 con grave insufficienza renale, che non sono idonei a ricevere sofosbuvir. Ma qual è la ragione che spinge le aziende farmaceutiche a combinare due o tre molecole già così efficaci? L’obiettivo è la conquista del mercato degli antivirali per la cura dell’epatite C nei Paesi poveri di risorse, in Asia, Africa e Sudamerica, dove scarseggiano le infrastrutture per approfondire le caratteristiche biologiche della infezione, come genotipo, sottotipo e carica virale, che guidano attualmente la scelta del trattamento. L’idea è utilizzare schemi terapeutici semplificati, basati sulla somministrazione di una sola compressa totipotente al giorno per periodi brevi, poche settimane sono sufficienti, e curare così casi non troppo complicati senza ricorrere a sofisticate analisi di laboratorio. Quindi si va verso una semplificazione. Questo approccio può dare ottimi risultati nella lotta all’infezione nelle zone più povere, mentre nelle zone ricche, dove soggiornano pazienti complessi, abbiamo bisogno di approcci più sofisticati per classificare correttamente pazienti e infezione per ottenere i migliori risultati terapeutici. Una curiosità sui vecchi farmaci: mi sembra di capire che l’interferone non si usa più… è così? In quasi tutta l’Europa l’interferone è scomparso dalle linee guida terapeutiche. Tuttavia, in alcuni Paesi e non solo quelli arretrati economicamente (penso alla Russia con i suoi 4 milioni di soggetti infetti), l’interferone associato agli inibitori virali diretti viene ancora largamente prescritto. Da noi oggi nessun paziente accetta il trattamento con interferone.
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Prevenzione
Estendere l’impiego di ASA Quali vantaggi a lungo termine per i pazienti ad alto rischio CV Ampliare l’uso di aspirina nei soggetti a elevato rischio cardiovascolare potrebbe generare vantaggi a livello di salute generale della popolazione per i prossimi vent’anni: Sono in estrema sintesi le conclusioni di un recentissimo lavoro statunitense, che presentiamo in queste pagine
A cura della Redazione
L
e patologie cardio- e cerebrovascolari (CV) rappresentano un “big killer” del nostro tempo. Cardiopatie ischemiche e stroke rientrano tra le prime cause di morbilità e mortalità, con costi economici e sociali rilevanti. Nell’ottica di coniugare efficacia e sostenibilità delle cure, la prevenzione è riconosciuta come obiettivo virtuoso da perseguire. L’efficacia di aspirina (ASA) in prevenzione cardiovascolare è consolidata da diversi anni: già a partire dal Duemila negli Stati Uniti sia l’US Preventive Services Task Force che l’American Heart Association ne riconoscevano l’utilità d’impiego. L’efficacia di aspirina in prevenzione secondaria è stata dimostrata da numerosi studi controllati e sancita universalmente dalla relativa indicazione d’uso raccomandata da tutte le linee guida internazionali. L’impiego di ASA va considerato anche in prevenzione primaria valutando di volta in volta il profilo di rischio individuale del paziente e i potenziali effetti indesiderati
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associati al trattamento. Nei casi dubbi, le evidenze di un possibile effetto chemoprotettivo che si sono andate accumulando nel corso degli ultimi anni potrebbero spostare l’ago della bilancia a favore di un uso più diffuso di questo farmaco. Potenziare l’impiego di ASA: i benefici in prospettiva In questo contesto, di notevole interesse sono i risultati di una ricerca di recente pubblicazione (Agus DB et al., PlosOne 2016) che ha analizzato i potenziali vantaggi derivanti da un uso più ampio di ASA sia per il singolo che per la collettività. Nello studio è stato utilizzato il Future Elderly Model (FEM), una microsimulazione dinamica, sviluppata nel 2004 (Goldman et al.), condotta tra gli americani sopra i 50 anni di età proiettandone lo stato di salute negli anni di vita a venire e il relativo peso assistenziale in relazione allo stato di salute in diversi scenari d’impiego di aspirina. Per la costruzione del modello FEM sono stati utilizzati i dati dell’Health and Retirement study, un’ampia e rappresentativa indagine nazionale condotta per oltre vent’anni.
Gli outcome considerati sono stati scelti per valutare un ampio spettro di prospettive di impatto, per il singolo e per la collettività, delle diverse strategie di intervento di volta in volta considerate: malattie cardiovascolari, ictus, neoplasie, aspettativa di vita, sopravvivenza libera da disabilità e costi sanitari. L’eleggibilità dei pazienti considerati nell’analisi si basava su un questionario del 2011-2012 del National Health and Nutrition Examination Survey relativo all’uso di aspirina. Ma vediamo che cosa indicano i dati. L’analisi innanzitutto ha mostrato come l’uso di aspirina sia subottimale: circa il 40 per cento degli uomini e il 10 per cento delle donne nella fascia di età 50-79 anni non assumono il farmaco nonostante siano a elevato rischio cardiovascolare. w Effetti su qualità e aspettativa di vita Dalle simulazioni condotte nello studio si evince come un uso più ampio di aspirina abbia un impatto favorevole su incidenza di patologia, aspettativa e qualità di vita. In tabella 1 sono sintetizzati gli effetti di due differenti scenari (Guideline Adherence e Universal
Tabella 1. Effetti
che si otterrebbero con un uso più esteso di aspirina
Status quo Media
Guideline adherence* Media
Universal Eligibility**
Differenza rispetto allo status quo
Media
Differenza rispetto allo status quo
Pannello A. Incidenza cumulativa di patologia all’età di 79 anni (per 1.000) Patologie CV
487
476
-11,0
469
-17,7
Stroke
235
233
-2,2
230
-5,3
Tumore
293
290
-3,7
288
-5,9
Sanguinamenti GI
67
83
16,0
90
23,7
Pannello B. Outcome attesi (età 51 anni) Aspettativa di vita (anni)
30,2
30,5
0,28
30,6
0,38
Anni di vita senza disabilità
22,8
22,9
0,12
23,0
0,18
Anni aggiustati di qualità di vita
24,8
25,0
0,20
25,1
0,28
Note: *Soggetti che seguono le linee guida USPSTF 2009 sulla prevenzione primaria delle patologie cardiache e dello stroke, prima dei 79 anni e utilizzano aspirina in prevenzione secondaria a tutte le età; **soggetti sopra i 50 anni di età assegnati a ricevere quotidianamente aspirina. Pannello A: mostra le incidenze attese dal FEM per 1.000 individui senza storia di patologie CV, stroke o tumore, nella fascia di età 51-79; il cut off di 79 è significativo dal momento che rappresenta il limite di età dei candidati a ricevere aspirina in prevenzione primaria CV negli anni 2011-2012. Pannello B: mostra gli outcome attesi calcolati a partire dall’età di 51 anni fino al decesso. L’aspettativa di vita priva di disabilità è riferita allo svolgimento delle attività quotidiane (o alle eventuali limitazioni) in soggetti non ricoverati in strutture per lungodegenza. Gli anni aggiustati di qualità di vita si riferiscono alla durata della vita basata sulla presenza di condizioni patologiche croniche e sullo stato funzionale. Fonte: modificata da Agus DB et al. PLosONE, 2016.
Eligibility) sugli indicatori di salute nel corso della vita rispetto allo status quo. Più nello specifico, il modello indica che un uso esteso di aspirina negli anziani potrebbe gradualmente modificare il profilo di mortalità, determinando un aumento dell’aspettativa di vita a 50 anni di 0,28 anni (CI 95 per cento 0,08-0,50), di cui un terzo circa vissuti in assenza di disabilità. w Effetti a lungo termine sulla popolazione Il modello con i due scenari è stato applicato alla popolazione statunitense per il periodo 2016-2050. Le simulazioni rivelano come una progressiva implementazione delle linee guida abbia un impatto favorevole, in termini
di numero, sulla popolazione (Figura 1). Secondo le proiezioni, nel 2036 ci potrebbero essere 460mila persone prive di disabilità in più, e includendo anche i soggetti con qualche disabilità, l’incremento totale della popolazione ammonterebbe a ben 900mila unità (CI 95 per cento 300.000-1.400.000). L’incremento demografico previsto potrebbe tradursi nella pratica in costi sanitari aggiuntivi, ma ritenuti non significativi sul medio periodo. La spesa annuale prevista entro il 2036 potrebbe aumentare di 29 miliardi di dollari, mentre entro il 2050 si arriverebbe a 63 miliardi, secondo le proiezioni. Tuttavia se si prendono in considerazione l’aumento dell’aspettativa e della qualità di vita, così come gli effetti collaterali
legati al trattamento (sanguinamenti gastrointestinali) l’impatto economico diventa favorevole, con benefici netti attesi che arriverebbero a un valore dell’ordine dei 692 miliardi di dollari (CI 95 per cento 345-975) nel periodo 2016-2036. Considerazioni conclusive Nell’ottica di perseguire il triplice obiettivo di “cure migliori-benessere-spesa minore” diventa cruciale assicurare ai pazienti cure preventive efficaci. L’aspirina è l’esempio di un modello virtuoso in questo senso, che coniuga una provata efficacia a un costo significativamente basso. Lo studio presenta alcuni limiti: per esempio le simulazioni
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Milioni di persone
Figura 1. Effetti a lungo termine sulla popolazione
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partono dal presupposto che gli effetti osservati dell’aspirina nei trial clinici randomizzati possano essere estesi a tutta la popolazione, anche se di fatto è noto che “la real life” sia differente. Inoltre come osservato per altri tratta-
menti efficaci in prevenzione, l’impiego di aspirina potrebbe ridurre o ostacolare l’adozione di comportamenti o stili di vita volti alla riduzione dei fattori di rischio. Più in generale possiamo dire che
L’impiego di ASA va considerato anche in prevenzione primaria valutando di volta in volta il profilo di rischio individuale del paziente e i potenziali effetti indesiderati associati al trattamento. Nei casi dubbi, le evidenze di un possibile effetto chemoprotettivo che si sono andate accumulando nel corso degli ultimi anni potrebbero spostare l’ago della bilancia a favore di un uso più diffuso di questo farmaco 24
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questo lavoro pone l’attenzione sulla medicina preventiva e sulle sfide che essa pone: i benefici non si vedono nell’immediato, ma sul lungo periodo, ed equivalgono a milioni di vite salvate. La prevenzione dei fattori di rischio nei soggetti anziani è necessaria nell’ottica di concretizzare gli effetti positivi in termini di salute sia individuale che per la collettività, come anche in termini economici. Ampliare l’uso di aspirina dunque, nei soggetti a elevato rischio CV potrebbe generare vantaggi a livello di salute generale della popolazione per i prossimi vent’anni; vantaggi che non graverebbero in termini economici sul sistema sanitario e sociale.
Riferimento bibliografico Agus DB, Gaudette E et al. The long term benefits of increased aspirin use by at-risk americans aged 50 and older. PLosONE 2016; 11(11): e0166103. Doi: 10.1371/journal.pone.0166103
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Amgen
Ipercolesterolemia: rimborsabile in Italia l’inibitore PCSK9 evolocumab
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onostante la disponibilità di terapie di buona efficacia, la gestione dell’ipercolesterolemia resta tuttora subottimale. A conferma vi sono i dati europei secondo cui, anche tra i pazienti che hanno manifestato un infarto o un ictus i livelli di colesterolo LDL sono fuori target: oltre il 60 per cento dei soggetti ad alto rischio cardiovascolare (CV) e l’80 per cento di quelli a rischio molto alto si trovano in questa condizione. E poi vi sono anche i decessi correlati: in Italia sono 300mila le morti per cause cardiovascolari. Stando ai dati dell’Osservatorio Anmco-Iss negli ultimi anni, la prevalenza dell’ipercolesterolemia è progressivamente aumentata, dal 20,8 per cento negli anni 1998-2002 al 34,3 per cento nel periodo 2008-2012. E questo nonostante vi sia la consapevolezza di quanto un approccio efficace
al paziente con livelli di C-LDL subottimali possa incidere nella riduzione del rischio CV. Ma a colmare le lacune è ora la disponibilità di una nuova opzione di trattamento, che l’Aifa ha approvato in regime di rimborsabilità. Si tratta di evolocumab (Repatha), un inibitore del PCSK9 che agisce in sostanza aumentando la capacità del fegato di eliminare il colesterolo LDL dal sangue, riducendone così i livelli. Il farmaco che si somministra con iniezioni s.c. attraverso una penna preriempita (ogni due settimane o una volta/ mese) è indicato in associazione a statine e/o ezetimibe per i pazienti “difficili” ovvero adulti con forme severe e resistenti di ipercolesterolemia primaria (comprese le forme familiari etero- e omozigote) e in quelli con dislipidemia mista che non riescono a controllare i livelli di C-LDL
nonostante la massima terapia tollerabile, e nei pazienti intolleranti alle statine. Ma il valore aggiunto di evolocumab deriva dallo studio FOURIER, probabilmente il più atteso all’ultimo congresso dell’American College of Cardiology, che è stato presentato a Washington lo scorso 17 marzo. Questo studio ha stabilito per la prima volta che ridurre al massimo i livelli di CLDL, oltre a quanto già raggiungibile con la migliore terapia attualmente disponibile, conduce a un’ulteriore diminuzione di eventi cardiovascolari maggiori, compresi infarto, ictus e rivascolarizzazione coronarica. I dati sono esemplificativi: aggiunto a statine, evolocumab diminuisce il rischio di eventi cardiovascolari maggiori del 20 per cento (infarto, ictus e rivascolarizzazione coronarica rispettivamente del 27, 21 e 22 per cento).
Bayer
Rivaroxaban a basse dosi sicuro ed efficace nella prevenzione delle recidive di TEV anche a lungo termine
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l tromboembolismo venoso (TEV) è una delle principali cause di mortalità CV, dopo infarto e ictus. I più noti fattori di rischio per TEV sono le patologie oncologiche e l’immobilità per un intervento chirurgico; tuttavia alcuni pazienti sviluppano una TEV non provocata ovvero che si verifica in assenza di fattori di rischio noti. Nei soggetti con TEV il rischio di recidiva può aumentare fino al 10 per cento nel primo anno se la terapia anticoagulante viene interrotta dopo 3, 6 o 12 mesi. Sulla scelta di prolungare la terapia pesa la valutazione del rapporto rischio-beneficio nel singolo paziente. Interessanti indicazioni al riguardo arrivano dallo studio EINSTEIN CHOICE, presentato all’ultimo Congresso dell’American College of Cardiology. Rivaroxaban 10 mg/die in monosomministrazione e 20 mg in monosomministrazione giornaliera (regime terapeutico già approvato) hanno ridotto in modo significativo il rischio di recidiva di TEV rispetto ad aspirina 100 mg una volta/die, in pazienti che avevano precedentemente completato un periodo fino a 6-12 mesi di terapia anticoagulante per embolia polmonare o trombosi
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venosa profonda sintomatica. Nello studio non sono stati inclusi i pazienti per i quali era già evidente la necessità di prolungare la terapia anticoagulante oltre i primi 6 -12 mesi. Con rivaroxaban 20 mg/die si è osservata una riduzione del rischio di recidiva del 66 per cento, rispetto ad aspirina 100 mg/die, e per il dosaggio 10 mg una riduzione del 74 per cento. Entrambi i dosaggi hanno mostrato percentuali molto basse di emorragia maggiore, comparabili al braccio di terapia con aspirina. Jeffrey Weitz co-chair dello studio ha sottolineato che “I risultati di EINSTEIN CHOICE hanno confermato la promessa contenuta nel nome dello studio: una volta approvato, rivaroxaban 10 mg in monosomministrazione giornaliera sarà a disposizione dei medici come ulteriore ‘scelta’ terapeutica contro le recidive di TEV, insieme al dosaggio già approvato di 20 mg una volta/die. Questa flessibilità di dosaggio consentirà, quindi, ai medici un approccio più preciso nella scelta della terapia prolungata più appropriata, sulla base della valutazione delle caratteristiche del singolo paziente”.
e n i l n o
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Boehringer Ingelheim
Arriva il vaccino anti-HPV 9-valente
Il trattamento con tiotropio “promosso” anche nell’asma
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enerazioni future libere dal papillomavirus (HPV) è l’obiettivo del Piano nazionale vaccini, da poco approvato, che ricordiamo ha esteso la vaccinazione anti-HPV anche agli adolescenti di sesso maschile. E proprio in questa direzione va il vaccino, disponibile anche nel nostro Paese, che al momento è l’unico che protegge da ben nove tipi di HPV (HPV 16, 18, 31, 33, 45, 52, 58, 6 e 11). Gardasil® 9 è indicato per prevenire con efficacia ancora maggiore le lesioni precancerose, i tumori al collo dell’utero, alla vulva, alla vagina, all’ano e i condilomi genitali causati dai 9 tipi di HPV in adolescenti maschi e femmine a partire dai 9 anni di età. Il vaccino si è dimostrato immunogeno, con un buon profilo di efficacia e tollerabilità, con un potenziale di prevenzione del 90 per cento per il cancro del collo dell’utero, del 75-85 per le lesioni precancerose CIN 2/3, dell’85-90 per il cancro della vulva, dell’80-85 per il cancro della vagina, del 90-95 per il cancro dell’ano e del 90 per cento dei condilomi genitali. L’autorizzazione all’immissione in commercio è sostenuta da un programma clinico avviato nel 2007, con oltre sette studi su più di 15.000 soggetti in 30 Paesi.
l controllo dei sintomi è uno degli obiettivi da perseguire nei pazienti affetti da asma. I dati che si sono andati via via accumulando in questi anni dimostrano tuttavia come oltre il 50 per cento degli asmatici non è controllato, con ripercussioni sullo svolgimento delle attività quotidiane e scadimento della funzione respiratoria. Diversi possono essere i motivi quali per esempio, la mancata aderenza al trattamento, ma anche cause intrinseche alla stessa malattia possono rendere difficile il raggiungimento del controllo dei sintomi. Vi sono pazienti che nonostante la corretta assunzione di un trattamento appropriato restano comunque sintomatici. In questi casi si rende necessario un intervento “add on” alla terapia di base, che oggi è rappresentata da corticosteroidi inalatori (ICS) associati a un beta-2 agonista a lunga durata (LABA). Al riguardo, merita di essere segnalata la nuova indicazione che ha ottenuto tiotropio (agonista muscarinico a lunga durata) somministrato con l’inalatore Respimat®, quale terapia aggiuntiva di mantenimento in pazienti asmatici adulti che sono già in terapia con ICS+LABA, ma che hanno manifestato una o più riacutizzazioni gravi nel corso dell’ultimo anno.
Amgen
Leucemia linfoblastica acuta blinatumomab rivoluziona la terapia
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a leucemia linfoblastica acuta (LLA) è una patologia oncoematologica rara a prognosi infausta, soprattutto nei pazienti adulti. Sebbene vi siano stati progressi rispetto al passato grazie alla messa a punto di regimi di trattamento intensivi (chemioterapia e trapianto) la sopravvivenza a 5 anni non supera il 50 per cento. Per i pazienti affetti da LLA arrivano oggi nuove speranze di cura grazie alla disponibilità di blinatumomab, un farmaco che a buon diritto si può definire rivoluzionario. È il primo e al momento unico anticorpo monoclonale bispecifico, che si avvale della tecnologia BiTE® (Bispecific T-cell Engager) sviluppata da Amgen. Gli anticorpi BiTE® agiscono legandosi a due bersagli contemporaneamente: da una parte le cellule T del sistema immunitario e dall’altra le cellule B maligne. Le cellule T sono notoriamente deputate a riconoscere e annientare le cellule tumorali iniettando al loro interno tossine che ne causano la morte. Le cellule tumorali però, possono eludere il sistema immunitario evitando di essere attaccate e distrutte. Blinatumomab crea un ponte tra il CD3, recettore espresso sulla superficie delle cellule T, e il CD19, recettore presente sulla superficie
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delle cellule B. In questo modo stimola il sistema immunitario a riconoscere le cellule maligne e combatterle, causandone l’apoptosi. Il farmaco è stato presentato alla stampa medico-scientifica in occasione di un incontro che si è tenuto a Roma, lo scorso 5 aprile. Numerosi sono gli studi di fase I e II condotti nel corso degli anni che hanno restituito risultati talmente incoraggianti da aver spinto Fda ed Ema a concedere a blinatumomab una revisione accelerata e un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. Di recente, Fda integrando i risultati dello studio TOWER, ha convertito l’autorizzazione da condizionata a totale. Il TOWER è uno studio di Fase III, il primo trial clinico condotto su un’immunoterapia che ha dimostrato un beneficio in termini di sopravvivenza globale quasi raddoppiandola: dai 4 mesi con la terapia standard ai 7,7 mesi con blinatumomab. Il farmaco è approvato per il trattamento di adulti affetti da LLA da precursori delle cellule B recidivante o refrattaria negativa per il cromosoma Philadelphia (la forma più comune). In Italia è stato riconosciuto come farmaco orfano e pertanto è rientrato nella procedura di valutazione dei 100 giorni.
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AstraZeneca
MSD
Melanoma al centro con Il sole per amico
Il movimento per ridare fiato al paziente con BPCO
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ono stati presentati a Roma lo scorso 21 marzo, i risultati de “Il Sole per amico”, la più grande campagna di prevenzione primaria sul melanoma mai realizzata in Italia, promossa nel 2015 da IMI, con la collaborazione del Ministero dell’Istruzione, il patrocinio del Ministero della Salute e dell’AIOM, resa possibile con un contributo di MSD. Il progetto educazionale per le scuole primarie ha coinvolto 300 istituti di 11 Regioni, circa 50.000 alunni e oltre 4.000 docenti. Uno studio epidemiologico su oltre 12.000 alunni mostra che il 25,5 per cento dei bambini ha riportato almeno una scottatura solare nel corso della vita. Sembrano migliorare i comportamenti di protezione nei confronti del sole, tuttavia vi è ancora una quota significativa di almeno il 15 per cento della popolazione che sottovaluta i danni ed è restia a proteggersi. Conoscere le regole della prevenzione è fondamentale alla luce soprattutto dell’aumento dell’incidenza del melanoma, tra i giovani adulti: nei soggetti sotto i 50 anni, è il secondo tumore tra gli uomini e il terzo tra le donne. I risultati ottenuti costituiscono il punto di partenza per la pianificazione di interventi futuri, orientati soprattutto sui gruppi di popolazione ancora “refrattari” alle buone regole della prevenzione.
Abiogen Pharma
Vitamina D una protezione oltre l’osso
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li effetti pleiotropici della vitamina D catturano l’interesse della comunità scientifica da tempo. Alle già note proprietà sulla salute dello scheletro, si sono aggiunte via via evidenze che sembrerebbero suggerire un ruolo di rilievo della vitamina D in patologie dai grandi numeri come quelle cardiovascolari, oncologiche e nel diabete mellito. Il tema è stato oggetto di un dibattito nel recente congresso WCO-IOF-ESCEO di Firenze (2326 marzo). La scoperta che molti tessuti e cellule del sistema immunitario presentino il recettore per la vitamina D (VDR) ha aperto nuovi orizzonti sulle molteplici funzioni di questo ormone. L’analisi della letteratura scientifica sembra confermare che un adeguato stato vitaminico D non è importante solo per la prevenzione di fratture e patologie ossee come l’osteoporosi, ma potrebbe influenzare positivamente l’incidenza di patologie croniche extrascheletriche come vari tipi di tumore, diabete, malattie cardiovascolari e autoimmuni. Al momento le evidenze sono limitate, ma è auspicabile disegnare studi su più ampia scala per approfondire e comprendere meglio la relazione tra ipovitaminosi D e patologie extrascheletriche.
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et Moving BPCO è la campagna promossa dalla Società italiana di pneumologia in collaborazione con l’Associazione italiana pneumologi ospedalieri, e realizzata con il contributo di AstraZeneca, che da aprile a dicembre coinvolgerà 132 centri e circa 4mila malati. L’obiettivo è sensibilizzare i pazienti sull’importanza del movimento, quale strumento per migliorare la qualità di vita. Chi soffre di BPCO spesso è “condannato” a una vita sedentaria, in quanto anche i piccoli gesti quotidiani creano dispnea. I pazienti tendono ad autolimitarsi per non avvertire la mancanza di respiro, creando così un circolo vizioso che peggiora ulteriormente i sintomi. Per spezzare questa spirale negativa basta davvero poco: solo 600 passi in più al giorno possono ridurre il rischio di ricovero e di mortalità rispettivamente del 30 e 40 per cento. Il progetto prevede la distribuzione di 4mila braccialetti contapassi e un’App con cui i pazienti e i medici potranno verificare il grado di attività e i progressi compiuti, ma non solo. Si potranno avere consigli personalizzati sullo stile di vita e indicazioni sulla gestione corretta della terapia. Perché tra gli obiettivi dell’iniziativa vi è anche quello di favorire il controllo della patologia da parte del paziente.
Italfarmaco
Focus sull’arteriopatia periferica obliterante
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na patologia sottovalutata, ma che aumenta nella popolazione soprattutto con il progressivo invecchiamento e che, se non diagnosticata precocemente e curata, può evolvere fino all’amputazione di dita o arti. Dell’arteriopatia periferica obliterante (AOP) si è discusso in un incontro a Milano (17 marzo), nell’ambito delle quattro Giornate Europee (15-19 marzo) dedicate alle patologie vascolari, in cui è stato presentato un percorso in quattro fasi per la diagnosi e la cura dell’AOP, finalizzato alla riduzione del numero di amputazioni evitabili. Il FeeTest proposto a livello europeo permette di arrivare a un autosospetto diagnostico per mezzo di un questionario e l’autopalpazione delle arterie del piede (spiegata online http://www.amavas.it/ area-popolazione-e-pazienti/feetest-scopri-se-hai-un-arteriopatia-periferica). Se il risultato lascia dubbi o sembra indicativo di AOP, il passo successivo è rivolgersi al MMG per una conferma e, in caso positivo per l’indicazione all’esecuzione di un ABI. L’indice caviglia-braccio è semplice ed è affidabile per valutare la funzionalità delle arterie. L’incontro milanese è la prima tappa di un progetto a più ampio respiro, supportato da Italfarmaco, volto a sensibilizzare sull’importanza della diagnosi e cura di questa patologia misconosciuta.
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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deontologia
Riflessioni sulle conseguenze sociali legate alla sindrome di Tourette e al disturbo ossessivo compulsivo in Medicina generale Gli ultimi anni hanno visto una crescita rapida e imponente della medicina, accompagnata da profondi cambiamenti che hanno interessato i tre principi sui quali da sempre si articola la pratica clinica: malattia, società e professione sanitaria. Qui si vuole proporre una riflessione sulle mutazioni osservate nel rapporto medicopaziente, approfondire il ruolo del Medico di Medicina generale (MMG) ed evidenziare l’importanza che il medico deve porre non solo alla patologia, ma alle ripercussioni sociali che questa può sviluppare. Per comprendere quest’ultimo aspetto analizzeremo le conseguenze sociali legate al disturbo ossessivo compulsivo e alla sindrome di Tourette, che spesso comportano la necessità di intervenire in prima istanza sul disagio sociale e sulla sofferenza causati dalla malattia 32
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A cura di Sandro Petrachi, Medico Legale e MMG - Lecce Carlotta Zanaboni Psicologa Clinica - Milano Roberta Galentino, Psicobiologa - Milano Mauro Porta, Neurologo - Milano
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l modus operandi della medicina sta oggigiorno mutando e deve confrontarsi dinamicamente con l’evolvere delle attese della società civile. Ed è un confronto che di fatto sta modificando il ruolo del medico e il rapporto tra medico e paziente. Lo storico della medicina Edward Shorter, nel suo saggio “La tormentata storia del rapporto medico-paziente” (1986), evidenzia che la relazione medico-paziente è peggiorata da quando la medicina stessa ha avuto a disposizione negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale rimedi farmaco-terapeutici efficaci contro le malattie più comuni e temibili. Nel tempo, di conseguenza, le aspettative dei pazienti sono diventate sempre più alte e contestualmente si sono intensificate anche le richieste di tipo diagnostico-terapeutico. Per decenni tuttavia i medici hanno continuato ad adottare e applicare i vecchi rimedi, spesso inefficaci e talvolta dannosi. Inoltre, con il metodo scientifico, teso a individuare l’eziopatogenesi delle varie malattie e con il miglioramento delle tecniche diagnostiche, sono nate le specialità mediche e ancora di più sub-specialità che hanno causato successivamente la frammentazione del rapporto medico-malato, sviluppando così una medicina tesa a
“fare diagnosi e individuare terapie”, perdendo di vista il “prendersi cura” del malato stesso. Però rispetto a qualche anno fa bisogna riconoscere come venga a tutt’oggi maggiormente valorizzato il lavoro in équipe e perciò le terapie “add-on”, cioè la relazione specialistaspecialista. Nonostante quest’ultimo aspetto spesso la centralità del malato come persona con il proprio vissuto e le proprie emozioni è superata dall’approccio meramente diagnostico, non sempre sufficiente a migliorare lo stato psico-fisico del paziente. A sostegno di questa tesi Archie Cochrane (1972), nome illustre nell’ambito della EBM, cioè della Evidence Based Medicine, ha lasciato una rilevante testimonianza scritta, relativa alla sua prigionia durante la Seconda Guerra Mondiale, in cui si trovò a soccorrere un giovane soldato russo ferito gravemente; Cochrane così scrive: “La corsia era piena e così lo misi nella mia stanza…gridava di continuo…non avevo morfina e gli diedi dell’aspirina senza risultato alcuno. Non sapendo che poche parole di russo, non ero in grado di comunicare con lui. A un tratto chiesi di sedermi sul suo letto e lo presi tra le braccia: smise immediatamente di gridare. Morì tranquillamente dopo qualche ora. Probabilmente non gridava per il dolore fisico, ma fu paura e solitudine. Si trattò di una lezione su come prendersi cura di chi sta morendo. Mi vergognai per avere sbagliato diagnosi e tenni la storia segreta…”.
lll Le dimensioni della malattia Da questa esperienza, vissuta e condivisa, si evince chiaramente come il compito del medico sia quello di “tutelare la salute e lenire le sofferenze”, così come recita la penultima edizione del Codice Deontologico. Il termine “Salute” deve essere inteso in senso ampio; infatti, la definizione dell’OMS del 1946 puntualizza come “la Salute non è solo l’assenza di malattia, ma uno stato di completo benessere psico-fisico e sociale”. Tale definizione coincide con
il concetto di Hengel circa la natura biopsico-sociale di “ogni malattia”: in tutti i pazienti si deve dunque riscontrare una dimensione biologica, psichica e sociale. La dimensione malattia è meglio precisata nel linguaggio inglese che utilizza i tre termini di: Ilness, Disease, Sickness. Per Disease si intende la patologia nosograficamente inquadrabile, cioè vista nell’ottica del medico; per Ilness la dimensione di malattia vissuta dal paziente; per Sickness la dimensione sociale. Ogni condizione patologica, da quella più evidentemente organica a quella più palesemente psicosomatica, presenta queste tre dimensioni che interagiscono tra di loro. Nel volume “L’uomo, la voce, la comunicazione verbale” (Porta, 1993) infatti, si rimarca l’interazione tra patologia e dimensione sociale affermando che “uno dei più importanti mutamenti occorsi negli ultimi due decenni è stata l’accettazione delle persone con handicap come membri attivi della società”, restando consapevoli che il vissuto di ogni malato è peraltro diverso, perché ogni persona è unica. Indagare come interagiscano queste tre dimensioni, all’interno di una condizione patologica, permette spesso di giungere al completamento del benessere psico-fisico del paziente.
lll La sindrome di Tourette vista in “3D” Un esempio eclatante che può meglio sottolineare quanto sia importante la valutazione delle tre dimensioni, è riscontrabile proprio nella sindrome di Tourette. La sindrome di Tourette rappresenta una situazione patologica a esordio infantile, caratterizzata da tic motori e sonori e da manifestazioni comportamentali abnormi. Esistono differenti sottotipi della sindrome che si differenziano in base alla diversificata sovrapposizione di componenti che determinano la sindrome stessa: tic motori, tic sonori, comportamenti ossessivo-compulsivi (OCB), disturbi ossessivo-compulsivi (OCD), sindrome da deficit di attenzione e ipe-
rattività (ADHD), NOSI (Non Obscene Socially Inappropriate Behaviour), scarso controllo degli impulsi e numerosi problemi di natura comportamentale (Robertson, 2000). Oltre alle componenti già descritte, appartenenti alle varie fenomenologie, si possono riscontrare i sintomi coesistenti di ansia e depressione (Robertson, 2000). Dalla sola descrizione della sindrome appare evidente quanto spesso questa malattia abbia ripercussioni sociali e quanto sia più importante lenire la sofferenza causata dal disturbo sociale rispetto alla mera eliminazione dei tic, che di per sé, nella maggior parte dei casi, non comporta conseguenze organiche gravi. Soprattutto i comportamenti ossessivocompulsivi, che caratterizzano la sindrome di Tourette per il 40-90 per cento dei casi, portano il paziente ad avere difficoltà nel resistere a determinate compulsioni “ideiche” o comportamentali, che possono condurre talvolta a confrontarsi con problemi giuridici, in quanto si riscontra una diminuita capacità di intendere senza alterazioni della capacità di volere (Cavanna, Nani, 2013; Porta, Saleh et al., in press). Spesso questi pazienti sono coinvolti in processi giuridici a causa delle loro condotte (Jankovic, Kwak et al., 2006) come accade ad altri pazienti affetti da disturbi neurologici e psichiatrici (Jankovic, Kwak et al., 2006; Siponmaa, Kristiansson et al., 2001; Gullucayir, Asirdizer et al., 2009). A tal proposito, il Codice penale italiano definisce la capacità di intendere come “l’abilità di capire il significato dell’azione nel contesto” e la capacità di agire come “l’abilità di controllare gli impulsi”, inoltre il 90simo articolo sancisce che “le emozioni e gli stati passionali non possono eliminare o diminuire la colpevolezza”. Però, è anche vero che caratteristiche genetiche, biologiche e psicologiche possono influenzare la colpevolezza quando, nel caso di un paziente affetto da sindrome di Tourette, quest’ultimo perde l’abilità di intendere
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e agire (Cass. Pen., 09.02.2006, Scarpinato, in Giur It., 2007, 1502). Dunque appare evidente come queste manifestazioni comportamentali spesso siano maggiormente invalidanti e preoccupanti rispetto ai tic, in quanto interferiscono enormemente con la vita quotidiana determinando il più delle volte gravi difficoltà sociali rilevabili nella valutazione del social impairment, spesso con punteggio elevato (Eddy, Cavanna et al., 2011). Il paziente tourettiano può presentare significative difficoltà nella ricerca di un lavoro o del suo mantenimento nel tempo e i più giovani possono avere grandi difficoltà scolastiche. È per tutte queste ragioni che il medico, anche in questo caso, dovrebbe attuare “un’alleanza terapeutica” con il paziente in maniera tale da far emergere i bisogni sociali quotidiani di quest’ultimo. È questo approccio che consentirà al paziente di migliorare non solo la condizione clinica, ma anche quella sociale migliorando il suo “ben-essere”. Va aggiunto a questo punto come sia ben noto che la mente condiziona il corpo e il corpo condiziona la mente, rappresentando un “unico” inscindibile. Questo è ben spiegato dalla teoria della P.N.E.I. (Ader, 2007), ossia della PsicoNeuroEndocrinoImmunologia, sviluppata da Robert Ader nel 1968. La PNEI di per sé non pone più attenzione alla mente rispetto al corpo o viceversa, ma utilizzando i principi propri dell’epistemologia empirica del metodo scientifico si sforza di chiarire quelle connessioni che rendono sistema nervoso, mente, immunità e regolazione ormonale un unico e complesso sistema di controllo omeostatico dell’individuo. Psiche, sistema neurologico, sistema endocrino e sistema immunitario interagiscono tra di loro tramite citochine, neurotrasmettitori e quant’altro, affievolendo pertanto la distinzione tra corpo e mente. Eppure, tale distinzione si è andata sviluppando negli ultimi decenni con le poderose acquisizioni tecnologiche della scienza medica, che ha portato i medici a schermare le proprie emozioni, nascondendosi dietro la
Medicina, cosiddetta riduzionistica, che ha comportato la perdita dell’interezza della persona umana. La dimensione umana è oggi, perciò, da riscoprire nella migliore tradizione di Ippocrate di Kos, come perpetuata da secoli interi. Il vigente codice di Deontologia Medica, noto come Codice Torino, ha eliminato la parola “paziente” per sostituirla con quella di “persona”. Pertanto, il rapporto medico-paziente è quello che si stabilisce tra due persone, di cui una è un professionista della salute, l’altra è la persona che soffre, e insieme stabiliscono un patto di “alleanza terapeutica”. La Medicina moderna non offre soluzioni univoche a un singolo problema, propone piuttosto opzioni. Il medico e il paziente nel setting professionale scelgono quella più adatta. È accaduto che un chirurgo è stato condannato per aver operato un soggetto affetto da cancro alle corde vocali, nonostante questi si rifiutasse di perdere la voce, in quanto non gli aveva prospettato l’alternativa di ricorrere a una tecnica più sofisticata, che prevedeva impiego di laser, seppur con maggiore rischio di recidive. Anche nel caso di pazienti affetti da sindrome di Tourette è doveroso che il medico esponga tutte le possibili soluzioni farmacologiche e chirurgiche, nei casi più gravi, in modo da permettere al paziente di agire nel modo migliore e in tutta consapevolezza per il suo benessere psico-fisico e sociale.
lll La relazione con il malato Nel rapporto medico-paziente, l’ospedale, come sito di “sofisticazione” diagnostica e terapeutica, ha modificato il luogo dell’incontro della conoscenza più approfondita. Infatti in un passato recente, la visita al sofferente avveniva nell’abitazione del malato creando un clima di familiarità, vicinanza e confidenza. Ora i tempi dedicati all’ascolto e al contatto fisico si sono ridotti drasticamente a tutto vantaggio di test, indagini varie ed esami del tutto “muti” e “freddi” per il paziente “parlante”. Il rapporto interpersonale si trova in
una situazione critica che il Medico di Medicina generale vive in prima linea: proprio gli Studi Medici “singoli” stanno progressivamente scomparendo a vantaggio di spazi che raggruppano più professionisti con il tentativo sempre più evidente di dotarsi di procedure e apparecchi di spettanza ospedaliera. Schermi, computer e quant’altro da una parte, circolari, decreti, dictat dall’altra la fanno da padrona alla ricerca di mantenere la privacy sventagliata a ogni piè sospinto. Il Medico di Medina generale (MMG), rispetto agli Specialisti, ha di fatto conoscenza orizzontale della persona e dei suoi familiari, anche estesa nel tempo. I compiti fondamentali del MMG sono: 1) fornire prevenzione ed educazione sanitaria, 2) curare le malattie più comuni, 3) mantenere vivo il contatto interpersonale. Entrando nel dettaglio dell’operatività, statisticamente su 100 accessi in ambulatorio di Medicina generale, circa 80 avvengono per 20 patologie (ipertensione, cefalea, BPCO ecc.). Ne risulta che il MMG debba possedere gli strumenti per il corretto “management” di non più di 20 malattie e inviare allo specialista i casi di particolare complessità. Ciò non deve significare “abbandono” del paziente, quanto soprattutto condivisione di competenze specialistiche e relativi aggiornamenti: indirizzare allo specialista opportuno non significa, per esempio, solo prescrivere una visita endocrinologica per un paziente affetto dal morbo di Addison, ma essere aggiornati su quanto la moderna medicina offre. Nell’ambito dell’alleanza terapeutica e del consenso informato, omettere di segnalare al paziente differenti opzioni terapeutiche è fonte di responsabilità che comporta evidenti ricadute in ambito etico e deontologico. Infatti, l’omesso dovere di aggiornamento ha un valore giuridico che rientra nella responsabilità civile e penale. Il chirurgo, ad esempio, non deve proporre solo l’intervento che è in grado di eseguire correttamente e con esperienza, ma deve proporre l’operazione chirurgica
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più opportuna al paziente preso in cura, anche se questo dovesse comportare di indirizzare il paziente presso un altro professionista competente. L’obbligo di informativa grava su tutti noi medici. Competenza del Medico di Medicina generale è stabilire con il paziente un rapporto di empatia, fiducia e comunicazione trasparente nel rispetto della sua sofferenza, ma è anche necessario che sia informato e aggiornato. Oggigiorno nel caso della sindrome di Tourette e del disturbo ossessivo compulsivo, che spesso si trovano “uniti”, l’attenzione degli specialisti è diretta all’innovativo DOCTS che dimostra ancora una volta la grande variabilità degli aspetti attraverso cui può palesarsi la stessa sindrome di Tourette (Consensus Conference, Milano 2016). “Sapere”, non significa necessariamente “saper fare”! Il saper fare è compito dello specialista al quale il MMG deve avviare la persona candidata a una determinata procedura. Impossibile per tale motivo prescindere dagli aspetti psicologici della medicina, dove la relazione con il malato è una prima forma di cura della persona.
In conclusione Il Medico di Medicina generale si trova dunque, in una posizione di equilibrio tra medicina scientifica e umanistica. I quadri patologici in questione (sindrome di Tourette e OCD) “verificano” significativamente queste situazioni. Troppo spesso la contrapposizione tra la medicina scientifica e umanistica non rappresenta altro che un pretesto all’incapacità di salvaguardare la relazione con il paziente, in quanto questa rappresenta una difficoltà senza dubbio maggiore rispetto alla ricerca della formazione tecnico-scientifica che risulta sempre più frammentaria e non aderente ai reali bisogni di chi è giornalmente “sul campo” come i Medici di Medicina generale. Tenendo presente i dati epidemiologici della sindrome di Tourette (1 per cento) e del disturbo ossessivo compulsivo (3 per cento) viene da sé capire come sia necessaria una maggiore conoscenza della sindrome, in modo tale da individuare il miglior comportamento che devono adottare lo specialista e il MMG, e di conseguenza anche i pazienti e i caregivers che dovranno sviluppare la compliance, ossia il rispetto degli algoritmi diagnostici-terapeutici.
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