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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIII n. 5 - 2017
5
Pneumologia nuove opportunità di trattamento per l’asma grave Epatologia inquadramento clinico della colangite biliare primitiva Nutrizione benefici dell’integrazione con probiotici Neurofisiologia i meccanismi di cronicizzazione del dolore
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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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CLINICA
Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci
TERAPIA
Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci
> Domenico D’Amico
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5.2017
sommario
Le patologie respiratorie rappresentano un’emergenza sanitaria e sociale a livello mondiale. Tra queste, la BPCO è certamente la più rilevante e per la quale ancora molto resta da fare, soprattutto in tema di informazione alla popolazione e prevenzione. La Giornata mondiale che si è celebrata lo scorso 15 novembre ancora una volta ha acceso i riflettori sulla patologia “che toglie il fiato”. Significativamente dunque, dedichiamo questo numero della rivista alla BPCO, con le ultime novità che arrivano dall’aggiornamento delle linee guida GOLD. Il documento introduce importanti variazioni rispetto al passato sia per la valutazione del paziente che per la terapia con broncodilatatori.
6
24
38
10
Colangite biliare primitiva Dal cambio del nome alle nuove terapie
Le opzioni di trattamento volte al controllo dell’infiammazione
Letti per voi pneumologia Asma bronchiale Nuove opzioni di trattamento per il controllo delle forme gravi Claudio Micheletto
epatologia
Valerio Pontecorvi, Marco Carbone, Pietro Invernizzi
30
nutrizione Integrazione con probiotici Proprietà di Lactobacillus reuteri DSM 17938
16
approfondimenti Novità per la BPCO dalle linee guida GOLD Folco Claudi
20
Roberta De Grandi, Marco Toscano, Lorenzo Drago
34
neurofisiologia Perché il dolore acuto diventa cronico?
Osteoartrosi
40
Farminforma
44
Segnalibro Vivere senza mal di testa. Le nuove frontiere di cura e prevenzione La terapia dell’epatite cronica C nel 2017
intervista Come cambierà la gestione del paziente con BPCO alla luce delle indicazioni GOLD Intervista al professor Girolamo Pelaia
Errata corrige Segnaliamo che nell’articolo “Le patologie allergiche nascoste. Indicazioni sul percorso e gli strumenti diagnostici più appropriati” a cura di Nicola Fuiano, Cristoforo Incorvaia e Giorgio Walter Canonica (Medico e paziente 2014; 2: 14-18), la figura 2 è stata ottenuta per la personale cortesia del dottor Luigi Sansone dal suo sito www.medicosansone.it.
MEDICO e PAZIENTE | 5.2017 |
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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Numero 5.2017 - anno XLIII
MP
Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano - Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it
Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi
Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.
Redazione WEB Alessandro Visca
Comitato scientifico
Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno
Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli
Segreteria di redazione Concetta Accarrino
Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia)
Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it
Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna
Hanno collaborato a questo numero: Marco Carbone, Roberta De Grandi, Lorenzo Drago, Pietro Invernizzi, Claudio Micheletto, Girolamo Pelaia, Valerio Pontecorvi, Marco Toscano Foto di copertina: luyali/123RF Archivio Fotografico (modificata) Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio
Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
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BPCO
In soggetti con broncopneumopatia cronica ostruttiva in stadio precoce, il trattamento a lungo termine con tiotropio mostra effetti positivi sui parametri di funzionalità polmonare
I
pazienti affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) di grado lieve o moderato raramente ricevono una terapia farmacologica, dal momento che manifestano pochi sintomi. In questo studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato contro placebo, condotto in Cina, gli Autori sono partiti dall’ipotesi che l’uso a lungo termine di tiotropio (long acting muscarinic agonist, LAMA) avrebbe potuto migliorare la funzionalità polmonare, contrastandone il declino, in pazienti con BPCO da lieve a moderata. Hanno così considerato 841 pazienti in stadio 1 (lieve) e stadio 2 (moderato) della scala di severità GOLD randomizzati a rice-
vere, per inalazione una volta al giorno, una dose da 18 μg di tiotropio (N =419) o placebo (N =422) per 2 anni. L’endpoint primario era la differenza tra i gruppi nella variazione, rispetto ai valori basali, nel parametro FEV1 prima dell’uso di un broncodilatatore. Gli endpoint secondari erano rappresentati dalla differenza tra i gruppi nella variazione, rispetto al basale, del FEV1 dopo 24 mesi dopo l’uso del broncodilatatore, e dalla differenza nel declino annuale della FEV1 prima e dopo l’uso del broncodilatatore dal giorno 30 al mese 24. Degli 841 pazienti sottoposti alla randomizzazione, 388 del gruppo di trattamento e 383 del gruppo placebo
sono stati inclusi nell’analisi finale dei dati. È risultato che il valore di FEV1 era più elevato nel gruppo trattato con tiotropio rispetto al gruppo placebo per tutta la durata dello studio (intervalli delle differenze medie: da 127 a 169 ml prima dell’uso del broncodilatatore e da 71 a 133 ml dopo l’uso; p <0,001 per tutti i confronti). Inoltre, non si sono registrati miglioramenti significativi nel declino annuale medio della FEV1 prima dell’uso del broncodilatatore. Il declino è stato infatti di 38±6 ml all’anno nel gruppo in trattamento attivo e di 53±6 ml all’anno nel gruppo placebo, con una differenza di 15 ml all’anno (IC al 96 per cento -131; P =0,06). Per contro, il declino annuale della FEV1 dopo l’uso del broncodilatatore è risultato significativamente inferiore nel gruppo trattato con tiotropio rispetto al gruppo placebo (29±5 ml all’anno vs. 51±6 ml all’anno) con una differenza di 22 ml all’anno (IC al 95 per cento 6-37; P =0,006). Sul fronte della tollerabilità va segna-
A
lcuni studi longitudinali hanno indicato che il controllo dell’asma può essere influenzato dalle fluttuazioni nell’infiammazione eosinofila: questa associazione, tuttavia, non è mai stata confermata nella pratica clinica. Per approfondire la questione, gli Autori hanno condotto uno studio longitudinale, retrospettivo, su 187 pazienti con asma e almeno due induzioni dell’espettorazione nel centro per l’asma in cui lavorano, il Dipartimento di medicina respiratoria dell’Università di Liegi, in Belgio. È stata valutata dunque la correlazione tra asma e singoli cambiamenti negli eosinofili dell’espettorato. Un’analisi multivariata ha mostrato che il controllo dell’asma è associato in modo indipendente a singole fluttuazioni nella conta degli eosinofili nell’espettorato (p <0,001). Dai dati raccolti è infatti emersa, nei pazienti con asma eosinofila intermittente/persistente, una correlazione significativa tra una diminuzione del 4,3 per cento nella percentuale di eosinofili nell’espettorato e un significativo miglioramento nel controllo dell’asma. Analogamente, si è evidenziato un incremento del 3,5 per cento nella percentuale degli eosinofili correlato a un significativo peggioramento del controllo della patologia. Demarche e colleghi hanno concluso pertanto che a livello individuale il controllo dell’asma è associato a fluttuazioni nella conta degli eosinofili nell’espettorato. Da un punto di vista pratico dunque, il clinico dovrebbe prestare molta attenzione, secondo gli Autori, al monitoraggio dell’eosinofilia con l’obiettivo di ridurre il più possibile questa componente infiammatoria.
Monitoraggio della patologia asmatica
Controllo dell’asma ed eosinofili dell’espettorato: uno studio longitudinale nella pratica clinica conferma la relazione
● Demarche SF, Schleich FN, Paulus VA et al. J Allergy Clin Immunol Pract 2017; 5(5): 1335-43
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I QUADERNI
di Medico & Paziente
A partire dal mese di gennaio 2017 è disponibile il secondo Quaderno dedicato al DIABETE
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lato che l’incidenza di eventi avversi è risultata generalmente simile nei due gruppi. Sulla base di quanto ottenuto, gli Autori concludono che il trattamento con tiotropio ha determinato un più elevato FEV1 a 24 mesi rispetto al placebo, e un
miglioramento del declino annuale dello stesso parametro dopo l’uso del broncodilatatore in pazienti con BPCO in fase precoce di malattia. ● Zhou Y, Zhong NS, Li X. N Engl J Med 2017; 377(10): 923-35
Patologie infiammatorie croniche
L’asma è associata al successivo sviluppo di MICI: uno studio caso-controllo di popolazione
A
lcune ricerche condotte in passato hanno evidenziato come l’asma e le malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) derivino entrambi da una complessa interazione tra fattori genetici, fattori ambientali e microbioma. Inoltre, alcune linee di evidenza dimostrerebbero che condividono molti fattori di rischio ambientali. Entrambe le patologie per esempio sono frequenti in bambini che non sono stati allattati al seno o che sono stati esposti agli antibiotici nei primi anni di vita. Questo trial è stato disegnato per esaminare l’associazione tra asma e malattia di Crohn o tra asma e colite ulcerosa con un modello caso-controllo studiando in dati clinici di pazienti della provincia di Alberta, in Canada. La probabilità di una diagnosi di asma precedente la diagnosi di malattia di Crohn (N =3.087) o di colite ulcerosa (N =2.377) è stata confrontata con la probabilità di diagnosi di asma in una popolazione (N =402.800) non affetta da questi tipi di malattie intestinali utilizzando il metodo statistico della regressione logistica. È stata poi analizzata la modificazione dell’effetto dell’età alla diagnosi suddividendo il campione in tre coorti: età inferiore a 16 anni, età tra 17 e 40 anni, più di 40 anni. Dall’analisi statistica è risultato che la
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diagnosi di asma era associata a un incremento della probabilità di una malattia di Crohn occasionale (odds ratio aggiustato: 1,45; IC al 95 per cento 1,31-1,60). La modificazione della misura per l’età al momento della diagnosi non è stata osservata per la malattia di Crohn (p =0,42), ma solo per la colite ulcerosa (p =0,103) con un odds ratio di 1,49 (IC al 95 per cento 1,08-2,07) tra gli individui che hanno ricevuto la diagnosi a un’età di 16 anni o meno e con un odds ratio di 1,57 (IC al 95 per cento 1,31-1,89) tra i soggetti che hanno ricevuto la diagnosi a più di 40 anni. Infine, non è emersa alcuna associazione tra asma e colite ulcerosa tra i soggetti che hanno ricevuto la diagnosi tra 17 e 40 anni (odds ratio aggiustato: 1,05; IC al 95 per cento 0,86-1,26). Alla ricerca futura spetterà il compito di indagare i meccanismi che collegano l’asma alle MICI, con particolare riferimento ai fattori genetici e ambientali, e all’impatto del microbioma. Per comprendere meglio tali associazioni, gli Autori auspicano che gli studi su asma e colite ulcerosa siano età-specifici. ● Kuenzig ME, Barnabe C, Seow CH et al. Clin Gastroenterol and Hepatol 2017; 15: 1405-12
BPCO
Percezione dei sintomi e qualità della vita: confronto tra il punto di vista dei pazienti e quello dei medici
O
biettivo dello studio, che vedeva coinvolti tra gli altri anche ricercatori dell’Università e del Policlinico di Milano era di trovare possibili differenze tra la percezione che i pazienti affetti da BPCO hanno della loro malattia e la percezione che i medici hanno di come la malattia influenzi i loro pazienti. Gli Autori hanno chiesto a 334 pazienti di Spagna, Italia e Germania di rispondere alle domande del questionario Medica Investigation of Respiratory COPD Perception. Hanno poi somministrato lo stesso questionario ai loro MMG (N = 333) e ai loro pneumologi (N = 333). Dai dati è emerso che la percezione tipica che gli pneumologi hanno del malato è di un soggetto di età avanzata con malattia di grado avanzato, mentre tra i pazienti prevale l’immagine tipica di un fumatore abituale. La BPCO è considerata un problema sanitario molto rilevante sia dai pazienti sia dai medici, ma il suo impatto sulla qualità della vita era percepito maggiormente tra i pazienti più gravi che tra i medici. Inoltre, i medici tendevano a porre più attenzione ai sintomi, quali la tosse, il catarro e la dispnea, mentre tendevano a sottostimare l’impatto della BPCO sul tempo libero e sulle attività ricreative, molto significativo invece per i pazienti. Infine, dallo studio è emerso che la maggior parte dei pazienti non è stata completamente sincera con il medico durante la visita, e che sia gli pneumologi sia i MMG sembravano riconoscere l’esistenza di questo problema, sottostimandone tuttavia la diffusione. Secondo le conclusioni, al fine di migliorare la comunicazione medico-paziente, nel colloquio con i propri curanti i pazienti dovrebbero essere incoraggiati a essere più sinceri circa sintomi e sensazioni, e i medici ad avere una maggiore attenzione all’impatto della BPCO in ambiti tradizionalmente non considerati, ma che i pazienti ritengono importanti. ● Celli B, Blasi F, Gaga M et al. Int J of BPCO 2017; 12: 2189-96
la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!
Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.
www.medicoepaziente.it
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medicina
Pneumologia
Asma bronchiale Nuove opzioni di trattamento per il controllo delle forme gravi L’asma grave compromette significativamente la qualità di vita dei pazienti e ha un peso rilevante a livello sanitario e sociale. La possibilità di trattare questa forma di malattia con farmaci biologici sta aprendo nuove prospettive nella gestione clinica Claudio Micheletto UOC di Pneumologia, Ospedale Mater Salutis – Legnago (Verona)
L’
asma bronchiale è una malattia eterogena, di solito caratterizzata da un’infiammazione cronica delle vie aeree. È definita da una storia di sintomi respiratori, quali respiro affannoso, dispnea, oppressione toracica e tosse, che variano nel tempo e d’intensità, associandosi a una limitazione variabile del flusso d’aria espiratorio (1). Attualmente i corticosteroidi inalatori (ICS) costituiscono la terapia di prima scelta per la gestione dell’asma persistente, poiché riducendo la flogosi sono in grado di migliorare la funzionalità respiratoria, di ridurre i sintomi, le riacutizzazioni e l’uso dei broncodilatatori al bisogno. Nel caso i sintomi non siamo controllati, le linee guida prevedono l’incremento del dosaggio steroideo o l’aggiunta di un broncodilatatore a lunga durata d’azione (LABA). L’utilizzo di antileucotrienici e di teofillina a lento rilascio, aggiunti a ICS a basso dosaggio, costituiscono una scelta alternativa terapeutica per i pazienti affetti da asma non controllato. La maggior parte dei pazienti, con l’uso di un LABA associato a un ICS in un unico inalatore, riesce a ottenere un ottimo controllo della sintomatologia (2). Tuttavia, pur usando regolarmente e correttamente una terapia adeguata, una parte di pazienti, affetti da asma grave, ha sintomi quotidiani e un elevato rischio di riacutizzazioni e ospedalizzazioni. La prevalenza dell’asma grave è stimata tra il 5 e il 10 per cento dei soggetti asmatici. Esistono varie definizioni di asma grave: quella più accreditata identifica con asma grave quel sottogruppo di pazienti asmatici che, per raggiungere il controllo della sintomatologia asmatica, necessita di terapia inalatoria massimale (steroide topico a dosaggio elevato associato a un secondo agente farmacologico controller, generalmente i broncodilatatori a lunga durata d’azione) con
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o senza aggiunta di steroide per via generale (3). Nonostante l’alto dosaggio della terapia, una quota di questi pazienti può comunque presentare sintomi asmatici con frequenti riacutizzazioni, condizione nota con l’acronimo SUA (Severe Uncontrolled Asthma), che compromette significativamente la qualità di vita del paziente e presenta un impatto molto rilevante anche in termini di costi sanitari. Su questa condizione incidono fattori legati al paziente (presenza di comorbidità, scarsa aderenza alla terapia, fattori psico-sociali) e fattori legati alla terapia, sia in termini di efficacia, che di effetti indesiderati, in particolare della terapia steroidea sistemica assunta per periodi prolungati. Negli ultimi anni, nuove opzioni terapeutiche si sono aggiunte, o stanno per aggiungersi, per la gestione dell’asma grave (Step 4 e 5 delle linee guida GINA 2015) (4) con l’obiettivo di ridurre le riacutizzazioni, migliorare la funzionalità respiratoria e sostituire lo steroide sistemico con farmaci parimenti efficaci, ma meglio tollerati.
Intervento farmacologico sul muscolo liscio Alcuni studi hanno posto in evidenza come l’aggiunta di farmaci muscarinici a lunga durata d’azione (LAMA) sia in grado di migliorare la funzione respiratoria e di ridurre la frequenza delle riacutizzazioni in pazienti asmatici non ben controllati dalla terapia di associazione steroidi topici + broncodilatatori a lunga durata d’azione (5). I dati più solidi sono per il tiotropio, che ha dimostrato in diversi studi clinici di migliorare la funzionalità respiratoria e ridurre le riacutizzazioni in asmatici gravi non controllati, in trattamento con LABA e ICS a elevato dosaggio. I mec-
canismi attraverso cui i LAMA possono agire nell’asma sono diversi: possono indurre broncodilatazione e inibire la broncocostrizione mediata dal sistema colinergico, inibire l’ipertrofia della muscolatura liscia delle vie aeree, ridurre le secrezioni mucose e l’ipertrofia delle globbet cell (6). Il tiotropio con modalità di erogazione Soft Mist Inhaler con il device Respimat® è stato approvato per l’asma bronchiale, dopo studi clinici consistenti che ne hanno dimostrato l’efficacia. Le attuali indicazioni considerano il tiotropio come un’alternativa ai LABA nei pazienti con asma lievemoderato che non raggiungono un adeguato controllo dei sintomi con il solo ICS, oppure costituisce una terapia aggiuntiva in coloro che non sono sufficientemente controllati dalla terapia di associazione con ICS/LABA. In uno studio condotto su asmatici gravi-persistenti, già trattati con ICS a dose elevata associati a LABA, la monosomministrazione giornaliera di tiotropio alla dose di 5 μg determinava un significativo miglioramento della funzionalità respiratoria, una riduzione del tasso di riacutizzazioni (-21 per cento rispetto al placebo) e un incremento del tempo alla prima riacutizzazione ( +56 giorni) (7). Due successivi studi hanno coinvolto 2.103 pazienti con asma moderato non controllato dal solo trattamento con ICS a medio dosaggio (400-800 μg budesonide o equivalenti). Questi pazienti sono stati trattati con tiotropio 5 μg in monosomministrazione oppure con salmeterolo 50 μg bid. I miglioramenti statisticamente significativi sia sulla funzione respiratoria che sulla qualità di vita sono risultati sovrapponibili con i due broncodilatatori, confermando che il tiotropio può essere una valida alternativa ai classici LAMA (8). Come già noto nella BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), il tiotropio in trattamento di mantenimento aggiuntivo (agli ICS e agli ICS/LABA) nell’asma bronchiale non controllato, di differente gravità, ha dimostrato un profilo di tollerabilità confrontabile con quello del placebo (9).
Trattamento della flogosi Th2 ❱ Le IgE circolanti Il primo bersaglio della terapia biologica sono state le IgE circolanti che hanno un ruolo fondamentale nell’asma allergico. L’anticorpo monoclonale omalizumab si lega alle IgE circolanti, determinando un effetto pleiotropico sulle numerose cellule della flogosi Th2 acquisita allergica. Infatti la riduzione delle IgE circolanti induce la progressiva scomparsa dalla superfice delle membrane cellulari di mastociti, linfociti e cellule dendritiche, dei recettori ad alta affinità per le IgE (recettore FcεRI), che a sua volta determina la progressiva “down regulation” dell’intero sistema Th2 con effetti sulla produzione di numerose citochine. Ciò è alla base del miglioramento del controllo dei sintomi e soprattutto dell’importante riduzione delle riacutizzazioni (10). L’effetto clinico dell’omalizumab può essere previsto attraverso alcuni biomarkers: gli eosinofili circolanti, l’ossido
• L’asma grave ha una prevalenza stimata che varia tra il 5 e il 10 per cento dei soggetti asmatici. Per raggiungere il controllo della sintomatologia, i pazienti che vi soffrono necessitano di terapia inalatoria al massimo dosaggio, con o senza l’aggiunta di uno steroide per via generale • La possibilità di impiego di farmaci biologici, che riducono l’attività delle IgE oppure la flogosi eosinofilica, sta allargando gli orizzonti terapeutici e implica la necessità di una corretta caratterizzazione clinica del paziente nitrico esalato (FeNO) e la periostina, tutti indicatori del livello di attività della flogosi Th2. È stato dimostrato che i pazienti asmatici allergici che presentano i livelli più alti di questi indicatori all’inizio della terapia sono quelli che presentano le migliori probabilità di risposta terapeutica all’omalizumab (11). Tuttavia, a conferma della possibilità di coesistenza di più endotipi nell’ambito di uno stesso fenotipo e del loro impatto sull’esito della terapia, è stato dimostrato che l’efficacia di omalizumab è inferiore nei pazienti che presentano asma allergico con comorbidità, come la poliposi nasale, in cui una parte dell’infiammazione eosinofila è sostenuta da cellule della flogosi Th2 innata (ILC2), che sono meno suscettibili all’effetto delle anti-IgE (12). Oltre a ridurre l’eosinofilia, omalizumab si è dimostrato in grado di migliorare il rimodellamento delle vie aeree, una delle caratteristiche fondamentali dell’asma bronchiale, tramite la riduzione dell’ispessimento della membrana basale (13). ❱ Le citochine della flogosi Th2 Oltre che in modo indiretto, attraverso la sottrazione di IgE, è possibile intervenire direttamente sulla flogosi Th2 agendo su specifici bersagli molecolari, rappresentati dalle citochine o dai loro recettori. Le citochine specifiche della flogosi Th2 sono l’IL-4 e l’IL-13, secrete dai linfociti Th2, che regolano numerose interazioni tra sistema immunitario, cellule epiteliali e cellule muscolari bronchiali. Le funzioni principali di IL-4 e IL-13 consistono nel regolare la proliferazione dei linfociti Th2, l’espressione delle molecole di adesione sulle cellule endoteliali e il livello di contrattilità della muscolatura liscia bronchiale. Sono disponibili due anticorpi monoclonali: il lebrikizumab, che lega la citochina IL-13 circolante, rimuovendola dal circolo, e il dupilumab, che invece si lega alla parte comune del recettore per IL-13 MEDICO e PAZIENTE | 5.2017 |
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medicina
Pneumologia
Figura 1 Il ruolo dell’IL-5
Fonte: modificato da Catley MC et al. (16)
e del recettore per IL-4, inibendo il loro effetto su entrambi i recettori. Il lebrikizumab è stato il primo a dimostrare efficacia nell’asma grave di pazienti che presentavano una serie di caratteristiche: responsività allo steroide topico ad alto dosaggio, elevata iperreattività bronchiale aspecifica, elevato livello di IgE totali e di eosinofili circolanti indipendentemente dalla presenza di allergia (i cosiddetti asmatici con flogosi Th2 a elevata attività). Si è potuto documentare un effetto significativo sul FEV1 e sulle riacutizzazioni solo nel sottogruppo di soggetti asmatici con flogosi Th2 a elevata attività, che presentavano un elevato livello di periostina. Questa molecola, che origina dall’epitelio bronchiale a seguito della stimolazione dell’IL-13, sembra implicata nell’interazione tra cellule epiteliali e cellule residenti della membrana basale. Questo risultato suggerisce che, la massima attività terapeutica del lebrikizumab è limitata a un sottogruppo di asmatici con flogosi Th2 ad alta attività (14). Il dupilumab ha dimostrato efficacia sia sulla dermatite atopica che sull’asma bronchiale confermando uno degli assiomi della medicina personalizzata, ovvero che l’azione mirata sull’endotipo ottiene una significativa risposta clinica indipendentemente dall’espressione fenotipica. Nei pazienti con asma non controllato nonostante terapia con steroide topico + broncodilatatore a lunga durata d’azione è stato dimostrato non solo l’atteso effetto sull’incidenza delle riacutizzazioni, ma anche un rapido e significativo effetto sulla funzione respiratoria, documentato ad esempio dal rapido miglioramento del FEV1, che differenzia dupilumab dagli altri biologici impiegati sulla flogosi Th2 (omalizumab e
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lebrikizumab). La risposta clinica si associa alla netta riduzione del FeNO, che conferma un intenso effetto sulla flogosi Th2 locale delle vie aeree come già documentato con lo steroide topico (15). ❱ Le citochine regolatorie degli eosinofili Il coinvolgimento degli eosinofili nella flogosi allergica e nell’asma bronchiale è ampiamente documentato; in particolare è nota la loro presenza a livello delle mucose respiratorie nei soggetti asmatici e la relazione tra livello di eosinofili, sia nell’escreato indotto bronchiale sia nel circolo sistemico, e il rischio di riacutizzazioni asmatiche (16). L’interleuchina-5 (IL-5) è essenziale per la differenziazione, maturazione, migrazione in circolo e la sopravvivenza nei tessuti degli eosinofili (Figura 1) (16-17). Gli eosinofili sono cellule effettrici tipiche della risposta Th2; una volta attivati presentano una produzione autocrina di IL-5 che contrasta l’apoptosi. Sono attualmente disponibili due anticorpi monoclonali umanizzati (mepolizumab e reslizumab) che legano la IL-5 circolante e un anticorpo monoclonale (benralizumab), che si lega al recettore per IL-5 sugli eosinofili. Il blocco dell’attività dell’IL-5, con conseguente riduzione nella produzione e nell’attivazione degli eosinofili, è una modalità innovativa per trattare tutte le forme di asma in cui l’eosinofilia è preminente. Mepolizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato IgG1 kappa, non glicosilato, che inibisce l’attività di IL-5, prevenendone il legame alla catena α del recettore per IL-5. I primi studi hanno dimostrato che mepolizumab era efficace nel diminuire la conta eosinofilica riducendo i progenitori degli eosinofili nella mucosa bronchiale e sopprimendo il tasso di maturazione nel midollo osseo degli asmatici (18). Gli studi clinici con mepolizumab documentano un miglioramento del controllo dei sintomi, un miglioramento della funzionalità respiratoria e una significativa riduzione delle riacutizzazioni nei pazienti asmatici con eosinofilia ematica >300 eosinofili/µl (19-20). Il successivo studio SIRIUS ha valutato l’effetto di mepolizumab 100 mg come risparmiatore di steroide in pazienti asmatici che ricevevano corticosteroidi orali per almeno sei mesi all’anno (dose media di 12,5 mg di prednisone/die) (21). Oltre all’effetto sulla riduzione del tasso di riacutizzazioni e sui sintomi, i pazienti trattati con mepolizumab hanno sostanzialmente dimezzato il dosaggio steroideo siste-
mico. Il numero delle riacutizzazioni è risultato nettamente gia mediante la riduzione della massa del muscolo liscio ridotto anche nello studio MENSA, che ha incluso pazienti delle vie aeree, la principale causa della riduzione dei con almeno 150 eosinofili/μl allo screening o 300 eosinoflussi delle vie aeree (29). Questa metodica agisce medianfili/μl nell’anno precedente (22). Sia nello studio MENSA te il rilascio di energia termica controllata nelle vie aeree che nello studio SIRIUS i pazienti trattati con mepolizumab durante broncoscopia, usando un generatore elettrico di hanno manifestato gli stessi eventi avversi di coloro che radiofrequenza, la cui energia elettrica è convertita in casono stati trattati con placebo. lore quando impatta sulla resistenza tissutale. La TB viene Il reslizumab si lega alla regione ERRR dell’IL-5, che è cricompletata dopo tre procedure effettuate a circa 20 giorni una dall’altra. In pazienti selezionati, la TB ha dimostrato tica per la sua interazione con il recettore, con conseguente di migliorare la qualità di vita, di ridurre i sintomi asmatici inibizione della sua bioattività (23). Negli studi clinici, al e il numero delle riacutizzazioni in un periodo di osserdosaggio di 3,0 mg/kg e.v. ogni 4 settimane, ha dimostrato di ridurre le riacutizzazioni e l’eosinofilia nell’escreato, di vazione prolungato di 5 anni (30). Rimangono aspetti da migliorare la qualità di vita e la sintomatologia in asmatici chiarire sul meccanismo d’azione, sugli effetti fisiopatologici già trattatati con alte dose di ICS ed eosinofilia ematica a lungo termine, e sul posizionamento di questa procedura prima del trattamento >400/µl (24-25). non farmacologica nel contesto dei trattamenti biologici Il benralizumab è un anticorpo monoclonale umano afudell’asma grave. L’indicazione più suggestiva sembra essere l’asma grave non eosinofilico, caratterizzato da una flogosi cosilato di tipo IgA1 che si lega alla subunità alfa del neutrofilica o pauci-cellulare. recettore dell’IL-5. Benralizumab ha dimostrato di ridurre gli eosinofili ematici e i loro precursori midollari mediante citotossicità cellulo-mediata da anticorpi, quindi con un mecConclusioni canismo molecolare profondamente diverso dagli analoghi anticorpi che legano IL-5 circolante (26). Benralizumab Si sta aprendo una stagione di nuove prospettive terapeutiha dimostrato efficacia nei confronti delle riacutizzazioni che nell’asma grave, che implica per il clinico una revisione nell’asma grave eosinofilico non controllato, con valori di profonda nel modo di gestire questi pazienti. La possibilità eosinofili periferici >300/μl. Negli ultimi due studi è stato di usare farmaci biologici, che riducono l’attività delle IgE proposto con uno schema posologico originale rispetto agli o la flogosi eosinofilica Th2 mediata, implica la necessità altri agenti biologici, che prevede una somministrazione di un corretto percorso terapeutico che dovrebbe verificare sottocute a dose fissa (30 mg) ogni otto settimane (27-28). (Figura 2): Tale schema posologico ha confermato la capacità di benra• che si tratti effettivamente di asma bronchiale • che il paziente usi correttamente l’inalatore lizumab di migliorare il FEV1 rispetto al placebo, ridurre la sintomatologia e il numero di riacutizzazioni negli asmatici non controllati con eosinofili >300/μl. Figura 2 Proposta operativa per identificare i Pazienti Di particolare interesse è l’effetto da sottoporre a trattamento con agenti biologici di questi anticorpi monoclonali nei pazienti steroido-dipendenti, in particolare nel fenotipo di asma grave, che presenta associazione con poliposi nasale e intolleranza ai FANS. In questi soggetti è stata dimostrata la presenza di un’eosinofilia riconducibile all’intensa attivazione della flogosi Th2 innata, legata alla presenza delle cellule ILC2.
Intervento non farmacologico sul muscolo liscio La termoplastica bronchiale (TB) rappresenta un innovativo trattamento non farmacologico per la terapia dell’asma grave che intende migliorare il controllo della patoloMEDICO e PAZIENTE | 5.2017 |
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medicina
Pneumologia
• che il paziente assuma la terapia • che non ci siano patologie concomitanti in grado di peggiorare i sintomi • che si tratti di una flogosi eosinofilica. Il trattamento con farmaci biologici è una nuova sfida nella terapia dell’asma severo. L’incremento delle opzioni terapeutiche ha consentito di riprendere il tema della fenotipizzazione e della terapia personalizzata, anche per un problema di sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale. L’utilizzo di biomarkers economici e validati, oltre alla valutazione fisiopatologica e clinica, sono i cardini per un corretto inquadramento dei diversi fenotipi. Solo con una specifica comprensione delle nuove opportunità e delle caratteristiche del paziente non controllato si potranno raccogliere le sfide ancora aperte in tema di asma severo.
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medicina
approfondimenti
A cura di Folco Claudi
Novità per la BPCO dalle linee guida GOLD La revisione 2017 delle linee guida per la broncopneumopatia cronica ostruttiva introduce importanti variazioni rispetto al passato sia per la valutazione del paziente sia per la terapia con broncodilatatori
N
el 2012 nel mondo oltre 3 milioni di persone sono morte a causa della BPCO, rappresentando circa il 6 per cento di tutti i decessi. Basterebbe questo dato per raccontare le dimensioni di un problema di sanità pubblica globale tra i più rilevanti. E certo non lasciano ben sperare le proiezioni per i prossimi decenni, in virtù di fattori di rischio che non accenneranno a diminuire e di una popolazione generale che continuerà a invecchiare. È in questo quadro preoccupante che la Strategia globale per la diagnosi, il trattamento la prevenzione della BPCO ha pubblicato la nuova revisione delle linee guida GOLD. Il documento ribadisce i fattori di rischio più comuni per la BPCO, definita come “il risul-
tato di una complessa interazione di esposizione cumulativa a lungo termine a gas nocivi e particelle, combinata con una varietà di fattori dell’ospite, tra cui il profilo genetico, l’ipereattività delle vie aeree e il minor sviluppo del polmone durante l’infanzia”. Sotto accusa nello specifico sono il fumo di tabacco (compreso il fumo passivo), l’inquinamento indoor, l’esposizione professionale a polveri organiche, inorganiche o agenti chimici, gas di scarico e l’inquinamento dell’aria esterna. Aumentano il rischio il deficit ereditario grave di alfa-1 antitripsina (AATD), l’invecchiamento e il genere femminile. A completare il quadro eziopatogenetico vi sono lo status socioeconomico, l’asma, la bronchite cronica e la storia di infezioni. Ma l’attenzione di tutti gli
La bpco è tra le patologie a maggiore impatto sociale, economico e sanitario del nostro tempo, collocandosi ai primi posti per morbilità e mortalità. E purtroppo tale trend si conferma anche nelle proiezioni future
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pneumologi è dedicata alle numerose novità di queste linee guida, contenute in particolare nei criteri di diagnosi e di valutazione del paziente e nei criteri per il trattamento farmacologico con terapia di combinazione.
Criteri di diagnosi Quando bisogna porre il sospetto diagnostico di BPCO? Secondo le nuove linee guida, in tutti i pazienti con dispnea, tosse cronica o espettorato, e quando è nota una storia di esposizione a fattori di rischio per la malattia (Tabella 1). Per la diagnosi, è necessario procedere a una spirometria: il valore soglia per la conferma di una ostruzione bronchiale persistente è un FEV1/FVC inferiore a 0,70 dopo l’assunzione di un broncodilatatore. Una volta posta la diagnosi di BPCO, la priorità è stabilire la gravità della malattia e, in particolare, della limitazione del flusso aereo, e il grado d’incidenza sullo stato di salute del paziente, tenendo conto delle comorbilità croniche, spesso presenti in questo tipo di pazienti, come malattie
tabella 1 Indicatori chiave per la diagnosi di BPCO Considerare la diagnosi di BPCO ed eseguire la spirometria se uno dei seguenti indicatori è presente in un individuo di età superiore a 40 anni. Questi indicatori non sono diagnostici di per sé, ma la presenza di più indicatori chiave aumenta la probabilità di una diagnosi di BPCO. La spirometria è necessaria per confermare la diagnosi di BPCO.
Dispnea:
Progressiva nel tempo Peggiora solitamente con lo sforzo Persistente
Tosse cronica:
Può essere intermittente e può essere non produttiva Respiro sibilante ricorrente
Produzione cronica di escreato:
Qualsiasi tipo di espettorazione cronica può indicare la presenza di BPCO
Infezioni ricorrenti delle vie aeree inferiori Storia di esposizione ai fattori di rischio:
Fattori legati all’ospite Fumo di tabacco (incluse le preparazioni locali generiche) Fumo proveniente da biocombustibili per cucinare e riscaldare Polveri, vapori, fumi, gas e altri agenti chimici professionali
Familiarità per BPCO e/o fattori legati all’infanzia:
Ad esempio basso peso alla nascita, infezioni respiratorie nell’infanzia
cardiovascolari, carcinoma polmonare, disfunzione dei muscoli scheletrici, sindrome metabolica, osteoporosi, depressione e ansia. Nel definire e gestire la terapia, inoltre, dev’essere posta particolare attenzione al rischio di eventi futuri, in termini di riacutizzazioni, ricoveri ospedalieri o morte.
Gravità dell’ostruzione aerea Per semplicità, le linee guida GOLD 2017 propongono una classificazione della gravità della limitazione del
flusso aereo basata su quattro gradini, da GOLD 1 a GOLD 4, corrispondenti a specifici valori di soglia spirometrici (Tabella 2). La valutazione spirometrica dovrebbe essere eseguita dopo la somministrazione, in dose adeguata, di almeno un broncodilatatore a breve durata d’azione per minimizzare la variabilità. Da sottolineare che esiste soltanto una debole correlazione tra i valori di VEMS (FEV1), sintomi e impatto sullo stato di salute di un paziente: è per questo che il medico deve procedere anche a un’accurata valutazione dei sintomi.
La valutazione combinata della BPCO Valutazione dei sintomi, classificazione spirometrica ed eventualmente rischio di esacerbazioni sono i capisaldi di una corretta comprensione dell’impatto della BPCO sul paziente. L’aggiornamento 2011 delle linee guida GOLD introdusse lo strumento di valutazione “ABCD”, con lo specifico obiettivo di affiancare alla valutazione spirometrica gli outcome riferiti dai pazienti, al fine di prevenire al meglio le riacutizzazioni di malattia.
tabella 2 Classificazione di gravità della limitazione al flusso aereo nella BPCO* Nei pazienti con FEV1/CVF <0,70 GOLD 1
Lieve
FEV1 ≥80% del predetto
GOLD 2
Moderato
50% ≤ FEV1 <80% del predetto
GOLD 3
Grave
30% ≤ FEV1 <50% del predetto
GOLD 4
Molto grave
FEV1 <30% del predetto
Note: *basata sul VEMS (FEV1) post-broncodilatatore
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Lo strumento di valutazione tuttavia non ha dato i risultati sperati, soprattutto perché non fornisce una correlazione con la previsione di mortalità o di altri importanti esiti della BPCO migliore rispetto alla spirometria. Pur mantenendo l’impianto di base, in questo nuovo aggiornamento si è deciso quindi di modificare i gruppi ABCD, escludendo la spirometria e considerando esclusivamente i sintomi riferiti dal paziente e la storia di riacutizzazioni: i quattro gruppi ABCD corrispondono sostanzialmente a quattro quadranti in un grafico car-
tesiano che ha in ascissa i sintomi e in ordinata la storia di riacutizzazioni (Figura 1). I punteggi mMRC e CAT si riferiscono rispettivamente al Modified British Medical Research Council Questionnaire (mMRC), un vecchio questionario dedicato alla valutazione della dispnea, e al COPD Assessment Test, un questionario di controllo della BPCO. Nel nuovo schema di valutazione, si individuano quindi tre fasi tra loro successive. Nella prima, il paziente deve essere sottoposto a spirometria per determinare la gravità della limi-
tazione del flusso aereo, in seguito dev’essere sottoposto a valutazione della dispnea e infine dev’essere registrata la storia di riacutizzazioni, in particolare di ospedalizzazioni (Figura 2).
Strategia d’intervento Una volta diagnosticata la BPCO nel paziente, inizia la strategia terapeutica. Il primo punto imprescindibile è convincere il paziente a smettere di fumare. Il secondo approccio è chiaramente la prescrizione di una terapia
“Più passi, più respiro”: un progetto per ridare fiato ai pazienti con BPCO Sta per concludersi la campagna di sensibilizzazione di SIP e AIPO per convincere i pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva a fare più moto La dispnea, uno dei principali sintomi della BPCO, è fonte per i pazienti di un notevole disagio. È per questo motivo che molti di loro tendono a diminuire l’attività fisica, peggiorando ulteriormente i sintomi e auto-condannandosi a una sempre maggiore immobilità. Per cercare di spezzare questa spirale negativa, la Società Italiana di Pneumologia (SIP), in collaborazione con l’Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri (AIPO) e con il sostegno di AstraZeneca, ha avviato la campagna di sensibilizzazione “GET Moving BPCO - Più passi, più respiro” con il preciso scopo di promuovere il movimento quotidiano e l’attività fisica nei soggetti affetti dalla malattia. Il progetto, che si concluderà alla fine dell’anno, si è concretizzato nella distribuzione in 132 centri di pneumologia di 4.000 braccialetti contapassi corredati da una App che consente ai medici di monitorare i progressi dei pazienti, nonché di fornire consigli di stile di vita e indicazioni su come migliorare l’aderenza alla terapia. Per il paziente medio, l’obiettivo è di fare 600 passi al giorno, corrispondenti a circa 200-300 metri, in sei minuti, il limite stabilito dal più utilizzato test di funzione respiratoria per individuare i pazienti più a rischio. “Si tratta di una strategia molto efficace, confermata anche da uno studio pubblicato sulla rivista Thorax: dopo 12 settimane di utilizzo di un contapassi che funge da coach personalizzato, i pazienti aumentano il livello di attività fisica, muovendosi in media per 10 minuti in più e percorrendo oltre 1.400 passi in più ogni giorno”, ha spiegato Francesco Blasi, presidente SIP, nel corso della presentazione del progetto. “Il medico può infatti stimolare i pazienti a implementare la propria attività fisica quotidiana, monitorata attraverso il rilievo immediato del contapassi; le visite di controllo forniscono poi l’occasione per il paziente e per il medico di valutare il miglioramento della qualità della vita e la gestione della patologia”. “L’importante è iniziare a muoversi, perché così facendo s’innescano gli effetti positivi del movimento e si contrasta il deterioramento respiratorio”, ha aggiunto Mario Cazzola, professore onorario di Malattie Respiratorie dell’Università di Roma Tor Vergata. “Non è mai troppo tardi per farlo: l’ideale sarebbe di dedicare al moto trenta minuti al giorno, iniziando pian piano e facendosi guidare dalla sensazione di fiato corto per adattare lo sforzo alle proprie capacità”.
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Figura 1 Gruppi ABCD per la valutazione di sintomi e rischio di riacutizzazioni della BPCO Storia di riacutizzazioni ≥2 oppure ≥ 1 con ricovero ospedaliero
C
D
A
B
mMRC 0-1 CAT <10
mMRC ≥2 CAT ≥10
0 oppure 1 (senza ricovero ospedaliero)
Sintomi farmacologica in grado di ridurre i sintomi, ridurre la frequenza e la gravità delle riacutizzazioni, migliorare la tolleranza all’esercizio fisico e di conseguenza lo stato di salute complessivo del paziente. Il regime farmacologico deve essere personalizzato e guidato dalla gravità dei sintomi, dal rischio di riacutizzazioni, dalla comparsa di effetti collaterali e dalle comorbilità. Particolare attenzione deve essere dedicata all’aderenza al trattamento da parte del paziente, valutando con regolarità la tecnica inalatoria. Da sottolineare che la vaccinazione antinfluenzale e quella anti-pneumococcica possono ridurre l’incidenza delle infezioni delle vie respiratorie. Non è da trascurare la riabilitazione polmonare, che ha dimostrato di poter migliorare i sintomi, la qualità
della vita, il coinvolgimento fisico ed emotivo nelle attività quotidiane del paziente. In condizioni di grave ipossiemia cronica a riposo, un valido ausilio per migliorare la sopravvivenza è l’ossigenoterapia.
La terapia farmacologica La somministrazione di farmaci nella BPCO ha lo scopo di ridurre sintomi, frequenza e gravità delle riacutizzazioni, nonché di migliorare la tolleranza allo sforzo e lo stato di salute complessivo del paziente: allo stato attuale non esistono dati che possano dimostrare una modificazione del declino a lungo termine della funzione polmonare. La novità di delle linee guida GOLD
2017 è la raccomandazione all’uso di una terapia combinata con broncodilatatori con diverso meccanismo e diversa durata d’azione, che hanno dimostrato di poter aumentare il grado di broncodilatazione, con meno effetti collaterali rispetto all’incremento di dosaggio di un singolo broncodilatatore. Un miglioramento dei sintomi e dello stato di salute dei pazienti con BPCO si ottiene in particolare con un regime di trattamento combinato LABA/LAMA a dosaggio minore due volte al giorno. Esistono in commercio anche combinazioni di un LABA e un LAMA in un unico inalatore, a tutto vantaggio dell’aderenza alla terapia. Anche le combinazioni di SABA e SAMA sono più efficaci rispetto al solo farmaco nei migliorare i sintomi FEV1. Per quanto riguarda i corticosteroidi per via inalatoria (ICS), le nuove linee guida sottolineano che in pazienti con BPCO da moderata a molto grave e riacutizzazioni, un ICS combinato con un LABA è più efficace di ciascun componente da solo nel migliorare la funzione polmonare, lo stato di salute e nel ridurre le riacutizzazioni. Un cenno infine alla triplice terapia che può avvenire con diversi approcci ed è riservata ai pazienti più gravi, in cui può migliorare la funzione polmonare e gli outcomes riferiti dal paziente stesso; l’aggiunta di un LAMA alla terapia presistente LABA/ICS ha un impatto positivo sul rischio di riacutizzazioni. Le linee guida al momento sottolineano la necessità di ulteriori dati al fine di trarre conclusioni definitive sui benefici della triplice terapia LABA/ LAMA/ICS rispetto alla duplice LABA/ LAMA.
Figura 2 Lo strumento di valutazione ABCD modificato Diagnosi confermata alla spirometria
Valutazione di gravità della limitazione al flusso aereo
Valutazione di sintomi/rischio di riacutizzazioni
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intervista
Come cambierà la gestione del paziente con BPCO alla luce delle indicazioni GOLD Intervista al professor Girolamo Pelaia Le recenti linee guida GOLD introducono alcune importanti novità, sia per la valutazione del paziente sia per la terapia, che potrebbero cambiare l’approccio clinico alla malattia anche nel nostro Paese. Abbiamo approfondito la questione con Girolamo Pelaia, professore ordinario di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università “Magna Græcia” di Catanzaro e direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio dello stesso ateneo. ❱ Prof. Pelaia, la BPCO rappresenta attualmente una delle prime cause di morte nel mondo, soprattutto nel mondo occidentale. Quali sono i dati più recenti riguardanti prevalenza e incidenza nel nostro Paese e quali variazioni sono attese per il futuro? La BPCO è attualmente la quarta causa di morte nel nostro pianeta e purtroppo, secondo le attuali proiezioni epidemiologiche, diventerà la terza nel 2020, quindi tra pochissimi anni. I dati epidemiologici italiani sono abbastanza in linea con quelli degli altri paesi del mondo occidentale: pur tenendo conto delle variazioni tra le diverse aree geografiche, la percentuale di prevalenza si attesta intorno al 5-6 per cento; ciò significa che in Italia almeno tre milioni di persone sono affette da BPCO. Sottolineo però che stiamo parlando della prevalenza nella popolazione globale: via via che si progredisce verso le decadi più avanzate della vita, questa percentuale di prevalenza aumenta enormemente, considerando anche che l’azione
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Girolamo Pelaia Università “Magna Graecia”, Catanzaro
patogena del fumo di sigaretta è caratterizzata da una latenza di numerosi anni o alcuni decenni. Come dicevo, sono numeri molto rilevanti, non solo per la situazione attuale, ma anche per le prospettive future. Infatti, nell’ambito delle più importanti e diffuse malattie croniche che affliggono l’umanità, la BPCO è quella che manifesta la più alta tendenza al progressivo incremento come causa di morbilità e di mortalità. Ciò è soprattutto dovuto al fatto che i principali agenti eziopatogenetici di questa malattia, cioè il fumo di sigaretta e l’inquinamento atmosferico, purtroppo non hanno subito alcuna significativa riduzione negli ultimi anni: si tratta veramente di un’emergenza socio-sanitaria mondiale.
❱ In questo quadro globale, sono state pubblicate le nuove linee guida GOLD. Quali sono le novità più importanti?
I principali agenti eziopatogenetici di questa malattia, cioè il fumo di sigaretta e l’inquinamento atmosferico, purtroppo non hanno subito alcuna significativa riduzione negli ultimi anni: si tratta veramente di un’emergenza sociosanitaria mondiale
Se ripercorriamo l’iter delle raccomandazioni GOLD negli ultimi 10-15 anni, possiamo notare una sostanziale evoluzione, in quanto prima del 2011 la valutazione del paziente era basata su criteri esclusivamente funzionali, con particolare riferimento alla spirometria. Nel 2011 si è affermata l’esigenza di integrare i criteri funzionali con parametri clinici, relativi alla considerazione dei sintomi e delle riacutizzazioni della malattia: si trattava a mio parere di raccomandazioni equilibrate. Invece, nelle raccomandazioni 2017, pubblicate nel novembre del 2016, è stata estremizzata l’importanza della clinica ed è stata molto ridimensionata la rilevanza della valutazione della funzione respiratoria, che sostanzialmente viene confinata esclusivamente alla fase diagnostica; è una posizione che io personalmente, e moltissimi pneumologi come me, non condividiamo, perché i criteri funzionali sono importanti anche per monitorare il paziente e per verificare la risposta alla terapia.
❱ Dal punto di vista delle indicazioni
intervista
terapeutiche, la novità principale consiste nel superamento della monoterapia in favore di una terapia di combinazione. A che cosa è dovuto questo cambiamento di orientamento? La broncodilatazione ha sempre rappresentato la scelta terapeutica fondamentale per il trattamento dei pazienti con BPCO; per implementare questa terapia broncodilatante esistono soprattutto due principali classi di farmaci: i beta-2 agonisti adrenergici, che nelle formulazioni a lunga durata d’azione sono denominati LABA (long-acting beta-2 adrenergic agonists), e gli antimuscarinici anticolinergici a lunga durata d’azione, noti come LAMA (long-acting antimuscarinic antagonists). In realtà, anche in passato abbiamo spesso combinato queste due classi di farmaci per raggiungere i principali obiettivi terapeutici del trattamento della BPCO, e cioè l’attenuazione dei sintomi – la dispnea soprattutto – ma anche il miglioramento della tolleranza all’esercizio fisico, la prevenzione delle riacutizzazioni e il rallentamento del progressivo declino della funzione respiratoria che caratterizza la storia naturale evolutiva di questa malattia. Però, fino a qualche tempo fa ciò si effettuava in maniera estemporanea: cioè, prescrivevamo questi due farmaci, ciascuno con il suo device, e quindi con due dispositivi diversi, uno che erogava il LAMA e l’altro che erogava il LABA. La novità terapeutica da alcuni anni è caratterizzata dalla disponibilità di un unico device, in grado di erogare, con una sola inalazione, due farmaci insieme. In effetti, questo trattamento combinato rappresenta per moltissimi pazienti la base fondamentale del trattamento della BPCO, perché consente di integrare e potenziare i diversi meccanismi di azione che perseguono il comune obiettivo della broncodilatazione. Infatti, i LAMA sono antagonisti dei recettori colinergici muscarinici, e quindi contrastano la broncocostrizione indotta dall’acetilcolina, che è il principale mediatore/neurotrasmettitore responsabile dell’ostruzione delle vie aeree in questi nostri pazienti. Invece, i LABA agiscono con un meccanismo completamente diverso, in quanto stimolano i recettori beta-2 adrenergici: in seguito a questa attivazione recettoriale, si innesca una via di trasduzione del segnale mediata dalla stimolazione dell’enzima adenilato ciclasi e dal conseguente incremento dei livelli intracellulari di AMP ciclico, un
secondo messaggero intracellulare molto importante, che determina la broncodilatazione mediante un antagonismo, in questo caso di tipo funzionale, della contrazione della muscolatura liscia delle vie aeree. Pertanto, integrandosi e potenziandosi reciprocamente, questi due differenti meccanismi d’azione operano sinergicamente ottimizzando la terapia broncodilatante in moltissimi pazienti con BPCO. Inoltre, la duplice terapia broncodilatante LABA/LAMA si estende a tutto l’albero respiratorio coinvolto nella patogenesi della malattia, poichè i recettori muscarinici bloccati dai LAMA prevalgono a livello delle vie aeree centrali prossimali di grosso calibro, mentre la densità dei recettori beta-2 adrenergici, attivati dai LABA, si incrementa progressivamente procedendo distalmente verso le vie aeree periferiche di piccolo calibro. In definitiva, quindi, grazie a questa azione sinergica ed estesa a tutto l’albero respiratorio, è possibile ottenere un’efficacissima broncodilatazione e desufflazione polmonare, con un notevolissimo vantaggio per la dinamica ventilatoria, per l’attenuazione dei sintomi, per la tolleranza all’esercizio fisico e per la prevenzione delle riacutizzazioni nei soggetti affetti da BPCO.
Come cambierà, alla luce delle nuove linee guida, la gestione clinica dei pazienti, soprattutto nel nostro Paese? Io mi auguro che per i pazienti italiani molto cambierà in meglio nell’imminente futuro, soprattutto se si diffonderà maggiormente la duplice terapia broncodilatante, che purtroppo attualmente non ha raggiunto livelli consoni alle attese e alla notevole efficacia, scientificamente dimostrata e chiaramente riferita dai pazienti, come possiamo constatare tutti i giorni nella pratica clinica. Si tratta purtroppo di un consistente ritardo, al quale si somma un altro problema che riguarda tutte le terapie inalatorie: la scarsa aderenza al trattamento, dovuta al fatto che l’utilizzo di un device inalatorio è comunque più difficoltoso rispetto alla semplice deglutizione di una compressa. Pertanto ritengo che, per ottenere migliori benefici, in futuro dovremmo muoverci parallelamente lungo questo doppio binario: da una parte promuovere la duplice broncodilatazione, e dall’altra assicurare una maggiore aderenza alla terapia inalatoria con una più efficace azione di addestramento, controllo e monitoraggio, relativa all’uso dei dispositivi inalatori da parte dei nostri pazienti.
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medicina
Epatologia
Colangite biliare primitiva Dal cambio del nome alle nuove terapie L’articolo presenta un aggiornamento dei dati epidemiologici, delle più recenti acquisizioni in ambito diagnostico e terapeutico per la colangite biliare primitiva, condizione nota in passato come “cirrosi biliare primitiva” Valerio Pontecorvi1, Marco Carbone1, Pietro Invernizzi1 1. Divisione di Gastroenterologia e Centro per le malattie autoimmuni del fegato, Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Milano Bicocca, Milano
L
a colangite biliare primitiva (CBP) (1), termine oramai accettato al posto del desueto “cirrosi biliare primitiva”, è una malattia rara, su base autoimmune, caratterizzata da infiammazione cronica delle vie biliari intraepatiche, colestasi e, se il danno persiste, fibrosi e cirrosi epatica. Non a caso la terminologia è stata recentemente modificata in quanto la malattia è sempre più frequentemente diagnosticata in fase precoce, quindi in assenza di fibrosi, e ha un’evoluzione indolente nella maggior parte dei casi. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a enormi passi avanti nello studio di questa malattia. In questo articolo riportiamo le più recenti evidenze scientifiche nel campo dell’epidemiologia, eziopatogenesi, diagnostica, gestione clinica e delle nuove terapie disponibili (2).
Epidemiologia ed eziopatogenesi La CBP è una malattia rara, la cui incidenza si aggira sui 20-40/100.000 casi annui, colpendo soprattutto donne tra i 35-60 anni con un rapporto femmine:maschi (F:M) di 10:1. Recenti studi epidemiologici hanno tuttavia messo in discussione questo paradigma. Dati raccolti nella regione Lombardia tra il 2000 e il 2009 hanno evidenziato un rapporto F:M di circa 2,3:1 (3). Inoltre sia il sesso maschile che l’esordio in età giovanile sono considerati fattori prognostici negativi di sopravvivenza (3). La patogenesi della CBP si basa sulla presenza di due elementi necessari: la predisposizione genetica e i fattori ambientali. A suggerire l’ipotesi genetica sono l’elevata concordanza tra gemelli omozigoti e la presenza di più di un componente della famiglia affetto da patologia autoimmune.
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La componente genetica interessa i loci del sistema dell’antigene leucocitario umano (HLA) e quelli non-HLA (4). Sono stati inoltre descritti difetti genetici maggiori dei cromosomi sessuali, che potrebbero anche spiegare la preponderanza femminile della malattia (5). I fattori ambientali più comunemente descritti in letteratura sono il fumo di sigaretta, le infezioni delle vie urinarie, la terapia ormonale sostitutiva, le sostanze chimiche contenute nelle tinture per capelli e negli smalti (6). In soggetti geneticamente predisposti i fattori ambientali sarebbero in grado di innescare una perdita di tolleranza verso le proteine mitocondriali e le proteine nucleari localizzate nell’epitelio biliare, cui segue l’attivazione della risposta autoimmune verso le vie biliari intraepatiche di piccolo e medio calibro, causandone la distruzione e quindi la sostituzione con materiale fibrotico. Come mai, se l’antigene bersaglio è ubiquitario, solo i colangiociti intraepatici siano implicati nel processo infiammatorio è un quesito che rimane parzialmente insoluto; vi sono tuttavia evidenze che i colangiociti abbiano caratteristiche immunobiologiche uniche rispetto alle altre cellule dell’organismo, in particolare nel meccanismo di apoptosi che è in grado di scatenare un’intensa risposta infiammatoria (7).
Diagnosi Nella diagnosi di CBP il riscontro di autoanticorpi è cruciale: infatti gli anticorpi anti-mitocondrio (AMA) si trovano nel 90-95 per cento dei casi e sono altamente specifici per la malattia (Tabella 1). Gli AMA tuttavia sono descritti anche nel 10 per cento di pazienti con epatite autoimmune e nell’1 per cento di soggetti sani. Il test di conferma è l’ELISA utilizzando il piruvato deidrogenasi (PDH-E2) come
antigene (AMA-M2). Esistono ulteriori anticorpi, altamente specifici per la CBP e utili per la prognosi. Si tratta di anticorpi anti-nucleo (ANA) e sono gli anti-glicoproteina (gp)-210, gli anti-sp100 e gli anticentromero (ACA) (8). Gli anti-gp210, presenti nel 20-40 per cento dei casi, sono specifici per la CBP e considerati un fattore prognostico negativo: infatti sono associati a un’istologia più aggressiva, caratterizzata da epatite d’interfaccia e maggiore infiammazione lobulare, e a una peggiore sopravvivenza (9). Gli anti-sp100 sono presenti nel 20-40 per cento dei casi e la positività di questi anticorpi è anch’essa un fattore prognostico negativo, in quanto associata a malattia più severa (10). Gli anticorpi ACA sono associati nel 90 per cento dei casi a sclerosi sistemica cutanea limitata e nel 30 per cento dei casi di sclerosi cutanea diffusa. Nella CBP hanno una frequenza del 10-30 per cento e sorprendentemente sono molto più frequenti nelle forme isolate rispetto alle CBP associate a sclerosi sistemica cutanea (8). Tuttavia resta ancora da chiarire se i pazienti con CBP ACA positivi, potranno poi sviluppare sclerosi sistemica in futuro. Gli ACA nella CBP sono positivi già prima dell’esordio della sintomatologia, sono stabili nel tempo nonostante l’introduzione di terapia, e permettono di identificare un fenotipo di malattia caratterizzato dallo sviluppo di ipertensione portale anche in fase precoce (11) e istologicamente sono associati a una più intensa reazione duttulare.
Presentazione clinica La maggior parte dei pazienti (oltre il 50 per cento) è asintomatica alla prima presentazione clinica. Il sintomo principale riferito è l’astenia, poco specifica e in genere multifattoriale. In questi pazienti andrebbero innanzitutto escluse cause comuni e trattabili di astenia (anemia, ipotiroidismo, depressione, abuso di farmaci psicotropi ecc.). L’astenia da CBP in genere non è correlata alla severità né alla durata della malattia. Il meccanismo patogenetico alla base del sintomo è misconosciuto, pertanto non vi sono terapie efficaci. Vi sono limitate evidenze cliniche sull’utilizzo del modafinil (12). Questo è un farmaco regolatore del ritmo sonno-veglia che ha effetti inibitori sui trasportatori della dopamina e della norepinefrina, ed è indicato nella narcolessia. Il prurito è un altro sintomo classicamente riferito da pazienti affetti da CBP (fino al 70 per cento dei casi). Anche qui il meccanismo patogenetico non è chiaro. La terapia di prima linea si basa sull’utilizzo di resine a scambio ionico (colestiramina), in grado di legare gli acidi biliari nell’intestino tenue e impedirne il riassorbimento, riducendo così il pool totale degli acidi biliari. Nel prurito resistente alle resine, si passa alle terapie di seconda linea: la rifampicina, gli antagonisti del recettore degli oppioidi (es. naltrexone) e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI, es. sertralina) sono quelli che hanno comprovata efficacia (13). Nel prurito resistente alle terapie mediche
Tabella 1 Criteri diagnostici per la CBP* 1. Aumento degli indici di colestasi: FA >v.n. (valore normale) e/o gammaGT v.n.
2. Positività anticorpale: AMA >1:40 3. Istologia: colangite distruttiva non suppurativa * Sono necessari 2 criteri su 3
vi sono iniziali evidenze sull’efficacia del drenaggio biliare con sondino nasogastrico (14). In pochi casi è indicato il trapianto di fegato per prurito intrattabile. L’osteoporosi è una problematica frequente nelle pazienti con CBP, in genere donne in post-menopausa, in cui vi è un aggravio del depauperamento osseo causato dal deficit di assorbimento di vitamina D (insieme alle altre vitamine liposolubili) secondario alla colestasi cronica (15). Infine, i pazienti con CBP presentano altri sintomi derivanti dalle eventuali malattie associate (es. sindrome sicca, sindrome di Raynaud).
Prognosi e stratificazione del rischio In passato la CBP era considerata una malattia con fenotipo “omogeneo”, ovvero una malattia con decorso indolente, interessante donne di mezza età, trattata con l’acido-ursodesossicolico (UDCA) a dispetto dello stadio di malattia, della presentazione clinica o delle alterazioni biochimiche alla diagnosi. In realtà la CBP è una malattia eterogenea con diverse presentazioni cliniche e profili di rischio. Per effettuare una corretta stratificazione del rischio bisogna considerare
• La colangite biliare primitiva (CBP) è una patologia rara autoimmune, caratterizzata da infiammazione cronica delle vie biliari intraepatiche e colestasi, e se il danno persiste, da fibrosi e cirrosi epatica • La patologia è eterogenea, con presentazioni cliniche e profili di rischio differenti. • L’UDCA è la terapia di riferimento, sebbene vi sia una quota non indifferente di pazienti non responder; per questi soggetti l’acido obeticolico si sta rivelando un’opzione promettente
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Epatologia
Figura 1 stratificazione del rischio
alcune variabili tra cui la presentazione clinica (ad es. con varianti cliniche a maggior rischio), lo stadio di malattia e la risposta biochimica alla terapia (16) (Figura 1). ❱ Varianti cliniche Sindrome da overlap CBP - epatite autoimmune (EA) Nel 10-20 per cento dei pazienti con CBP può esserci un “overlap” con l’EA caratterizzato dal danno dell’epatocita che si sovrappone al danno biliare. Tipicamente, questi pazienti presentano alterazione sia delle transaminasi sia degli indici di colestasi. I criteri diagnostici sono quelli proposti dall’IAIHG (International Autoimmune Hepatitis Group) (Tabella 2) e la biopsia è mandatoria. La sindrome da overlap ha una prognosi peggiore a causa di un’evoluzione più rapida verso la fibrosi. Per quanto riguarda la terapia, la componente epatitica non risponde all’UDCA, ma richiede terapia immunosoppressiva. Nella sindrome da overlap è necessario trattare la componente prevalente (biliare o epatitica) o entrambe con l’utilizzo di UDCA associato a terapia steroidea e antimetaboliti (es. azatioprina). Variante duttopenica prematura Più rara della precedente e poco descritta in letteratura, questa variante è caratterizzata da un rapporto sproporzionato
tra duttopenia e fibrosi, la prima presente anche in assenza della seconda. Clinicamente la malattia si presenta con ittero e prurito severo. Anche in questo caso è necessaria la diagnosi istologica. La risposta all’UDCA è incompleta e l’unica terapia è il trapianto di fegato. ❱ Stadio della malattia Istologia La biopsia epatica non è strettamente necessaria per la diagnosi. Diventa però necessaria i) nel sospetto di CBP con AMA negativi (5-10 per cento dei casi); ii) nei casi di risposta incompleta all’UDCA per escludere diagnosi alternative; iii) o in caso di elevati livelli delle transaminasi e/o delle IgG, soprattutto per verificare le possibili varianti cliniche descritte in precedenza. Come nel caso delle altre malattie epatiche, la stima della fibrosi epatica è possibile anche utilizzando metodiche non invasive: l’elastografia epatica (fibroscan), a oggi la più utilizzata, è in grado di predire con accuratezza l’assenza di fibrosi e la fibrosi avanzata nelle CBP, ma non la fibrosi moderata. Una progressione di 2,1 kPa/anno aumenta il rischio di trapianto o scompenso epatico di 8 volte (17). Altre metodiche, come l’elastografia con risonanza magnetica (MRE) e l’impulso acustico a ultrasuoni (ARFI), al momento sono state poco testate nella CBP.
Tabella 2 Criteri diagnostici per la sindrome da overlap CBP-EA FA >2 x v.n. +/- GammaGT >5 x v.n. AMA >1:40 Istologia: colangite distruttiva non suppurativa ALT >5 x v.n. o positività per anticorpi anti-muscolo liscio (ASMA) IgG >2 x v.n. Istologia: moderata o severa necrosi frammentaria (piecemeal necrosis) linfocitaria peri-portale o peri-settale* Per la diagnosi almeno 2 su 3 criteri del primo (PBC) e del secondo (EA) riquadro * Condizione necessaria e sempre presente
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Varici e HCC Per predire il rischio di varici esofagee nei pazienti CBP è stato proposto il Newcastle PBC Score (18). Tuttavia non è chiaro su quali valori dello score è necessario effettuare lo screening endoscopico. Per tale motivo, consigliamo che i pazienti PBC, come per le altre malattie epatiche, eseguano lo screening endoscopico quando vi sono segni indiretti di ipertensione portale (piastrine <150.000, splenomegalia, stiffness epatica >20kPa). Allo stesso modo, lo screening per HCC deve essere effettuato in tutti i pazienti cirrotici.
❱ Risposta biochimica Per anni il cardine della terapia per la CBP è stato l’UDCA, a un dosaggio di 13-15 mg/Kg/die. Dosaggi minori o maggiori infatti non si sono dimostrati, rispettivamente, eguali o superiori nell’indurre una risposta terapeutica, che viene effettuata tramite analisi degli indici di colestasi (19). La risposta ottimale all’UDCA viene considerata quando si ha una rilevante riduzione degli indici di colestasi e citolisi. Varie definizioni di risposta terapeutica sono state proposte, utilizzando differenti cut-off delle variabili (Tabella 3). Il limite di questi criteri però, risiede nell’essere dicotomici e di non quantificare il rischio assoluto di sviluppare un evento avverso. Recentemente sono stati creati scores prognostici continui: il PBC Risk Score e il GLOBE score. Tali scores sono piuttosto simili nelle variabili che contengono, ma il
evidenza di efficacia. Al momento varie molecole sono in fase di sperimentazione e alcune hanno dimostrato interessanti risultati in fase preclinica e clinica. L’acido obeticolico (OCA) ha evidenziato sicurezza ed efficacia in 2 trials di fase II e 1 di fase III (21-22). OCA è un acido biliare semi-sintetico, agonista selettivo del farnesoid X receptor (FXR) e agisce riducendo la biosintesi di acidi biliari e stimolando la secrezione biliare, oltre a regolare altre vie di segnalazione con effetti antinfiammatori e antifibrotici. Il trial registrativo (fase III) disegnato con tre bracci (placebo; OCA 5mg incrementabile sino a 10 mg; OCA 10 mg in dose fissa in associazione a UDCA) ha dimostrato il raggiungimento dell’endpoint (riduzione della FA <1,67 volte il valore superiore della norma) nel 10, 46 e 47 per
Tabella 3 Criteri di stratificazione in base alla risposta all’UDCA Criteri
Definizione
Barcellona, 2006
Riduzione di almeno il 40% oppure normalizzazione della FA
Parigi I, 2008
FA <3 x v.n., AST <2 x v.n., bilirubina >1 mg/dl
Rotterdam, 2009
Normalizzazione dei valori di bilirubina e/o di albumina
Toronto, 2010
FA <1,67 x v.n.
Parigi II, 2011
FA <1,5 x v.n., AST <1,5 x v.n., bilirubina <1 mg/dl
Ehim, 2011
Riduzione di più del 70% delle gammaGT
primo dà informazioni sul rischio di trapianto epatico e di decesso da causa epatica, il secondo predice la sopravvivenza complessiva. Inoltre tramite questi scores è possibile identificare i pazienti a basso rischio di eventi avversi a lungo termine, e che pertanto non necessitano di follow-up epatologico specialistico. Inoltre, saranno sempre più utili con l’avvento di nuovi farmaci, riuscendo a individuare chi avrà più bisogno di una terapia di seconda linea. Entrambi gli score sono disponibili online (www.uk-pbc.com/resources/tools/riskcalculator/ e www.globalpbc.com/globe ).
Terapia La maggior parte dei pazienti con CBP che assumono UDCA ha un miglioramento della biochimica epatica, rappresentata da fosfatasi alcalina (FA), transaminasi e bilirubina, già evidente dopo 6-12 mesi con un impatto positivo sulla prognosi a lungo termine (20). Tuttavia circa il 20-30 per cento dei pazienti hanno una risposta biochimica nulla o incompleta alla terapia con relativo impatto negativo sulla sopravvivenza. Per tale motivo numerosi farmaci sono stati sperimentati negli anni, in particolare farmaci immunosoppressivi steroidei e non (metotrexate, clorimbucil ecc.), senza tuttavia
cento, rispettivamente nei tre gruppi, dopo dodici mesi di terapia. Nel 2016 OCA è stato registrato dalla Food and Drug Administration (FDA) americana e dall’European Medicine Agency (EMA) per il trattamento della CBP con risposta incompleta in associazione all’UDCA oppure in pazienti intolleranti all’UDCA. L’OCA si è quindi dimostrato un valido candidato come terapia di seconda linea dopo l’UDCA. Resta però da chiarire se, oltre l’impatto biochimico, questo farmaco sia in grado di avere anche un impatto sulla sopravvivenza. Bisognerà inoltre analizzare la compliance del paziente al farmaco sul lungo periodo, in quanto il prurito, il sintomo più frequentemente riferito durante il trial, potrebbe portare ad abbandono della terapia se non controllato adeguatamente. Altra opzione promettente è rappresentata dai fibrati, già utilizzati in questa malattia in pazienti non responsivi a UDCA. In letteratura sono riportate esperienze di piccole serie di pazienti che mostrano un’efficacia dei fibrati sulla biochimica epatica grazie al loro effetto antinfiammatorio mediato dall’azione agonistica sui recettori alfa della proliferazione perossisomiale (PPAR) (23). Si è da poco concluso un trial di fase III (NCT01654731), multicentrico, in doppio cieco, randomizzato, controllato con placebo versus bezafibrato alla dose di 400 mg al giorno. MEDICO e PAZIENTE | 5.2017 |
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Epatologia
Il rituximab (antiCD-20) ha dimostrato di avere effetto sulla fatica cronica nella CBP (24). È in corso un trial di fase III (NCT02229942) che ha come endpoint il miglioramento della fatica cronica nei pazienti affetti da CBP. Altre molecole che hanno come bersaglio il sistema immunitario (anti-NOX 1/4, anti CD-40, PPAR-gamma, CTLA4) o le vie biliari (agonisti del TGR5, inibitori di ASBT) sono in fase iniziale di sperimentazione.
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Considerazioni conclusive Nel corso di questi ultimi anni sono stati compiuti enormi progressi nello studio della CBP. Parallelamente alla comprensione dell’eziopatogenesi, al miglioramento della diagnosi e alla gesione del rischio, la ricerca in ambito farmacologico ha prodotto interessanti risultati. Allo stato attuale diverse molecole sono in fase più o meno avanzata di sperimentazione, nel tentativo di offrire nuove opzioni di trattamento ai pazienti che non rispondono alla terapia “tradizionale” con UDCA.
notypes as independent genetic predictors of decreased bone mineral density in primary biliary cirrhosis. Gastroenterology 2000; 118: 145-51. 16. Carbone M, Ronca V, Savino B et al. Toward precision medicine in primary biliary cholangitis. Dig Liver Dis 2016; 48(8): 843-50. 17. Corpechot C, Carrat F, Poujol-Robert A et al. Noninvasive elastography-based assessment of liver fibrosis progression and prognosis in primary biliary cirrhosis. Hepathology 2012; 56(1): 198-208. 18. Patanwala I, McMeekin P, Walters R et al. A validated clinical tool for the prediction of varices in PBC: the Newcastle Varices in PBC Score. J of Hep 2013; 59(2): 327-35. 19. Angulo P, Dickson ER, Therneau TM, Jorgensen RA, Smith C, DeSotel CK et al. Comparison of three doses of ursodeoxycholic acid in the treatment of primary biliary cirrhosis: a randomized trial. J Hepatol 1999; 30: 830-5. 20. Poupon RE, Bonnand AM, Chretien Y, Poupon R. Ten-year survival in ursodeoxycholic acid-treated patients with primary biliary cirrhosis. The UDCA-PBC Study Group. Hepatology 1999; 29: 1668-167. 21. Hirschfield GM, Mason A, Luketic V et al. Efficacy of obeticholic acid in patients with primary biliary cirrhosis and inadequate response to ursodeoxycholic acid. Gastroenterology 2015; 148(4): 751-61. 22. Nevens F, Andreone P, Mazzella G et al. A placebo controlledtrial of Obeticholic acid in Primary Biliary Cholangitis. N Engl J Med 2016; 375: 631-43. 23. Tanaka A, Hirohara J, Nakanuma Y et al. Biochemical responses to bezafibrate improve long-term outcome in asymptomatic patients with primary biliary cirrhosis refractory to UDCA. J Gastroenterol 2015; 50: 675–82. 24. Tsuda M, Moritoki Y, Lian ZX et al. Biochemical and immunologic effects of rituximab in patients with primary biliary cirrhosis and an incomplete response to ursodeoxycholic acid. Hepatology 2012; 55: 512–21.
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Segnalazioni Nutrizione
Integrazione
con probiotici proprietà di Lactobacillus reuteri DSM 17938 Roberta De Grandi1, Marco Toscano1, Lorenzo Drago2 1Laboratorio
di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano; 2Laboratorio Analisi IRCCS Ospedale Galeazzi e Laboratorio di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano
I probiotici comprendono un’ampia varietà di generi batterici, ma anche lieviti, utilizzati per la formulazione di supplementi alimentari comunemente chiamati “fermenti lattici”. Tuttavia, i probiotici e i fermenti lattici non sono necessariamente la stessa cosa. I probiotici, infatti, sono “microrganismi vivi in grado di conferire, quando somministrati in adeguate quantità, effetti benefici alla salute dell’ospite”[1]. Più dettagliatamente, i fermenti lattici identificano invece uno specifico gruppo di batteri capaci di metabolizzare il lattosio che, proprio per questa loro abilità, sono definiti batteri acido lattici (LAB). Affinché un microrganismo possa definirsi probiotico, secondo quanto stabilito dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), deve rispettare particolari requisiti di sicurezza, ad esempio non essere portatore di geni di antibiotico-resistenza, deve essere in grado di persistere e moltiplicarsi nell’intestino umano e conferire un beneficio fisiologico all’individuo ospite [2].
Impiego di probiotici: quali benefici Sebbene la comunità scientifica sia concorde nel ritenere che i batteri probiotici favoriscano il benessere dell’individuo attraverso un’azione sistemica, restano tuttavia ancora da chiarire i meccanismi attraverso i quali questa si realizzi; quelli principali comunque comprendono la stimolazione del sistema immunitario dell’ospite, la capacità di modulare la composizione del microbiota intestinale e l’abilità di attuare un’azione antagonista nei confronti di potenziali agenti patogeni [3]. Negli ultimi anni numerosi studi hanno evidenziato differenti effetti benefici derivanti dall’utilizzo di alcuni di questi microrganismi. Come
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risultato, contrariamente a quanto accadeva in passato, le applicazioni dei probiotici si sono diversificate notevolmente. Oggi, infatti, l’assunzione di questi microrganismi è legata non solo al trattamento coadiuvante di diversi disturbi gastrointestinali, tra cui costipazione, diarrea, stipsi e malassorbimento del lattosio, ma anche come ausilio complementare per la cura di malattie parodontali e allergiche [3-6]. Attualmente nel mercato globale dei probiotici sono disponibili centinaia di ceppi batterici diversi e di conseguenza la scelta del prodotto probiotico più idoneo diventa molto complessa e dispersiva. Per questi motivi, la sicurezza e l’efficacia dei probiotici sono considerati i principali criteri per l’utilizzo di qualsiasi microrganismo nella formulazione di tali prodotti [4]. Insieme ai Bifidobatteri, i Lattobacilli sono i principali microrganismi utilizzati come probiotici. Appartiene a questo gruppo di batteri il Lactobacillus reuteri DSM 17938, una delle specie probiotiche forse più studiata dalla comunità scientifica e oggetto di un’ampia letteratura che ne esalta le caratteristiche di sicurezza ed efficacia, date le sue attività metaboliche nel gruppo dei batteri lattici eterofermentanti [7].
Le proprietà di Lactobacillus reuteri DSM 17938 Diversamente dal suo ceppo d’origine L. reuteri ATCC 55730, L. reuteri DSM 17938, attraverso un processo di curing plasmidico, non possiede tratti di antibiotico-resistenza potenzialmente trasferibili per alcuni antibiotici, tra cui la tetraciclina e la lincomicina [8]. Studi in vivo, su biopsie gastriche e duodenali, hanno evidenziato come L. reuteri
sia in grado di sopravvivere al passaggio attraverso lo stomaco e l’intestino superiore, possedendo abilità di adesione alla mucosa intestinale [9]. Come membro commensale del microbiota umano, tale microrganismo potrebbe svolgere un ruolo nel favorire il mantenimento dell’omeostasi microbica intestinale: a livello del tratto gastrointestinale infatti, L. reuteri produce una sostanza antimicrobica ad ampio spettro, la reuterina, capace di inibire la sintesi del DNA da parte di potenziali patogeni tra cui batteri Gram-positivi o -negativi, lieviti, funghi e parassiti [10]. Le proprietà antimicotiche di diversi ceppi di L. reuteri, incluso il DSM 17938, sono state recentemente osservate anche nei confronti dei principali ceppi di Candida orale (C. albicans, C. glabrata, C. krusei, C. tropicalis, C. dubliniensis e C. parapsilosis) [11]. Alcuni effetti benefici sulla salute umana mediati da questo microrganismo sembra si realizzino anche attraverso la sua abilità di regolare le risposte immunitarie dell’ospite. Studi in vivo hanno infatti mostrato come questo probiotico sia in grado di ridurre significativamente i livelli di citochine pro-infiammatorie, quali l’interleuchina (IL)-8, l’IL-1β, il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e l’interferone gamma (IFN-γ) [12]. Grazie alle sue caratteristiche microbiologiche, L. reuteri DSM 17938 è anche utilizzato da più di dieci anni come starter per integratori e prodotti alimentari. Per questa ragione, numerose ricerche sono oggi finalizzate a caratterizzare nel dettaglio gli effetti che la somministrazione di L. reuteri DSM 17938 può avere nel modulare la composizione microbica intestinale. Il microbiota umano costituisce quella che in passato era comunemente chiamata “flora intestinale”. Questo complesso insieme di microrganismi comprende centinaia di filotipi batterici differenti, inclusi potenziali agenti patogeni, ma anche funghi e virus che vivono in simbiosi con l’ospite e contribuiscono al suo stato di salute. Oggi, l’interesse per L. reuteri DSM 17938 non è finalizzato solo a caratterizzare la sua attività antimicrobica nei confronti di alcuni principali patogeni gastrici ed enterici, quali il Rotavirus e l’Helicobacter pylori, ma anche a comprendere i meccanismi alla base della modulazione del microbiota intestinale. Numerosi studi in vitro e in vivo hanno dimostrato, infatti, che L. reuteri DSM 17938 è in grado di competere direttamente con H. pylori, inibendone la crescita. Evidenze recenti hanno inoltre sottolineato come la somministrazione di questo probiotico sia in grado anche di ridurre significativamente gli effetti collaterali correlati alla terapia antibiotica associata all’infezione da H. pylori [13]. Effetti benefici nel diminuire la colonizzazione da parte di numerosi patogeni opportunistici sono stati osservati anche in bambini entro i tre mesi di età [14]. L’impatto positivo di L. reuteri DSM 17938 come modulatore del microbiota intestinale risulta ulteriormente evidenziato dalla sua efficacia nella diarrea neonatale: si è infatti osservato che la modulazione dei batteri intestinali
a opera del suddetto microrganismo probiotico porta a una significativa riduzione degli eventi diarroici nei bambini affetti da questo disturbo intestinale [15]. L’abilità di L. reuteri DSM 17938 di competere con potenziali batteri patogeni mediante adesione competitiva ai ricettori della mucosa intestinale, sequestro dei nutrienti e produzione di molecole antimicrobiche, come la reuterina, è solo uno dei meccanismi attraverso il quale questo probiotico favorirebbe l’instaurarsi di una composizione batterica intestinale equilibrata. È stato ipotizzato che gli effetti benefici indotti da L. reuteri DSM 17938 possano essere mediati anche dalla capacità di questo microrganismo di promuovere l’instaurarsi di una maggiore diversità microbica a livello intestinale. Un effetto positivo della supplementazione con L. reuteri DSM 17938 è stato evidenziato nella terapia insulinica dei pazienti affetti da diabete di tipo 2. Uno studio appena pubblicato ha riscontrato infatti, nei pazienti che hanno assunto il probiotico, un aumento sia dell’indice di sensibilità all’insulina sia dei livelli sierici degli acidi biliari secondari. Gli Autori ritengono che il miglioramento della sensibilità all’insulina possa essere mediato proprio dall’incremento della diversità microbica intestinale osservato in seguito all’assunzione del probiotico [16]. Alcuni studi hanno infatti riportato che un ecosistema con una maggiore diversità microbica è più resiliente e adattabile alla sollecitazione rispetto a quelli in cui il numero di specie batteriche è limitato [14,16]. Il microbiota inoltre è coinvolto nella regolazione dell’omeostasi energetica, di conseguenza specifiche alterazioni qualitative e quantitative nella composizione microbica intestinale possono avere effetti diretti sulla regolazione del metabolismo glucidico. L’attività probiotica di questo microrganismo certamente è legata anche alla sua abilità di favorire una corretta metabolizzazione e assimilazione dei nutrienti assunti con la dieta. Una delle funzioni chiave del microbiota è proprio quella nutrizionale perché consente l’assorbimento, e quindi lo sfruttamento, di tutta una serie di ingredienti che l’uomo non sarebbe in grado di digerire con i propri enzimi. Seppur limitate, ci sono evidenze che suggeriscono un ruolo di L. reuteri DSM 17938 nella gestione della stipsi funzionale infantile, frequente nei bambini più grandi, ruolo sempre legato alla sua capacità di modulatore della flora intestinale [17]. Negli ultimi anni, tali presunte evidenze sono state descritte anche negli adulti e i risultati sono simili a quelli osservati per la stipsi infantile; in particolare, L. reuteri DSM 17938 indurrebbe un benefico effetto nella diminuzione della produzione di metano, dovuto a un miglioramento dell’assorbimento dei carboidrati da parte del microbiota attraverso la sua modulazione [18]. L’effetto sinergico derivante dai differenti meccanismi d’azione di L. reuteri DSM 17938 porta all’instaurarsi
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di una composizione microbica intestinale equilibrata. Quest’ultima non solo è in grado di mediare un miglioramento della salute intestinale dell’individuo, ma anche di promuovere il benessere complessivo dell’ospite.
Considerazioni conclusive Complessivamente le numerose ricerche scientifiche consentono di evidenziare che L. reuteri DSM 17938 è un ceppo batterico ben caratterizzato, che trova spazio di applicazione attraverso una letteratura ampia e corposa.
Si confida che tutti i ceppi microbici utilizzati per la formulazione di prodotti probiotici possano, in futuro, essere soggetti alla stessa dettagliata caratterizzazione che ha interessato L. reuteri DSM 17938, indirizzando in questo modo anche la scelta del consumatore verso una selezione più consapevole del prodotto stesso. Certamente, il futuro di L. reuteri DSM 17938 deve ulteriormente guardare a una più fine caratterizzazione della sua capacità di modulazione del microbiota intestinale, sia nel soggetto sano che nel patologico, allo scopo di meglio descriverne meccanismi biologici e attività.
Bibliografia 1. FAO/WHO 2001. Health and nutritional properties of probiotics in food including powder milk with live lactic acid bacteria. Report of a Joint FAO/
WHO Expert Consultation on Evaluation of health and nutritional properties of probiotics in food including powder milk with live lactic acid bacteria. 2. Probiotics in food: Health and nutritional properties and guidelines for evaluation. FAO Food Nutr Pap N. 85, 2006. 3. Gogineni VK, Morrow LE, Malesker MA. Probiotics: mechanisms of action and clinical applications. J Prob Heal 2013; 1: 101. doi 10.4172/23298901.1000101. 4. Drago L, Toscano M, De Vecchi E et al. Changing of fecal flora and clinical effect of L. salivarius LS01 in adults with atopic dermatitis. J Clin Gastroenterol 2012; 46 Suppl: S56-63. 5. Ettinger G, MacDonald K, Reid G, Burton JP. The influence of the human microbiome and probiotics on cardiovascular health. Gut Microbes 2014; 5(6): 719-28. doi 10.4161/19490976. 2014.983775. 6. Alok A, Singh ID, Singh S et al. Probiotics: a new era of biotherapy. Adv Biomed Res 2017; 6: 31. doi 10.4103/2277-9175.192625. 7. Mangalat N, Liu Y, Fatheree NY et al. Safety and tolerability of Lactobacillus reuteri DSM 17938 and effects on biomarkers in healthy adults: results from a randomized masked trial. PLoS ONE 2012; 7(9): e43910. doi 10.1371/journal.pone.0043910. 8. Rosander A, Connolly E, Roos S. Removal of antibiotic resistance gene-carrying plasmids from Lactobacillus reuteri ATCC 55730 and characterization of the resulting daughter strain, L. reuteri DSM 17938. Appl Environ Microbiol 2008; 74(19): 6032- 40. doi 10.1128/AEM.00991-08. 9. Kemperman RA, Zebregs YE, Draaisma RB et al. Survival of Lactobacillus reuteri DSM 17938 and Lactobacillus rhamnosus GG in the human gastrointestinal tract with daily consumption of a low- fat probiotic spread. Appl Environ Microbiol 2009 Oct; 75(19): 6198-204. doi: 10.1128/AEM.01054-09. 10. Axelson LT, Chung TC, Dobrogosz WJ, Lindgren SE. Production of a broad spectrum antimicrobial substance by Lactobacillus reuteri. Microb Ecol Health Dis 1989; 2: 131-6. doi 10.3109/ 08910608909140210. 11. Jørgensen MR, Kragelund C, Jensen PØ et al. Probiotic Lactobacillus reuteri has antifungal effects on oral Candida species in vitro. J Oral Microbiol 2017; 9(1): 1274582. doi 10.1080/ 20002297.2016.1274582. 12. Liu Y, Fatheree NY, Mangalat N, Rhoads JM. Human-derived probiotic Lactobacillus reuteri strains differentially reduce intestinal inflammation. Am J Physiol Gastrointest Liver Physiol 2010; 299(5): G1087-96. doi 10.1152/ajp- gi.00124.2010. 13. Francavilla R, Polimeno L, Demichina A et al. Lactobacillus reuteri strain combination in Helicobacter pylori infection: a randomized, doubleblind, placebo-controlled study. J Clin Gastroenterol 2014 May-Jun; 48(5): 407-13. doi 10.1097/ MCG.0000000000000007. 14. Savino F, Fornasero S, Ceratto S et al. Probiotics and gut health in infants: a preliminary case- control observational study about early treatment with Lactobacillus reuteri DSM 17938. Clin Chim Acta 2015 Dec 7; 451(Pt A): 82-7. doi 10.1016/j. cca.2015.02.027. 15. Gutierrez- Castrellon P, Lopez- Velazquez G, Diaz- Garcia L et al. Diarrhea in preschool children and Lactobacillus reuteri: a randomized controlled trial. Pediatrics 2014; 133: e904-9. 16. Mobini R, Tremaroli V, Ståhlman M et al. Metabolic effects of Lactobacillus reuteri DSM 17938 in people with type 2 diabetes: a randomized controlled trial. Diabetes Obes Metab 2017 Apr; 19(4): 579-89. doi 10.1111/dom.12861. 17. Urbańska M, Szajewska H. The efficacy of Lactobacillus reuteri DSM 17938 in infants and children: a review of the current evidence. Eur J Pediatr 2014; 173(10): 1327-37. doi 10.1007/s00431-014- 2328-0. 18. Ojetti V, Petruzziello C, Migneco A et al. Effect of Lactobacillus reuteri (DSM 17938) on methane production in patients affected by functional constipation: a retrospective study. Eur Rev Med Pharmacol Sci 2017 Apr; 21(7): 1702-8.
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I QUADERNI
di Medico & Paziente MeP Edizioni presenta una collana di volumi dedicati ai capitoli della medicina che stanno vivendo una fase di profonda trasformazione. Per molte patologie “dai grandi numeri” la messa a punto di farmaci innovativi e l’introduzione di schemi di trattamento di nuova generazione stanno rivoluzionando le strategie di cura dei pazienti. Nella pratica questo comporterà una ridefinizione delle coordinate nell’approccio clinico e del ruolo del Medico di Medicina Generale. I Quaderni di Medico e Paziente si inseriscono in questo panorama e nascono come strumento di aggiornamento, da consultare ogni giorno e al bisogno.
Come ricevere i Quaderni di Medico e Paziente Chi sottoscrive entro la fine dell’anno 2015 un abbonamento cumulativo alle riviste Medico e Paziente e La Neurologia italiana, al costo di 25 euro, riceverà gratuitamente il Quaderno In assenza di abbonamento, è possibile richiedere il primo Quaderno versando un contributo di Euro 9,00 comprensivo di spese di spedizione postale
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Segnalazioni
neurofisiologia
Perché il dolore acuto diventa cronico? a prevalenza di dolore cronico nella popolazione si stima essere tra il 10 e il 55 per cento. Acquisizioni recenti sembrano dimostrare che un dolore acuto che si protrae nel tempo è associato a cambiamenti che coinvolgono sia il sistema nervoso centrale (SNC) che quello periferico determinando le basi istologiche e patologiche per l’insorgenza del dolore cronico. Pertanto, un adeguato trattamento del dolore acuto preserva dalla possibilità che esso evolva verso la cronicizzazione.
Il dolore acuto In seguito a un trauma (intervento chirurgico, ustione ecc.) si instaura una serie di processi finalizzati a limitare il danno e iniziare il meccanismo di riparazione. In questa fase, caratterizzata da infiammazione e rimodellamento delle cellule nervose, citochine proinfiammatorie, chemochine e neurotrofine inducono una sensitizzazione periferica finalizzata a limitare più possibile i danni legati alla lesione. Questo processo vede coinvolti i nocicettori che reagiscono al danno
L'adozione di opportuni protocolli di trattamento che si basino su un approccio analgesico multimodale è un elemento essenziale per una gestione accurata del dolore acuto e impedirne la cronicizzazione
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cellulare rispondendo a un’ampia gamma di molecole infiammatorie, quali nerve growth factor (NGF), tumor necrosis factor-alfa (TNG-α), bradichinina, prostaglandine, serotonina, ioni idrogeno che sono rilasciati da cellule epiteliali, mastociti e macrofagi (Figura 1). I nocicettori, però, sono anche in grado di amplificare la risposta infiammatoria che nel tempo può determinare un aumento dell’attività dei canali e un’aumentata sensibilità allo stimolo algico (sensitizzazione). Pertanto, l’attivazione dei nocicettori periferici, soprattutto se ripetuta nel tempo, determina cambiamenti sia periferici che centrali che possono costituire le basi per la cronicizzazione del dolore.
Plasticità neurale e cronicizzazione del dolore La plasticità neuronale è la caratteristica che permette l’instaurarsi di questi cambiamenti. Infatti, come risultato delle lesioni periferiche che generano in modo persistente impulsi nel SNC, gli interneuroni inibitori deputati alla modulazione della trasmissione del dolore possono andare incontro a morte. Contemporaneamente si assiste a un rimodellamento sinaptico che intensifica la trasmissione nocicettiva, rendendo i neuroni più sensibili e quindi in grado di reagire in modo più intenso agli stimoli e creare nuove connessioni neuronali. Questi fenomeni attivano fenomeni di iperalgesia, dapprima in periferia (iperalgesia primaria) e poi a livello centrale (iperalgesia secondaria), espressione dell’instaurarsi di una componente neuropatica del dolore.
Insorgenza della componente neuropatica del dolore L’instaurarsi di una componente neuropatica (o non infiammatoria) del dolore è il risultato di una stimo-
lazione neuronale ripetuta nel tempo che determina Conclusioni importanti cambiamenti neuronali e immunologici. Da un punto di vista cellulare e tissutale si osserva una Se il normale processo di guarigione non va a termine, ridistribuzione dei canali sodio e calcio voltaggio diil dolore persistente attiva una serie di meccanismi sependenti a livello dei nocicettori e, successivamente, condari sia a livello periferico che centrale che portano un’alterata espressione genica, sensitizzazione centrale a diverse modificazioni a livello della trasmissione del e neurodegenerazione post-sinaptica. Modifiche imporsegnale doloroso e, di conseguenza, ne modificano la tanti sono state osservate anche a livello dei neurotratipologia di sintomi. In particolare, l’instaurarsi di una smettitori. Infatti, è stato visto che danni o malattie del componente neuropatica del dolore viene percepita sistema nervoso che si associano a dolore neuropatico dal paziente come un’eccessiva sensibilità a stimoli promuovono la presenza di mediatori infiammatori sia dolorosi o normalmente non dolorosi e a sensazioni a livello centrale che periferico, così come dimostrato da un’ampia Figura 1 Meccanismi di nocicezione periferica quantità di evidenze che mostra la differente patofisiologia dei diversi tipi di dolore infiammatorio, neuropatico e da cancro. Ad esempio un aumento della sostanza P e dei relativi recettori si osserva nel dolore infiammatorio, mentre una sua diminuzione caratterizza il dolore neuropatico.
Sviluppo del dolore cronico In condizioni normali, uno stimolo nocivo diminuisce all’avanzare del processo di guarigione e la sensazione dolorifica si riduce fino a scomparire del tutto. Se il dolore è persistente, tuttavia, si innesca una serie di processi che portano a fenomeni di allodinia o iperalgesia, che sono l’inizio di un processo di cronicizzazione del dolore caratterizzato dalla presenza di una componente neuropatica. In una fase iniziale i nocicettori vanno incontro a un processo di modulazione, caratterizzato da modifiche reversibili relative all’eccitabilità periferica e centrale. In caso, invece, di stimolazioni ripetute i nocicettori vanno incontro a modificazioni irreversibili che costituiscono la base per la trasformazione del dolore acuto in cronico. In questa condizione, si osservano alterazioni nell’espressione recettoriale di neurotrasmettitori, dei canali e della loro struttura, nella sopravvivenza dei neuroni che alterano il normale flusso stimolo-risposta. Tra queste modifiche è stata osservata anche un’induzione della COX2 che svolgerebbe un ruolo chiave nel controllo del dolore in quanto in grado di aumentare l’eccitabilità neuronale e quindi la sensibilità al dolore. Inoltre, sembra che la stessa COX2, quando iperespressa in fase di infiammazione, possa inibire l’azione algesica endogena dei cannabinoidi.
quali formicolii, bruciore, calore. Pertanto, un dolore acuto non trattato adeguatamente, porta a una serie di modificazioni nelle quali sono coinvolti prostaglandine, endocannabinoidi e canali specifici in un processo complesso che, nel tempo, può modificare le caratteristiche originarie del dolore. Tenendo conto del fatto che il trattamento del dolore cronico risulta più complesso, è facile comprendere come una maggiore attenzione ai meccanismi alla base del dolore e l’applicazione di opportuni protocolli di trattamento che si basino su un approccio analgesico multimodale, siano elementi essenziali per una gestione accurata del dolore acuto e impedire che evolva verso la cronicizzazione.
Riferimento bibliografico Voscopoulos C, Lema M. British Journal of Anaesthesia 105 (S1): i69–i85 (2010)
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Segnalazioni
Osteoartrosi Le opzioni di trattamento volte al controllo dell’infiammazione radizionalmente, l’osteoartrosi (OA) è stata considerata una malattia caratterizzata dal progressivo degrado della cartilagine. Tuttavia, ad oggi, sappiamo che è un disordine che riguarda tutta la struttura articolare, in quanto, oltre alla degradazione cartilaginea, si osservano ispessimenti dell’osso subcondrale, formazione di osteofiti, infiammazione della sinovia (sinovite), degenerazione dei legamenti e dei menischi, ipertrofia capsulare, variazioni nella composizione del liquido sinoviale.
Il processo infiammatorio in corso di OA Da un punto di vista clinico, molti individui affetti da OA possono presentare, nel corso della malattia, segni di infiammazione, come rigidità articolare, calore, dolore e versamento articolare. Tuttavia, studi recenti, evidenziano che l’infiammazione presente nell’OA sia cronica, di basso grado e mediata principalmente dal sistema immunitario (1). Tuttavia, l’infiammazione che caratterizza l’OA ha delle caratteristiche diverse da quella dell’artrite reumatoide. Il livello di proteine infiammatorie, sia plasmatiche che si-
noviali, e il numero di cellule immunitarie (es. macrofagi, T cell) sono maggiori negli individui affetti da OA, rispetto a quelli affetti da artrite reumatoide (1). I mediatori dell’infiammazione sono sintetizzati, almeno in parte, in risposta a danno tissutale e degradazione articolare. Questi mediatori alterano la differenziazione e la funzione condrocitaria e contribuiscono alla formazione di MMP ed enzimi che contribuiscono alla degradazione cartilaginea. Inoltre, studi su modelli animali hanno evidenziato che un ruolo chiave nei processi di degenerazione articolare è svolto dai macrofagi. Queste cellule sono coinvolte nei meccanismi di degenerazione cartilaginea e nella formazione di osteofiti tramite la produzione di citochine, quali la IL-1β e pro-MMP (1). Altro aspetto da tenere in considerazione, è che in corso di OA si osserva un elevato livello di immunocomplessi, sia nel liquido sinoviale che nei tessuti articolari, che, secondo diversi studi, sembrano derivare dai frammenti rilasciati dalla degradazione della cartilagine e possono costituire l’innesco per l’attivazione della risposta immunitaria (1). Infatti, mentre in condizioni fisiologiche i piccoli frammenti di acido ialuronico, che possono comunque formarsi,
Figura 1 Il meccanismo alla base della cronicizzazione dell’infiammazione A
Fonte: modificata da Campo GM et al., 2010
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Le opzioni di trattamento
Figura 2 Variazioni dell’acido ialuronico in termini di peso molecolare e concentrazione
vengono eliminati (Figura 1A) in modo efficiente, nel caso dell’OA, invece, non vengono eliminati completamente e potrebbero costituire, a lungo andare, il meccanismo attraverso il quale viene attivato il sistema immunitario e, di conseguenza, la cronicizzazione dell’infiammazione (Figura 1B) (2). In corso di OA si osserva anche una diminuzione della concentrazione e del peso molecolare dell’acido ialuronico all’interno del liquido sinoviale con una conseguente riduzione della protezione articolare a causa di una perdita della funzionalità reologica (Figura 2) (2). Inoltre, a causa di una modificata permeabilità della sinovia, il liquido sinoviale risulta particolarmente ricco di citochine, chemochine, prostaglandine e leucotrieni, tutte sostanze tipiche del processo infiammatorio che promuovono la degradazione cartilaginea e inibiscono i processi anabolici necessari a garantire l’omeostasi articolare (1). Tra le cause scatenanti l’OA, vi sono certamente alcuni fattori predisponenti che includono l’invecchiamento, il sesso femminile, l’obesità, alcuni profili genetici, stress meccanico e la cattiva qualità dell’osso subcondrale, ma l’eziologia di questa malattia non è ancora completamente compresa. Non vi è dubbio però che la risposta immunitaria sia fondamentale nel suo sviluppo. Infatti, il catabolismo indotto da questo tipo di infiammazione risulta strettamente controllato da risposte immunitarie del recettore toll-like. Questo aspetto è molto importante per spiegare l’interazione dell’infiammazione tra i tessuti articolari: cartilagine, sinovia, tendini, muscoli, legamenti, osso subcondrale, tessuto adiposo. Secondo i dati dell’OMS, il 9,6 per cento degli uomini e il 18 per cento delle donne di età superiore ai 60 anni presenta sintomi di osteoartrosi e ciò evidenzia una crescente diffusione di questa patologia (3).
La cura include certamente un cambiamento nello stile di vita attraverso l’esercizio fisico e la perdita di peso ma, da un punto di vista farmacologico, tra i trattamenti attualmente disponibili per ridurre i sintomi e limitarne l’avanzamento vi sono oltre ai prodotti antidolorifici e antinfiammatori per os, anche trattamenti intrarticolari, in particolare l’acido ialuronico e i corticosteroidi (4, 5, 6). Il trattamento dovrebbe essere adattato a ogni singolo individuo e dovrebbe essere basato su un approccio basato sulla combinazione di trattamenti farmacologici e non farmacologici. Il trattamento iniziale prevede l’impiego di paracetamolo e FANS per os, mentre l’utilizzo degli oppioidi dovrebbe essere riservato solo ai pazienti con una risposta non adeguata alla terapia iniziale. I numerosi FANS tradizionali hanno tutti un’efficacia simile, ma differiscono per gli effetti indesiderati a livello gastrico e la posologia. Ai FANS tradizionali si sono affiancati negli ultimi anni i prodotti selettivi per le COX2 che si caratterizzano per una migliore tollerabilità a livello gastrico e, secondo alcuni studi, un maggior rischio a livello cardiovascolare (4, 5, 6). Più nello specifico, l’acido ialuronico, per le sue peculiarità, è finalizzato a ripristinare la reologia e la fisiologia articolare tramite un’azione di tipo sia meccanico (viscosupplementazione) che anabolico (viscoinduzione) i cui effetti, soprattutto nel caso di acidi ialuronici crosslinkati, si protraggono per periodi di 6 mesi e oltre (5, 6, 7). I corticosteroidi, al contrario, sono agenti dalla spiccata azione antinfiammatoria. Un loro uso in acuto risolve nell’immediato situazioni importanti di flogosi articolare, ma, considerando il basso grado di infiammazione sempre presente nell’osteoartrosi, sarebbe auspicabile un loro uso mirato proprio al controllo di questa componente infiammatoria di basso grado. Controllare l’infiammazione in una patologia cronica come l’osteoartrosi significa intervenire per ritardare i meccanismi degenerativi associati alla degradazione tissutale e contribuire a preservare, almeno in parte, l’integrità delle strutture articolari (1).
Riferimenti bibliografici 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Robinson WH et al. Nat Rev Rheumatol 2016; 12(10): 580-92. Campo GM et al. Biochemical Pharmacology 2010; 80: 480–90. Gómez R et al. Nat Rev Rheumatol 2015; 11: 159–70. Pereira D et al. Acta Med Port 2015; 28(1): 99-106. Neustadt DH. Cleve Clin J Med 2006; 73(10): 897-911. Arnold W et al. J Manag Care Pharm 2007; 13(4 Suppl): S3-19. Raman R et al. Knee 2008; 15(4): 318-24.
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Fibrosi polmonare idiopatica l’associazione nintedanib-pirfenidone apre nuove prospettive di cura
Boehringer Ingelheim
La sinergia delle due molecole attualmente disponibili per il trattamento di questa patologia potrebbe offrire nuove speranze ai pazienti
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a fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è una patologia rara a prognosi infausta. A tre anni dalla diagnosi la mortalità è infatti dell’ordine del 50 per cento. Le due molecole antifibrotiche approvate per l’IPF, nintedanib e pirfenidone, hanno aperto nuove speranze, dal momento che si sono mostrate in grado di rallentare la progressione della patologia. Nell’ambito dell’in-
AstraZeneca Nuove
opportunità di trattamento per l’asma grave
L
o scorso 15 novembre il Chmp dell’Ema ha espresso parere positivo per l’anticorpo monoclonale benralizumab (AstraZeneca). L’Autorità regolatoria ha raccomandato il farmaco “in aggiunta alla terapia di mantenimento per il trattamento dell’asma grave eosinofilico non controllato nonostante l’assunzione prolungata di corticosteroidi inalatori in aggiunta ai beta-agonisti a lunga durata”. Ora si attende la decisione definitiva, e se approvato benralizumab sarà disponibile in una dose fissa da somministrare una volta ogni otto settimane sotto forma di iniezione sottocutanea con una siringa pre-riempita. Restiamo sempre in ambito respiratorio, ma cambiando patologia, e parliamo di BPCO. La personalizzazione della terapia, con la possibilità di scegliere in base alle esigenze e preferenze dei pazienti, è il perno nella gestione delle patologie polmonari croniche ostruttive. In questa ottica va segnalata la disponibilità anche nel nostro Paese di una nuova formulazione spray di budesonide/formoterolo (AstraZeneca) in associazione fissa per il trattamento della BPCO a partire dai gradi moderati ovvero con FEV1 <70 per cento. L’associazione budesonide/ formoterolo rappresenta un riferimento nell’ambito della terapia della BPCO, e probabilmente è una delle combinazioni maggiormente studiate sia nei trial randomizzati che nella real life.
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la possibilità di terapie combinate per migliorare ulteriormente gli esiti della malattia. La comunità scientifica si è chiesta se le due terapie disponibili potessero essere impiegate in associazione tra loro, in sicurezza, nei pazienti con IPF. Con questi presupposti è stato disegnato INJOURNEY, della durata di 12 settimane, randomizzato in aperto, che ha valutato sicurezza, tollerabilità
contro L’arte di respirare, che si è tenuto a margine del Congresso ERS 2017 di Milano (9-13 settembre), sono stati presentati i risultati dello studio INJOURNEY che ha valutato nintedanib in associazione a pirfenidone. Nella maggioranza dei pazienti, nonostante le terapie efficaci, la malattia, anche se più lentamente, continua a progredire.Gli pneumologi dunque, valutano con interesse
GSK L’Ema promuove la triplice ICS/LABA/LAMA once daily, in mantenimento nella BPCO
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o scorso 15 settembre il Chmp dell’Ema ha espresso parere positivo circa l’autorizzazione all’immissione in commercio di fluticasone furoato/umeclidinio/ vilanterolo (GSK) come trattamento di mantenimento in pazienti adulti con malattia polmonare ostruttiva cronica, da moderata a grave, che non sono adeguatamente trattati con l’associazione duplice di un corticosteroide e un beta2-agonista ad azione prolungata. La triplice terapia è una combinazione di un corticosteroide inalatorio (ICS), un antagonista muscarinico a lunga durata d’azione (LAMA) e un agonista beta2-adrenergico a lunga durata (LABA), somministrato una volta al giorno con un inalatore di polvere secca. È la prima terapia triplice once daily ad inalatore singolo a ricevere parere positivo da parte del Chmp, passaggio finale prima dell’autorizzazione all’immissione in commercio. Una decisione finale in merito è prevista entro la fine di quest’anno.
di nintedanib associato con pirfenidone, rispetto a nintedanib da solo. I risultati sono promettenti. In particolare, l’associazione ha un profilo di sicurezza e tollerabilità gestibile nella maggioranza dei pazienti. Inoltre stando ai risultati ci potrebbe essere un declino più lento della FVC in pazienti trattati con pirfenidone aggiunto alla terapia di base con nintedanib, rispetto a nintedanib assunto singolarmente, suggerendo il possibile beneficio dalla terapia d’associazione. Naturalmente sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere a fondo il profilo di efficacia e sicurezza della terapia di combinazione, ma certamente i presupposti ci sono. L’effetto a lungo termine di nintedanib nel rallentare la progressione della malattia, unito alla sua azione di riduzione del rischio di riacutizzazioni ne fanno la terapia di prima scelta per l’IPF, e questi nuovi risultati forniscono i presupposti per ulteriori indagini su regimi associativi con nintedanib come terapia di base.
Liraglutide, nuova indicazione anche per la prevenzione cardiovascolare Novo Nordisk
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iabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari (CV): un binomio inscindibile, con un impatto sanitario e sociale di assoluta rilevanza. Lo confermano le cifre. Quasi un soggetto diabetico su quattro va incontro nella vita ad almeno un evento CV. Sulla popolazione italiana, significa 350mila soggetti colpiti da infarto miocardico e 100mila da ictus. Vale a dire 60 decessi ogni giorno e 7,4 milioni di euro spesi ogni giorno dal Ssn. Il legame è così stretto che curare il diabete significa anche prevenire le morbilità a carico di cuore e vasi: è per questo che liraglutide, una molecola sviluppata da Novo Nordisk, appartenente alla classe degli agonisti del recettore del GLP-1, ha da poco ricevuto dall’Ema una nuova indicazione terapeutica, specifica proprio per gli eventi CV maggiori. La decisione è basata sui risultati dello studio internazionale, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco e controllato contro placebo denominato LEADER. Il trial ha valutato gli effetti a lungo termine di liraglutide in 9.340 diabetici di tipo 2 ad alto rischio di eventi CV per un periodo di tempo variabile tra 3,5 e 5 anni. Dall’analisi dei dati è emerso che il farmaco determina una riduzione del 22 per cento del rischio di morte per cause CV e del 15 per cento del rischio di decesso per tutte le cause. “Occorre sottolineare anche un altro effetto importante di questo farmaco, peraltro noto da molti anni: la riduzione della glicemia senza aumentare il rischio di ipoglicemia e senza aumentare il peso del soggetto”, ha spiegato Agostino Consoli, dell’Università degli studi “G. D’Annunzio” di Chieti Pescara, durante la conferenza stampa di annuncio della nuova indicazione. “Anzi è associato a una significativa riduzione del peso e anche a una riduzione modesta, ma comunque significativa della pressione arteriosa”.
Chiesi La BPCO protagonista di un progetto di medicina narrativa
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offocare nella nebbia” questa è una delle tante descrizioni che i pazienti danno della propria malattia ovvero la BPCO, nel progetto di medicina narrativa F.A.R.O realizzato da Fondazione Istud per Chiesi farmaceutici. L’iniziativa è stata ideata con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia e sull’importanza della prevenzione e della corretta gestione del paziente. Sono state raccolte 350 testimonianze di medici, pazienti e familiari. La mancata conoscenza della patologia e della sua gravità deriva anche dalla criticità dell’acronimo BPCO, che spesso come evidenziato dalla ricerca rimanda nella percezione dei pazienti a una “lieve malattia polmonare facilmente risolvibile come una bronchite”. E questa sottovalutazione del problema spiega anche il frequente ricorso tardivo al medico. Anche i medici sono consapevoli dell’inefficacia del termine BPCO nella comunicazione con il paziente e della difficoltà di alcuni tecnicismi a esso correlati. Il quadro che emerge da questo progetto potrà servire come punto di partenza per costruire un rapporto di fiducia e di comunicazione efficace tra medico, paziente e familiari: proprio perché la patologia è avvolta da una coltre di tecnicismi è indispensabile che si sviluppi una relazione emozionale e cognitiva profonda tra medico e paziente.
Janssen
I malati di psoriasi si raccontano in video
“I
l racconto della mia psoriasi” è una nuova iniziativa, presentata lo scorso 9 ottobre a Milano e che rientra nel progetto Sulla Mia Pelle. È un viaggio nella malattia che ha toccato tutta la Penisola, da Pordenone a Palermo passando per Napoli, Roma, Lecce, Caserta e Reggio Emilia per raccogliere le storie di chi la psoriasi, la vive ogni giorno sulla propria pelle. I protagonisti delle storie hanno lasciato la loro testimonianza con la loro voce, le loro mani e i loro sorrisi, a dimostrazione che oggi sono di nuovo felici, e che grazie anche alle terapie, tornare a vivere si può. Un messaggio di speranza dunque, per chi soffre di questa malattia cronica invalidante, ancora troppo spesso sottovalutata. Tutte le storie dei pazienti sono disponibili sul sito: http://www. sullamiapelle.com
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Sempre più evidenze a favore dell’utilità dei probiotici
Sandoz
Al tema è stato dedicato un incontro che si è tenuto a Roma, nel mese di settembre scorso, in occasione di un meeting internazionale
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probiotici sono stati al centro di un incontro a margine del meeting “9th Probiotics, Prebiotics & New Foods, Nutraceuticals and Botanicals for Nutrition & Human and Microbiotal Health”. L’attenzione degli studiosi è concentrata sui meccanismi che mantengono l’equilibrio del microbiota intestinale. “Se si riesce a mantenere questo equilibrio, si ottengono diversi vantaggi a favore delle strutture dell’apparato gastroenterico, nonché un miglioramento dell’attività metabolica, con produzione di vitamine e di sostanze ad azione antibatterica”, ha spiegato Lucio Capurso, presidente del meeting. Nella disbiosi intestinale, la com-
posizione risulta notevolmente alterata con diminuzione in particolare dei lattobacilli e dei bifidobatteri. “I bifidobatteri hanno un ruolo di primo piano, perché si sono evoluti esclusivamente all’interno dell’ecosistema intestinale, sviluppando caratteristiche che permettono loro un rapporto privilegiato con la fisiologia umana”, ha aggiunto Simone Guglielmetti, dell’Università degli Studi di Milano. “I bifidobatteri producono non solo l’acido lattico, come fanno altri batteri, ma anche quello acetico, che consente di potenziare le azioni antimicrobiche e d’inibire così la crescita di patogeni; un’attenzione particolare va riservata al Bifidobacterium lactis, il più usato
Boiron La
filiale italiana conclude l’invio in AIFA dei dossier registrativi
B
oiron Italia ha chiuso l’iter di consegna dei dossier registrativi dei medicinali omeopatici ed è in attesa di ricevere le prime AIC. Le aziende del settore dovevano presentare entro il 30 giugno scorso i dossier all’AIFA. “Premetto che dal 1995 gli omeopatici sono riconosciuti per legge come medicinali anche in Italia. Prima eravamo in commercio grazie a una notifica, mentre con l’ottenimento di un’AIC ufficiale entreremo nel prontuario farmaceutico nazionale”, commenta Silvia Nencioni, AD e Presidente di Boiron Italia. “Il processo di registrazione degli omeopatici rappresenta quindi una tappa importante della legittimazione di questi farmaci, soprattutto nel nostro Paese appunto, in cui sono spesso accusati di non dare le stesse garanzie di quelli che vengono comunemente chiamati farmaci convenzionali”.
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negli integratori probiotici, perché ha dimostrato maggiori garanzie di sopravvivenza durante il processo industriale di produzione e durante il periodo di conservazione del prodotto finale”. Per valutare l’utilità di un probiotico conta però anche la quantità, come hanno dimostrato recenti studi. “Per ottenere un buon effetto probiotico, occorre una grande concentrazione di batteri, superiore a 10 miliardi di cellule vive”, ha concluso Capurso. “Va inoltre sottolineato che i cocktail di diversi batteri, per esempio l’associazione di lattobacilli e di bifidobatteri, con l’aggiunta del lievito Saccharomyces boulardii, possono essere molto più efficaci dei singoli ceppi”.
L’ottenimento dell’AIC non comporterà comunque l’inserimento delle indicazioni terapeutiche su questi medicinali. “La questione delle indicazioni terapeutiche sul foglietto illustrativo riguarda le specialità omeopatiche, ossia quei medicinali caratterizzati da un ambito terapeutico preciso correlato a patologie tipiche dell’automedicazione. Per poterle inserire è necessario un percorso parallelo all’attuale processo di registrazione. Un medicinale deve curare qualcosa; riconoscere agli omeopatici lo status di medicinali e non poter fornire al pubblico indicazioni terapeutiche è un controsenso. Oltre a essere penalizzante per i pazienti, che potrebbero ritrovarsi ad assumere il medicinale sbagliato o non alle giuste dosi”, continua Silvia Nencioni. “Il Ministero dovrebbe emanare un decreto attuativo e delle linee guida che indichino come predisporre i dossier per poter inserire le indicazioni terapeutiche: sicuramente ora le istituzioni sono a loro volta molto impegnate nel valutare i dossier che abbiamo mandato, ma auspichiamo di poter lavorare con loro quanto prima anche su questo tema”.
lilt
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25 anni di lotta contro il tumore al seno
i è concluso con successo anche quest’anno il mese dedicato alla lotta contro il tumore del seno, promosso dalla Lega italiana per la lotta contro i tumori (LILT). Ottobre è stato infatti dedicato alle iniziative per sensibilizzare il pubblico femminile sull’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce. E la campagna “Nastro rosa”, che ha messo a disposizione al pubblico un’unità mobile per una visita gratuita al seno e una consulenza alimentare, ha compiuto i 25 anni. “Non dobbiamo abbassare la guardia nella battaglia contro il tumore del seno: il rapporto AIOM/AIRTUM “I numeri del cancro in Italia 2017” riporta 50.500 nuovi casi di Ca. della mammella, con un trend d’incidenza in leggero aumento (+0,9 per cento)”, ha spiegato Marco Aloisio,
presidente di LILT Milano, durante la conferenza stampa di presentazione delle iniziative di quest’anno. “La buona notizia è che è in crescita anche la percentuale di donne che sopravvivono a 5 anni dalla prima diagnosi: nel 2017 si è arrivati all’87 per cento contro 85,5 del 2016. La diagnosi precoce resta quindi un’arma fondamentale; in quest’ottica gli Spazi Prevenzione della LILT si stanno dotando di macchinari all’avanguardia per garantire alle donne una sempre maggiore accuratezza diagnostica. I nostri ambulatori hanno installato quest’anno mammografie digitali dotate di tomosintesi, e continueremo su questa strada anche nel 2018: si tratta di una metodologia radiologica tridimensionale ad alta definizione con la quale viene prodotta un’immagine
Novartis Tumore al seno avanzato i caregiver al centro di una campagna Accendere i riflettori su chi sta accanto alla donna malata di tumore al seno avanzato è l’obiettivo di “È tempo di vita”, la campagna nazionale sul tumore al seno avanzato, promossa da Novartis in collaborazione con Salute Donna Onlus e la Società italiana di psico-oncologia, con il patrocinio di Fondazione AIOM, che è stata presentata lo scorso 10 ottobre a Milano. Il progetto nasce da una profonda consapevolezza: aiutare chi aiuta aiuta chi è aiutato. La campagna mette in campo una serie di strumenti concreti. Il sito www.tempodivita.it è uno spazio pensato per favorire una più ampia conoscenza dei risvolti sociali, psicologici ed emotivi della patologia. La Società italiana di Psico-Oncologia ha messo a punto un decalogo con consigli pratici per affrontare insieme, paziente-caregiver, la difficile esperienza del tumore. L’opuscolo è il primo di una collana che nei prossimi mesi si arricchirà di altri prodotti editoriali. Sono state inoltre, realizzate, e pubblicate sul sito, video pillole che forniscono elementi utili per comprendere quali comportamenti mettere in atto per evitare l’isolamento di queste donne. La campagna proseguirà anche nel 2018 con un intenso programma di incontri sul territorio, che la porterà all’interno dei principali centri italiani di oncologia, a contatto diretto con le pazienti e i loro cari.
tridimensionale di elevata qualità, con una netta riduzione della dose di radiazioni”. L’acquisto delle apparecchiature radiodiagnostiche è finanziariamente molto impegnativo ed è reso possibile anche grazie al sostegno di numerose iniziative di raccolta fondi, come l’ormai tradizionale appuntamento di “Lo shopping fa bene alla salute” a cui hanno aderito i negozi del distretto di via Montenapoleone: i brand che vi hanno preso parte hanno devoluto il 10 per cento dell’incasso dell’intera giornata del 30 settembre scorso a LILT Milano. Il premio “LILT for Women - Campagna Nastro Rosa 2017” è stato conferito alla giornalista Milena Gabanelli, per il suo impegno in difesa dei diritti civili e sociali, dimostrato con le sue numerose inchieste.
Boehringer Ingelheim Una call to action per la prevenzione CV
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ovimento e stile di vita sano è un binomio inscindibile nella lotta alle patologie cardiovascolari (CV), ed è anche il protagonista di una vera e propria mobilitazione di tutti i cittadini che ha preso forma nel progetto promosso da Boehringer Ingelheim “La Prevenzione Cardiovascolare sCorre in Italia”. L’iniziativa coinvolge enti ospedalieri, Asl, Fondazioni e Irccs che hanno proposto le proprie idee e progetti centrati sul tema della prevenzione CV attraverso abitudini salutari. Sono state selezionate 41 proposte ritenute in linea con i criteri dell’iniziativa, che successivamente sono state sottoposte a una giuria popolare, e votate sui principali social media. La terza e ultima fase che si svolgerà nel mese di dicembre, vedrà la proclamazione dei progetti vincitori da parte di un board di esperti, che naturalmente tiene conto anche del voto popolare. Il premio è un contributo economico che servirà per l’attuazione del progetto. È stato istituito anche un premio giornalistico, patrocinato dall’Unamsi, a sostegno dell’importanza della comunicazione e del ruolo dei media in questo ambito.
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Vivere senza Mal di testa Le nuove frontiere di cura e prevenzione
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artendo dal Centro Cefalee del Besta di Milano l’Autore di questo libro è diventato responsabile della comunicazione scientifica del noto Istituto neurologico milanese e, passato negli anni ’80 anche per la redazione di Medico e Paziente dove ha lavorato fianco a fianco con il nostro compianto direttore Antonio Scarfoglio, ha affinato le sue doti divulgative sulle pagine di salute del Corriere della Sera dove oggi è sempre più spesso ospitata la sua firma. Collaborando tuttora con questa redazione e con quella della nostra rivista AlgosFlogos, oggi è responsabile della comunicazione nella LIMPE-DISMOV e nell’ANIRCEF dopo esserlo stato anche nella SISC, le due principali Società che si occupano di cefalee in Italia. Grazie a questo libro, scritto sotto la guida di Alan Rapoport che ne firma l’introduzione da ultimo Presidente dell’IHS, la principale organizzazione mondiale dedicata al mal di testa, anche i non addetti ai lavori potranno seguire la storia della malattia più diffusa al mondo raccontata in stile Oliver Sacks secondo il quale la malattia va combattuta come medico e la paura della malattia come scrittore. Scorrono fra queste pagine le conquiste scientifiche di quasi tutti i protagonisti italiani e stranieri della ricerca nelle cefalee e le tappe delle loro scoperte, dal Medioevo a pochi mesi fa in un compendio
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introvabile che indica come siamo ormai alle soglie di una rivoluzione senza precedenti, dove i vecchi farmaci saranno spiazzati dai neurostimolatori e dalla cosiddetta vaccinazione antiemicranica a base di anticorpi monoclonali.
La terapia dell’epatite cronica C nel 2017
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l professor Gaetano Ideo, Autore di questo nuovo aggiornamento sullo stato dell’arte della terapia dell’epatite cronica C, ha realizzato un manuale agile, scorrevole e di facile consultazione, nonostante la complessità della materia e la mole di dati presentati. Accanto ai numeri che scorrono relativi ai dati epidemiologici, alle note sulla tipizzazione del virus, troviamo le nuove terapie: una rivoluzione o meglio un trionfo, per usare le parole dell’Autore. Nuove terapie che in solo poco più di tre anni hanno davvero cambiato il paradigma di trattamento e le prospettive dei pazienti, anche di quelli più gravi. Gli antivirali di nuova generazione, disponibili in diverse combinazioni sono dotati di elevatissima efficacia e con scarsi effetti collaterali, e sono questi i punti di forza che aprono alla possibilità di eradicazione del virus. Lasciando ai lettori la curiosità di andare più a fondo della questione, omettiamo le considerazioni “tecniche”, citando alcune riflessioni che l’Autore riporta nella parte finale di questa pubblicazione. …Fino a poco tempo fa ero perplesso per il rischio di trovare farmaci che non solo potessero risultare poco attivi, ma anche tossici; ora sto cambiando idea. È chiaro che bisognerebbe agire con prudenza, rivolgendosi a paesi con capacità mediche e farmacologiche avanzate dove esistono farmaci generici con lo stesso principio attivo, sovrapponibili a quelli originali. In Asia, ad esempio vengono trattate e guariscono migliaia di persone affette da epatite cronica C anche con fibrosi avanzate e cirrosi. Comunque sono decisamente ottimista. In un futuro non troppo lontano l’epatite C in Italia potrà essere sradicata; a questo scopo è fondamentale che si scoprano attraverso la determinazione della presenza del virus i numerosi pazienti che ancora ignorano di esserne portatori, considerando che anche forme avanzate di malattie epatiche spesso non danno disturbi importanti…