Medico e paziente 3 16

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLII n. 3 - 2016

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Ipertensione efficace e sicura la combinazione di due “vecchi” diuretici Neurologia l’ASA nella prevenzione primaria dell’ictus Oncologia le linee guida ACS sullo screening mammografico Meeting ACC “ok” alle statine in prevenzione CV nei pazienti a rischio intermedio

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

MP

Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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Anno VIII- n. 2 - 2012 Mensile € 5,00

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64° AAN ANNUAL MEETING

Le novità dal Congresso dei neurologi americani

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I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

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Medico e Paziente

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Medico e Paziente + La Neurologia Italiana

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Medico e paziente n. 3 anno XLII - 2016 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it

Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio

in questo numero

sommario

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952

In copertina: immagine tratta da http://www.webpathology.com

Redazione Anastasia Zahova

p 6

Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Folco Claudi Lucia Del Mastro Marta Mazzucato Piera Parpaglioni Saula Vigili de Kreutzenberg

letti per voi

p 10 Patologie metaboliche

L’aterosclerosi nel paziente con diabete mellito di tipo 2 La placca carotidea calcifica si associa con un maggiore rischio CV La valutazione non invasiva della placca carotidea e della sua composizione è utile per identificare i pazienti a maggiore rischio di eventi cardiovascolari Marta Mazzucato, Saula Vigili de Kreutzenberg

p 16 prevenzione oncologica Screening mammografico Tra tante incertezze, arrivano le nuove linee guida dell’American Cancer Society Le raccomandazioni ACS su età e frequenza della mammografia

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Folco Claudi

MEDICO E PAZIENTE

3.2016

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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sommario

p 20 patologie cardiovascolari L’ASA nella prevenzione CV primaria Quali indicazioni dalla letteratura

p 28 Segnalazioni

Profilassi dell’emicrania

p 30

congressi

p 34

Farminforma Errata corrige

Sulla rivista Medico e paziente n. 2/2016 sono state pubblicate Le linee guida italiane per la gestione dell’infezione da Helicobacter pylori-III Consensus Report 2015 a cura di Rocco Maurizio Zagari, Alessandra Romiti, Marco Romano, Giovanni Gasbarrini, Michele Caselli. La Raccomandazione relativa a H. pylori e dispepsia riporta il seguente testo: Vi è evidenza di un’associazione negativa fra infezione da H. pylori e malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE), comprese le sue complicanze (esofagite, esofago di Barrett e adenocarcinoma esofageo). Tuttavia l’eradicazione dell’H. pylori non peggiora un MRGE presistente né influenza l’efficacia del trattamento con inibitori di pompa protonica. Livello di evidenza: 1b; Grado di raccomandazione: A La raccomandazione corretta è la seguente: Il “test and treat” per l’H. pylori è una strategia appropriata per la gestione iniziale dei pazienti con dispepsia non investigata poiché la prevalenza dell’H. pylori in Italia è superiore al 20%. Questa strategia dovrebbe essere applicata solo nei pazienti giovani, con età inferiore ai 50 anni, e in assenza di sintomi di allarme. Livello di evidenza: 1; Grado di raccomandazione: A Ci scusiamo con i lettori.

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Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00 Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it Numeri arretrati € 10,00

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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

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letti per voi Geriatria

Negli ipertesi “over 75”, l’abbassamento della PAS sotto i 120 mmHg riduce gli eventi CV maggiori senza aumentare il rischio di effetti avversi £ Quale sia il target pressorio negli anziani “over 75” è tuttora un tema dibattuto. Le attuali linee guida USA non forniscono indicazioni precise sull’obiettivo terapeutico per la PAS (pressione arteriosa sistolica) in questa fascia della popolazione al fine di prevenire eventi cardiovascolari (CV) maggiori. Le linee guida europee raccomandano di iniziare il trattamento per valori di PAS nei soggetti ≥80 anni, >160 mmHg. L’ultimo aggiornamento del JNC statunitense, il JNC-8, raccomanda il valore di 150 mmHg per la PAS negli adulti di età ≥60 anni. Su questo punto tuttavia gli esperti del panel non sono tutti in accordo, e secondo alcuni l’obiettivo da raggiungere negli “over 60” dovrebbe essere 140 mmHg. Recentemente lo

studio SPRINT che era stato condotto per mettere a confronto l’impatto sugli outcome CV di un trattamento antipertensivo aggressivo ovvero PAS <120 mmHg rispetto a un trattamento standard cioè PAS <140 mmHg, riportava una riduzione del rischio relativo di eventi CV maggiori e decessi del 25 per cento nel gruppo di pazienti trattato in maniera “intensiva” e una riduzione del 27 per cento di decesso per tutte le cause. Presentiamo qui i risultati relativi a un sottogruppo dello SPRINT ovvero i pazienti con età ≥75 anni ipertesi, ma non diabetici. I partecipanti sono stati randomizzati a trattamento aggressivo (1.317 pz.) o standard (1.319 pz.). L’outcome era un composito di infarto miocardico (IM) non fatale, sindrome

coronarica acuta non associata a IM, ictus non fatale, insufficienza cardiaca acuta scompensata, e decesso per cause CV. L’outcome secondario era il decesso per tutte le cause. Il follow up era una mediana di 3,14 anni. Il rischio associato all’outcome composito è stato significativamente più basso nel gruppo posto in terapia “aggressiva”: 102 eventi vs 148 del gruppo standard (HR 0,66 CI 95 per cento 0,51-0,85); un trend analogo è stato registrato per quel che riguarda la mortalità per tutte le cause (HR 0,67 CI 95 0,49-0,91). Nel complesso gli eventi avversi gravi sono risultati sovrapponibili nei due gruppi. Anche negli anziani con età ≥75 anni sarebbe auspicabile orientare il trattamento verso un target di PAS <120 mmHg. Tale approccio sembra ridurre significativamente il rischio di andare incontro a eventi CV maggiori fatali e non, e il rischio di decesso. Williamson JD, Supiano MA et al. Jama 2016; published online May 19. doi: 10.1001/jama.2016.7050

£ Nei pazienti affetti da gotta, l’obiettivo terapeutico raccomandato dalle linee guida internazionali ACR ed EULAR è il raggiungimento dei livelli sierici di acido urico (sAU) <6,0 mg/dl e nei soggetti con Nei soggetti affetti da forme di malattia più gravi <5,0 mg/dl. L’allopurinolo rappresenta gotta e poco responsivi da anni la molecola di riferimento per trattare l’iperuricemia; vi sono tuttavia molti pazienti che mostrano una risposta non adeguata al all’allopurinolo, l’aggiunta trattamento, ma che potrebbero beneficiare dell’aggiunta di lesinudella molecola sperimentale rad, un nuovo farmaco in sperimentazione che si sta dimostrando promettente sotto il profilo di efficacia e sicurezza. Lesinurad è un lesinurad alla terapia selettivo per il riassorbimento dell’acido urico e in questo standard si rivela un’opzione inibitore studio di fase II, randomizzato in doppio cieco è stato messo a confronto con allopurinolo. Nello specifico i partecipanti, 227 pazienti promettente sotto il profilo affetti da gotta con risposta non ottimale all’allopurinolo (sAU ≥6 dell’efficacia-sicurezza mg/dl in più di due occasioni a distanza di due o più settimane, nonostante la terapia di durata ≥6 settimane), sono stati assegnati (2:1) a terapia con lesinurad (200, 400 o 600 mg/die) +allopurinolo (200-600 mg/die) oppure allopurinolo+placebo. Nei dosaggi studiati, lesinurad in combinazione con allopurinolo è stato in grado di determinare una significativa e maggiore diminuzione nei livelli di sAU rispetto al basale; i valori percentuali sono stati pari a 16, 22 e 30 per cento rispettivamente per i tre dosaggi, laddove è stato riscontrato un aumento del 3 per cento nel gruppo controllo. Sotto il profilo della sicurezza, nei soggetti trattati con lesinurad l’incidenza di eventi avversi ≥1 è risultata 46, 48 e 54 per cento rispettivamente per il 200, 400 e 600 mg vs 46 per cento del gruppo placebo; nessuno degli eventi era da ritenersi grave. I risultati dimostrano il potenziale della terapia combinata con lesinurad quale futura opzione nei pazienti affetti da gotta non controllati con il solo allopurinolo in cui si presenta la necessità di una terapia aggiuntiva.

Reumatologia

Perez-Ruiz F, Sundy JS et al. Ann Rheum Dis 2016; 75: 1074-80

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MEDICO E PAZIENTE

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Un strumento in piĂš per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo


letti per voi neurologia

i livelli sierici di proteina dei filamenti leggeri SI delineano come potenziali marcatori precoci di malattia nella sclerosi multipla £

La diagnosi precoce è una sfida nella gestione della sclerosi multipla (SM). Individuare la malattia, fin dalle forme non clinicamente manifeste come la CIS (sindrome clinicamente isolata), significa avere la possibilità di attuare un trattamento che rallenti progressione e accumulo irreversibile di disabilità. Allo studio ci sono diversi marcatori, non solo radiologici, che potrebbero aprire la strada verso una diagnosi sempre più anticipata. E anche il lavoro qui presentato si muove in tal senso. Si tratta di uno studio preliminare condotto per valutare le

potenzialità della proteina dei neurofilamenti leggeri (Nfl) nel siero come marcatore precoce in pazienti con CIS in confronto a controlli sani. È noto che i livelli di Nfl nel liquor correlano con il grado di danno neuronale nei pazienti con SM. La popolazione dello studio comprendeva 100 pazienti CIS a rapida conversione (FC) verso la SM, 98 pazienti in cui la conversione non si è verificata (NC) in un follow up di 6,5 anni, e 92 controlli sani. I valori di Nfl sono risultati più alti nel gruppo FC (24,1 pg/ml) e NC (19,3 pg/ml) rispetto al controllo (7,9 pg/ml) (OR 5,85 CI al

Ipertensione

L’associazione low dose di due “comuni e vecchi” diuretici riduce la pressione arteriosa, senza indurre un effetto diabetogeno: lo studio pathway-3 £ I diuretici tiazidici (TZD) per molti anni costituivano un trattamento di prima scelta nei pazienti ipertesi. La scoperta che il loro impiego potesse aumentare il rischio di diabete ha determinato un progressivo declino nel loro uso. Una possibile spiegazione dell’effetto diabetogeno è il rischio di deplezione di potassio, insito in questi trattamenti. Associare dunque ai TZD dei diuretici risparmiatori di potassio, come per esempio amiloride, potrebbe rappresentare una possibile soluzione. Sulla base di queste considerazioni è stato condotto lo studio PATHWAY-3 in cui la combinazione amiloride +idroclorotiazide (HCTZD), ognuno dei quali a metà della dose massima, è stata in grado di controllare efficacemente la pressione arteriosa (PA), senza gli effetti 8

MEDICO E PAZIENTE

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collaterali, possibili con il dosaggio pieno. Lo studio randomizzato in doppio cieco a gruppi paralleli (1:1:1) ha arruolato pazienti ipertesi adulti nonostante un trattamento antipertensivo in atto. Nel complesso sono stati valutati 399 pazienti: 132 sono stati assegnati a trattamento con amiloride 10 mg, 134 con HCTZD 25 mg, e 133 all’associazione dei due, a dosaggi dimezzati (5 +12,5 mg) per 12 settimane. Successivamente in tutti e tre i gruppi i dosaggi sono stati raddoppiati per altre 12 settimane. L’endpoint primario era valutare le variazioni nella curva da carico orale di glucosio (OGTT), rispetto all’inizio dello studio, mentre il controllo pressorio nei tre gruppi rappresentava un endpoint secondario. I risultati indicano una significativa differenza nei livelli

95 per cento 2,63-13,02, e OR 7,03 CI 95 2,85-17,34, rispettivamente). Raggruppando i soggetti FC e NC, è stato riscontrato che un aumento della concentrazione di Nfl correlava con alcuni parametri radiologici, in particolare con un aumento nel numero di lesioni RMN iperintense in T2 e di lesioni captanti gadolinio (OR 2,69, CI 95 1,13-6,41; p =0,026), e inoltre livelli più elevati di Nfl si associavano a un più alto score di disabilità alla diagnosi della CIS (OR 2,24 95 CI 1,21-5,31, p =0,013). Gli Autori del lavoro sottolineano il fatto che se questi promettenti risultati dovessero essere confermati da ulteriori studi, il dosaggio della Nfl sierica potrebbe delinearsi come un marcatore precoce, affidabile e di semplice esecuzione del danno assonale sia nella SM che nella sindrome clinicamente isolata. Disanto G, Adiutori R et al. J Neurol Neurosurg & Psychiatry 2016; 87: 126-9

di glicemia a due ore dal carico di glucosio tra il gruppo amiloride e quello HCTZD; la differenza media dei livelli di glicemia tra i due gruppi al termine dello studio è stata di 0,55 mmol/l, a sfavore del gruppo HCTZD. I livelli di glicemia rimanevano invece inalterati al termine dello studio nei soggetti trattati con l’associazione. Il controllo della PA è risultato sovrapponibile nei gruppi in monoterapia. Nei pazienti trattati con la combinazione si riscontrava un potenziamento dell’effetto antipertensivo, mostrando un’ulteriore riduzione di 3,4 mmHg, rispetto a quanto ottenuto con il solo HCTZD. Secondo gli Autori l’amiloride è di per sé efficace almeno quanto HCTZD e l’associazione a metà dosaggio si delinea una strategia vincente nel controllo pressorio, riduce la glicemia e non determina alterazioni dei livelli di potassio. Pertanto l’impiego potrebbe esserne indicato già in prima linea nei soggetti che richiedono una terapia diuretica. Brown JM, Williams B et al. Lancet 2016; 4 (2): 136-47


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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

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Patologie metaboliche

L’aterosclerosi nel paziente con diabete mellito di tipo 2 La placca carotidea calcifica si associa con un maggiore rischio CV L’aterosclerosi è la principale causa di morbilità e mortalità nel paziente diabetico. La valutazione non invasiva della placca carotidea e della sua composizione È utile per identificare i pazienti a maggiore rischio di eventi cardiovascolari

L

a malattia cardiovascolare (CV) rappresenta a tutt’oggi la principale causa di morte nei Paesi industrializzati e mostra una particolare prevalenza nel diabete mellito. Nel diabete tipo 2 il rischio di malattia ischemica cardiaca e cerebrale è da 2 a 4 volte maggiore rispetto al soggetto non diabetico e il rischio di vasculopatia periferica più che quadruplicato (1-3). L’evento acuto è solitamente secondario alla complicanza di una placca aterosclerotica vulnerabile, con formazione di un trombo occludente che causa necrosi tissutale (4,5). Le lesioni aterosclerotiche sono il prodotto di un’infiammazione cronica dell’intima

A cura di Marta Mazzucato, Saula Vigili de Kreutzenberg

Dipartimento di Medicina - DIMED Università di Padova

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MEDICO E PAZIENTE

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delle arterie, in seguito all’azione protratta dei fattori di rischio tra cui, oltre alla glicemia, i più significativi sono età, sesso maschile, ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, ipercolesterolemia e dislipidemia, obesità, alcol. Le placche aterosclerotiche sono strutture complesse composte da svariati tipi di tessuto e di cellule: la loro diversa composizione contribuisce alla loro vulnerabilità, mentre la loro estensione è responsabile del grado di stenosi endoluminale. Il processo aterosclerotico che si manifesta nei pazienti diabetici non appare dissimile rispetto a quello che si sviluppa nel soggetto non diabetico (6); tuttavia nel paziente diabetico l’aterosclerosi ha una presentazione più precoce, una distribuzione più diffusa e distale, e un’evoluzione più aggressiva (7-8). La macroangiopatia costituisce pertanto la principale complicanza cronica del diabete in termini di morbilità e mortalità (9), rendendo indispensabile l’identificazione precoce dei soggetti a

maggior rischio, sia per un adeguato e tempestivo intervento terapeutico, sia per un’efficace prevenzione degli eventi CV.

Fisiopatologia della placca aterosclerotica L’aterosclerosi ha inizio quando si instaura una disfunzione e successivamente un danno dello strato endoteliale della parete arteriosa, che determina uno squilibrio nella produzione di sostanze vasocostrittrici (endotelina) e vasodilatatrici (ossido nitrico) a favore delle prime, mentre la rottura della barriera endoteliale permette la migrazione di cellule e molecole all’interno e al di sotto dello strato intimale. La malattia diabetica si associa inevitabilmente ad alterazioni dell’endotelio: l’iperglicemia cronica e la condizione di insulino-resistenza inibiscono infatti la produzione di ossido nitrico e diminuiscono la sintesi di altre sostanze vasodilatatrici e antiaggreganti, come prostacicline e prostanoidi, mentre aumentano la sintesi di specie reattive dell’ossigeno e di sostanze vasocostrittrici coinvolte nella genesi e nella progressione del danno vascolare (10,11). La formazione della stria lipidica rappresenta la prima alterazione della parete vasale nello sviluppo dell’aterosclerosi: si forma secondariamente alla penetrazione di lipoproteine a bassa densità (LDL) nella tonaca intima della parete arteriosa; l’ossidazione e la condensazione delle LDL sti-


mola la produzione di citochine proinfiammatorie da parte delle cellule endoteliali e muscolari lisce, con conseguente richiamo di leucociti e monociti e induce iperespressione di molecole di adesione (VCAM-1, ICAM-1), che facilitano la penetrazione delle cellule mononucleate nello strato intimale. Se lo stimolo dannoso persiste, la stria lipidica, che ingloba macrofagi trasformati in cellule schiumose, cellule vascolari muscolari lisce (VSMC) e proteoglicani, progredisce verso forme aterosclerotiche più complesse. La migrazione di cellule muscolari lisce che secernono matrice extracellulare e formano un cappuccio fibroso che separa il core lipidico dal lume vasale dà origine al fibro-ateroma. All’interno delle lesioni aterosclerotiche è comune anche il riscontro di depositi di calcio. Lo studio del ruolo del calcio nella placca aterosclerotica è argomento di crescente interesse (12-14). Microgranuli di calcio si possono depositare all’interno del core necrotico ed espandendosi formare macrodepositi di questo minerale, fino a completa calcificazione. Recentemente è stato suggerito che la comparsa di calcificazioni nel diabete sia un processo attivo cellulo-mediato, in cui le VSMC esprimerebbero proteine della matrice ossea, quali osteopontina, sialoproteina ossea, fosfatasi alcalina, osteocalcina, collagene di tipo1, implicate nella regolazione del processo stesso, che rappresenterebbe una risposta ai continui processi di rottura/riparazione subiti dalla placca: la deposizione di calcio agirebbe da barriera per limitare la diffusione dello stimolo flogistico. Molte delle proteine della matrice ossea sono state rilevate in sezioni istologiche di vasi di pazienti diabetici. È inoltre probabile che l’entità e la sede delle calcificazioni contribuisca a determinare la stabilità o l’instabilità degli ateromi; le microcalcificazioni sottoendoteliali potrebbero destabilizzare la placca e favorirne la trombosi a causa dell’esposizione di calcio, mentre ampi noduli calcifici potrebbero rendere più stabile la placca stessa (15-17). La placca aterosclerotica a differenza della stria protrude all’interno del lume vasale e determina un ostacolo al flusso ematico. L’integrità del cappuccio fibroso, che sovrasta il centro ricco di lipidi, è

Tabella 1. Vantaggi

e svantaggi della metodica ultrasonografica per indagine vascolare

Vantaggi

Svantaggi

Non invasiva

Operatore-dipendente

Assenza di radiazioni/ non necessità di contrasto

Non richiede certificazione

Eseguibile al letto del paziente

Difficoltà di visualizzazione in presenza di estese calcificazioni

Sicura Ripetibile Non controindicazioni Basso costo responsabile della stabilità della placca aterosclerotica. Le placche suscettibili di rottura tendono a mostrare un cappuccio fibroso sottile e friabile, che viene via via indebolito dai continui processi infiammatori locali e dal continuo uptake di LDL. La placca stabile diventa instabile in seguito alla formazione di un trombo intraluminale, che si sviluppa in presenza di una lesione o fissurazione della placca, con conseguente esposizione intravasale di materiale protrombotico contenuto nel cuore della placca e attivazione piastrinica (4,5). È prevalentemente in seguito a tale evento che si manifesta l’evento acuto cardiovascolare.

Identificazione della placca Se il paziente non manifesta un evento ischemico acuto o non riferisce sintomi tipici di occlusione vascolare cronica (es. angina, claudicatio ecc.) la presenza di placche nel distretto arterioso può rimanere del tutto misconosciuta, a meno che non venga eseguita una diagnostica finalizzata alla sua identificazione. Il distretto vascolare periferico (vasi del collo e degli arti inferiori) è quello che maggiormente si presta all’indagine non invasiva per l’identificazione dell’aterosclerosi. Inoltre, in un paziente diabetico, la presenza di placche in una determinata sede suggerisce di indagare anche gli altri distretti, in quanto è spia di

alterazioni che possono coinvolgere tutto l’albero arterioso. L’esame fisico è di scarso aiuto per quanto riguarda i distretti vascolari cardiaco, cerebrale e addominale, anche se la presenza di soffi a livello dei vasi del collo o dei vasi addominali o differenze pressorie interbrachiali rilevanti possono suggerire la presenza di stenosi luminali. Nel caso di un’arteriopatia agli arti inferiori, l’esame obiettivo è invece fondamentale e nella maggior parte dei pazienti con arteriopatia periferica la diagnosi può essere posta in base all’anamnesi e all’esame obiettivo comprensivo della determinazione del rapporto pressorio caviglia/braccio (ABI, ankle/brachial index). Pertanto l’esame obiettivo deve sempre includere la palpazione dei polsi periferici, la ricerca di soffi udibili o masse pulsanti, cambiamenti nel colore e nella temperatura cutanea, la presenza di ulcere o gangrena. La malattia aterosclerotica può essere invece efficacemente indagata mediante differenti metodiche strumentali, con approccio sia non invasivo che invasivo. L’approccio di imaging invasivo, rappresentato dall’angiografia, fornisce una visione diretta del lume arterioso e talora costituisce l’indispensabile via per l’intervento terapeutico (angioplastica); tuttavia le metodiche invasive vanno limitate a situazioni specifiche, mentre una diagnostica non invasiva è prevalentemente indicata nello screening di malattia. L’ultrasonografia

MEDICO E PAZIENTE

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Patologie metaboliche vascolare o eco-color-Doppler-grafia che permette la valutazione sia del distretto vascolare arterioso che venoso, è tra tutte l’indagine più utilizzata, per profilo di sicurezza e di accuratezza diagnostica, costituendo uno strumento di screening ideale (Tabella 1). Nell’ambito dell’identificazione delle placche aterosclerotiche, questa metodica viene utilizzata per la valutazione dei vasi arteriosi maggiori dei distretti extrae intracranico, addominale e degli arti inferiori. Il principio dell’ultrasonografia vascolare sfrutta le proprietà degli ultrasuoni per ottenere immagini e segnali in grado di fornire dati morfologici e funzionali. Le diverse modalità di immagine ecografica utilizzate in ambito vascolare sono le seguenti: y B-mode (brightness mode) permette la visualizzazione dei tessuti attraversati dal fascio ultrasonico, mediante la scala dei grigi, definendo precisi reperti anatomici; y M-mode (motion mode) permette di studiare il movimento nel tempo di strutture localizzate lungo una singola linea di scansione (solitamente è utilizzato in ambito cardiologico); y Color-mode permette di visualizzare in scala cromatica le componenti in movimento, quali ad esempio i globuli rossi all’interno dei vasi, in relazione alla loro velocità, sovrapposte all’immagine in B-mode; y Power-mode visualizza le medesime strutture del precedente, ma con una codifica correlata all’intensità del segnale e non a velocità e direzione del flusso,

sempre sovrapposta all’immagine in B-mode. Queste modalità di imaging possono essere combinate con la valutazione del segnale Doppler, cioè con il campionamento dello spettro di flusso dei singoli vasi; per tale motivo l’esame ecografico vascolare è detto eco-color-Doppler-grafia, in quanto prevede l’utilizzo delle tre modalità di imaging ecografico (B-mode, Color o Power-mode e Doppler-mode). Gli svantaggi principali di questo esame sono elencati in tabella 1. In base alla loro composizione ovvero alle caratteristiche di ecogenicità, le placche vengono classificate secondo diverse modalità: la classificazione più nota in uso tutt’oggi è quella secondo Gray-Weale e Lusby (Tabella 2). Le diverse tipologie di placca sono illustrate in figura 1. Altri tests diagnostici non invasivi per la valutazione della malattia aterosclerotica sono l’angioRMN, l’angioTAC e l’angiografia digitalizzata, che vengono solitamente eseguiti successivamente all’ultrasonografia.

La placca carotidea Le funzioni principali dell’eco-color-Doppler sono dunque evidenziare la presenza di placche, determinarne l’entità della stenosi e per quanto possibile le caratteristiche e misurare lo spessore degli strati più interni della parete arteriosa (ispessimento intima-media, IMT, intima media thickness). Nel paziente diabetico tipo 2, la diagno-

Tabella 2. Classificazione

della placca carotidea in base all’ecogenicità, proposta da Gray-Weale e Lusby

1. Placca ipoecogena omogenea 2. Placca prevalentemente ipoecogena (>50 per cento) 3. Placca prevalentemente iperecogena (>50 per cento) 4. Placca iperecogena omogenea 5. Placca calcifica (fortemente iperecogena con cono d’ombra)

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stica vascolare arteriosa mediante ecocolor-Doppler-grafia è un utile strumento di screening per macroangiopatia, in particolare per lo studio del distretto carotideo, per la valutazione del quale l’obiettività è di scarso aiuto. L’esame eco-color-Doppler dei tronchi sopraortici (TSA) è pertanto indicato in tutti i pazienti diabetici tipo 2 per la diagnosi non invasiva di malattia aterosclerotica e prevede innanzitutto la misurazione dello spessore medio-intimale carotideo (IMT), ovvero dello spessore degli strati intimale e mediale della parete arteriosa (Figura 1), che, se aumentato, è considerato un marker di pre-aterosclerosi (normali i valori <0,9 mm). Le evidenze scientifiche dimostrano che esiste una correlazione tra IMT, fattori di rischio cardiovascolari e sviluppo di eventi cerebrali e cardiaci (18-20). Nel paziente diabetico il valore di IMT è più elevato rispetto al non diabetico di pari età, correla con la durata di malattia ed è un importante predittore di futuri eventi cardiovascolari (21), mentre nel non diabetico con il valore di glicemia post-prandiale (22). L’IMT inoltre, può essere utilizzato come indicatore di efficacia nella riduzione dei lipidi plasmatici e dei valori pressori. La placca carotidea che si sviluppa frequentemente a livello della biforcazione carotidea, dove il flusso risulta più turbolento, viene definita come una lesione focale >1,5 mm, misurata dall’interfaccia media-avventizia all’interfaccia intimalume (23). Le lesioni carotidee possono essere ecogenicamente omogenee o disomogenee, a seconda che il contenuto sia costituito prevalentemente da materiale soffice o calcifico oppure da materiale misto. Le placche ipoecogene sono quelle principalmente ricche di lipidi, cellule infiammatorie e neovasi (placche soffici); le placche iperecogene sono quelle prevalentemente composte da tessuto calcifico (placche calcifiche). Oltre alla composizione, le placche aterosclerotiche vengono definite in base alla regolarità o irregolarità della superficie e al grado di stenosi. L’entità della stenosi della placca carotidea viene calcolata mediante segnale


Doppler pulsato (PW), che attraverso l’analisi spettrale, permette di calcolare la velocità di picco sistolico (PSV), la velocità telediastolica (EDV) e il loro rapporto. Valori flussimetrici di PSV compresi tra 210 e 270 cm/sec e valori di EDV compresi tra 70 e 110 cm/sec sono suggestivi di stenosi di grado elevato (≥70 per cento), secondo i criteri NASCET. Inoltre, il rapporto tra PSV dell’arteria carotide interna (ICA) e quello della carotide comune (CCA) è indicativo di una stenosi tra 50 e 69 per cento, se compreso tra 2,0 e 4,0 e di una stenosi >70 per cento se maggiore di 4,0 (24). L’entità della stenosi carotidea, assieme alla sintomatologia e alle comorbidità e spettanza di vita del paziente devono essere considerate nella scelta dell’opzione terapeutica.

Figura 1

Rappresentazione dello spessore medio-intimale (IMT) a livello della carotide comune e diverse tipologie di placca carotidea

Ruolo della placca carotidea come predittore di eventi CV nel diabete e nella popolazione generale Storicamente le placche ricche di lipidi sembrano essere maggiormente predittive di eventi cardiovascolari rispetto alle placche calcifiche (25-28), sebbene sia stata recentemente dimostrata anche un’associazione indipendente tra placche calcifiche ed eventi cardiovascolari, nella popolazione generale (29-32). Nei pazienti diabetici la prevalenza delle placche carotidee è maggiore rispetto ai non diabetici (33) e in particolare il diabete si associa a una maggiore calcificazione dei vasi arteriosi (34). La composizione della placca sembra dunque associarsi a un diverso rischio di eventi cardiovascolari. Anche nel paziente diabetico, cosi come nel non diabetico, la maggior parte degli studi condotti dimostra che sono le placche più ricche di lipidi (35-37) quelle maggiormente associate a eventi, mentre sono più scarse le evidenze che attribuiscono alle placche calcifiche un ruolo predittivo di eventi (38). In precedenza, il nostro gruppo di ricerca aveva dimostrato in una coorte di pazienti diabetici tipo 2 un’associazione significativa tra l’entità della stenosi

carotidea e la presenza di complicanza microangiopatica; in particolare, la retinopatia associata o meno alla nefropatia risultava indipendentemente associata alle stenosi carotidee e la gravità della microangiopatia correlata alla severità dell’aterosclerosi carotidea (39). Più recentemente abbiamo indagato, nella stessa coorte di soggetti il ruolo della composizione della placca carotidea nei confronti di futuri eventi cardiovascolari. Sono stati arruolati nello studio 581 pazienti diabetici tipo 2, sottoposti a ecocolor-Doppler dei tronchi sovraortici per valutare la presenza di placca carotidea, in un programma di screening presso due Servizi di Diabetologia della Regione Veneto (40). Contemporaneamente all’esecuzione dell’esame eco-color-Doppler dei TSA, per ciascun paziente venivano registrati i parametri antropometrici, l’abitudine al fumo, la presenza/assenza di ipertensione, dislipidemia, anamnesi positiva per coronaropatia, stroke ischemico e amputazione dell’arto inferiore; venivano inoltre, registrati i trattamenti farmacologici in atto, i principali esami bioumorali

e l’eventuale presenza di complicanze micro- e macroangiopatiche. All’esame eco-color-Doppler dei TSA venivano considerati la presenza di placche carotidee, il loro grado di stenosi e le caratteristiche ecografiche tissutali. Nell’81,8 per cento dei pazienti erano presenti placche carotidee; per quanto riguarda la loro composizione, il 16,4 per cento era fibroso, il 22,2 calcifico e il 43,2 era di tipo misto. Nel successivo periodo di follow-up medio di 4,3 anni (massimo 9 anni) sono stati registrati gli eventi cardiovascolari maggiori (MACE) che si sono manifestati. I MACE considerati sono stati: morte cardiovascolare, angina, STEMI e NSTEMI, rivascolarizzazione coronarica, scompenso cardiaco, fibrillazione atriale, embolia polmonare, ictus ischemico, TIA, rivascolarizzazione carotidea, amputazione di arto inferiore, ulcere ischemiche, rivascolarizzazione di arterie periferiche, ospedalizzazione per cause cardiologiche. Durante il follow-up si sono verificati 58 morti, di cui 27 per causa cardiovascolare e 236 MACE fatali e non fatali. La presenza di placche carotidee si asso-

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Patologie metaboliche ciava a maggiore incidenza di MACE e il rischio (hazard ratio; 95 per cento CI) di manifestare un evento cresceva progressivamente all’aumentare del contenuto di calcio nella placca. Rispetto alle placche fibrose (HR 1,97 [0,93–3,44]) infatti, le placche fibrocalcifiche (miste) (HR 3,10 [2,09–4,23]) e soprattutto le placche calcifiche (HR 3,71 [2,09–5,59]) erano associate a maggiore incidenza di MACE, anche in pazienti con stenosi modesta (<30 per cento). Questa associazione risultava essere indipendente da età, durata della malattia diabetica, controllo glicemico, presenza di ipertensione arteriosa e di complicanza micro- e macroangiopatica.

Nel diabete di tipo 2 il rischio di malattia ischemica cardiaca e cerebrale è da 2 a 4 volte maggiore rispetto al soggetto non diabetico, e il rischio di vasculopatia periferica più che quadruplicato. L’evento acuto è solitamente secondario alla complicanza di una placca aterosclerotica vulnerabile, con formazione di un trombo occludente che causa necrosi tissutale Le placche carotidee calcifiche quindi, predicono lo sviluppo di futuri eventi cardiovascolari, in pazienti diabetici tipo 2 e l’incidenza di MACE aumenta progressivamente con l’incremento della calcificazione della placca carotidea, da non calcifica/ ipoecogena a parzialmente calcifica/mista a fortemente calcifica/iperecogena (41, 42). Come già accennato, macro- e microcalcificazioni coesistono nel processo aterosclerotico e l’importanza di queste nel modulare la vulnerabilità della placca potrebbe essere differente nel paziente diabetico e nel paziente non diabetico. Nel diabete è presente infatti, un’accelerata calcificazione arteriosa: fattori metabolici e infiammatori contribuiscono alla

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calcificazione dell’intima e della media (43-45). La diversa fisiopatologia della calcificazione della placca aterosclerotica nei pazienti diabetici potrebbe spiegare le discrepanze presenti in letteratura sul ruolo della tipologia della placca come fattore di rischio per eventi cardiovascolari. Mancano al momento attuale evidenze definitive, mentre il dibattito riguardo al ruolo della calcificazione come stabilizzatore della placca rimane aperto. Ringraziamenti. Si ringrazia il dottor Alessio Calabrò per le immagini

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Storicamente le placche ricche di lipidi sembrano essere maggiormente predittive di eventi cardiovascolari rispetto alle placche calcifiche, sebbene sia stata recentemente dimostrata anche un’associazione indipendente tra placche calcifiche ed eventi cardiovascolari nella popolazione generale diabetes. Nutr Metab Cardiovasc Dis 2011; 21: 286-293. 40. de Kreutzenberg SV, Fadini GP, Guzzinati S, Mazzucato M, Volpi A, Coracina A, Avogaro A. Carotid Plaque Calcification Predicts Future Cardiovascular Events in Type 2 Diabetes. Diabetes Care 2015; 10.2337/dc15-0327. 41. Grønholdt ML, Wiebe BM, Laursen H, Nielsen TG, Schroeder TV, Sillesen H. Lipid-rich carotid artery plaques appear echolucent on ultrasound B-mode images and may be associated with intraplaque haemorrhage. Eur J Vasc Endovasc Surg 1997; 14: 439-445 42. Lal BK, Hobson RW 2nd, Pappas PJ, et al. Pixel distribution analysis of B-mode ultrasound scan images predicts histologic features of atherosclerotic carotid plaques [published correction appears in J Vasc Surg 2003; 38: 497]. J VascSurg 2002; 35: 1210-1217. 43. Virmani R, Joner M, Sakakura K. Recent highlights of ATVB: calcification. Arterioscler Thromb Vasc Biol 2014; 34: 1329-1332. 44. Demer LL, Tintut Y. Inflammatory, metabolic, and genetic mechanisms of vascular calcification. Arterioscler Thromb Vasc Biol 2014; 34: 715-723. 45. Shemesh J, Tenenbaum A, Fisman EZ, Koren-Morag N, Grossman E. Coronary calcium in patients with and without diabetes: first manifestation of acute or chronic coronary events is characterized by different calcification patterns. Cardiovasc Diabetol 2013; 12: 161.

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Prevenzione oncologica

Screening mammografico Tra tante incertezze, arrivano le nuove linee guida dell’American Cancer Society Un’ampia revisione della letteratura mondiale ha permesso all’American Cancer Society di pubblicare le nuove raccomandazioni su età e frequenza della mammografia, mettendo un po’ di ordine tra i tanti dati che sono stati divulgati negli ultimi anni

I

n quali fasce di età e con quale frequenza bisogna effettuare lo screening mammografico per rendere massima l’efficacia della prevenzione e della diagnosi precoce del tumore del seno? È quello che si chiedono da decenni medici oncologi, società scientifiche e autorità sanitarie. Il dibattito in corso da alcuni anni ha assunto anche posizioni radicali, tra chi giudica l’aumento della frequenza dello screening sostanzialmente inutile e spesso dannoso e chi ha invece posizioni più conservative. Questa polarizzazione delle idee a riguardo dello screening mammografico può essere ben esemplificata da due documenti pubblicati recentemente: il primo è un articolo di commento pubblicato da Medscape nel maggio del 2015 [1], mentre il secondo è l’articolo apparso su JAMA nell’ottobre dello scorso anno che

A cura di Folco Claudi

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riporta le raccomandazioni dell’American Cancer Society (ACS) degli Stati Uniti [2]. Nel primo articolo, Eric Topol, cardiologo e genetista dell’Università di Rochester, nello stato di New York, nonché editor in chief di MedScape, prende spunto da una recente bozza di raccomandazioni sullo screening mammografico della Preventive Services Task Force degli Stati Uniti, secondo cui non esistono evidenze a supporto dello screening di routine prima dei 50 anni e dopo i 74 anni. Tra i 50 e i 74 anni, la raccomandazione è di effettuare l’esame ogni due anni, anche se questa frequenza è discutibile, secondo Topol, e frutto di un semplice compromesso. Da una parte infatti non esistono ampi studi che abbiamo verificato l’utilità di questa specifica periodicità, dall’altra, gli studi condotti con mammografia annuale non hanno dimostrato l’utilità di una frequenza così elevata. Secondo uno studio pubblicato nel 2014 su JAMA [3], l’analisi dei dati clinici riferiti al periodo 1960-2014 e riguardanti circa 10.000 pazienti nella sesta decade di vita

e seguite per un decennio con mammografia annuale, mostra che la morte per tumore del seno è stata evitata solo a cinque pazienti. A questa limitata efficacia fa da contraltare un numero notevole di falsi positivi, circa 6.100, che hanno generato un notevole impatto in termini di stress emotivo sulle pazienti e un numero considerevole di inutili esami di secondo livello. A questo riguardo, Topol sottolinea per esempio che le biopsie hanno ancora un grado d’imprecisione elevato, dovuto a un problema d’interpretazione dei reperti da parte degli anatomopatologi. Da un recente studio è emerso infatti che se si considerano i giudizi di tre esperti sulla presenza di un tumore in un campione bioptico, essi sono in accordo solo nel 75 per cento dei casi [4]. C’è poi il problema della sovradiagnosi, che riguarda il 20-30 per cento delle pazienti sottoposte a screening: il risultato positivo riguarda un tumore che altrimenti non avrebbe mai dato segni di sé, perché le donne in questione sarebbero morte per altre cause, ma che poi viene trattato con chemioterapia o radioterapia, con un effetto sulla prognosi limitato o addirittura assente. In definitiva, secondo Topol, è tempo per un ripensamento dello screening mammografico condotto sulla popolazione generale. Avrebbe più senso, secondo l’autore, dedicare più attenzione all’individuazione delle categorie a rischio, in particolare alle persone con familiarità per il tumore della mammella. È noto infatti che una parte di queste neoplasie sono dovute a mutazioni a carico dei geni


BRCA. E secondo Mary-Claire King, la scopritrice del gene BRCA1, tutte le donne oltre i 30 anni dovrebbero effettuare uno screening genetico per individuare le mutazioni che espongono a un rischio d’insorgenza di tumore del seno e dell’ovaio [5]. Il problema dei costi, sempre secondo Topol, non sarebbe un ostacolo: con la spesa sanitaria per le mammografie effettuate in un anno negli Stati Uniti sarebbe possibile condurre uno screening dei geni BRCA più altri 17 che espongono al rischio di tumore in 56 milioni di donne americane.

Le nuove raccomandazioni dell’American Cancer Society Una posizione più equilibrata e certamente più documentata sul problema della frequenza dello screening mammografico è quella dell’American Cancer Society (ACS), che sulla rivista JAMA ha pubblicato nuove raccomandazioni che sostituiscono quelle precedenti, pubblicate nel 2003. In quell’anno la ACS raccomandava una mammografia annuale per le donne a partire da 40 anni con un rischio medio, che sarebbe dovuta continuare finché fossero

rimaste in buona salute. Allo screening andava associato un esame clinico, periodico tra 20 e 30 e annuale oltre i 40 anni. Sulla base di un’ampia revisione della letteratura disponibile, l’ACS ha ora modificato alcune sue posizioni passate. Le indicazioni sono state suddivise in una “raccomandazione forte”, per la quale esiste una solida base scientifica a sostegno dell’idea che i benefici superino gli eventuali eventi avversi, e “raccomandazioni qualificate”, per le quali c’è una chiara evidenza dell’efficacia dello screening, ma non altrettanto del fatto che questa superi gli inconvenienti. La raccomandazione forte, sempre per le donne a medio rischio, è di iniziare lo screening mammografico a partire dai 45 anni. Le indicazioni relative alla frequenza sono invece qualificate, e prevedono che lo screening sia annuale tra 45 e 54 anni e biennale dai 55 anni in poi, pur con l’avvertenza che le donne dovrebbero avere la possibilità di continuare lo screening annuale anche in questa seconda fascia di età. Lo screening, infine, dovrebbe protrarsi finché le donne si mantengono in salute e hanno un’aspettativa di vita di più di 10 anni. L’ACS infine non raccomanda l’esame

clinico di routine per tutte le fasce di età.

Screening e mortalità Il dibattito sull’utilità dello screening mammografico è legato in gran parte alla difficoltà di mettere insieme i risultati di efficacia che sono emersi negli ultimi decenni dagli studi condotti in ogni parte del mondo. La maggior parte di essi ha dimostrato una qualche efficacia, si tratta tuttavia di studi molto eterogenei per popolazioni considerate, lunghezza del follow-up e criteri metodologici. I dati che ne emergono sono pertanto difficili da confrontare tra loro, così come è difficile raccogliere questi dati in un’analisi cosiddetta pooled. Come sottolineato nell’editoriale di JAMA che ha accompagnato la pubblicazione delle nuove raccomandazioni dell’ACS, lo screening mammografico nella popolazione a medio rischio riduce la mortalità del 15 per cento se si considerano gli studi randomizzati, mentre si arriva al 30-40 per cento negli studi osservazionali. Un’importante novità metodologica utilizzata dagli Autori delle Linee guida riguarda le fasce di età: abbandonando la tradizionale suddivisione dei dati per

Figura 1

L’impatto del cancro al seno sulla base dell’età alla diagnosi, nel periodo 2007-2011 A. Distribuzione dei casi di tumore in base all’età alla diagnosi

Età alla diagnosi, anni

B. Distribuzione dei decessi per tumore in base all’età alla diagnosi

Età alla diagnosi, anni

Percentuale

C. Distribuzione degli anni/persona di vita persi a causa del tumore in base all’età alla diagnosi

Età alla diagnosi, anni

Percentuale

Percentuale

Fonte: Oeffinger KC et al. Breast Cancer Screening for Women at Average Risk2015 Guideline Update From the American Cancer Society. JAMA. 2015;314(15):1599-1614

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Prevenzione oncologica decadi di età delle pazienti hanno proceduto a un’analisi basata su quinquenni. È così risultato che i dati epidemiologici del tumore del seno e della relativa mortalità sono tra loro più simili nelle fasce di età 45-49 anni e 50-54 anni che non tra le fasce 40-44 anni e 55-59 anni (Figura 1). Da ciò discende una conseguenza importante: anche se le percentuali di falsi positivi rimane più elevata nelle fasce di età più giovani, il rapporto rischiobeneficio dello screening mammografico tra 45 e 49 anni si può assimilare a quello già solido e comprovato del quinquennio 50-54 anni.

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stract. JAMA 2014; 311: 1298-1299. 4. Elmore JG, Longton GM, Carney PA, et al. Diagnostic concordance among pathologists interpreting breast biopsy specimens. Abstract. JAMA 2015; 313: 1122-1132. 5. Ong MS, Mandl KD. National expenditure for false-positive mammograms and breast cancer overdiagnoses estimated at $4 billion a year. Abstarct. Health Aff (Millwood). 2015: 34; 576-583. 6. King, MC, Levy-Lahad E, Lahad A. Population-based screening for BRCA1 and BRCA2. 2014 Lasker Award. Abstract JAMA 2014; 312: 1091-1092.

Le raccomandazioni ACS nella pratica clinica Per capire qualcosa di più di come le raccomandazioni dell’American Cancer Society si traducano nella pratica clinica di tutti i giorni, in particolare per il territorio italiano, abbiamo chiesto un parere in proposito alla dottoressa Lucia del Mastro, dell’UO di Oncologia Medica 2 dell’Ospedale San Martino di Genova, responsabile della Struttura Semplice Sviluppo Terapie Innovative dello stesso nosocomio Dottoressa, qual è lo stato dell’arte dello screening mammografico nel nostro Paese? Per la popolazione generale, cioè in assenza di fattori di rischio specifici, attualmente in Italia c’è l’indicazione allo screening mammografico nella fascia di età che va dai 50 ai 70 anni, anche se alcune Regioni hanno allargato la fascia di età, per cui si parte da 45 anni e si arriva fino a 74 anni. Ciò indica che il nostro Paese ha recepito le indicazioni della ricerca internazionale, poiché i dati più solidi in termini di efficacia clinica sono proprio tra i 50 e i 70 anni, mentre

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nella fascia più giovane i dati sono meno certi.

Anche le nuove raccomandazioni dell’ACS sono però leggermente diverse… L’ACS ha sempre fortemente promosso lo screening mammografico a partire dai 40 anni. Alla luce delle recenti polemiche sull’utilità, ha rivisto tutta la letteratura recente e meno recente, e sulla base di questa analisi ha dato un’indicazione forte, basata sul fatto che, dalle evidenze scientifiche, il beneficio sopravanza i rischi a partire dai 45 anni. Per la fascia di popolazione più anziana

non viene posto un limite superiore all’età, ma viene data un’indicazione basata sull’aspettativa di vita: se questa è di almeno 10 anni, allora potrebbe essere utile continuare lo screening mammografico. Nella fascia di età dai 40 ai 44 anni, nella quale il rischio di sviluppare un tumore della mammella è più basso rispetto alla fascia di età 45-50 anni, la decisione di iniziare lo screening mammografico va presa dopo adeguata informazione della donna su rischi e benefici e tenendo conto delle preferenze della donna stessa.

Come si traduce questo limite in termini pratici?


Se consideriamo per esempio una settantenne in perfetta salute, lo screening è indicato, se viceversa la stessa paziente ha diverse comorbilità, lo screening ha meno valore, perché la mortalità per cause diverse dal cancro è più alta.

Per le donne più giovani invece? Nella fascia di età tra 40 e 44 anni le donne dovrebbero avere la possibilità di fare la mammografia, anche se questa raccomandazione non è così forte, dato che c’è un’incertezza sul beneficio. Chiaramente stiamo parlando di donne che sono asintomatiche e che hanno un rischio normale; le donne portatrici di specifiche mutazioni genetiche e quelle sottoposte a radioterapia al torace in età giovanile, per esempio per il trattamento di un linfoma, sono in una categoria a parte che non deve seguire queste indicazioni generali.

Le raccomandazioni fanno riferimento a rischi e benefici: possiamo fare il punto di entrambi? Certamente. Sulla base di questa revisione molto accurata dell’ACS, che personalmente mi sento di condividere, è possibile affermare che la riduzione della mortalità è probabilmente più limitata di quanto si riteneva in passato: verosimilmente è del 15-20 per cento e non del 30-40 per cento. Ciò non toglie che nella fascia di età dai 45 anni in poi, con i criteri che abbiamo detto, i benefici in termini di riduzione del rischio e di diagnosi precoce superano i rischi dello screening. Il primo di questi rischi è la sovradiagnosi, cioè l’individuazione di tumori che non avrebbero causato sintomi o decessi, ma che vengono trattati con chirurgia, radioterapia, ormonoterapia e chemioterapia. Il secondo inconveniente è quello dei falsi positivi e riguarda quel 10 per cento di persone che vengono richiamate per test di approfondimento, con procedure certo non pericolose, ma comunque invasive come la biopsia, e producendo

in ogni caso uno stress inutile. Non bisogna poi dimenticare i falsi negativi, che producono nelle pazienti un falso senso di sicurezza: una donna magari ha un nodulo, ma è tranquillizzata dall’aver fatto l’esame. Ciò può determinare un ritardo nella diagnosi, soprattutto nelle donne più giovani che hanno mammelle dense.

cento del totale. Ciò significa che per il 95 per cento delle pazienti sarebbe inutile, e quindi in generale poco sostenibile.

Si parla però molto di stratificazione del rischio e personalizzazione dello screening: che cosa ne pensa?

Quindi in quale fascia di età? Tra i 20 e i 40 anni. In questa fascia di età è molto importante che le donne giovani conoscano il loro seno e si accorgano di possibili modificazioni, ma non bisogna esagerare con gli esami: in questo sono un po’ in disaccordo con molti miei colleghi che stanno spingendo molto sulla mammografia. Il problema riguarda soprattutto le donne che si rivolgono magari a centri non specializzati.

Quindi l’indicazione potrebbe essere di rivolgersi sempre a un centro specialistico? Certo, ma intendiamoci: lo screening in Italia è basato sull’invito fatto dal Sistema sanitario nazionale, e quindi si fa già riferimento a istituti che hanno certi requisiti; il problema potrebbe essere quello dello screening cosiddetto spontaneo: in questo caso è importante che il Medico di Medicina generale sappia inviare i pazienti a centri con una comprovata esperienza.

Che cosa ne pensa dell’ipotesi ventilata da alcuni negli Stati Uniti di uno screening genetico per individuare le mutazioni in grado di elevare il rischio di tumore del seno? Attualmente in Italia si sta discutendo molto di dare la possibilità di farlo gratuitamente alle donne che sono già a rischio per familiarità, ma a mio parere sarebbe assurdo fare il test a tappeto: non dimentichiamo che la percentuale di tumori della mammella dovuti a un’alterazione del gene è solo il 5 per

Sono concetti che si stanno promuovendo nel mondo dell’Oncologia, e che certamente potrebbero migliorare il bilancio tra costi e benefici, ma non sono così facili da tradurre in pratica, al di fuori ovviamente delle categorie a rischio che ho già ricordato – le donne con specifiche mutazioni genetiche o sottoposte a radioterapia al torace – per le quali è già previsto un percorso diverso. Sottolineo che l’età rimane il fattore di rischio principale e la stratificazione dello screening basata sull’età è già il criterio guida. Da notare che le raccomandazioni dell’ACS sono per una frequenza annuale tra 45 e 54 anni e biennale da 55 anni in poi: questo non perché tra 45 e 54 anni vi sia un maggior rischio, ma perché è più frequente il cosiddetto “cancro intervallo”, cioè il tumore che insorge tra una mammografia e l’altra: questa differenza nelle indicazioni potrebbe già essere considerata una personalizzazione.

Un’ultima domanda sulla prevenzione. Quali indicazioni possiamo dare al grande pubblico? Si fa un gran parlare della connessione tra alimentazione e tumori, anche in modo esagerato perché non esistono dati solidi, almeno per quanto riguarda il tumore del seno; è invece comprovato il beneficio dell’attività fisica, anche se raramente viene ricordato. Quindi il messaggio potrebbe essere proprio di fare maggiore attenzione a questo aspetto invece che alla “dieta anti-tumori”.

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Patologie cardiovascolari

L’ASA nella prevenzione CV primaria Quali indicazioni dalla letteratura La terapia con ASA è ormai un cardine nella prevenzione secondaria cardio- e cerebrovascolare, ed è raccomandata da tutte le Linee guida nazionali e internazionali. Meno definito sembra al momento il ruolo dell’ASA nella prevenzione primaria. In queste pagine cercheremo di fare il punto al riguardo sulla base delle più recenti evidenze della letteratura

D

opo un uso consolidato nei secoli come antalgico, antipiretico e antinfiammatorio l’acido acetilsalicilico (ASA), noto per la derivazione dal Salix alba, ma in realtà estratto alla fine dell’800 per la maggiore semplicità lavorativa dalla Spirea ulmaria (1), in ragione delle sue evidenti proprietà antiaggreganti ha acquisito un ruolo di primo piano nella prevenzione degli eventi cardio- e cerebrovascolari (2). Oggi l’acido acetilsalicilico a basso dosaggio è considerato universalmente uno dei quattro irrinunciabili cardini della corretta prevenzione cardiovascolare (insieme a β-bloccanti, antagonisti del sistema renina-angiotensinaaldosterone e statine) (3). Secondo i dati epidemiologici, a livello mondiale la cardiopatia e l’ictus rappre-

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La prevenzione primaria: un tema aperto L’utilizzo di ASA in prevenzione primaria, e dunque nella classe di soggetti che non hanno ancora avuto eventi vascolari maggiori, è ancora oggetto di un acceso

A cura della Redazione

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sentano le principali cause di decesso e di disabilità, con costi sanitari e sociali importanti e molto difficili da calcolare (4). L’ASA è a oggi il farmaco di prima scelta per le patologie a rischio trombotico (2) e trova largo impiego nella pratica clinica. La solidità delle evidenze raccolte sono alla base della raccomandazione all’uso del farmaco in prevenzione secondaria proposta da tutte le Linee guida, e la percentuale di soggetti trattati rappresenta un indice del livello di assistenza nelle indagini epidemiologiche. Si è stimato infatti che il mancato trattamento provocherebbe più di 40mila decessi all’anno nel mondo.

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dibattito scientifico soprattutto in ragione della disomogeneità dei dati derivanti dai diversi studi clinici. L’ampia mole di dati disponibile e le recenti acquisizioni, sebbene non dirimenti, generano un grande interesse e tengono accesa la discussione su questa tematica. È importante sottolineare che una gran parte della discordanza di effetti (favorevoli o neutri, mai sfavorevoli) dipende fondamentalmente dall’eterogeneità delle popolazioni studiate, soprattutto per ciò che riguarda il profilo di rischio cardiovascolare di base dei pazienti arruolati. Esistono infatti studi che hanno arruolato pazienti a rischio piuttosto basso, come nel caso del Women Health Study (WHS) (6), o pazienti a rischio adeguatamente alto da giustificare un approccio preventivo con un antiaggregante piastrinico, come nel caso del Thrombosis Prevention Trial (7). Purtroppo il reale livello di rischio della popolazione lo si verifica a fine studio, solo guardando cosa è accaduto in termini di mortalità ed eventi nel gruppo placebo. L’identificazione della popolazione al livello adeguato di rischio è importante alla luce del fatto che mentre il rischio emorragico legato al trattamento con ASA sostanzialmente non si modifica al variare del profilo di rischio cardiovascolare, l’efficacia preventiva di ASA cresce all’aumentare del rischio medesimo. Quindi all’aumentare del rischio cardiovascolare l’equilibrio efficacia preventiva/rischio di effetti indesiderati (emorragie) si sposta progressivamente a favore dell’efficacia preventiva. A conferma di ciò in diversi studi di prevenzione primaria, è stata osservata una maggiore efficacia preventiva di ASA a basse dosi in presenza di fattori


Tabella 1. Caratteristiche

dei trial con ASA in prevenzione CV primaria

Endpoint primario

NNT per prevenire un evento CV maggiore

NNH per causare un sanguinamento maggiore

NNH per causare un sanguinamento GI maggiore

6,0

IM, ictus o morte CV

3.266

1.260

3.163

325 mg a giorni alterni

5,02

IM, ictus o morte CV

875

2.760

Dato mancante

61,5

75 mg/die

3,8

Eventi CV maggiori

956

650

894

5.085

57,5

75 mg/die

6,4

Eventi coronarici maggiori

501

2.335

4.094

PPP

4.495

64,4

100 mg/die

3,6

IM, ictus o morte CV

451

442

663

WHS

39.876

54,6

100 mg a giorni alterni

10,1

IM, ictus o morte CV

4.495

4.372

5.587

POPADAD

1.276

60,3

100 mg/die

6,7

IM, ictus, morte CV o amputazione

1.425

-1.069

-1.425

JPAD

2.539

64,5

81 o 100 mg/die

4,37

Qualsiasi evento aterotrombotico

325

547

1.379

8,2

Evento coronarico fatale o non fatale, ictus o rivascolarizzazione

-2.747

981

13.735

Numero partecipanti

Età media (anni)

Dose di ASA

Follow up* (anni)

BDT

5.139

63,6

500 o 300 mg/die

PHS

22.071

53,8

HOT

18.790

TPT

Trial

AAA

3.350

61,6

100 mg/die

Note: CV, cardiovascolare; GI, gastrointestinale; IM, infarto miocardico; NNH, number needed to harm; NNT, number needed to treat; *la durata del follow up rappresenta la durata mediana per POPADAD e JPAD, la durata media per gli altri trial Fonte: modificata da Volpe M et al., 2014 (24)

che aumentavano il rischio cardiovascolare. Nello studio Hypertension Optimal Treatment (8), l’efficacia del farmaco è risultata più evidente nei soggetti con livelli di creatininemia lievemente aumentati mentre nel Physicians’ Health Study (9), i sottogruppi con più elevati livelli circolanti di proteina C reattiva hanno registrato una maggiore efficacia preventiva di ASA. La tabella 1 riassume le caratteristiche e i risultati ottenuti nei principali studi citati. Si tratta quindi di stabilire esattamente da quale livello di rischio cardiovascolare la “bilancia” inizia inequivocabilmente a pendere dal lato dei benefici. Una metanalisi di Bartolucci e coll. pubblicata nel

2006 sulla base dei risultati dei primi 6 trial in prevenzione primaria, ha incluso globalmente 92.873 soggetti (47.293 ASA, 45.580 controlli) caratterizzati da un’ampia varietà di criteri di inclusione, fra i quali anche un elevato rischio cardiovascolare al basale (10). La metanalisi ha dimostrato una riduzione del 15 per cento degli eventi cardiovascolari totali fatali e non (p <0,001), una riduzione del 23 per cento degli eventi coronarici fatali e non (p <0,001) e una riduzione del 25 per cento dell’infarto miocardico non fatale (p <0,001); in aggiunta si è osservata una marcata tendenza verso la riduzione della mortalità per

tutte le cause (p =0,071). La metanalisi dell’Antithrombotic Trialists’ Collaborative (ATC) Group del 2009 asserisce inoltre, che la riduzione degli eventi vascolari gravi data dal trattamento con ASA non dipendeva tanto dal sesso o dall’età del paziente, quanto dalla presenza di fattori di rischio aggiuntivi (fumo, pressione arteriosa e colesterolemia elevata, obesità, diabete), confermando la necessità di selezionare i pazienti eleggibili al trattamento in prevenzione primaria (11). Un’indicazione interessante arriva dall’esame comparato di quattro metanalisi (11-14): i risultati di questa review (15) confermano l’efficacia di ASA a basse

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Patologie cardiovascolari Figura 1

Riduzione degli eventi coronarici e cerebrovascolari totali per gruppo di trattamento

Fonte: Ogawa H et al., 2008 (19)

dosi nella riduzione del rischio di eventi cardiovascolari, in particolare dell’infarto del miocardio, e della mortalità per tutte le cause (-6 per cento). Quest’ultimo dato significativo in due metanalisi (Bartolucci Erratum in Am J Cardiol 2011; 108: 615 e Raju e coll., 2012) è all’apparenza non eclatante, però calato in un ipotetico contesto di prevenzione su larga scala, diventerebbe rilevante, considerando l’impatto sulla salute pubblica e la spesa sanitaria (16).

La prevenzione primaria nel paziente diabetico L’impiego di ASA in prevenzione primaria nei soggetti diabetici è oggetto di dibattito ancora più vivace; ciò in ragione dei risultati inconcludenti o, non completamente concordanti, derivanti da studi che in alcuni casi si sono rivelati sottodimensionati o con un follow up non ade-

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guato al raggiungimento degli endpoint definiti. Il primo studio nel diabete (Early Treatment Diabetic Retinopathy Study) ha coinvolto più di 5.000 pazienti per cinque anni e ha evidenziato una riduzione significativa del rischio di primo infarto miocardico (17). I dati controversi sono emersi invece nello studio POPADAD (18), che non ha rilevato benefici associati all’impiego di ASA in questo setting e in parte, nello studio giapponese JPAD. Questo studio ha evidenziato risultati favorevoli sulla riduzione della mortalità cardiovascolare, l’endpont secondario (Figura 1), senza tuttavia raggiungere l’endpoint principale legato alla riduzione significativa degli eventi aterosclerotici totali. Va considerato che lo studio era stato disegnato con un obiettivo oggi poco realistico (riduzione relativa del rischio del 30 per cento). Resta da sottolineare che l’endpoint legato alla diminuzione degli eventi totali

ha raggiunto la significatività statistica nel sottogruppo degli “over 65”, con una riduzione relativa del rischio del 32 per cento, probabilmente perché questi soggetti presentavano un rischio basale maggiore (19). Per quanto riguarda i rischi legati all’assunzione di ASA nel diabetico, ci viene in aiuto una metanalisi condotta da Butalia e coll. nella quale gli Autori, a fronte di un’efficacia focalizzata quasi unicamente sul primo infarto miocardico, hanno evidenziato, come atteso, un trend di maggiore sanguinamento e complicanze gastrointestinali. Tuttavia il rapporto tra beneficio e rischio rimane in generale favorevole, sicuramente ancora di più se pensiamo al livello di rischio mediamente elevato dei pazienti diabetici (20). Merita di essere segnalato anche uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri Sud nella popolazione pugliese, che invece dimostrerebbe come il trattamento con ASA non comporti un ulteriore incre-


Figura 2

Relazione tra benefici cardiovascolari e oncologici, e sanguinamenti

Rischio (%)

Controllo ASA

Numero a rischio

Anni

Anni

ASA Controllo

Fonte: Rothwell PM et al., 2012 (30)

mento dei sanguinamenti nei diabetici (21). La spiegazione secondo il panel di esperti del Working Group on Thrombosis e delle Società italiane cardiologiche e internistiche potrebbe risiedere proprio nell’elevato turnover piastrinico il quale, se da una parte facilita il recupero precoce dell’attivazione piastrinica limitando l’effetto protettivo cardiovascolare dell’ASA, dall’altra potrebbe attenuarne l’effetto collaterale più considerato (22, 23, 24).

Le indicazioni delle Linee guida L’eterogeneità dei risultati derivanti dagli studi clinici sull’uso dell’aspirina in prevenzione primaria, come prevedibile, ha generato una certa disomogeneità nelle raccomandazioni espresse dalle linee guida sulla prevenzione cardiovascolare, in quanto oggi non tutte raccomandano l’uso di questo farmaco in prevenzione primaria. Le linee guida dell’European Society of Cardiology (ESC) del 2012 hanno confermato infatti la validità di ASA nella prevenzione secondaria, ma non ne hanno raccomandato l’utilizzo come forma di prevenzione primaria (grado IIIB) (25), salvo poi modificare orientamento l’anno successivo nel documento stilato congiuntamente all’European Society of Hypertension (ESH) e alla European Association

for the Study of Diabetes (EASD), in cui i benefici oncologici dimostrati da ASA a bassa dose riportati in numerose metanalisi sono presi in considerazione (25,26). Le recenti linee guida congiunte American Diabetes Association (ADA) e American Heart Association e dell’American Diabetes Association 2015 hanno considerato l’ASA in prevenzione primaria una scelta

ragionevole a partire dal livello di rischio cardiovascolare del 10 per cento a 10 anni, identificabile in diabetici con età superiore ai 50 e 60 anni, rispettivamente negli uomini e nelle donne, in presenza di almeno un fattore di rischio aggiuntivo (familiarità per malattia CV, ipertensione, fumo, dislipidemia) (27,28), e ne segnalano anche il possibile utilizzo nei soggetti a

Tabella 2. Numero di eventi evitati o procurati nel caso che 10mila persone siano trattate con ASA in prevenzione CV primaria e seguite per 10 anni Range

Media

Morti (per tutte le cause)

33-46

39,5

Eventi CV maggiori (morti CV, infarti, ictus)

60-84

72

Eventi ischemici coronarici totali

47-64

55,5

Morti per cancro colorettale

34-36

35

Morti per cancro

17-85

51

46-48

47

117-182

149,5

8-10

9

Eventi evitati

Eventi procurati Sanguinamenti maggiori Sanguinamenti GI Ictus emorragici

Note: CV, cardiovascolare; GI, gastrointestinale. Fonte: Volpe M et al., 2014 (24)

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Patologie cardiovascolari Figura 3

Rischio relativo (IC 95%)

Relazione tra utilizzo di ASA e riduzione del rischio di insorgenza di carcinoma colorettale

Impiego di ASA (anni) Fonte: Ye X et al., 2013 (32)

Figura 4

Proposta di un approccio graduale pratico per l’uso di ASA in prevenzione primaria cardiovascolare

Fase 1. Valutare il rischio a 10 anni di eventi cardiovascolari maggiori

Fase 2. Valutare l’anamnesi: storia di emorragia senza cause reversibili, uso concomitante di altri farmaci che aumentano il rischio di sanguinamento Considerare la storia familiare di patologie gastrointestinali (in particolare colon) e i valori e le preferenze del paziente Stop Andare avanti con cautela

Aspirina a basso dosaggio

Procedere

Fonte: modificata da Halvorsen S et al., 2014; Volpe M et al., 2014 (23,24)

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rischio moderato (con livelli di evidenza chiaramente inferiori). Diversa è la posizione dell’American College of Chest Physicians, che nel 2012 ha considerato il bilanciamento tra il rischio di primo infarto miocardico, la riduzione della mortalità da tumori e l’aumento delle emorragie gastroenteriche, suggerendo l’assunzione quotidiana di ASA al dosaggio di 75-100 mg in tutti i soggetti con più di 50 anni, senza patologie cardiovascolari sintomatiche (raccomandazione di grado IIB), indipendentemente dalla presenza di diabete (29). Restiamo sempre negli Stati Uniti, citando le recentissime linee guida dell’United States Preventive Services Task Force (USPSTF) che sono state pubblicate lo scorso aprile su Annals of Internal Medicine. Mentre nella precedente edizione del 2007, la USPSTF sconsigliava l’uso di aspirina per la prevenzione primaria, l’aggiornamento del documento contiene nuove raccomandazioni “riviste”, suddivise per fasce di età (riquadro).

La prevenzione delle neoplasie nel paziente cardiovascolare Nel corso degli ultimi 10 anni, è stata avanzata l’ipotesi di un effetto terapeutico non cardiovascolare dell’ASA sulla prevenzione della mortalità per neoplasie. Numerosi sono ormai gli studi che hanno correlato l’assunzione di ASA a basse dosi a una riduzione significativa dell’incidenza e della mortalità per diversi tipi di cancro, soprattutto colorettale, e a una riduzione della disseminazione metastatica. In un’analisi di 6 studi su pazienti in prevenzione cardiovascolare primaria, ASA ha ridotto il rischio di sviluppare tumore del 20-30 per cento, ma non nell’immediato: l’effetto è risultato infatti apprezzabile dopo almeno 3 anni di terapia sull’incidenza e dopo almeno 5 sulla mortalità correlata. A una somministrazione più prolungata di ASA ha fatto seguito dunque una minore incidenza di neoplasie, mentre al contrario, gli eventi emorragici si manifestavano soprattutto nelle fasi iniziali del trattamento, per tendere poi verso un decisivo calo con l’utilizzo cronico. Il gruppo di lavoro internazionale che ha


Figura 5

il contributo della Medicina Generale italiana

È

Correlazioni tra entità del beneficio antitrombotico e del rischio emorragico connessi con l’uso dell’ASA e il rischio CV assoluto in varie categorie di soggetti in prevenzione primaria. L’entità del beneficio antitrombotico e del rischio di sanguinamento connessi con l’uso di aspirina (entrambi sull’asse verticale) è rappresentata in funzione del rischio CV assoluto (sull’asse orizzontale) in vari sottogruppi di soggetti in prevenzione primaria. Trial compresi nell’analisi: PHS, BDT, TPT, HOT, PPP, WHS, POPAPAD, JPAD e AAA. I dati dal SAPAT (Swedish Angina Pectoris Aspirin Trial) con l’aspirina nell’angina stabile sono pure inclusi come riferimento alla categoria di rischio CV più bassa in prevenzione secondaria. I risultati sono riportati assieme agli intervalli di confidenza al 95 per cento. La dimensione dei cerchi per ciascuno studio è proporzionale all’inverso della varianza delle differenze di rischio. La freccia rossa denota l’area in cui il beneficio probabilmente eguaglia il rischio, l’area gialla denota l’area di incertezza prescrittiva e la freccia verde l’area in cui il beneficio più probabilmente eccede il rischio. Variazione del rischio assoluto è la riduzione del rischio assoluto per gli eventi cardiovascolari e l’aumento del rischio assoluto per i sanguinamenti gastrointestinali maggiori e i sanguinamenti totali. Linea continua, regressione lineare; linea punteggiata, intervallo di confidenza superiore e inferiore al 95 per cento; CV, cardiovascolare; GI, gastrointestinale Fonte: Volpe M et al., 2014 (24)

analizzato i dati ha pertanto evidenziato un beneficio complessivo in termini di risparmio di neoplasie e di vite umane, e si è pronunciato in favore dell’utilizzo di ASA in prevenzione cardiovascolare primaria (30). Infatti sommando effetti preventivi cardiovascolari e oncologici di ASA 75-100 mg e, confrontandoli con i sanguinamenti provocati, il beneficio clinico netto diventerebbe favorevole (Ta-

bella 2, Figura 2). Ultima annotazione interessante è legata alla possibilità che il sanguinamento precoce da ASA possa avere un ruolo nel facilitare la diagnosi precoce del tumore. Un’analisi condotta dallo stesso gruppo di esperti ha verificato come il warfarin non possieda effetto antitumorale (30). Inoltre l’uso regolare di ASA è risultato associato a una significativa riduzione della disseminazione

stato recentemente pubblicato sulla rivista International Journal of Cancer lo studio dei medici di famiglia italiani (SIMG) che ha analizzato l’effetto protettivo antitumorale di aspirina a basso dosaggio nei pazienti in prevenzione secondaria cardiovascolare. Lo studio retrospettivo, quindi basato sulle analisi dei dati provenienti dalle cartelle informatiche Health Search ha analizzato circa 13.500 soggetti. Lo studio ha dimostrato che ASA a basso dosaggio ha ridotto del 36 per cento il rischio di cancro prostatico: nei soggetti che avevano assunto il farmaco almeno due volte la settimana la riduzione del rischio è del 40 per cento, nei soggetti che avevano iniziato il trattamento da 5 anni la riduzione del rischio è arrivata al 57 per cento (35). Una notizia interessante che potrebbe spingere verso uno sforzo per un miglioramento dell’aderenza alla terapia con aspirina a basso dosaggio anche in un paziente quale quello in prevenzione cardiovascolare secondaria, che dovrebbe essere motivato ma che, secondo diverse analisi, spesso interrompe il trattamento (36).

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Patologie cardiovascolari Linee guida dell’U.S. Preventive Services Task Force l Negli adulti di età compresa tra 50 e 59 anni che hanno un rischio di CVD a 10 anni pari o superiore al 10 per cento, non hanno un eccessivo rischio di sanguinamento, hanno un'aspettativa di vita di almeno 10 anni, e sono disposti a prendere basse dosi di aspirina al giorno per almeno 10 anni si raccomanda di iniziare l'uso di aspirina a basso dosaggio per la prevenzione primaria della malattia cardiovascolare (CVD) e del cancro colorettale (CRC) (Raccomandazione B). l Negli adulti di età compresa tra 60 e 69 anni la decisione di iniziare l'uso di aspirina a basso dosaggio per la prevenzione primaria di CVD e CRC dovrebbe essere individualizzata in base al rischio di CVD (10 per cento o superiore a 10 anni) e alle preferenze del paziente (più interessate ai potenziali benefici che ai danni potenziali). Le persone che non sono ad aumentato rischio di sanguinamento, hanno un'aspettativa di vita di almeno 10 anni, e sono disposti a prendere basse dosi di aspirina al giorno per almeno 10 anni hanno maggiori probabilità di trarre beneficio (Raccomandazione C). l Le evidenze attuali sono insufficienti per valutare il rapporto fra benefici e rischi per l'uso di aspirina per la prevenzione primaria di CVD e CRC negli adulti di età inferiore ai 50 anni (I Statement). l L'evidenza attuale è insufficiente per valutare l'equilibrio dei benefici e rischi di avvio all’uso di aspirina per la prevenzione primaria della malattia cardiovascolare e CRC negli adulti di età superiore ai 70 anni (II Statement). metastatica (OR 0,69, p <0,0001) (31). A ulteriore supporto di questa tesi, nel 2013 una metanalisi condotta specificamente sul carcinoma del colon retto ha confermato che la somministrazione di ASA a lungo termine è in grado di ridurre il rischio del 20 per cento circa (32). Questo studio inoltre, ha confermato come basse dosi per almeno cinque anni permettano di ottenere una riduzione significativa delle neoplasie, e ha verificato come l’assunzione quotidiana rappresenti

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la frequenza ottimale per un’efficace prevenzione. Non deve stupire che le recenti raccomandazioni del Working Group on Thrombosis della European Society of Cardiology 2014 poi riprese dal Documento di Consenso Intersocietario italiano (24) sull’utilizzo di ASA in prevenzione primaria, abbiano tenuto conto anche della familiarità per cancro al colon nell’algoritmo decisionale (20,21). Questo Position Paper europeo raccomanda aspirina 75-

100 mg/die in prevenzione primaria nel paziente a rischio cardiovascolare elevato (Grado della Raccomandazione: I, Livello di Evidenza: B). Inoltre suggerisce nel paziente a rischio cardiovascolare intermedio, un approccio pratico che tenga in considerazione anche l’ereditarietà riguardo alla patologia oncologica gastrointestinale, soprattutto del colon (Figura 3, Figura 4) (24). Posizione analoga è quella espressa dalle già citate Linee guida governative USPSTF (riquadro) che, sommando i benefici cardiovascolari e oncologici raccomandano ASA a bassa dose nella prevenzione primaria dei soggetti tra i 50 e i 69 anni a rischio cardiovascolare >10 per cento a 10 anni che non abbiano un incrementato rischio di sanguinamenti, sottolineando come in questi soggetti la terapia preventiva debba superare i 10 anni. La raccomandazione è giustificata in quanto aspirina previene sia gli eventi cardio- e cerebrovascolari sia i tumori (con particolare attenzione al cancro colorettale che è tra i più diffusi). Nei soggetti tra i 60 e i 69 anni allo stesso livello di rischio, il beneficio clinico netto viene considerato inferiore, quindi si lascia al medico la decisione basata sul possibile bilancio beneficio/rischio nel singolo paziente; oltre i 70 anni le evidenze scientifiche sono troppo limitate (33,34).

Il parere del Documento intersocietario italiano Nel Documento viene sottolineato come la gestione della terapia in base al rischio cardiovascolare sia ancora la scelta migliore. Nella prevenzione cardiovascolare primaria, dove il rischio di sviluppare eventi aterotrombotici per ogni singolo paziente è generalmente basso, è essenziale la stima del rischio individuale di base al fine di soppesare gli effetti collaterali della terapia, come il sanguinamento. Il rischio cardiovascolare può essere visto come un continuum, passando dalla prevenzione primaria in soggetti giovani totalmente sani, alla prevenzione primaria dei soggetti ad alto rischio, infine alla prevenzione secondaria (Figura 5). Non vi è infatti alcuna ragione teorica


né alcuna prova che suggeriscano una discontinuità degli effetti dell’aspirina. Il beneficio del trattamento inteso come riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori, è chiaramente superiore al rischio di indurre emorragie maggiori nel contesto della prevenzione secondaria. Nella categoria di rischio più basso di prevenzione secondaria, ovvero l’angina stabile, è stato dimostrato nello studio SAPAT che l’uso di aspirina 75 mg/die è da raccomandarsi, con 118 eventi vascolari evitati contro 10 pazienti deceduti per sanguinamenti fatali su 10.000 pazienti. È difficile immaginare, percorrendo lo spettro del rischio cardiovascolare dalla prevenzione secondaria a quella primaria, che si possa realizzare una riduzione brusca del rapporto rischio/ beneficio della terapia con aspirina. La natura di solito non fa salti. Infatti una valutazione grafica del rapporto rischio/ beneficio, come rappresentato nella figura 5, indica una vasta area di rischio cardiovascolare in prevenzione primaria in cui mancano i dati provenienti da studi, ma in cui è probabile che il beneficio sia ancora superiore al rischio. Una risposta in tal senso potrebbe arrivare da studi attualmente in corso. Ecco le considerazioni conclusive del documento: y Si raccomanda che l’uso di aspirina a basse dosi in prevenzione cardiovascolare primaria in soggetti di entrambi i sessi sia guidato da una valutazione del rischio cardiovascolare di base e del rischio emorragico (Grado di Raccomandazione I, Livello di Evidenza B) y Si consiglia che l’aspirina a basse dosi venga considerata nella prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari in soggetti di entrambi i sessi a un livello di rischio di eventi CV maggiori (morte, infarto miocardico, ictus) >2/100 soggettianno a condizione che non sussista una chiara evidenza dell’aumentato rischio di sanguinamento (emorragia GI o ulcera peptica, uso concomitante di altri farmaci che aumentano il rischio di sanguinamento (Grado di Raccomandazione IIa, Livello di Evidenza B).

In conclusione In attesa delle comunicazioni da parte

degli enti regolatori, rimane valida l’indicazione di ASA in prevenzione primaria (in Italia permessa da AIFA solo alla dose di 100 mg/die) nel paziente a elevato rischio cardiovascolare e cresce la consapevolezza di possibili benefici aggiuntivi, che dopo valutazione globale del paziente, potrebbe aiutare a prendere una decisione razionale. L’ASA a basse dosi si conferma “un classico” della medicina, al centro dell’interesse nella prevenzione cardiovascolare e con un futuro meritevole di essere esplorato ulteriormente.

Per le sue proprietà antiaggreganti, l’ASA ha un ruolo di primo piano nella prevenzione degli eventi cardio- e cerebrovascolari. Oggi l’ASA a basso dosaggio rientra nei cardini della corretta prevenzione CV secondaria. È in via di definizione il suo ruolo nella prevenzione primaria

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SEGNALAZIONI

Profilassi dell’emicrania La modulazione della neuroinfiammazione favorisce la normale interazione tra sistema nervoso trigeminale, sistema immune e sistema vascolare

L'

emicrania primaria senz’aura rappresenta una delle forme più comuni di cefalea (80-90 per cento dei casi); la sua frequenza nella popolazione italiana varia tra il 15 e il 18 per cento, con un picco di prevalenza tra i 25 e i 55 anni. È più frequente nel sesso femminile e insorge generalmente tra i 12 e i 29 anni; in alcuni casi può esordire già nell'infanzia. L’emicrania primaria senz’aura viene oggi considerata una particolare risposta delle strutture meningee e cerebrali a trigger patogeni neuro-immuno-vascolari in grado di abbassare la soglia di attivazione neuronale (1,2,3). Recenti evidenze indicano chiaramente che la risposta maladattativa di specifiche cellule del sistema immunitario, mastocita e microglia (definite oggi cellule non neuronali), localizzate nelle aree meningeo-cerebrali, compromettono la fisiologica sensitività e permeabilità delle strutture trigemino-vascolari che si diramano su regioni cefaliche comuni; il mastocita, cellula dell’immunità innata residente prevalentemente nella dura madre, viene iperattivato da persistenti stimoli agonisti multipli (corticotropin-releasing hormone di provenienza ipotalamica, estrogeno, allergeni, trauma cranico, farmaci), anche ciclici, compromettendo la sua fisiologica capacità di controllare la neuroinfiammazione (1,4,5,6). La neuroinfiammazione viene controllata localmente, dal mastocita e anche dalla microglia, attraverso la liberazione di specifiche ALIAmidi (palmitoiletanolamide) (7). Desta particolare attenzione nel medico l’emicrania legata al ciclo mestruale che riguarda circa il Figura 1 Numero di crisi emicraniche per mese dopo un periodo

di trattamento con NORMAST® (1.200 mg/die) di 90 giorni

*p < 0,0001

Note: T0, basale; T1, fine trattamento (90 giorni) Fonte: Dalla Volta et al., 2016

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Figura 2 Intensità del dolore in corso di crisi emicranica dopo 90 giorni di trattamento con NORMAST® (1.200 mg/die)

*p < 0,0001

Note: T0, basale; T1, fine trattamento (90 giorni); scala semantica per l’intensità del dolore: 1, il dolore non limita le normali attività; 2, il dolore limita la normale attività, ma non costringe il paziente a letto; 3, il dolore costringe il paziente a letto Fonte: Dalla Volta et al., 2016

50-60 per cento delle donne che soffrono di questo disturbo. La normale reattività del mastocita, in corso di emicrania da “ciclo mestruale”, viene alterata da un’ampia serie di stimoli agonisti, in particolare le fluttuazioni estrogeniche durante le fasi premestruali rendono fragile la cellula mastocitaria che acquisisce fenotipo degranulante (8, 9, 10); in ogni caso (stress, alterazioni ormonali, allergie) ne deriva un rilascio sovramassimale di mediatori proinfiammatori mastocitari (nerve growth factor, IL-1β, istamina, proteasi) responsabili dell’alterazione della sensitività del nervo trigeminale, la cui sofferenza è strettamente connessa a liberazione di neuropeptidi infiammatori/vasoattivi (Sostanza P, CGRP) responsabili della vasodilatazione che si accompagna agli eventi emicranici. È il quadro di una neuroinfiammazione meningea che rapidamente si estende a livello del tronco cerebrale attivando in senso patologico la microglia, nota induttrice della central sensitization (amplificatore del segnale doloroso) (1,3,5,7). Questa cascata di eventi, a forte componente neuroinfiammatoria, è sostenuta dalla ciclica e persistente alterazione del cross-talk tra mastocita meningeo e microglia del tronco cerebrale, responsabili di vasodilatazione distrettuale e dell'abbassamento della soglia di attivazione del nervo trigemino. Giornaliero Risulta quindi importante mantenere normoreattiva la microglia e garantire protezione del mastocita “fragile” per periodi medio/


lunghi. Modulare le cellule non neuronali, mastocita e microglia, rappresenta l’approccio razionale per attuare una terapia di profilassi altamente innovativa dell’emicrania, fondata sul controllo della neuroinfiammazione (11,12). La palmitoiletanolamide endogena (o somministrata esogenamente purché ad adeguato livello di ultra-micronizzazione), attraverso il meccanismo ALIA (Autacoid Local Injury Antagonism) scoperto agli inizi degli anni ‘90 dal gruppo di ricerca del Premio Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini, è il regolatore fisiologico delle cellule non neuronali (sia mastocita che microglia) che inducono e sostengono la neuroinfiammazione (7,13,14,15).

PEA-UM® in terapia di profilassi: efficacia clinica e sicurezza La profilassi è indicata, anche in aggiunta alla terapia sintomatica, se ricorrono almeno 4 giorni/mese di cefalea disabilitante e in caso di attacchi che si verifichino meno di 4 giorni al mese, ma che non rispondano alle classiche terapie sintomatiche. Le

linee guida AHS/AAN del 2012 sottolineano che una risposta al trattamento di profilassi viene definita buona se in grado di determinare una riduzione del 50 per cento nella frequenza del numero di attacchi/mese e/o nella loro intensità (16). Un lavoro pubblicato su International Journal of Neurology & Brain Disorders condotto su 50 pazienti con emicrania primaria ad alta frequenza di crisi, in terapia di profilassi, dimostra che l’uso di palmitoiletanolamide (noto principio attivo capace di mantenere normoreattivi sia il mastocita meningeo che la microglia sita nel tronco cerebrale) nella sua forma attiva ultra-micronizzata (PEAum®, principio attivo del Normast®) al dosaggio di 1.200 mg/die per 90 giorni, determina una significativa riduzione di frequenza, durata e intensità del dolore delle crisi emicraniche (Figure 1 e 2), consentendo la riduzione del numero di analgesici assunti per mese e migliorando la qualità di vita del paziente (15,17). Efficacia (NNT =1,8) e sicurezza (NNH >250) della palmitoiletanolamide ultra-micronizzata risultano documentate da numerosi lavori clinici (oltre 5.000 pazienti), metanalizzati e rassegnati in reviews pubblicate su importanti riviste internazionali (18).

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C O NG R E S S I Simposio internazionale Innovation in cardiology: still a wishful thinking? 28-30 gennaio, Brescia

Dal cuore alla periferia, sguardo allargato sullo scompenso cardiaco

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roblema sanitario di popolazioni sempre più anziane a livello globale, lo scompenso cardiaco (HF) nella pratica clinica è un “iceberg”, con un quarto di pazienti noti e in cura, la maggior parte nell’ambito della medicina primaria, e un 75 per cento di casi non riconosciuti o con disfunzione ventricolare asintomatica. Con questa immagine Massimo Piepoli, responsabile dell’Ambulatorio Scompenso cardiaco all’Ospedale Civile di Piacenza, ha introdotto le difficoltà tuttora legate alla diagnosi dell’HF, argomento di punta del simposio organizzato dall’Università di Brescia con il supporto di Fondazione Menarini. La diagnosi non tempestiva, che peggiora prognosi, sopravvivenza, ricoveri ospedalieri e costi, è condizionata da vari fattori: la sintomatologia che può essere facilmente attribuita ad altre comorbilità, i disturbi sottovalutati dai pazienti perché ascritti all’invecchiamento (come affanno, fatica, aumento di peso, edemi periferici), i quadri atipici soprattutto nelle donne. Un nodo da risolvere resta la stessa definizione clinica e classificazione della sindrome. La classificazione funzionale della New York Heart Association (NYHA), di riferimento per impostare la terapia secondo le correnti linee guida, distingue quattro classi in base alla severità dei sintomi e alla limitazione nell’attività fisica, con il difetto dell’eccessiva soggettività di una valutazione qualitativa. Partendo dal presupposto che l’HF consiste in un danno d’organo multiplo che non si ferma alla sede d’origine, un nuovo approccio nosologico è stato di recente proposto da Francesco Fedele e coll. dell’Università La Sapienza di Roma. Chiamata HLM (Heart, Lung,

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Malfunction) per analogia con il sistema di stadiazione TNM usato in oncologia, la nuova classificazione considera segni, sintomi e parametri misurabili per ciascun sistema: il cuore, il polmone e gli organi periferici implicati, ovvero rene, fegato, cervello, sangue. Come ha spiegato l’Autore al simposio bresciano, la classificazione HLM prende in considerazione il coinvolgimento sistemico di vari organi e apparati per consentire una valutazione anatomo-funzionale e una stratificazione prognostica più accurate del paziente con scompenso cardiaco (identificare il vero paziente ad alto rischio all’interno delle classi NYHA) con l’obiettivo di una maggiore appropriatezza nella gestione di questi soggetti. La casistica della malattia sta cambiando rapidamente, con percentuali crescenti di pazienti con frazione di eiezione preservata (HF-PEF): si stima che siano ormai circa la metà dei soggetti con HF, con punte del 70 per cento in Giappone, la nazione con più anziani. In contrasto con quanto avvenuto per lo scompenso con frazione di eiezione ridotta (HF-REF), nel quale il trattamento farmacologico ha migliorato la sopravvivenza, nell’HF-PEF non si è finora ottenuto un miglioramento degli outcome. Le spiegazioni più accreditate, illustrate da Carolyn Lam del Programme in Cardiovascular & Metabolic Disorders della Duke-NUS Medical School di Singapore, sono la scarsa comprensione della patofisiologia dell’HF-PEF (che la ricerca degli ultimi anni sta colmando), l’eterogeneità di questi pazienti e l’approccio terapeutico indifferenziato finora seguito. I soggetti con HF-PEF sono in genere più anziani, in maggioranza donne e con un’alta prevalenza di

comorbilità come ipertensione, obesità, sindrome metabolica, diabete di tipo 2, malattia renale cronica, BPCO, anemia e carenza di ferro. Le comorbilità sono considerate i trigger dell’HF-PEF, attraverso l’infiammazione microvascolare e l’attivazione endoteliale microvascolare. Il paradigma messo a punto dalle ricerche più recenti è centrato sul ruolo di uno stato proinfiammatorio con disfunzione endoteliale diffusa, che porta nel miocardio alla diminuita biodisponibilità di ossido nitrico (NO) e alla distruzione di una via di segnale chiave per processi fisiologici come omeostasi cardiovascolare, crescita cellulare, contrattilità, infiammazione (la via NO-cGMP-PKG). L’interruzione di questa via spiegherebbe lo sviluppo di alterazioni strutturali e funzionali miocardiche come il rimodellamento concentrico del ventricolo sinistro (LV), l’aumentata rigidità dei cardiomiociti e l’aumentata deposizione di collagene. Diversamente nell’HF-REF il danno diretto del miocardio (es. da infarto ischemico acuto) con necrosi cellulare, apoptosi e rimodellamento eccentrico di LV porta al circolo vizioso dell’attivazione neuroendocrina. Le terapie allo studio per l’HF-PEF, che hanno come target diretto la disfunzione endoteliale e le vie di segnale alterate, possono risultare più efficaci di quelle mirate sull’attivazione neuroendocrina (che invece funzionano nell’HF-REF). Dati preliminari indicano che un metodo promettente per prevenire e trattare l’HFPEF può essere anche la restrizione calorica abbinata all’esercizio fisico aerobico, con una salutare diminuzione dei marker infiammatori. Piera Parpaglioni


la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

www.medicoepaziente.it

info@medicoepaziente.it


C O NG R E S S I 65° Meeting American College of Cardiology, 2-4 aprile, Chicago

Prevenzione primaria CV Nei pazienti a rischio intermedio, lo studio HOPE-3 promuove le statine e “boccia” il trattamento antipertensivo

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a terapia ipocolesterolemizzante da sola o insieme a un trattamento antipertensivo può prevenire gli eventi cardiovascolari (CV) nei pazienti considerati a rischio intermedio per malattia coronarica (CHD). Tale effetto tuttavia non si ottiene con la sola riduzione della pressione arteriosa (PA), a meno che i valori di partenza della sistolica non siano elevati. È questa in estrema sintesi la conclusione del programma di studi HOPE-3, che è stato presentato a Chicago e pubblicato sul New England Journal of Medicine (N Engl J Med, 2016 Apr 2. Epub ahead of print). HOPE-3 ha messo a confronto la terapia con

statine e la terapia antipertensiva con un’associazione sartano-idroclorotiazide: la prima strategia è stata in grado di ridurre il rischio di eventi nei 5,6 anni di follow up del 24 per cento. Il programma è molto complesso (è costituito da tre bracci, che sono stati pubblicati come articoli singoli sul New England) e ha arruolato 12.705 soggetti (età media 65,7 anni) in 228 centri di 21 Paesi. I partecipanti sono stati randomizzati a terapia ipocolesterolemizzante con rosuvastatina (10 mg/die) o placebo e una terapia antipertensiva (candesartan 16 mg/die +idroclorotiazide 12,5 mg/die) o placebo per un periodo medio di 5,6

Giornata mondiale del mal di testa

Il punto sulle terapie per l’emicrania

I

n occasione della Giornata mondiale del mal di testa (14 maggio), la Società Italiana di Neurologia (SIN) ha fatto il punto sulle terapie per la cura di questi disturbi che spesso condizionano la vita di chi ne soffre. “Dal punto di vista patogenetico - ha sottolineato in un comunicato Pietro Cortelli, dell’Università di Bologna - nel corso degli ultimi anni un numero crescente di studi con neuroimmagini svolte dal gruppo di Gioacchino Tedeschi dell’Università di Napoli, ha permesso una più approfondita conoscenza dei meccanismi di base delle cefalee e in particolare dell’emicrania, identificando le regioni cerebrali coinvolte nel trasmettere l’insorgenza del dolore emicranico e dei sintomi associati... Dal punto di vista terapeutico - puntualizza Cortelli – uno studio internazionale, a cui partecipa anche l’Italia, ha dato ottimi risultati sulla possibilità di prevenire gli attacchi di emicrania attraverso la somministrazione mensile di una terapia in grado di ridurre il numero di attacchi. Si tratta degli anticorpi contro il CGRP, il recettore che ha assunto un ruolo chiave nell’insorgenza dell’emicrania”. Tra i trattamenti non invasivi va ricordata la neurostimolazione esterna. Uno studio in doppio cieco indica l’efficacia e l’assenza di eventi avversi gravi e pericolosi per le tre modalità di neurostimolazione non invasiva: stimolatore transcutaneo sopraorbitario, stimolazione magnetica transcranica e stimolatore esterno del nervo vago. Tra questi, la stimolazione del nervo vago è stata impiegata non solo nel trattamento acuto e preventivo dell’emicrania, ma anche in quello della cefalea a grappolo.

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anni. La pressione media al basale era 138,1/81,9 mmHg, il livello di C-LDL 127,8 mg/dl. Ma vediamo qualche dato più specifico. Il trattamento con la statina parallelamente a una riduzione media di C-LDL di 33,7 mg/dl correlava con una diminuzione del 24 per cento degli eventi CV rispetto a quanto accadeva nel gruppo di controllo. La terapia antipertensiva sartano+diuretico non ha prodotto invece, alcuna riduzione significativa degli eventi rispetto al placebo; un effetto positivo in termini di prevenzione del rischio di eventi è emerso solo in un sottogruppo con PAS basale superiore a 140 mmHg. In quest’ultimo caso, la riduzione di eventi rispetto ai controlli è stata del 27 per cento. I risultati positivi riguardanti la statina sono un’ulteriore conferma di quanto già precedentemente riscontrato e peraltro raccomandato dalle linee guida USA ACC/AHA che adottano in prevenzione primaria un approccio basato sul rischio CV, piuttosto che sui livelli di LDL, avvalorando la prescrizione delle statine in prevenzione primaria. Dai risultati complessivi emerge che la rosuvastatina al dosaggio di 10 mg/die è efficace nel prevenire eventi CV, indipendentemente dai livelli di CLDL o di pressione iniziale; al contrario, il candesartan (16 mg/die) associato all’idroclorotiazide (12,5 mg/die) in una popolazione a rischio relativamente basso risulta efficace solo nei soggetti con PAS superiore a 140 mmHg. In ogni caso, non è possibile escludere che una terapia antipertensiva a dosaggi più elevati possa produrre maggiori e più evidenti benefici. Resta da chiarire quali siano le cause all’origine del “fallimento” della terapia antipertensiva.


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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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Boehringer Ingelheim

Disponibile anche in Italia idarucizumab, “l’antidoto” per dabigatran

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nuovi anticoagulanti orali (NAO) si stanno sempre più consolidando nella prevenzione degli eventi tromboembolici nei pazienti a rischio. Per questo motivo diventa importante poter disporre per le rare situazioni di emergenza, di strumenti che ne inattivino gli effetti in maniera rapida, specifica e sicura. A oggi, per neutralizzare l’effetto della terapia anticoagulante tradizionale vengono generalmente utilizzate terapie non specifiche, come i concentrati di protrombina. Ma finora una sorta di air bag specifico che si potesse “aprire” in urgenza non era disponibile. È importante dunque, segnalare idarucizumab, farmaco disponibile anche in Italia che inattiva in maniera specifica l’effetto di dabigatran, inibitore diretto della trombina, primo della nuova gene-

razione di anticoagulanti orali, entrato nel nostro Paese da circa tre anni. Idarucizumab è un frammento di anticorpo umanizzato, o Fab, sviluppato come farmaco specifico per inattivare l’effetto anticoagulante di dabigatran, nei rari casi in cui questo debba essere rapidamente contrastato. La molecola sviluppata da Boehringer Ingelheim vanta un programma di ricerca che è stato avviato nel 2009, prima ancora del lancio di dabigatran negli Stati Uniti nel 2010. L’approvazione di idarucizumab da parte della Commissione Europea risale a novembre dello scorso anno e si basa sui risultati di studi su volontari sani e su quelli dell’analisi intermedia dello studio clinico RE-VERSE AD™. In questi studi, l’inattivazione dell’effetto anticoagulante di dabigatran realizzata da idarucizumab

Boehringer Ingelheim

Astellas

Enzalutamide anche in “pre-chemio”, nel Ca. prostatico avanzato

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onostante i progressi terapeutici, il carcinoma alla prostata in un’elevata percentuale di casi evolve verso forme resistenti alla terapia anti-androgenica e metastatizza. Per questa classe così particolare di pazienti le opzioni di terapia sono limitate. Lo scenario tuttavia sta cambiando grazie all’introduzione di trattamenti innovativi ed efficaci, tra cui rientra enzalutamide, una molecola che blocca in modo duraturo e persistente il recettore degli androgeni. Il farmaco era già utilizzato in Italia dopo fallimento del trattamento chemioterapico, e ora l’Agenzia del farmaco ne ha autorizzato l’indicazione in pre-chemioterapia ovvero nei pazienti con Ca. prostatico metastatico resistente alla terapia ormonale e non sottoposti a chemioterapia. Nello studio di fase 3 PREVAIL, condotto in pazienti non sottoposti a chemio, il trattamento con enzalutamide è stato in grado di ridurre la crescita delle cellule neoplastiche e di provocare la regressione del tumore. È stato evidenziato un miglioramento significativo della sopravvivenza globale come anche una diminuzione del 29,4 per cento del rischio di decesso. In parallelo all’efficacia, il farmaco ha mostrato un buon profilo di sicurezza.

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si è vista immediatamente, dopo pochi minuti dalla somministrazione di 5 grammi del farmaco. L’inattivazione è stata completa e si è mantenuta per almeno 12 ore, in quasi tutti i pazienti. Come precisato nel Riassunto delle caratteristiche di prodotto di idarucizumab, “nessuna reazione avversa è stata a oggi identificata, né alcun effetto protrombotico”. La sicurezza del farmaco è stata valutata in 224 soggetti sani unitamente a 123 pazienti dello studio in corso RE-VERSE AD™, che presentavano sanguinamento non controllato o che necessitavano di un intervento chirurgico o procedure di emergenza e che erano in terapia con dabigatran. La disponibilità di idarucizumab pertanto potrà offrire ai clinici maggiore sicurezza nella prescrizione e nell’impiego di dabigatran.

Fibrosi polmonare idiopatica nintedanib è rimborsabile

L

a fibrosi polmonare idiopatica (FPI) è una rara patologia, e come tale poco conosciuta e di difficile diagnosi. Nei pazienti affetti da FPI, la sopravvivenza a 3 anni è dell’ordine del 50 per cento, ben peggiore di alcuni tumori ritenuti “big killer”. Non si conosce la causa all’origine della patologia, ma si ritiene che sia indotta dalla risposta a lesioni ripetute dell’epitelio polmonare che inducono un’attività riparatrice anomala con eccessiva deposizione di tessuto connettivo. Fino a pochi anni fa non vi erano terapie per la FPI. Attualmente oltre a pirfenidone, disponibile da circa tre anni, vi è anche nintedanib. Non si tratta di terapie in grado di curare la malattia, ma di rallentarne l’evoluzione e aumentare così l’aspettativa di vita dei malati. Nintedanib è dispensato in regime di rimborsabilità anche nel nostro Paese, e negli studi registrativi ha mostrato di essere in grado di rallentare la progressione della FPI, riducendo del 50 per cento il declino della funzionalità polmonare. Inoltre, il trattamento correlava con una riduzione del 47 per cento del rischio di esacerbazioni, eventi acuti molto spesso fatali.


Meda Pharma

Errekappa

Gli aminoacidi essenziali, composti “dalle mille e una virtù”

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li aminoacidi (AA) essenziali, soprattutto i ramificati, non finiscono di stupire. Un lavoro sperimentale, coordinato da Enzo Nisoli, dell’Università degli Studi di Milano, dimostra come una particolare miscela arricchita in AA essenziali ramificati (leucina, isoleucina, valina) sia in grado di contrastare la miopatia in topi trattati con statine. La miopatia è uno degli effetti collaterali che più comunemente possono interessare gli utilizzatori di statine. Secondo molti studi, fino al 10 o addirittura al 20 per cento di chi utilizza questa categoria di farmaci può sviluppare una qualche forma di danno muscolare o miopatia. Tali condizioni si possono manifestare con dolori e crampi muscolari o affaticamento, anche se molte volte rimangono asintomatiche. Lo studio è stato condotto utilizzando una miscela che ha la stessa composizione di un integratore alimentare già disponibile in farmacia (Aminotrofic), e ha evidenziato che tale miscela evita le alterazioni strutturali e funzionali delle cellule muscolari negli animali trattati con rosuvastatina.

Nuova opzione di trattamento per la rinite allergica

L

a rinite allergica è tuttora classificata come uno dei disturbi cronici maggiormente diffusi al mondo. Secondo un’indagine GfK Eurisko condotta per Meda Pharma, sono oltre 6 milioni gli italiani che ne soffrono e, nonostante la maggioranza (64 per cento) ricorra all’impiego di farmaci, non riesce a raggiungere un buon controllo dei sintomi: quasi 8 pazienti su 10 considerano il disturbo come molto o estremamente fastidioso, e 1 su 2 lo reputa molto o estremamente serio. Gli antistaminici a volte associati a corticosteroidi intranasali rappresentano la terapia di scelta. Tuttavia spesso questo approccio non porta a risultati soddisfacenti, e i sintomi persistono. Oggi una valida alternativa terapeutica può essere offerta da un trattamento a base di azelastina e fluticasone propionato, contenuti in un innovativo spray nasale, che ha dimostrato di ridurre i sintomi della rinite allergica in modo rapido e completo. Un aiuto in più è anche offerto da una nuova App, Diario dell’allergia, che offre supporto sia al medico che al paziente nella gestione quotidiana dei sintomi. L’App è disponibile per iOS e Android, ed è scaricabile gratuitamente da App Store e Google Play.

Sigma-tau

Uno studio italiano conferma l’importanza dei PUFA n-3 nel post-infarto

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el lontano 1999, lo studio GISSI-Prevenzione aveva già posto l’attenzione sul ruolo protettivo dei PUFA n-3 (esteri etilici degli acidi grassi polinsaturi) nel paziente postinfartuato. E ora è sempre un lavoro italiano a rilanciarne l’importanza. Si tratta di uno studio in real life sui dati di oltre 11mila pazienti colpiti da sindrome coronarica acuta (SCA). Chi aveva assunto 1 g/die di PUFA n-3 in associazione alla terapia di riferimento (poco più di 2.400 soggetti) alla dimissione ospedaliera ha manifestato una significativa riduzione del rischio di re-infarto a un anno del 34,7 per cento, e del 24,5 per cento di decesso. Lo studio (Nodari S et al.) ha testato l’efficacia di PUFA n-3 con un contenuto in EPA e DHA non inferiore all’85 per cento (tra i prodotti testati Eskim®). Il trattamento che racchiude queste caratteristiche è rimborsato dal SSN sia per la cura dell’ipertrigliceridemia (Nota AIFA 13) che per la riduzione del rischio di mortalità nel post-infarto (Nota AIFA 94).

Giornata mondiale della tiroide

Un progetto di educazione e prevenzione nelle scuole

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a Giornata mondiale della tiroide che si è celebrata lo scorso 25 maggio, promossa in Italia da tutte le società scientifiche coinvolte e dall’Istituto superiore di sanità (Iss), con il contributo non condizionato di Ibsa, Bracco, Merck, Sanofi Genzyme, Esaote e Italkali, è stata l’occasione per promuovere nel nostro Paese un progetto destinato alle scuole per ricordare l’importanza della iodoprofilassi fin dalla tenera età. I dati dell’Iss mostrano che la percentuale di sale iodato venduto in Italia è ben al di sotto del target fissato dall’Oms, e servono pertanto azioni mirate. In tal senso è in corso la formalizzazione della proroga per il triennio 20162019 di un protocollo di intesa tra MIUR, Iss e società scientifiche, che riguarda il “Progetto iodoprofilassi per le scuole”. L’iniziativa è rivolta alle scuole primarie e secondarie di primo grado e ha lo scopo di formare gli insegnanti sul tema della prevenzione dei disturbi da carenza di iodio affinché loro stessi possano sensibilizzare ed educare gli studenti, che a loro volta potranno trasferire le informazioni ai familiari. Una sorta di reazione a catena che si auspica possa sortire in un aumento dell’utilizzo di sale iodato nella popolazione.

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