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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIII n. 3 - 2017

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Arteriopatia obliterante periferica il ruolo dell’ABI nella diagnosi Ipertensione un’analisi riapre il dibattito sui target nei pazienti ad alto rischio Tumore al pancreas un semplice esame del sangue per la diagnosi precoce? Congresso ADA le principali novità dal meeting statunitense

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

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> Domenico D’Amico

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anno XLIII - 2017 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi Piera Parpaglioni Cesare Peccarisi Redazione WEB Alessandro Visca Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

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Medico e paziente n. 3

in questo numero

sommario

Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIII n. 3 - 2017

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ARTERIOPATIA OBLITERANTE PERIFERICA il ruolo dell’ABI nella diagnosi IPERTENSIONE un’analisi riapre il dibattito sui target nei pazienti ad alto rischio TUMORE AL PANCREAS un semplice esame del sangue per la diagnosi precoce? CONGRESSO ADA le principali novità dal meeting statunitense

MP

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6 letti per voi

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Patologia aterosclerotica Arteriopatia degli arti inferiori Il ruolo dell’ankle-brachial index nella diagnosi

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it

Questa rassegna si propone di fornire un inquadramento “critico” dell’ABI come strumento diagnostico di screening dell’arteriopatia periferica obliterante e di chiarirne il ruolo come marker indipendente di rischio CV

Segreteria di redazione Concetta Accarrino

a cura di Luca Naldi, Margherita Bernetti, Francesca Baroni, Maria Boddi

Hanno collaborato a questo numero: Francesca Baroni, Margherita Bernetti, Maria Boddi, Maria Rosaria Fiore, Luca Naldi, Paola Queirolo, Enrica Teresa Tanda Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

p 14 Patologie tumorali

Melanoma in fase avanzata Paradigma di una nuova era dell’oncologia

Le terapie innovative stanno rivoluzionando la prognosi dei pazienti affetti da melanoma, aumentandone le prospettive di sopravvivenza. Un vero e proprio cambio di direzione che si sta registrando anche nella cura di altri tumori solidi a cura di Paola Queirolo, Enrica Teresa Tanda

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano. Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli

>>>>>>

sommario

p 20 Oncologia

L’adroterapia nel melanoma oculare Le prime esperienze cliniche del CNAO di Pavia

L’adroterapia è un trattamento altamente innovativo, da pochissimi mesi entrato a far parte dei LEA; dunque potrà essere erogato gratuitamente ai pazienti per i quali esiste l’indicazione. In questo articolo, l’Autrice presenta un caso clinico di melanoma oculare trattato mediante adroterapia, al centro CNAO di Pavia a cura di Maria Rosaria Fiore

p 24

congressi

First International Conference on Controversies in Vitamin D 14-16 giugno, Pisa

Un meeting internazionale traccia il futuro della ricerca sulla vitamina D

Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

Come abbonarsi a medico e paziente

MEDICO E PAZIENTE

Il rischio cardiovascolare all’attenzione dei diabetologi statunitensi

p 27

Abbonamento annuale ordinario Medico e paziente € 15,00 Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it Numeri arretrati € 10,00

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77° Meeting annuale American Diabetes Association 9-13 giugno, San Diego (USA)

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Farminforma

Modalità di pagamento 1 Bollettino di ccp n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni srl - via Dezza, 45 - 20144 Milano 2 Bonifico bancario: Beneficiario: M e P Edizioni IBAN: IT 70 V 05584 01604 000000023440 Specificare nella causale l’indirizzo a cui inviare la rivista


e n i l n o

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letti per voi Ipertensione

Un’analisi post hoc degli studi ONTARGET e TRANSCEND riapre il dibattito sugli obiettivi pressori ottimali in pazienti ad alto rischio £

L’efficacia di una terapia antipertensiva correttamente impostata, che mira a target pressori inferiori a 140/90 mmHg, ha un impatto positivo sulla morbilità e mortalità per cause cardiovascolari (CV): questo concetto è ampiamente consolidato, tanto che potremmo quasi definirlo “un assioma” della medicina. Su quali siano i livelli ottimali di pressione sistolica (PAS) e diastolica (PAD) in realtà però il dibattito è aperto, con linee guida che

nel corso di questi ultimi anni hanno fornito un’altalena di numeri. Un problema aperto riguarda per esempio i livelli ottimali di PA nei pazienti ad alto rischio: in sostanza la questione all’ordine del giorno sta nel fatto che non sempre target più bassi offrano vantaggi in termini di protezione CV in questa classe di soggetti. Ad aggiungere qualche informazione al riguardo, arrivano i risultati di un’analisi post hoc di due studi “portanti” ovvero ON-

TARGET e TRANSCEND, che sono apparsi sul Lancet. Il lavoro ha preso in esame pazienti con età ≥55 anni ad alto rischio CV per diabete complicato con danno d’organo, aterosclerosi, storia di ipertensione (circa il 70 per cento dei pazienti). Il follow up mediano è stato di 56 mesi. Ricordiamo che ONTARGET ha arruolato 25.127 pazienti che sono stati randomizzati all’ACE-inibitore ramipril 10 mg/die, a telmisartan 80 mg/ die, o alla combinazione dei due. Nel TRANSCEND 5.810 soggetti intolleranti all’ACE-inibitore sono stati randomizzati a trattamento con telmisartan 80 mg/die oppure placebo. Vediamo dunque che cosa emerge da questa analisi secondaria. I valori pressori al basale nello specifico PAS ≥140 mmHg

£ Nuove evidenze gettano ombre sulla sicurezza cardiovascolare (CV) dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS). Le indicazioni questa volta emergono Uno studio danese mette da uno studio danese che sottolinea come i farmaci da in guardia sul possibile rischio banco forse più comunemente utilizzati, i FANS appunto, tra impiego di FANS, soprattutto possono correlare con un aumentato rischio di arresto cardiaco. La sicurezza CV di questi farmaci è argomento ibuprofene e diclofenac, di discussione da tempo, tanto che se ne raccomanda un impiego pesato sulla base del profilo di rischio individuale e arresto cardiaco e nei casi in cui vi sia chiara indicazione al loro utilizzo. Dal Danish Cardiac Arrest Registry sono stati identificati tutti i pazienti che hanno subito un arresto cardiaco extraospedaliero tra il 2001 e il 2010; sono stati raccolti anche i dati sulle prescrizioni di FANS non selettivi (diclofenac, naprossene, ibuprofene) e di inibitori selettivi della COX-2 (rofecoxib, celecoxib). La correlazione tra impiego di FANS e arresto cardiaco è stata valutata con un disegno caso-controllo; per eliminare possibili fattori confondenti legati a comorbilità, ciascun paziente ha agito sia da caso che da controllo a seconda del periodo di tempo considerato: l’uso di FANS nei 30 giorni antecedenti l’arresto cardiaco (periodo del caso) è stato messo a confronto con l’uso in un diverso periodo di 30 giorni lontani dall’evento (periodo del controllo). Nel complesso, sono stati identificati quasi 29mila (28.947) soggetti con arresto cardiaco, di cui 3.376 sono stati trattati con un FANS per più di 30 giorni prima dell’episodio. I farmaci maggiormente impiegati erano ibuprofene e diclofenac, rispettivamente 51 e 22 per cento del totale. Dall’analisi dei dati è emerso che in caso d’impiego di diclofenac e ibuprofene il rischio è aumentato rispettivamente del 50 (OR 1,50, CI 95 per cento 1,23-1,82) e del 31 (OR 1,31 CI 95 1,14-1,51) per cento, mentre non è stata evidenziata una correlazione con l’uso di naprossene, celecoxib e rofecoxib, probabilmente, secondo gli Autori, a causa di un numero di eventi scarsamente rappresentativo. Un atteggiamento prudenziale dunque, dovrebbe essere d’obbligo, anche alla luce di queste nuove evidenze. Gli Autori raccomandano l’impiego di FANS sotto stretto controllo medico, considerando dosi giornaliere non superiori a 1.200 mg per ibuprofene o 500 mg per naprossene, mentre sconsigliano la somministrazione di diclofenac in pazienti cardiopatici o con fattori di rischio CV.

Epidemiologia

Sondergaard KB, Weeke P, Wissenberg M et al. Eur Heart J 2017; 3: 100-7. Doi: 10.1093/ehjcvp/pvw041

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correlavano con un aumentato rischio di tutti gli outcome considerati ovvero un composito di decesso per cause CV, infarto miocardico (IM), stroke e ospedalizzazione per scompenso cardiaco, rispetto a quanto riscontrato per valori nel range 120-140 mmHg. Per la PAD invece il trend è stato un po’ diverso: una PAD basale <70 mmHg comportava un maggiore rischio di eventi rispetto a valori >70 mmHg. In 4.052 pazienti con PAS ≤120 mmHg in terapia il rischio di outcome CV composito (HR aggiustato 1,14, CI 95 per cento 1,03-1,26), decesso per cause CV (aHR 1,29, 1,12-1,49) e mortalità per tutte le cause (aHR 1,28, 1,15-1,42) era maggiore rispetto a quanto rilevato per i soggetti in cui i valori oscillavano nel range 120-140 mmHg in terapia (HR =1 per tutti gli outcome, n =16.099). Nessun rischio o beneficio è stato osservato per IM, stroke e ospedalizzazione per scompenso. E ancora, i valori medi di PAS che si ottenevano con la terapia avevano un significato predittivo maggiore e più accurato rispetto ai valori al basale e rispetto ai valori riscontrati durante i controlli nel follow up; il maggiore effetto protettivo si aveva per PAS nell’ordine di 130 mmHg, mentre nel range 110-120 mmHg il rischio appariva aumentato per il composito, il decesso per cause CV e globali, a eccezione dell’ictus. Per quanto riguarda la diastolica, per valori <70 mmHg ottenuti con la terapia (5.352 pz.) si osservava un rischio aumentato dell’outcome composito (HR 1,31, CI 95 1,20-1,42), di IM (HR 1,55, 1,33-1,80), di ricovero per scompenso cardiaco (HR 1,59, 1,36-1,86) e mortalità per tutte le cause (HR 1,16, 1,06-1,28) rispetto a quanto riscontrato per valori di PAD che rientravano nel range 70-80 mmHg. In questo caso, il target di circa 75 mmHg pre e durante il trattamento offriva maggiori benefici. In sintesi dunque, possiamo dire che il target di PAS <120 mmHg correla con un aumentato rischio di eventi cardiovascolari, eccetto infarto miocardico e stroke. Un trend analogo emerge per la PAD <70 mmHg, ma in aggiunta vi

è anche l’aumento del rischio di IM e ricovero per scompenso cardiaco. Ma a questo punto quali possono essere i risvolti pratici dei risultati ottenuti? Nelle conclusioni, gli Autori sottolineano che, il raggiungimento di una pressione sistolica inferiore a 130 mmHg, ma non inferiore a 120 mmHg, dovrebbe essere sicuro per la maggior parte dei pazienti ad alto rischio e dunque sarebbe il target da perseguire. Potrebbe quindi

essere necessario ridurre il dosaggio del farmaco antipertensivo nei pazienti in trattamento qualora presentino una pressione troppo abbassata al fine di evitare esiti avversi, “perché trattare fino al raggiungimento dell’obiettivo non significa trattare fino ad arrivare sotto il target”. Böhm M, Schumacher H, Teo KK et al. The Lancet 2017; 389 (10085): 2226-37.

Ricerca

Un semplice esame del sangue apre nuove prospettive nella diagnosi precoce del tumore al pancreas £ Il tumore al pancreas è una neoplasia subdola. Non esistono segni precoci specifici, quanto piuttosto un corteo sintomatologico ampio e vago che porta a un ritardo nella diagnosi: la malattia viene identificata in uno stadio avanzato, quando è già diffusa agli organi contigui o ai dotti biliari, per il quale le opzioni di trattamento sono limitate e la prognosi è spesso infausta. Tra gli esami ematici, il gold standard attuale per la diagnosi è la determinazione dei valori sierici della proteina CA 19-9: un innalzamento solitamente correla con una diagnosi positiva di tumore; tuttavia la specificità e la sensibilità di questo marker non sono sufficientemente elevate da garantire un miglioramento della sopravvivenza del paziente. La ricerca è impegnata da tempo nell’individuazione di marcatori precoci e affidabili della malattia, e in questo ambito è interessante segnalare i risultati di un lavoro sperimentale, condotto da un team di ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston che ha messo a punto un test facile, veloce da eseguire, e indolore per il paziente, dal momento che per eseguirlo basta un prelievo di sangue venoso. Gli Autori hanno analizzato attraverso metodiche di biologia

molecolare, le vescicole extracellulari circolanti in 100 popolazioni cliniche, estrapolando così le “informazioni” contenute in esse. Si è potuto identificare un gruppo di 5 marcatori proteici specifici per adenocarcinoma duttale al pancreas, che rappresentano una sorta di “passaporto” del tumore. La sensibilità del nuovo test nel diagnosticare un adenocarcinoma duttale pancreatico è risultata dell’86 per cento e la specificità dell’81 per cento. Si tratta di risultati molto incoraggianti, anche in considerazione del fatto che uno dei marcatori più affidabili oggi disponibili (il GPC1) ha una sensibilità dell’82 per cento e una specificità del 52. Nella coorte prospettica, l’accuratezza della “signature” a 5 marcatori è stata dell’84 per cento, ma nello screening a singolo marcatore è scesa a valori compresi tra 63 e 72 per cento. Si tratta di risultati preliminari, ma che certamente meriterebbero un approfondimento, dato che il tumore pancreatico in circa l’80 per cento dei casi viene diagnosticato già in fase inoperabile, e i marker a oggi disponibili offrono un’accuratezza subottimale. Yang KS, Im H, Hong S et al. Sci Transl Med 2017; May 24; 9 (391). Doi: 10.1126/scitranslmed.aal3226

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Patologia aterosclerotica

Arteriopatia degli arti inferiori Il ruolo dell’ankle-brachial index nella diagnosi Nell’inquadramento clinico-diagnostico dell’arteriopatia obliterante periferica (AOP), l’indice caviglia-braccio (ankle-brachial index, ABI), ottenuto dal rapporto fra pressione arteriosa misurata alla caviglia e omerale, è la metodica di riferimento: <0,9 è il valore cut-off per la diagnosi di AOP e ≤0,4 quello per la diagnosi di ischemia critica acuta e cronica. Negli ultimi anni l’ABI è stato proposto come marker indipendente di rischio cardiovascolare (CV) che in prevenzione primaria e secondaria permetterebbe una migliore valutazione del rischio CV quando aggiunto agli score tradizionali quali il Framingham: un ABI <0,9 o ≥1,4 anche asintomatico selezionerebbe pazienti a rischio CV più elevato. Si è però osservato che la riclassificazione del rischio CV ottenuta inserendo nel calcolo l’ABI non sempre modifica il livello di rischio e, se sì, il potenziamento della terapia non si è tradotto in una riduzione degli eventi CV; gli effetti collaterali di una terapia più aggressiva sono risultati superiori ai vantaggi ottenuti dal miglior controllo del rischio CV. Questa rassegna si propone di fornire un inquadramento “critico” dell’ABI come strumento diagnostico di screening dell’AOP e di chiarire il ruolo dell’ABI come marker indipendente di rischio CV e in particolare coronarico A cura di

Luca Naldi, Margherita Bernetti, Francesca Baroni, Maria Boddi Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università degli Studi di Firenze

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L’

arteriopatia obliterante periferica (AOP o PAD, acronimo dell’espressione anglosassone peripheral arterial disease) è la localizzazione della malattia aterosclerotica alle arterie degli arti inferiori e all’asse iliaco; sul piano clinico è caratterizzata da una progressiva riduzione dell’autonomia di marcia (ovvero della distanza da percorrere prima dell’insorgenza del dolore) fino alla comparsa di dolore ischemico a riposo. Il peggioramento clinico dell’AOP si associa al deterioramento della qualità di vita e all’aumento del rischio di eventi ischemici cardiovascolari (CV) e di morte. In media nei pazienti sintomatici la mortalità associata ad AOP è del 2530 per cento a 5 anni dalla diagnosi. I dati sulla prevalenza e l’incidenza dell’AOP sono ancora oggi incompleti in quanto la diagnosi è fatta solo nel 50 per cento dei pazienti realmente affetti poiché: a) sono asintomatici, b) presentano sintomi atipici, c) l’AOP non è rilevata da controlli medici limitati alla ricerca di una storia di claudicatio intermittens, o da un esame obiettivo con sola palpazione dei polsi periferici. La prevalenza dell’AOP può essere calcolata in base al marker clinico ovvero la claudicatio o al marker strumentale, l’indice caviglia-braccio che è ottenuto dal rapporto fra pressione arteriosa sistolica alla caviglia e al braccio, ed è utilizzato come marker surrogato di AOP: un ABI compreso fra 0,9 e 1,3 è considerato normale, mentre un ABI <0,9 è patologico e seleziona i soggetti con diagnosi di AOP (1). La prevalenza di AOP che emerge dagli studi è variabile e dipende non solo dall’età della


popolazione arruolata, ma anche dalle sue caratteristiche in termini di fattori di rischio e di manifestazioni cliniche dell’aterosclerosi. Dai dati forniti dal National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) raccolti nel periodo 1999-2004, il 5,9 per cento della popolazione degli Stati Uniti di età >40 anni ha un ABI <0,9 e, se si escludono i soggetti con patologia coronarica o cerebrovascolare nota, la percentuale scende solo al 4,7 per cento (2). La prevalenza cresce con l’età, tanto che solo l’1,9 per cento dei soggetti di età compresa fra 40 e 59 anni ha un ABI <0,9, mentre la prevalenza di ABI patologico sale al 17 per cento per quelli di età >75 anni. I dati europei sono del tutto sovrapponibili (3). In questi ultimi anni l’attenzione del mondo medico alla diagnosi di AOP è andata crescendo, non solo per la limitazione funzionale e la marcata riduzione della qualità di vita che caratterizzano gli stadi clinici più avanzati di AOP, ma anche per i dati di studi epidemiologici che dimostrano come l’AOP selezioni soggetti a più elevato rischio CV, indipendentemente dai fattori di rischio tradizionali e dalla presenza di sintomatologia. Un ABI <0,9 svela la presenza di AOP in soggetti ancora asintomatici, ne definisce la gravità e può essere marker del carico aterosclerotico sistemico così come lo spessore medio-intimale carotideo (intima-media thickness, IMT) e il calcio coronarico. DEFINIZIONE E METODOLOGIA DI MISURAZIONE DELL’ABI L’ABI viene calcolato come rapporto tra la pressione arteriosa sistolica misurata con metodo ultrasonografico all’arteria tibiale posteriore (o a livello dell’arteria pedidia) di ciascun arto e la pressione arteriosa sistolica misurata bilateralmente a livello omerale; per il calcolo viene utilizzato il valore pressorio più elevato ottenuto in ogni sede (4) (Figura 1). La metodica più semplice per la determinazione della pressione prevede l’uso di una sonda

Figura 1

Calcolo e interpretazione dei valori dell’ABI ABI destro =

PA tibiale o pedidea arto destro PA più alta arti superiori

PA tibiale o pedidea arto sinistro ABI sinistro = PA più alta arti superiori

PA arto dx

PA tibiale dx PA pedidea dx

Interpretazione ABI: >1,4 incomprimibile 0,9-1,3 nella norma 0,90-1,0 borderline 0,8-0,5 AOP lieve-moderata <0,4 AOP severa

PA arto sx

PA tibiale sx PA pedidea sx

Note: AOP, arteriopatia obliterante periferica; PA, pressione arteriosa

lineare a 8-10 MHz per la registrazione del Doppler a onda continua che è posizionata sull’arteria pedidia sul dorso piede, sull’arteria tibiale posteriore in zona malleolare interna e sulle arterie omerali alla piega del gomito (Figura 2). La sonda deve essere inclinata di 45-60° rispetto al piano cutaneo per ottimizzare la registrazione del flusso arterioso e non deve comprimere l’arteria. Il bracciale dello sfigmomanometro sarà posizionato alla caviglia almeno due cm al di sopra del malleolo mediale e all’avambraccio, come viene fatto comunemente per la misurazione della pressione arteriosa. Il manicotto deve essere progressivamente gonfiato fino a un valore pressorio di 20-30 mmHg sopra il valore sistolico del soggetto, determinando la scomparsa del segnale arterioso che ricomparirà come segnale sonoro o come onda di flusso sul tracciato Doppler non appena il valore pressorio eguaglierà quello sistolico del soggetto. Si sconsiglia di gon-

fiare il manicotto oltre 200 mmHg. La combinazione dello studio Doppler con l’esame eco-tomografico consente di visualizzare il lume del vaso arterioso e di ottimizzare il posizionamento del volume campione per la misurazione del flusso Doppler per aumentare la sensibilità e la specificità delle misurazioni ottenute rispetto alla valutazione con sonde Doppler a onda continua. A COSA SERVE L’ABI: diagnosi e follow up dell’AOP e stratificazione CV Il valore soglia dell’indice caviglia-braccio Il cut-off ottimale per la diagnosi di AOP corrisponde al valore di ABI <0,9, che ha dimostrato una sensibilità e una specificità >90 per cento per la diagnosi di AOP quando confrontato con i risultati dell’indagine angiografica. Tuttavia, il valore soglia di ABI <0,9 non deve essere considerato lo

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Patologia aterosclerotica Figura 2

Misurazione dell’ABI

Fonte: Tendera M et al., 2011 (26)

spartiacque assoluto per la diagnosi o l’esclusione di AOP, in quanto la presenza di circoli collaterali o l’aumentata rigidità della parete arteriosa possono determinare un ABI >0,9 pur in presenza di arteriopatia. Utilizzando un ABI ≤1,00 come valore soglia per il rilevamento di AOP è stata riportata una sensibilità di circa il 100 per cento a scapito di una riduzione della specificità. I valori compresi tra 0,91 e 1,00 dovrebbero essere considerati

Dal punto di vista clinico, l’AOP si caratterizza da una progressiva riduzione dell’autonomia di marcia fino alla comparsa di dolore ischemico a riposo. L’evoluzione e il peggioramento clinico dell’AOP correlano con un progressivo deterioramento della qualità di vita e un aumento del rischio cardiovascolare borderline e valutati individualmente in base alla clinica e ai fattori di rischio. In presenza di ABI >0,9, ma forte sospetto di AOP si può infatti ricorrere a ulteriori metodiche d’indagine come la misurazione dell’ABI post-esercizio, che presenta una maggiore sensibilità nell’identificare la presenza di AOP. Nei pazienti con AOP, durante l’esercizio la pressione tibiale diminuirà di

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>30 mmHg con una riduzione percentuale dell’ABI di circa il 20 per cento (5 per cento è la diminuzione fisiologica); inoltre il ritorno al valore di ABI pre-esercizio sarà in un tempo sempre >3 min, di durata maggiore con l’aggravarsi dell’AOP (5). Inoltre, l’irrigidimento-calcificazione delle pareti arteriose, in corso di diabete mellito, insufficienza renale cronica o medio-calcinosi, può determinare un valore paradossalmente elevato di ABI (>1,3) in quanto rende incomprimibili le arterie tibiali. Nel paziente diabetico, la misurazione dell’ABI va integrata con test non invasivi di imaging come l’eco-color Doppler che permette di identificare stenosi focali lungo l’asse arterioso degli arti inferiori e/o con la misurazione dell’indice alluce-braccio (toe-brachial index, TBI). Il TBI è la misurazione della pressione arteriosa sistolica all’alluce che valuta il distretto arterioso più distale dove il processo di riduzione della compliance aterosclerosi-correlato avviene raramente. La pressione arteriosa sistolica all’alluce è ≤30 mmHg a quella rilevabile alla caviglia e il valore fisiologico del TBI è ≥0,70. La percentuale di incidenza di AOP in soggetti con ABI >1,3 integrato con i dati ottenuti con il TBI e l’eco-color Doppler è fra il 60 e l’80 per cento (6, 7). L’ABI nel follow up Nell’ambito del follow up dell’AOP è necessario monitorare nel tempo l’ABI per ogni singolo arto: infatti la riduzio-

ne del valore dell’ABI risulta correlata con la progressione dell’arteriopatia (7, 8). In particolare, la riduzione dell’ABI >0,15 in circa 2,5 anni è associata al rischio di 2,5 volte maggiore di rivascolarizzazione mediante bypass (9). Tuttavia il rischio di amputazione di un arto è correlato non con il valore dell’ABI, ma con la pressione arteriosa misurata alla caviglia, in quanto il rischio di amputazione è elevato per valori di PAS alla caviglia <50 mmHg (10). Inoltre, il follow up dei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione per AOP non può essere eseguito con la sola misurazione dell’ABI, che valuta la perfusione globale dell’arto senza identificare la possibilità di stenosi o occlusione di uno stent o di un bypass. SCREENING DELL’AOP IN MEDICINA GENERALE L’ABI ha il vantaggio di essere uno degli indicatori di aterosclerosi meno costosi e può essere facilmente rilevato in regime ambulatoriale sul territorio (11), anche dal Medico di Medicina generale (12). Tuttavia la misurazione dell’ABI non è ancora entrata a far parte dei test utilizzati di routine e pertanto è necessario implementare la diffusione della corretta tecnica di esecuzione e favorire la conoscenza dell’associazione tra ABI e rischio CV. Principali difficoltà nell’impiego dell’ABI nella Medicina di base sono la disponibilità di personale adeguatamente istruito e il tempo necessario per la misurazione (risultato comunque inferiore ai 15 minuti). L’adozione dell’ABI come metodo di screening sul territorio potrebbe essere favorita da adeguati programmi di training che utilizzino una metodologia di misurazione standardizzata per ottimizzare l’accuratezza e la riproducibilità dell’ABI anche nell’ambito della Medicina generale (13, 14). A tale scopo è stata anche proposta l’introduzione per la misura-


Tabella 1. Soggetti

da sottoporre al calcolo ABI

Soggetti a rischio di AOP e da sottoporre ad ABI secondo ACC/AHA 2011 (uno o più dei seguenti criteri):

1. Sintomatologia dolorosa da sforzo degli arti inferiori tipo claudicatio 2. Ulcere di difficile guarigione 3. Età ≥65 anni 4. Età ≥50 anni in soggetto fumatore o con diabete mellito Fonte: Rooke TW et al., 2011 (18)

zione dell’ABI di moderni dispositivi automatici digitali che impiegano la pletismografia e sono di semplice e rapido utilizzo, per facilitare lo screening dell’AOP nella popolazione generale asintomatica >65 anni (15). Tuttavia, al fine di valutare l’accuratezza di tali nuovi dispositivi per la valutazione dell’ABI in popolazioni ad alto rischio, come per esempio i pazienti diabetici, sono necessari ulteriori studi. In tali pazienti infatti la metodica standard di misurazione rimane per il momento quella più affidabile. PREVENZIONE PRIMARIA: ABI <0,9 come marker di rischio CV oltre il Framingham risk score Per la stima in prevenzione primaria del rischio CV globale il Framingham risk score è considerato da tempo lo score di riferimento (16). Oggi, l’algoritmo proposto dall’Adult Treatment Panel (ATP) del National Cholesterol Education Program è il sistema di scoring più utilizzato negli Stati Uniti; a seconda della presenza dei classici fattori di rischio dello score di Framingham (sesso, età, colesterolo totale, colesterolo HDL, abitudine al fumo e pressione arteriosa sistolica) stratifica i soggetti in tre categorie di rischio (basso, intermedio e alto) in base alla probabilità di sviluppare eventi CV nei 10 anni successivi: <10 per cento nei soggetti a basso rischio e >20 per cento nei soggetti a rischio elevato. L’appartenenza a una classe di rischio determina l’intensità della prevenzione secondo il

concetto che più elevato è il rischio, più rigido deve essere il controllo dei fattori di rischio. È stato tuttavia rilevato che lo score di Framingham può sovrastimare il rischio CV nelle popolazioni a basso rischio e sottostimarlo nelle popolazioni ad alto rischio. Pertanto, per perfezionare la valutazione del rischio CV globale, si è resa necessaria l’identificazione di altri predittori, tra i quali l’ABI che, da metodo di diagnosi non invasiva di AOP, è andato acquisendo

il ruolo di marker precoce di danno aterosclerotico globale (11, 17). Il peso dell’ABI come predittore indipendente di rischio CV nella popolazione generale è sostenuto da studi di coorte che hanno dimostrato come un ABI <0,9 sia associato all’incremento del rischio di infarto miocardico, di ictus e di mortalità globale e specifica per eventi CV, e che tale associazione era indipendente dalla presenza di sintomi e degli altri fattori di rischio CV (14). I database epidemiologici incentivano l’uso dell’ABI nella pratica clinica proponendolo come un vero e proprio test di routine da eseguire in tutti i pazienti a rischio, per la prima volta identificati dalle linee guida ACC/AHA del 2005. Nel 2011 le indicazioni per lo screening dell’AOP riportate nelle linee guida ACC/AHA del 2005 sono state modificate abbassando l’età della popolazione in cui eseguire lo screening per l’ABI, ai pazienti di 65 anni e non più 70 anni (18) (Tabella 1). L’ABI Collaboration in base a un’ampia

Figura 3

Hazard ratio di mortalità globale per uomini e donne (non aggiustati per età o fattore di rischio CV) in base al valore di ABI

Fonte: Fowkes FG et al., 2008 (11)

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Patologia aterosclerotica metanalisi ha dimostrato che, indipendentemente dallo score di Framingham e dal sesso, un ABI <0,9 è associato all’aumento della mortalità CV e globale e di incidenza di eventi coronarici maggiori nei 10 anni successivi allo scoring; tale significatività è evidente già per valori di ABI <1,10 (Figura 3) (11). Dai dati attualmente disponibili e tenuto conto che una variazione della classificazione del rischio ha rilievo clinico solo se modifica le decisioni terapeutiche, sembra di poter affermare che l’aggiunta dell’ABI allo scoring del rischio CV secondo Framingham trova utilità clinica nei soggetti >65 anni e con più elevata frequenza di eventi cardio- o cerebrovascolari; sono inoltre, i soggetti che nelle carte del rischio hanno un punteggio “soglia” fra due classi, quelli che più si avvantaggiano dell’introduzione dell’ABI.

L’arteriopatia obliterante degli arti inferiori rappresenta un fattore prognostico negativo sia in termini di morbilità che di mortalità dopo un ictus; è inoltre, predittore indipendente di scarso recupero funzionale: un valore di ABI <0,9 correla non solo con il rischio di ictus, ma anche di recidiva di eventi cerebrovascolari Nei soggetti a rischio intermedio un ABI normale può portarli in una classe a rischio più basso nella quale può essere sufficiente la variazione dello stile di vita, mentre un ABI <0,9 può spostarli in una classe di rischio più elevato determinando l’inizio o il potenziamento della terapia farmacologica. Esistono ancora posizioni contrastanti sulla reale ricaduta clinica in prevenzione primaria CV della misurazione dell’ABI come metodo di screening. In

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base alle considerazioni che la maggior parte dei pazienti con AOP è asintomatica, che l’ABI è un potente predittore indipendente di eventi CV ischemici e che è un metodo di screening poco costoso con elevata sensibilità e specificità, alcuni Autori propongono di estendere la misurazione dell’ABI non solo ai soggetti con dolore da sforzo degli arti inferiori o ulcere resistenti al trattamento, ai soggetti di età ≥50 anni con storia di diabete mellito o tabagismo o di età ≥65 anni come suggerito dalle linee guida ACC/AHA 2011, ma anche a tutti i pazienti con un rischio CV a 10 anni intermedio (stimato tra il 10 e il 20 per cento) secondo lo score Framingham. Con l’obiettivo di estendere all’AOP asintomatica, rilevata dalla misurazione dell’ABI, i vantaggi in termini di riduzione di eventi CV (infarto miocardico, ictus e morte) ottenuti con la terapia medica, in modo particolare le statine e la terapia chirurgica nell’AOP sintomatica, viene suggerito l’utilizzo dell’ABI come metodo di prevenzione da adottare di routine nella pratica clinica anche nell’ambito della Medicina generale (19). Secondo questa visione clinica, la diagnosi precoce di aterosclerosi subclinica offre un’opportunità unica di mettere tempestivamente in atto le necessarie misure di prevenzione. Al contrario le raccomandazioni della US Preventive Services Task Force (USPSTF) aggiornate nel 2013 sostengono che negli individui asintomatici (senza AOP, storia di patologia CV, diabete mellito o insufficienza renale cronica) non esistono evidenze sufficienti dei vantaggi clinici ottenibili con lo screening dell’AOP asintomatica tramite l’ABI. Se infatti l’aggiunta dell’ABI allo score di Framingham può riclassificare il rischio CV individuale, non sono disponibili dati sulla reale efficacia dei possibili interventi terapeutici di riduzione del rischio CV in soggetti in prevenzione primaria, non diabetici (20). In accordo con tale impostazione non è corretto trasferire tout court le evidenze ottenute nei pazienti con AOP sintomatica a soggetti con AOP asintomatica.

PREVENZIONE CV SECONDARIA: valori di ABI <0,9 I pazienti con patologia CV nota e ABI <0,9 presentano un rischio CV maggiore rispetto ai pazienti con patologia CV e ABI ≥0,9 (21, 22). Una forte correlazione tra ABI ridotto e prevalenza di eventi coronarici acuti e cerebrovascolari è stata dimostrata in molti studi di coorte basati su popolazioni di individui con patologia CV. Nella valutazione del rischio CV, l’AOP si associa a un rischio equivalente a quello determinato dalla patologia coronarica indipendentemente dalla presenza di sintomi, ma il paziente con AOP non associata alla diagnosi di coronaropatia ha una probabilità inferiore di ricevere prescrizioni per terapia combinata con statina, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina o terapia antiaggregante rispetto a un paziente con diagnosi di AOP e malattia coronarica (23). Nei pazienti con malattia coronarica anche asintomatici per AOP, la determinazione dell’ABI identifica un sottogruppo con coronaropatia più severa che necessita di una prevenzione secondaria più aggressiva. Inoltre, nel paziente coronaropatico individuare precocemente l’AOP anche fino a quel momento asintomatica è di particolare rilievo, in quanto può limitare l’attività fisica e la possibilità di eseguire un’adeguata riabilitazione necessaria dopo ogni evento cardiaco e/o intervento coronarico. L’AOP rappresenta un fattore prognostico negativo in termini di morbilità e mortalità dopo un ictus ed è predittore indipendente di scarso recupero funzionale: un ABI <0,9 correla con il rischio non solo di ictus, ma anche di recidiva di eventi cerebrovascolari (24). PREVENZIONE CV: valori di ABI ≥1,4 Alcuni studi hanno valutato l’associazione fra ABI ≥1,4, espressione dell’aumentata rigidità della parete vascolare quale si osserva in pazienti diabetici e con insufficienza renale cronica, pre-


senza di fattori di rischio CV e prevalenza delle patologie CV. In prevenzione primaria un ABI ≥1,4 è associato a un’aumentata incidenza di eventi CV indipendentemente dai fattori di rischio CV classici in tutte le etnie. In prevenzione secondaria un ABI ≥1,4 aumenta in modo indipendente il rischio CV solamente con flussi arteriosi patologici alla valutazione Doppler, come è stato descritto nei pazienti diabetici (25). BIBLIOGRAFIA 1. Lin JS, Olson CM, Johnson ES, Whitlock EP. The ankle-brachial index for peripheral artery disease screening and cardiovascular disease prediction among asymptomatic adults: a systematic evidence review for the US Preventive Services Task Force. Ann Intern Med 2013; 159: 333-341. 2. Pande RL, Perlstein TS, Beckman JA, Creager MA. Secondary prevention and mortality in peripheral artery disease: National Health and Nutrition Examination Study, 1999 to 2004. Circulation 2011; 124: 17-23. 3. Hirsch AT, Criqui MH, Treat-Jacobson D et al. Peripheral arterial disease detection, awareness, and treatment in primary care. JAMA 2001; 286: 1317-1324. 4. Bonham PA, Kelechi T, Mueller M, Robison J. Are toe pressures measured by a portable photoplethysmograph equivalent to standard laboratory tests? J Wound Ostomy Continence Nurs 2010; 37: 475-486. 5. Ouriel K, McDonnell AE, Metz CE, Zarins CK. Critical evaluation of stress testing in the diagnosis of peripheral arterial disease. Surgery 1982; 91: 686-693. 6. Suominem V, Rantanen T, Venermo M, Saarinen J, Salenius J. Prevalence and risk factors of PAD among patients with elevated ABI. Eur J Vasc Endovasc Surg 2008; 35: 709-714. 7. Aboyans V, Ho E, Denenberg JO, Ho LA, Natarajan L, Criqui MH. The association between elevated ankle systolic pressures and peripheral occlusive arterial disease in diabetic and nondiabetic subjects. J Vasc Surg 2008; 48: 1197-1203. 8. Nicoloff AD, Taylor LM Jr, Sexton GJ,

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Patologie tumorali

Melanoma in fase avanzata Paradigma di una nuova era dell’oncologia le terapie innovative stanno rivoluzionando la prognosi dei pazienti affetti da melanoma, aumentandone le prospettive di sopravvivenza. Un vero e proprio cambio di direzione che si sta registrando anche nella cura di altri tumori solidi A cura di Paola Queirolo,

Enrica Teresa Tanda Ospedale Policlinico San Martino, Genova

T

ra tutte le diagnosi oncologiche, nessuna più del melanoma ha subito un cambiamento tanto radicale. Fino a pochi anni fa considerata una tra le forme tumorali più aggressive, per la quale le terapie disponibili non fornivano che un minimo beneficio, è oggi una patologia con una storia nuova, per la quale abbiamo a disposizione nuovi farmaci estremamente sofisticati. Rarissimo prima della pubertà, il melanoma colpisce prevalentemente giovani adulti tra i 30 e i 60 anni, e occupa il secondo posto per frequenza nella fascia di età tra 0 e 39 anni (1). Alcuni melanomi insorgono in soggetti predisposti geneticamente, mentre altri sembrano essere determinati principalmente da cause esogene. Nel primo caso, possiamo considerare lo sviluppo del melanoma come evento preponderante (secondario a difetti nei geni CDKN2A, CDK4, BAP1, MITF e POT1) o secondario rispetto ad altre condizioni morbose, all’interno di sindromi genetiche (2). Nel secondo caso, il melanoma sembra essere la conseguenza della conver-

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genza di numerosi fattori di rischio. Tra questi, i principali sono il numero di nevi comuni e atipici e il fototipo chiaro (I e II), il pattern di esposizione alle radiazioni solari (acuta vs cronica, il periodo della vita in cui è avvenuta l’esposizione, l’uso di fotoprotezione) e l’uso di lettini abbronzanti (3). In letteratura inoltre, si stanno accumulando dati relativi a una potenziale correlazione con l’esposizione a derivati del petrolio e benzene (4, 5). Considerato fino a pochi anni fa una neoplasia rara, oggi il numero delle nuove diagnosi è in crescita costante in tutto il mondo, con un ritmo elevatissimo, pari a circa il 30 per cento negli ultimi 10 anni (6), superiore rispetto alla maggior parte dei tumori solidi. Le stime per l’Italia indicano circa 7-10.000 nuovi casi ogni anno, ma si tratta di una sottostima dovuta alla mancata registrazione sui registri AIRTUM di molti casi di tumori in situ. La classificazione in base al profilo molecolare Nonostante la forma cutanea sia la più comune e nota, il melanoma può presentarsi a carico delle mucose e di strutture peculiari quali la coroide. Queste tre entità differiscono le une dalle altre in termini di caratteristiche biomole-

colari, di storia naturale, di capacità di risposta alle terapie mediche. I melanomi cutanei possono insorgere su aree non cronicamente (es. tronco) o cronicamente (es. cuoio capelluto) fotoesposte. Nel primo caso, presenta la mutazione di BRAF nel 50 – 55 per cento e colpisce per lo più soggetti giovani; nel secondo privilegia soggetti più anziani, presenta un tasso di mutazione di BRAF inferiore (20 – 25 per cento) e di NRAS superiore (15 – 20 per cento), in associazione a precancerosi e carcinomi cutanei. La variante desmoplastica insorge su cute cronicamente fotoesposta, preferenzialmente a livello della regione testa-collo, geneticamente risulta associata a un elevato carico mutazionale, con un profilo di mutazioni UV correlate. Il melanoma acrale infine, mostra caratteristiche genetico molecolari peculiari, in parte simili a quelle dei melanomi mucosali, con una maggiore frequenza di mutazioni di cKit e di NRAS. Il melanoma mucosale può insorgere potenzialmente su tutte le mucose, il tasso di mutazione (e amplificazione) di c-KIT raggiunge il 40 per cento, quello di NRAS il 20 per cento, mentre sono meno frequenti le mutazioni in BRAF. Infine, il melanoma uveale è caratterizzato dalla presenza di mutazioni mutuamente esclusive di GNAQ e GNA11


nell’85 per cento dei casi (7). In conclusione, i melanomi, in un primo momento classificati in relazione alla sede di insorgenza e ulteriormente suddivisi sulla base delle caratteristiche istopatologiche, a oggi vengono tendenzialmente classificati all’interno di uno schema funzionale, basato su un profilo molecolare che abbia un significato terapeutico e prognostico. Possiamo dunque distinguere: y Melanomi mutati in BRAF y Melanomi mutati in RAS y Melanomi mutati in NF1 y Melanomi triple negative (triple wild type) (8). Un nuovo scenario terapeutico Meno di 5 anni fa, la sopravvivenza dei pazienti con diagnosi di melanoma metastatico si aggirava attorno ai 6 mesi, con solo il 25,5 per cento di pazienti vivi a 1 anno a prescindere dal trattamento proposto (9). A oggi le cose sono radicalmente cambiate e farmaci tristemente conosciuti più per i pesanti effetti collaterali che per il reale beneficio clinico, stanno venendo progressivamente abbandonati in favore di nuove terapie più moderne, tollerabili ed efficaci. Già con ipilimumab, anticorpo monoclonale IgG1 diretto contro il CTLA-4 e primo immunoterapico a essere approvato per il trattamento del melanoma metastatico, avevamo ottenuto un aumento della sopravvivenza globale a 3 anni, quantificabile nel 20 per cento dei pazienti trattati. Questo sorprendente risultato è stato poi confermato con un’osservazione a più lungo termine: 20 per cento di pazienti vivi a 10 anni (10). Nonostante sembrasse difficile immaginarlo alla luce di questi risultati che per primi ci hanno permesso di cambiare l’approccio stesso alla terapia oncologica, ipilimumab è stato superato, per efficacia e sicurezza, da nuovi immunoterapici e nuovi farmaci target. Gli anti PD-1 appartengono alla classe degli immunoterapici. Sono anticorpi

Melanoma cutaneo monoclonali rivolti contro il programmed death receptor, espresso sulla superficie linfocitaria; sono molecole antagoniste e competitive rispetto ai ligandi naturali, e il loro legame al recettore induce la ripresa di una risposta immunitaria da parte delle cellule linfocitarie divenute non responsive alle cellule tumorali. Queste molecole, nivolumab (11, 12) e pembrolizumab (13, 14), hanno ricevuto l’approvazione per il trattamento del melanoma metastatico a prescindere dalla presenza di mutazione BRAF, in ragione dei risultati ottenuti durante studi registrativi, con ulteriore aumento del tasso di sopravvivenza a 5 anni che dal 20 per cento, raggiunto con ipilimumab, è passato al 35 – 40 per cento. Ancora più recentemente, in ragione degli interessanti risultati emersi dalle sperimentazioni con nivolumab e ipilimumab, che hanno mostrato un ulteriore aumento in termini di ORR (objective response rate) e PFS (progression-free survival), la combinazione di questi due immunoterapici è stata approvata dalla FDA e dall’EMA (15) a dispetto del grado maggiore di tossicità severa della combinazione rispetto alla monoterapia. I farmaci target sono molecole che riconoscono e legano specificamente un target molecolare, interferendo con una o più vie metaboliche necessarie per la sopravvivenza della cellula tumorale. I primi inibitori di BRAF, vemurafenib

(16) e dabrafenib (17), sono stati approvati dalla FDA e dall’EMA per il trattamento del melanoma metastatico BRAF mutato, alla luce delle risposte rapide e importanti ottenute durante gli studi registrativi. Il limite maggiore alla terapia target così formulata restava la rapida comparsa di resistenza: la migliore comprensione di questi meccanismi (mutazione di NRAS, splicing alternativo di BRAF, iperespressione di CRAF, mutazioni di MEK), unitamente ai risultati ottenuti in studi preclinici, hanno permesso la sperimentazione e la successiva approvazione di combinazioni target (anti BRAF + anti MEK) (18-20). Davanti a una nuova diagnosi di malattia avanzata Al momento di una nuova diagnosi di melanoma metastatico, è indispensabile la tipizzazione molecolare della malattia, con valutazione mutazionale di BRAF e NRAS e c-Kit: circa il 50 per cento dei melanomi presenta la mutazione BRAF (21) (Figura 1). w In assenza di mutazioni Per i pazienti non portatori di alcuna mutazione, la prima linea di trattamento standardizzata è attualmente l’immunoterapia con agenti anti PD-1. Nivolumab e pembrolizumab hanno dimostrato un’ottima attività clinica, pur mantenendo un eccellente profilo di tossicità (eventi avversi G3 – 4, 10 – 20 per cento) (22). Nivolumab ha permesso di raggiungere tassi di sopravvivenza globale del 62 per cento a 1 anno, 43 per cento a 2 anni e 41 per cento a 3 anni (23, 24); pembrolizumab, allo stesso modo, ha dimostrato di conferire risposte durevoli, con una ORR del 33 per cento e tassi di sopravvivenza sovrapponibili a quelli osservati con nivolumab (67 per cento a 1 anno, 50 per cento a 2 anni) (25).Numerosi trials randomizzati di fase III hanno dimostrato l’efficacia di nivolumab e pembrolizumab nei pazienti con melanoma.

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Patologie tumorali Figura 1

Approccio nel paziente con melanoma metastatico di nuova diagnosi Valutazione stato mutazionale 52%

48%

BRAF mutato

BRAF wild type

28 % NRAS 14 % NF 1 6 % Triple wild

Caratteristiche cliniche

Prima linea

Seconda linea

BRAF +MEKi

Anti PD-1

Nivolumab. Per quanto riguarda nivolumab, citiamo brevemente i tre studi di portata maggiore: il CheckMate 066, 037 e 067. Lo studio CheckMate 066 (11), mirato alla comparazione tra nivolumab e dacarbazina in pazienti BRAF wild type, è stato chiuso anticipatamente per evidente superiorità del nivolumab rispetto alla chemioterapia, con conseguente “sblindamento” e cross over di tutti i pazienti caduti nel braccio della chemioterapia. Il CheckMate 037 è stato uno studio di confronto tra nivolumab e chemioterapia in pazienti in progressione dopo trattamento con ipilimumab o, se BRAF mutati, dopo anti-BRAF e ipilimumab. I dati derivanti da questo studio sono stati presentati da Weber et al. (12): la ORR è stata del 31,7 per cento vs 10,6 per cento in favore del nivolumab; al momento dell’analisi l’87 per cento delle risposte erano ongoing e l’OS (overall survival) non è stata ancora raggiunta. Lo studio

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BRAF +MEKi

Anti PD-1

Ipilimumab 3 mg/kg

Imatinib Off label (KIT ex 11-13 mut) ~1 %

Ipilimumab 3 mg/kg

Terza linea

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Anti PD-1

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Checkmate-067 (15), rivolto a pazienti non precedentemente trattati, puntava al confronto tra ipilimumab vs nivolumab vs nivolumab + ipilimumab: i risultati dell’update, recentemente rilasciati, hanno mostrato una ORR del 58,9 per cento (17,2 per cento CR- complete response) per la terapia combo immuno vs 44,6 per cento (14,9 CR) con nivolumab vs 19,0 per cento (4,4 CR) con ipilimumab; la PFS mediana è stata di 11,7 mesi vs 6,9 vs 2,9; la OS a 24 mesi è stata, infine, del 64 vs 59 vs 45 per cento. Pembrolizumab. Relativamente al pembrolizumab, lo studio KEYNOTE 002 (26) ne ha dimostrato la superiorità in termini di efficacia rispetto alla chemioterapia, con una ORR del 25 e 21 per cento (rispettivamente 10 e 2 mg/Kg) vs 4 per cento; la PFS mediana è stata di 5,6 e 5,4 mesi vs 3,6 mesi. La valutazione della OS è stata pesante-

mente influenzata dal crossover dei pazienti progrediti. Nello studio KEYNOTE 006 (14) sono stati comparati ipilimumab e pembrolizumab secondo due schedule di somministrazione (10 mg/ kg ogni 2 o ogni 3 settimane), in prima linea. La ORR è risultata simile per le schedule di pembrolizumab (33,7 per cento ogni 2 settimane e 32,9 per cento ogni 3 settimane) e significativamente più alta rispetto alla ORR di ipilimumab (11,9 per cento); la PFS a sei mesi è stata del 47,3, 46,4, e 26,5 per cento rispettivamente. La OS a 1 anno è stata più alta per pembrolizumab (64,8–74,1 vs 58,2 per cento). Non si tratta di farmaci scevri da effetti collaterali: mostrano, anzi, un profilo estremamente peculiare di tossicità, rappresentato per lo più da eventi immunocorrelati. Si tratta di eventi avversi imprevedibili in termini di sede e timing di insorgenza, in quanto potenzialmente ogni organo o tessuto potrebbe esserne


sede, ma ben gestibili con appropriata terapia steroidea se riconosciuti e trattati tempestivamente. Gli eventi avversi più comuni in corso di immunoterapia con anti-PD1 sono rappresentati da rash cutaneo (15 – 20 per cento), diarrea e/o colite (13 per cento), tiroidite (5 – 10 per cento, tendenzialmente ipotiroidismo), polmoniti (2 – 4 per cento), epatiti (4 per cento), nefriti (3 per cento), alterazioni neurologiche (<1 per cento), ipofisiti (0,2 per cento). Il trattamento è basato sulla somministrazione di steroidi, con dosi e modalità differenti in base alla severità dell’evento (22). w Pazienti con mutazione BRAF Per i pazienti BRAF mutati, attualmente, la terapia standardizzata di I linea è rappresentata dalla combinazione target di un anti-BRAF con un anti-MEK. Le combinazioni approvate al momento sono vemurafenib + cobimetinib e dabrafenib + trametinib. In aggiunta a queste due coppie di farmaci, ricordiamo una terza combinazione attualmente in corso di valutazione (NCT01909453): binimetinib + encorafenib. Nell’approvazione della terapia target combinata, gli studi determinanti sono stati tre: il Combi – d, il Combi – v e il co-BRIM (Tabella 1). Nei primi due studi, l’efficacia della combinazione dabrafenib e trametinib è stata comparata con il solo dabrafenib (Combi – d) (19, 27) o con il solo vemurafenib (Combi – v) (20, 28). In entrambi gli studi, la terapia di Tabella 1.

combinazione ha determinato un aumento statisticamente significativo della PFS e della OS. La PFS mediana nei due studi è stata di 11 – 12,6 mesi per combinazione vs 8,8 – 7,3 mesi per la monoterapia. Nello studio Combi – d, la PFS è stata del 30 per cento (vs 16) a 2 anni e del 22 per cento (vs 12) a 3 anni; nel Combi – v, il cui update è stato presentato all’ESMO 2016, la PFS a 2 e 3 anni è stata rispettivamente del 30 per cento (vs 16) e 24 per cento (vs 10). Nello studio Combi-d la sopravvivenza mediana è stata di 25,1 mesi vs 18,7 mesi; la sopravvivenza a 2 e 3 anni è stata rispettivamente del 52 per cento (vs 43 per cento) e 44 per cento (vs 32). Nello studio Combi-v la OS mediana è stata di 26,1 mesi vs 17,8 mesi e il 53 per cento (vs 39) e il 45 per cento (vs 31) dei pazienti erano vivi rispettivamente a 2 e 3 anni. Lo studio co-BRIM (18, 29) ha confrontato il trattamento con vemurafenib + cobimetinib versus vemurafenib in monoterapia. La combinazione ha mostrato un aumento della OS (mediana 22,3 vs 17,4 mesi, con HR 0,7), della PFS (mediana 11 vs 8,8 mesi) e della ORR (70 vs 50 per cento). I risultati si sono mostrati simili nei tre studi e, anche in assenza di un confronto diretto tra le due combinazioni, possiamo considerarle equivalenti in efficacia. In assenza di una netta differenza in termini di efficacia, la scelta tra le due combinazioni al momento si basa principalmente sul

pattern di tossicità. Gli eventi avversi in corso di trattamento sono apparsi infatti quantitativamente simili, ma qualitativamente differenti nelle due combinazioni. Dabrafenib e trametinib correlano principalmente con lo sviluppo di febbre, che compare in circa il 50 per cento dei pazienti (5 per cento, di grado 3). Fatigue, nausea, cefalea, brividi, artralgie e ipertensione sono meno comunemente segnalate. Vemurafenib e cobimetinib invece sono caratterizzati dallo sviluppo di uno spettro di reazioni da fotosensibilizzazione, diarrea, tossicità oculare (corioretinopatia). La mutazione di NRAS non è attualmente una mutazione targettabile clinicamente, se non grazie a farmaci approvati per altre patologie e ottenuti off label. Studi con trametinib in monoterapia hanno dimostrato un aumento della PFS e della OS rispetto alla chemioterapia, ma il vantaggio è stato non sufficiente a condurre all’approvazione di tale farmaco. Binimetinib, un altro inibitore di MEK, ha mostrato un vantaggio in termini di PFS statisticamente, ma non clinicamente significativo (2,8 vs 1,5 mesi); alla luce di quanto detto, in questi pazienti si preferisce l’approccio con immunoterapia (30). Considerazioni conclusive Quello che oggi possiamo vedere come standardizzato nel trattamento del melanoma metastatico, sta accadendo con

Target terapia nei pazienti con mutazione BRAF: i risultati dei principali studi Attività clinica

Efficacia

Sicurezza

ORR (%)

Tasso CR (%)

PFS mediana (mesi)

OS mediana (mesi)

OS a 2 anni (%)

OS a 3 anni (%)

Tossicità di grado 3-4 (%)

Interruzione (%)

Co-BRIM (Ascierto, Lancet 2016)

70

16

12,3

22,3

48

NA

60

14

COMBI-d (Flaherty, ASCO 2016)

69

16

11,0

25,1

52

44

35

9

COMBI-v (Robert, ESMO 2016)

67

19

12,1

26,1

53

45

58

15

Studio

Note: ORR, objective response rate (tasso di risposta obiettiva); OS, overall survival (sopravvivenza complessiva); PFS, progressionfree survival (sopravvivenza libera da progressione); CR, complete response (risposta completa)

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Patologie tumorali grandi e piccoli passi nel trattamento di moltissime neoplasie solide. La migliore e più ampia definizione di un profilo genetico della malattia con l’individuazione di elementi aggredibili con farmaci sempre più avanzati, il ripristino di una risposta immunitaria silenziata dal tumore stesso, lo sviluppo di farmaci con un profilo di tossicità sempre più tollerabile: sono le tre grandi rivoluzioni della terapia oncologica che, siamo sicuri, permetteranno lo sviluppo di un’oncologia sempre più personalizzata e a misura di paziente.

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Oncologia

L’adroterapia nel melanoma oculare Le prime esperienze cliniche del CNAO di Pavia L’adroterapia è un trattamento altamente innovativo, da pochissimi mesi entrato a far parte dei LEA; Dunque potrà essere erogato gratuitamente ai pazienti per i quali esiste l’indicazione. In questo articolo, l’autrice presenta un caso clinico di melanoma oculare trattato mediante adroterapia, al centro CNAO di Pavia

A cura della Maria Rosaria Fiore

Dipartimento medico, Area clinica Centro nazionale di adroterapia oncologica (CNAO), Pavia

L’

adroterapia è una terapia avanzata contro il cancro, che utilizza fasci di protoni e ioni carbonio per trattare i tumori che resistono alla radioterapia tradizionale ai raggi X e non sono operabili. Protoni e ioni carbonio sono particelle atomiche, dette “adroni”, più pesanti e dotate di maggiore energia. Grazie alle loro caratteristiche fisiche, queste particelle possono colpire con grande precisione le cellule tumorali e ridurre moltissimo l’irradiazione dei tessuti sani con una notevole diminuzione degli effetti collaterali. Le indicazioni dei LEA L’adroterapia non è sostitutiva della radioterapia, con cui oggi è trattato circa il 50 per cento dei tumori, ma è necessaria quando la radioterapia stessa si rivela inefficace oppure nei casi in cui la malattia, a causa della sua vicinanza

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a organi sensibili come cervello, occhi, intestino, non può essere asportata chirurgicamente. Oggi, dopo l’approvazione del nuovo decreto sui LEA, tutti i pazienti italiani possono accedere all’adroterapia all’interno del Sistema sanitario nazionale per curare dieci patologie tumorali: cordomi e condrosarcomi della base del cranio e del rachide, tumori del tronco encefalico e del midollo spinale, sarcomi del distretto cervico-cefalico, paraspinali, retroperitoneali e pelvici, sarcomi delle estremità resistenti alla radioterapia tradizionale (osteosarcoma, condrosarcoma), meningiomi intracranici in sedi critiche (stretta adiacenza alle vie ottiche e al tronco encefalico), tumori orbitari e periorbitari (ad esempio seni paranasali), incluso il melanoma oculare, carcinoma adenoideo-cistico delle ghiandole salivari, tumori solidi pediatrici, tumori in pazienti affetti da sindromi genetiche e malattie del collageno associate a un’aumentata radiosensibilità, recidive che richiedono il ritrattamento in un’area già precedentemente sottoposta a radioterapia. Il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica (CNAO) di Pavia è tra i sei centri al mondo in grado di effettuare l’adroterapia sia con protoni che con

ioni carbonio, le particelle in grado di spezzare il DNA delle cellule tumorali. Presso il Centro è possibile trattare tutte le patologie tumorali inserite nei nuovi LEA ed è attualmente in corso la valutazione con le Istituzioni per l’estensione del trattamento ad altre forme di neoplasie quali per esempio, tumori del pancreas, del fegato e della prostata ad alto rischio. Il melanoma oculare Il melanoma oculare è una patologia relativamente rara. Rappresenta tuttavia, il tumore intraoculare clinicamente più frequente nell’età adulta. Negli Stati Uniti si è calcolata un’incidenza di sei casi per milione di persone per anno. In Italia si calcolano 350-400 nuovi casi ogni anno. Tra i fattori di rischio associati a un maggiore incremento dello sviluppo del melanoma uveale, è stata riconosciuta la pigmentazione chiara (occhi, capelli e cute). L’iride chiara sembra essere un fattore di rischio per lo sviluppo di melanoma uveale, e questo rilievo è da collegare probabilmente al fattore di rischio ambientale costituito dall’esposizione alla luce solare, da cui gli occhi chiari sono meno protetti. Un fattore di


rischio, anche se basso, è la presenza di nevi coroideali: ogni anno sviluppa un melanoma una persona su 5.000 tra quelli che presentano nevi coroideali. La melanocitosi oculare e la melanocitosi oculodermica (nevo di Ota) possono complicarsi, con lo sviluppo di un melanoma uveale. I tumori dell’iride sono i più rari tra i melanomi maligni dell’uvea, più frequenti in pazienti di età più giovane. Tendono a essere individuati quando sono ancora di piccole dimensioni, grazie alla posizione anatomica dell’iride e alla sua visibilità da parte del paziente. Data la possibilità di diagnosi all’esordio, sono più facilmente aggredibili chirurgicamente, mediante escissione locale (iridectomia o iridociclectomia). I melanomi dell’uvea a sede posteriore possono restare invece per lungo tempo asintomatici e spesso devono diventare relativamente grandi per essere rilevati clinicamente. Sintomi comuni d’insorgenza dei mela-

nomi posteriori sono offuscamento della vista o perdita di una parte del campo visivo o cambiamento di dimensione e forma della pupilla o cambiamento della posizione e dell’occhio e/o anomalie nel movimento oculare. Per la corretta diagnosi di melanoma oculare è fondamentale che all’insorgenza di sintomi il paziente si sottoponga a una visita oftalmologica accurata. Le prospettive aperte dall’adroterapia Il melanoma oculare per la sua posizione delicata vicina a tessuti sensibili, è tra i tumori che più necessitano dell’adroterapia. L’adroterapia con protoni (protonterapia) per la cura del melanoma oculare rappresenta oggi un’indicazione consolidata che ha trovato largo consenso nella comunità scientifica come una valida alternativa a trattamenti chirurgici demolitivi, che prevedono l’asportazio-

Il sincrotrone del Centro nazionale di adroterapia oncologica di Pavia ne dell’occhio. Introdotto a partire dal 1975 negli Stati Uniti, questo trattamento è stato utilizzato per la prima volta in Europa occidentale nel 1984. La pratica si è poi diffusa con la nascita di diversi centri specializzati per la protonterapia. La numerosità dei pazienti trattati e i relativi dati disponibili hanno permesso di dimostrare che i risultati a lungo termine sono stati eccellenti e che la maggior parte dei pazienti ha raggiunto il controllo di malattia. Il controllo locale con conservazione d’organo in termini di risultati cosmetici e il risparmio del nervo ottico con preservazione della vista in un sostanziale numero di casi sono i più importanti obiettivi del trattamento con protoni. Fino a pochi mesi fa la maggior parte

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Oncologia trattamento, dopo la conferma della diagnosi e delle necessità di una cura con protonterapia, è necessario eseguire un piccolo intervento chirurgico per l’applicazione di clips di tantalio ovvero piccoli bottoncini metallici che delimitano l’area del tumore e che permettono poi ai medici di irradiare la malattia con elevata precisione. Il paziente è seguito accuratamente in tutte le tappe di svolgimento della terapia, dalla chirurgia al primo accesso al Centro, fino al termine del trattamento. Da settembre 2016 a oggi sono stati trattati 30 pazienti presso il nostro centro. Tutti hanno tollerato bene le procedure e il trattamento stesso. Gli effetti collaterali sono stati lievi, nella norma per un trattamento radioterapico, e tutti previsti. Visti i tempi di osservazione ancora molto brevi, è sicuramente troppo

Sala di trattamento (sopra) e paziente affetto da melanoma oculare (a lato)

dei pazienti italiani doveva andare all’estero per curare il melanoma oculare, soprattutto al centro di protonterapia di Nizza. Solo un numero limitato di soggetti affetti poteva essere trattato infatti, a Catania presso i Laboratori Nazionali del Sud dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). w Le esperienze Dall’agosto del 2016 questo trattamento è disponibile al CNAO di Pavia, grazie alla collaborazione con la divisione di Oculistica oncologica degli Ospedali Galliera di Genova, che vanta una numerosa casistica con relativi anni di esperienza, di pazienti affetti da melanoma oculare e trattati con protonterapia. I tumori oculari sono in genere caratterizzati da dimensioni molto piccole, spesso di pochi millimetri in un organo altrettanto piccolo, il globo oculare, in prossimità di tessuto sano da risparmiare, se si vogliono limitare ed evitare effetti collaterali tardivi severi o preservare la vista del paziente. Per un trattamento efficace e preciso, al CNAO è stato definito un metodo

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conforme alle esigenze tecniche della terapia del melanoma oculare e adatto alle caratteristiche dell’acceleratore di particelle presente. La realizzazione di tutte le procedure è stata possibile grazie al contributo del Politecnico di Milano e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Pavia. I trattamenti sono impostati in collaborazione con Carlo Mosci, direttore dell’Oculistica oncologica del Galliera di Genova. Per preparare i pazienti al

presto per poter parlare di “cura” della malattia, ma il controllo clinico oculistico dopo circa 1 mese dal trattamento ha confermato la bontà del protocollo utilizzato, e i dati disponibili oggi sono in linea con le previsioni. w Limiti di applicazione ed effetti collaterali In generale, tra i possibili effetti collaterali, si possono verificare durante il trattamento, nel corso delle sedute, una


moderata infiammazione della congiuntiva con arrossamento e gonfiore lievi. Il dolore è raro. Gli effetti collaterali che si potrebbero manifestare a distanza nel tempo, con insorgenza variabile da 12-18 mesi dal termine del trattamento, sono in genere cataratta, secchezza oculare, perdita parziale totale delle ciglia della palpebra inferiore/superiore, danno del nervo ottico e/o della retina, compromissione della funzione visiva, quando il tumore è addossato al nervo ottico e/o alla macula, stenosi della via lacrimale e possibile insorgenza di glaucoma secondario neovascolare. Va ricordato che esistono limiti alla possibilità di utilizzare la protonterapia per il melanoma oculare come per esempio, la presenza di condizioni mediche e/o psichiche che non permettono al paziente di tollerare le procedure di trattamento e il trattamento stesso (posizione, immobilizzazione, retrattori, claustrofobia ecc). Un altro limite può riguardare l’estensione locale della malattia: un tumore troppo grande, di dimensione superiore a un quadrante in genere va enucleato. Anche il distacco della retina essudativo oltre un quadrante, è una condizione clinica che controindica la radioterapia.

Ugo Amaldi, il “padre” dell’adroterapia Ugo Amaldi rientra a buon diritto tra i ricercatori italiani più illustri a livello mondiale. Laureato in Fisica, per anni si è dedicato allo studio e alle applicazioni mediche delle radiazioni ionizzanti. La sua attività di ricerca è documentata da numerosissime pubblicazioni nell’ambito della fisica dei nuclei, degli atomi e delle particelle fondamentali. In quasi quarant’anni di attività scientifica per le sue ricerche ha utilizzato i fasci di ben sei acceleratori di particelle, di energia sempre crescente; a Frascati il sincrotrone per elettroni e l’anello di accumulazione Adone, al Centro Europeo per le Ricerche Nucleari (CERN) di Ginevra, il protosincrotrone PS, il superprotosincrotrone SPS, gli anelli ISR, e infine il LEP, il collisore circolare elettrone-positrone che ha un diametro di 27 chilometri! Con Giampiero Tosi, dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, facendo uso delle conoscenze acquisite nel campo delle radiazioni e degli acceleratori di particelle, Amaldi ha lanciato nel 1991 il “Progetto Adroterapia”. L’adroterapia, termine coniato proprio da Amaldi, è una radioterapia che usa particelle fatte di quark, protoni o ioni carbonio, al posto dei raggi X (costituiti da fotoni). Nel 1992 fu creata la Fondazione TERA, di cui Amaldi è presidente. Il progetto CNAO (Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica) di Pavia rappresenta l’attività di punta della Fondazione, a dimostrazione che la “fisica è bella e utile”, come ama ricordare il professor Amaldi.

Case-report Un esempio significativo di paziente trattato al CNAO è una persona di 43 anni che, in seguito a visita oculistica per riduzione dell’acuità visiva, scopre di avere un sospetto di tumore dell’occhio. Il Galliera di Genova ha confermato la diagnosi di melanoma oculare e in tempi rapidi ha programmato l’intervento chirurgico di applicazione delle clips di tantalio e discusso il caso clinico con il nostro Centro per impostare il trattamento con protoni. Dopo l’operazione il paziente è arrivato al CNAO per eseguire tutte le procedure di preparazione al trattamento. Ha effettuato una TC con maschera di immobilizzazione personalizzata e, con lo stesso dispositivo personalizzato, è stata studiata la migliore posizione da

assumere sul lettino del trattamento. Per ciascun paziente infatti, i medici e i tecnici devono definire la corretta posizione sul lettino, che deve essere riproducibile per ogni seduta di trattamento ed è pensata per consentire la maggior precisione possibile del raggio che colpirà i tessuti tumorali. La posizione e i movimenti dell’occhio sono monitorati mediante un sistema, connesso rigidamente alla sedia di trattamento, dotato di una sorgente luminosa puntiforme utilizzata come punto di fissazione per stabilizzare la posizione oculare del paziente. Una volta elaborato, discusso e approvato con il chirurgo il piano di cura, il paziente esegue il trattamento con protoni composto da 4 sedute, effettuate in 4 giorni conse-

cutivi. Il paziente ha affrontato molto bene il trattamento con effetti collaterali lievi e previsti. Ha eseguito un controllo clinico dopo circa 1 mese che ha dato conferma del buon esito della terapia, anche in termini di tossicità. In conclusione La cura del melanoma oculare con protonterapia è un esempio di stretta e proficua relazione multidisciplinare tra chirurgo, radioterapista e fisico medico, e rappresenta un trattamento avanzato, frutto della collaborazione di diverse realtà della sanità e della ricerca italiane, oggi disponibile per tutti i pazienti che ne hanno bisogno nell’ambito del Sistema sanitario nazionale.

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C O NG RE S S I First International Conference on Controversies in Vitamin D – 14-16 giugno, Pisa

Un meeting internazionale traccia il futuro della ricerca sulla vitamina D La vitamina D cattura da tempo l’attenzione del mondo accademico. Questo ormone infatti, è al centro della ricerca già da qualche anno non solo per i suoi effetti benefici (ormai ben consolidati) sulla salute delle ossa, quanto piuttosto per i possibili effetti pleiotropici, anche in campi molto diversi, dall’immunologia all’oncologia, fino alla cardiologia

I

n letteratura i dati sono sempre più, e riguardano sia studi sperimentali che clinici, ma come è logico aspettarsi i risultati non sempre sono omogenei. È arrivato dunque il momento di fare un po’ di chiarezza per cercare di mettere ordine tra le informazioni disponibili sugli effetti extrascheletrici della vitamina D, e disegnare le prospettive della ricerca in questo ambito. Ed è proprio questo l’obiettivo della First International Conference on Controversies in Vitamin D, organizzata in collaborazione con il Glucocorticoid Induced Osteoporosis Skeletal Endocrinology Group (GIOSEG). I maggiori esperti nazionali e internazionali si sono dati appuntamento a Pisa in una “tre giorni” densa di relazioni e tavoli di lavoro. Partendo da un’analisi dell’esperienza di laboratorio e clinica, e dell’attuale letteratura scientifica, gli esperti riuniti hanno gettato le basi per la realizzazione di una pubblicazione internazionale, che metterà in luce gli aspetti più importanti relativi alla vitamina D, con l’obiettivo di fornire delle linee guida sia cliniche, sia per la ricerca scientifica, guardando sia al presente, sia al futuro Per motivi di spazio non possiamo addentrarci in una presentazione esaustiva, e dunque ci limitiamo a illustrare le tematiche che secondo noi possono riscuotere l’interesse del Medico di Medicina genera-

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le. Il primum movens del filone extrascheletrico si basa sulla dimostrazione che molti tessuti e cellule del sistema immunitario presentano il recettore per la vitamina D (Vitamin D Receptor, VDR). “La carenza di vitamina D sta dimostrando di influire sempre di più su alcune malattie, che hanno un’incidenza molto alta e un forte impatto sulla vita di chi ne è affetto”, ha sottolineato il professor Andrea Giustina, dell’Università Vita e Salute San Raffaele Milano, membro del Comitato scientifico della Conferenza, e presidente GIOSEG. “Questa consapevolezza, quindi, ci impone di procedere a un corretto inquadramento del suo ruolo, con l’obiettivo di favorire il suo migliore utilizzo nei pazienti che possono trarne beneficio”.

Vitamina D e patologie infiammatorie intestinali Un’area di potenziale intervento della vitamina D è dunque il sistema immunitario, in cui l’ormone giocherebbe un ruolo chiave nella risposta alle infezioni e nel controllo dell’infiammazione. Vi sono dati derivanti da studi di genetica molecolare secondo cui il signaling innescato dal metabolita attivo della vitamina D, ovvero l’1,25(OH)2D, facilita la risposta immunitaria innata agendo sia a monte cha a valle dei recettori di riconoscimen-

to del segnale, inducendo l’espressione di peptidi ad azione antimicrobica come anche di diverse citochine implicate in questo tipo di risposta e nella comunicazione con l’immunità specifica. A supporto vi sono alcune evidenze cliniche, seppure non omogenee, secondo cui la supplementazione con vitamina D sia in grado di ridurre l’incidenza di infezioni di origine batterica o virale dell’orecchio e del tratto respiratorio. In ambito infiammatorio, l’1,25(OH)2D promuove l’espressione di PD-L1 e 2 (pogrammed death ligand) a livello delle cellule epiteliali. PD-L1 e 2 riconoscono la proteina PD1 sulle cellule T e svolgono un ruolo critico nel controllo delle risposte infiammatorie “T-cell” mediate. Per esempio in modelli di laboratorio è stato osservato come il blocco di PD-L1 nell’epitelio intestinale renda i topi maggiormente suscettibili all’infiammazione a causa della perdita del segnale di controllo dell’immunità innata. Nell’uomo vi sono dati convincenti che dimostrano come il mantenimento di livelli ottimali di vitamina D possa ridurre l’incidenza di patologie infiammatorie intestinali, in particolare il morbo di Crohn (MC). Ben più rilevante è il fatto che vi sono solide evidenze cliniche (da studi osservazionali e di intervento) secondo cui i pazienti affetti da MC possano trarre beneficio dalla supplementazione


Un strumento in piĂš per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo


C O NG RE S S I con vitamina D. Nel complesso dunque la combinazione dei risultati ottenuti sia in ambito clinico che preclinico suggerisce la necessità di disegnare studi randomizzati e controllati su larga scala che possano testare l’efficacia terapeutica della supplementazione con vitamina D nei soggetti

affetti da MC. Questi studi dovranno prevedere l’impiego di livelli di integrazione adeguati, tenendo conto della possibile condizione di malassorbimento che caratterizza i malati. Il morbo di Crohn quindi potrebbe rappresentare un modello ideale per studiare e approfondire l’efficacia pro-

tettiva della supplementazione vitaminica D in una condizione extrascheletrica, dal momento che i soggetti con MC tendono a presentare un deficit o uno stato vitaminico insufficiente, e le risposte cliniche si possono osservare in un follow up a breve-medio termine.

77° Meeting American Diabetes Association – 9-13 giugno, San Diego (USA)

il rischio cardiovascolare all’attenzione dei diabetologi statunitensi

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i è da poco conclusa la 77° edizione del congresso annuale dell’ADA, che nell’occasione fa il punto su una patologia che a buon diritto è stata definita “una pandemia che minaccia la società moderna e che mette a dura prova la sostenibilità dei sistemi sanitari di tutto il mondo”. Appropriatezza prescrittiva ed efficacia terapeutica è l’obiettivo da perseguire se si vuole arrivare a un equilibrio sociale e sanitario nella gestione del diabete. In questa direzione mirano i risultati del programma DELIVER (DELIVER 2 e 3). DELIVER 3 è stato condotto in real world in adulti over 65, con diabete di tipo 2 e dimostra come l’uso di insulina glargine 300 U/ml nell’ambito del passaggio da un’altra insulina basale riduce significativamente i casi di ipoglicemia documentata rispetto al passaggio a un’altra terapia, che comprende insulina glargine 100 U/ ml, insulina detemir e insulina degludec, con un controllo glicemico sovrapponibile. Dopo 6 mesi i pazienti passati a glargine 300 U/ml hanno registrato il 57 per cento di casi di ipoglicemia in meno rispetto a chi ha optato per un’altra insulina basale. Risultati questi ultimi consistenti con i dati raccolti nel DELIVER 2, altro studio osservazionale che ha coinvolto adulti diabetici, in trattamento con insulina basale nell’ambito del passaggio a glargine 300 U/ml o ad altra insulina basale, suddivisi in due coorti appaiate. DELIVER 2 ha evidenziato, dopo 6 mesi, il 33 per cento di

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casi di ipoglicemia in meno; una riduzione che ha prodotto un risparmio in termini di spesa sanitaria correlata, dell’ordine di circa 2mila dollari l’anno, per paziente. Le indicazioni degli studi in real life hanno importanti ricadute dunque sul piano pratico, permettendo di orientare nella scelta della terapia più appropriata, massimizzando il profilo beneficio-rischio per il singolo paziente, e di valutare i costi complessivi di un dato trattamento. I diabetici come ben noto sono pazienti ad aumentato rischio CV anche per la frequente presenza di dislipidemia. La dislipidemia mista ha un impatto negativo sul profilo complessivo di rischio CV, e nonostante la disponibilità di terapie rappresenta una sfida per il clinico. Ecco perché è importante segnalare i risultati ottenuti con l’inibitore della PCSK9 alirocumab, nell’ambito del programma di studi ODYSSEY. La molecola (al dosaggio di 75 mg ogni 2 settimane) quando aggiunta alla massima dose tollerata di statine ha portato a una riduzione dell’ordine del 48 per cento nei livelli di colesterolo LDL rispetto a quanto osservato nei soggetti trattati con placebo. Inoltre si è osservato un miglioramento del profilo lipidico complessivo, senza impatto sulla terapia ipoglicemizzante. Nel complesso alirocumab è stato ben tollerato: gli eventi avversi più ricorrenti sono stati nasofaringite, mialgia, artralgia e tosse. Al meeting di San Diego, un simposio

è stato dedicato alla presentazione dei risultati di un’analisi integrata degli studi CANVAS e CANVAS-R, pubblicata anche sul New England Journal of Medicine. Il lavoro riguarda la valutazione sugli esiti CV del trattamento con canagliflozin (molecola ipoglicemizzante appartenente alla classe degli inibitori selettivi SGLT2). CANVAS ha preso in esame efficacia e sicurezza del trattamento con canagliflozin vs placebo in oltre 10mila pazienti diabetici, con pregressa anamnesi CV o che presentavano almeno due fattori di rischio CV, e che sono stati seguiti per una media di 188,2 settimane. Il trattamento attivo ha portato a una riduzione del 14 per cento del rischio di endpoint primario composito di mortalità CV, IM non fatale o ictus non fatale (HR 0,86, CI 95 per cento 0,75 a 0,97). Inoltre, canagliflozin si è rivelato promettente in termini di protezione renale, ritardando la progressione dell’albuminuria e riducendo il rischio di esiti compositi clinicamente importanti del 40 per cento (HR 0,60, CI 95 0,470,77). Gli effetti renali del trattamento sono comunque da approfondire e sono oggetto di valutazione nello studio in corso CREDENCE. È da segnalare infine, un aumentato rischio di amputazione associato al trattamento con canagliflozin (6,3 vs. 3,4/1.000 pazienti-anno) corrispondente a un rapporto di rischio (HR) pari a 1,97. Tale rischio è stato incluso nell’RCP di canagliflozin all’interno dell’Unione Europea.


Novartis

Un nuovo paradigma terapeutico per il trattamento dello scompenso cardiaco Da pochi mesi è rimborsata anche in Italia l’associazione sacubitril/valsartan, che ha dimostrato un notevole profilo di efficacia negli studi clinici, riducendo del 20 per cento la mortalità cardiovascolare dei pazienti con scompenso cardiaco e con frazione di eiezione ridotta

M

eno 20 per cento nella mortalità cardiovascolare rispetto alla terapia di riferimento, e un prolungamento della sopravvivenza di 1,5-2 anni. Sono questi i risultati che si possono ottenere nella cura dello scompenso cardiaco con l’associazione di sacubitril/valsartan (Entresto®), un nuovo farmaco appartenente alla classe degli antagonisti del recettore della neprilisina e del recettore dell’angiotensina, sviluppato da Novartis. Il farmaco, nella formulazione in compressa da assumere due volte al giorno, è indicato per il trattamento dei pazienti adulti con scompenso cardiaco cronico sintomatico (classe NYHA II-IV) e frazione di eiezione ridotta (HFrEF). Commercializzata nel nostro Paese fin dall’aprile del 2016, l’associazione di sacubitril/valsartan è rimborsata a carico del Sistema sanitario nazionale dallo scorso marzo. Si apre così una nuova prospettiva terapeutica per una patologia che nei prossimi anni potrebbe interessare nel nostro Paese fino a un milione di persone. Attualmente, lo scompenso cardiaco è la seconda causa di ricoveri ospedalieri dopo il parto, con una spesa di circa 3 miliardi all’anno. Il profilo di efficacia e di sicurezza del farmaco è stato dimostrato nel corso dello studio clinico denominato PARADIGMHF, condotto in tutto il mondo su 8.442 pazienti con scompenso cardiaco (classe NYHA II, III o IV) e con frazione di

eiezione uguale o inferiore al 35 per cento dell’atteso. I pazienti (età media 63,8 anni, un quinto di sesso femminile, per due terzi di razza bianca) sono stati randomizzati a ricevere sacubitril/valsartan oppure enalapril, l’ACE-inibitore considerato standard per la terapia dello scompenso cardiaco. I risultati in termini di efficacia sono stati molto positivi: sacubitril/valsartan ha, infatti, ridotto in modo altamente significativo, del 20 per cento, il rischio relativo di morte cardiovascolare o ospedalizzazione per scompenso cardiaco rispetto a enalapril (hazard ratio, HR 0,80; IC 95 per cento 0,73-0,87; p <0,001). Allo stesso modo, sacubitril/valsartan ha ridotto significativamente del 20 per cento il rischio relativo di morte cardiovascolare (HR 0,80, IC 95 per cento 0,71-0,89; p <0,001), del 21 per cento il rischio relativo di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (HR 0,79; IC 95 per cento 0,71-0,89; p <0,001) e del 16 per cento il rischio relativo di morte per qualsiasi causa (HR 0,84; IC 95 per cento 0,760,93; p <0,001). Nel corso dello studio, il numero di pazienti da trattare (NTT) per prevenire un evento primario e una morte da cause cardiovascolari era pari a 21 e 32 rispettivamente. In termini clinici, questa riduzione del 20 per cento nella mortalità cardiovascolare si traduce in un allungamento della vita, in media, di un anno e tre mesi, un

tempo notevole per pazienti così gravi. “Il meccanismo di azione del farmaco è innovativo, e nasce dall’associazione di un farmaco ben noto, il valsartan, un antagonista del recettore AT1, al sacubitril, un inibitore della neprilisina, enzima che agisce degradando gli ormoni natriuretici, prodotti dal cuore”, ha spiegato Michele Senni, direttore della Cardiologia 1 dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e coordinatore dello studio PARADIGM-HF in Italia, alla conferenza di presentazione del farmaco (Roma, 3 maggio). “Fino a oggi, la strategia terapeutica dello scompenso cardiaco si basava sull’inibizione neuroormonale del sistema renina-angiotensina e del sistema nervoso simpatico, mentre con il sacubitril-valsartan si aggiunge il potenziamento del sistema degli ormoni natriuretici, che ha un’azione benefica: siamo di fronte a un cambiamento radicale del nostro approccio al paziente con scompenso cardiaco, con il passaggio da un’inibizione neuro-ormonale a una modulazione neuro-ormonale”. Incoraggianti anche le prospettive per i pazienti con comorbilità, in particolare per il diabete, di cui soffre il 35-40 per cento dei pazienti con scompenso cardiaco. All’ultimo congresso dell’American College of Cardiology sono stati infatti presentati i dati relativi all’analisi dei sottogruppi dello studio PARADIGM-HF. Da questi è emerso che l’associazione sacubitril/valsartan riduce la comparsa

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di diabete rispetto all’enalapril, mentre nei pazienti con diabete già stabilito è in grado d’indurre una diminuzione dei valori di emoglobina glicata. Complessivamente, dunque, i risultati di questo studio clinico fanno pensare a un effetto metabolico favorevole del farmaco, la cui natura non è ancora stata stabilita, anche se si ipotizza che qualche tipo di azione sull’insulino-resistenza possa facilitare il calo dell’emoglobina glicata. Ottenuti questi positivi risultati, si guarda già avanti. Sono infatti in corso altri due importanti studi denominati PARAGON E PARADISE. Il primo ha l’obiettivo di valutare i benefici dell’altra metà dei pazienti

Roche

Un progetto per tutelare i bambini dai rischi del fumo passivo Il fumo indiretto è nocivo tanto quanto quello diretto, essendo strettamente correlato al rischio di sviluppare tumori e patologie cardio-polmonari. Sembra però che gli adulti fumatori siano completamente (o quasi) ignari di questi danni e soprattutto dell’impatto negativo che il fumo passivo possa avere sulla salute dei bambini. I dati Istat infatti fotografano una situazione davvero poco confortante: il 52 per cento dei bimbi nel secondo anno di vita è regolarmente esposto al fumo indiretto, spesso proprio quello dei genitori. Serve dunque maggiore sensibilizzazione sul tema al fine di proteggere gli adulti di domani dai rischi del fumo indiretto. Ecco perché è nato il progetto “Ector The Protector Bear” (www.ectortheprotector.com) promosso da Roche e patrocinato dalla Women Against Lung Cancer in Europe e realizzato in collaborazione con Trudy. Ector è un giocattolo speciale ovvero un orsetto che protegge i bambini: dotato di un sensore, tossisce ogni volta che qualcuno fuma vicino a lui. In questo modo avverte i genitori, scoraggia i fumatori e difende la salute dei piccoli, ma anche degli adulti.

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con scompenso, quelli che hanno una funzione sistolica preservata. Il secondo riguarderà invece un’altra importante popolazione di pazienti, quelli che presentano scompenso o una disfunzione cardiaca secondari

a un infarto miocardico acuto. In questo caso, sacubitril/valsartan verrà messo a confronto con un altro ACE inibitore che fa da cardine nella terapia cardiologica: il ramipril. I dati per entrambi gli studi sono attesi non prima del 2019.

gsk

Con l’anticorpo monoclonale mepolizumab nuove prospettive nella cura dell’asma grave

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olpisce relativamente pochi pazienti, nel nostro Paese le stime indicano circa 10.000 persone, ma l’impatto che l’asma grave ha sulla qualità di vita è devastante. Il 40 per cento circa di chi è affetto da questa forma viene ospedalizzato almeno una volta all’anno per riacutizzazioni, e per questi pazienti ogni episodio acuto può essere fatale. Spesso gli asmatici gravi si trovano costretti a rinunciare all’attività scolastica o lavorativa, e le conseguenze sono incisive anche in termini sociali ed economici. L’attuale terapia di riferimento per l’asma grave si basa sulla somministrazione di steroidi inalatori, e in caso di controllo non soddisfacente anche con aumento del dosaggio, si passa alla somministrazione per via sistemica. Un trattamento questo che è gravato da effetti collaterali tutt’altro che trascurabili, come i ben noti aumento di peso, innalzamento glicemico, rischio di osteoporosi. Tutti questi aspetti sono stati trattati nell’ambito di un incontro che si è tenuto lo scorso 8 maggio a Milano, alla presenza dei più importanti pneumologi italiani, durante il quale sono state presentate interessanti prospettive terapeutiche offerte da una nuova molecola, mepolizumab, frutto della ricerca GSK. “L’asma severo è una patologia invalidante che limita il paziente in qualsiasi sua attività”, ha sottolineato Giorgio Walter Canonica, dell’Ospedale Humanitas di Rozzano (MI). “Diagnosticare con certezza e per tempo la malattia diventa fondamentale per disegnare nel modo corretto la terapia e restituire una qualità di vita accettabile. Parliamo di una malattia eterogenea, costituita da diversi fenotipi, con specifiche caratteristiche cliniche e fisiopatologiche”. Tra i diversi quadri, vi è il tipo eosinofilo che si caratterizza per un’elevata infiammazione data proprio da un incremento di questa popolazione di globuli bianchi. Alla base del processo vi è l’interleuchina 5, citochina responsabile della crescita, differenziazione, attivazione e sopravvivenza degli eosinofili. Proprio a questo livello si inserisce l’anticorpo monoclonale umanizzato mepolizumab: la molecola è in grado di inibire la trasduzione del segnale dell’interleuchina 5 e di bloccare il processo infiammatorio. “Agendo in questo modo” ha puntualizzato il prof. Canonica “mepolizumab determina una riduzione dell’84 per cento degli eosinofili ematici entro 4 settimane dall’inizio del trattamento”. Un trattamento selettivo dunque, che oltre a ridurre il carico infiammatorio, diminuisce di oltre il 50 per cento le esacerbazioni e del 61 per cento la necessità di ricovero, e ha come risvolto il contenimento degli effetti collaterali. Lo schema di trattamento è semplice, e prevede un’iniezione sc ogni 4 settimane al dosaggio fisso di 100 mg indipendentemente dal peso. In Italia, il trattamento con mepolizumab è indicato per i pazienti adulti affetti da asma grave a fenotipo eosinofilo refrattario alla terapia usuale.


I QUADERNI

di Medico & Paziente

A partire dal mese di gennaio 2017 è disponibile il secondo Quaderno dedicato al DIABETE

Come ricevere i Quaderni di Medico e Paziente Tutti gli abbonati di Medico e Paziente riceveranno gratuitamente il Quaderno Chi sottoscrive un nuovo abbonamento alla rivista Medico e Paziente al costo di 20,00 euro riceverà gratuitamente il Quaderno In assenza di abbonamento è possibile richiedere il Quaderno versando un contributo di 9,00 euro comprensivo di spese di spedizione Le modalità di pagamento sono le seguenti:

Bollettino di c.c.p. n. 94697885 intestato a: M e P Edizioni - Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano

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