Medico e paziente 6 16

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLII n. 6 - 2016

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Reumatologia inquadramento clinico e terapeutico dell’algodistrofia Scompenso cardiaco mid-range nuovi potenziali marcatori prognostici Congressi dall’ECTRIMS 2016 focus sulla sclerosi multipla Giornata mondiale contro l’AIDS i dati dell’infezione HIV in Italia

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

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Medico e paziente n. 6 anno XLII - 2016 Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia

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Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio

in questo numero

sommario

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Anastasia Zahova Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Teresa Vanessa Fiorentino Giovanni Iolascon Giorgio Sesti

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6 letti per voi

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patologie metaboliche Prevenzione del diabete di tipo 2 L’iperglicemia alla prima ora durante OGTT identifica i soggetti con aumentato rischio di sviluppare la patologia e un peggiore profilo cardio-metabolico

La glicemia alla prima ora durante OGTT si rivela utile nell’identificare tra i soggetti comunemente considerati a basso rischio, una sottoclasse con maggiori probabilità di sviluppare diabete di tipo 2 a cura di Teresa Vanessa Fiorentino, Giorgio Sesti

p 14 reumatologia

Algodistrofia Inquadramento clinico e terapeutico

Nelle sindromi algodistrofiche, la diagnosi precoce riveste un ruolo essenziale dal momento che permette l’attuazione di un approccio terapeutico opportuno a cura di Giovanni Iolascon

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura.

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sommario

p 20

congressi

Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Sclerosi multipla Le principali novità in terapia dal meeting europeo

p 24 alleanza per la cura

Comitato scientifico

Trattamento del dolore cronico nell’anziano

Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli

I vantaggi dell’associazione precostituita paracetamolo-codeina

Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM

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p 26

Farminforma

p 31

NEWSsanità

❱ Discriminazione e stigma pesano sulle persone affette da patologie psichiatriche ❱ Giornata mondiale contro l’AIDS 2016 ❱ Silvestro Scotti è il nuovo segretario Fimmg ❱ I medici di famiglia: una figura a rischio di estinzione ❱ La nuova edizione del Libro bianco sulla salute delle donne

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32° Congresso ECTRIMS 14-17 settembre 2016 – Londra

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I QUADERNI

di Medico & Paziente

A partire dal mese di gennaio 2017 è disponibile il secondo Quaderno dedicato al DIABETE

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letti per voi Pneumologia

In uno studio “head to head” l’associazione indacaterolo-glicopirronio si rivela migliore rispetto a salmeterolo-fluticasone nella prevenzione delle riacutizzazioni di BPCO £

La prevenzione delle riacutizzazioni è uno degli obiettivi primari nei pazienti affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Questi episodi hanno un effetto negativo sulla qualità di vita e sulla progressione di malattia e possono essere causa di frequenti ospedalizzazioni, e nei casi più gravi, di decesso. La maggior parte delle linee guida raccomanda l’utilizzo di un’associazione LABA (beta agonista a lunga durata)+ICS (corticosteroide inalatorio) o LAMA (antagonista muscarinico a lunga durata) nei pazienti ad alto rischio di riacutizzazioni. Il ruolo della combinazione LABA+LAMA era fino a questo momento incerto. Chiare indicazioni di efficacia provengono dallo studio FLAME, un trial “head to head”, di non inferiorità, che ha confrontato indacaterolo (LABA)-glicopirronio bromuro (LAMA) 110-50 μg, somministrato una volta al giorno, con salmeterolo (LABA)-fluticasone (ICS) 50-500 μg, somministrato due volte al giorno. Endpoint dello studio era la capacità nel ridurre le riacutizzazioni. Oltre a confermare la non inferiorità di indacaterolo-glicopirronio bromuro, i risultati ne hanno dimostrato la superiorità rispetto all’associazione “standard” salmeterolo-fluticasone sugli episodi di esacerbazione della malattia. FLAME è uno studio multicentrico, randomizzato in doppio cieco e “double dummy”, a gruppi paralleli, con controllo attivo, della durata di 52 settimane, che ha coinvolto 3.362 soggetti con BPCO: 1.680 pazienti hanno ricevuto l’associazione LABA-LAMA e 1.682 l’associazione LABA-ICS. Dai risultati emerge che rispetto a salmeterolo-fluticasone, indacaterolo-glicopirronio bromuro ha ridotto dell’11 per cento il tasso annuo di riacutizzazioni e ha prolungato il tempo al primo di-

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questi episodi, con una riduzione del rischio del 16 per cento. Il trend positivo è stato confermato anche quando si sono andati ad analizzare gli episodi moderati o gravi: in quest’ultimo caso il tasso annuo ha mostrato una riduzio-

ne del 17 per cento, e il tempo al primo episodio una riduzione del 22 per cento. Sul fronte della tollerabilità non sono state osservate differenze significative tra i due gruppi per quel che riguarda gli eventi avversi o i decessi; l’incidenza di polmonite è risultata superiore e statisticamente significativa per il trattamento con salmeterolofluticasone rispetto a quanto osservato per indacaterolo-glicopirronio bromuro (4,8 vs 3,2 per cento). Wedzicha JA, Banerji D et al. New Engl J Med 2016; 374: 2222-34

reumatologia

L’artrosi a carico del ginocchio o dell’anca si delinea come potenziale determinante del rischio CV, specialmente nelle donne anziane £ L’associazione tra osteoartrosi (OA) e insorgenza di patologie cardiovascolari (CV) è oggetto di discussione. Alcune indicazioni in merito ci vengono date da un ramo del Progetto Veneto Anziani, studio epidemiologico osservazionale condotto sulla popolazione di età ≥65 anni di due aree geografiche della Regione Veneto (Rovigo e Camposampiero). Lo scopo del lavoro qui presentato era valutare la correlazione tra presenza di OA e

rischio di patologie CV. Dei 3.099 partecipanti, 2.158 non presentavano al basale malattie CV e sono stati inclusi nello studio per un follow up medio di 4,4 ±1,2 anni. La presenza di OA è stata definita utilizzando un algoritmo standard che combina la storia clinica del paziente, i referti diagnosticostrumentali, i sintomi, l’esame clinico delle articolazioni, mentre il rischio CV è stato definito come diagnosi di coronaropatie, scompenso cardiaco, ictus/

Geriatria

La supplementazione con vitamina D ad alte dosi sembra proteggere gli anziani istituzionalizzati dalle infezioni respiratorie acute £ La vitamina D continua a essere oggetto di studio in diversi ambiti clinici. Finora i suoi effetti non erano mai stati indagati nelle infezioni respiratorie tra gli anziani, e a farlo è uno studio che è stato condotto tra i pazienti residenti in strutture di assistenza a lungo termine. In sintesi, emerge che la supplementazione con alte dosi di vitamina D risulta protettiva nei confronti delle infezioni respiratorie acute, riducendone il rischio di addirittura il 40 per cento. Lo studio randomizzato e controllato ha esaminato 107 pazienti di età >60 anni nel periodo 2010-2014. Endpoint primario era l’incidenza di episodi


TIA, arteriopatia periferica, e ospedalizzazione o decesso per cause CV. Al baseline, il 61,9 per cento della coorte presentava OA; tra questi soggetti vi era anche una maggiore prevalenza di potenziali fattori di rischio CV tradizionali rispetto a quanto osservato per chi non era affetto da OA. Nel follow up, il 47,8 per cento dei soggetti con OA ha sperimentato un evento CV rispetto al 41,3 per cento dei soggetti senza OA. La presenza di OA aumentava in maniera significativa il rischio CV (HR 1,22 CI 95 1,02-1,49, P =0,04), e l’associazione diventava più “robusta” quando a essere colpite dall’osteoartrosi erano l’anca o il ginocchio. L’OA inoltre correlava con il rischio CV in misura maggiore tra le donne rispetto agli uomini, e nel caso in cui le articolazioni coinvolte siano più di due. Gli eventi CV più frequentemente osservati, e per i quali l’OA sembra avere un maggiore peso sono risultati la coronaropatia, lo scompenso cardiaco e l’ospedalizzazione per cause CV. Le conclusioni dello studio sembrano dunque delineare il ruolo predittivo delle patologie artrosiche in termini di rischio cardiovascolare, specialmente nelle donne. Veronese N, Trevisan C et al. Arthritis & Rheumatology 2016; 68 (5): 1136-44

Scompenso cardiaco

Variazioni nei livelli di NT-proBNP possono essere predittive di mortalità anche nei casi con frazione d’eiezione conservata o “mid range” £

Le nuove linee guida (2016) sullo scompenso cardiaco hanno introdotto una nuova categoria ovvero lo scompenso con frazione d’eiezione (FE) ventricolare sinistra compresa tra 40 e 49 per cento (HFmrEF, midrange ejection fraction), una categoria intermedia tra scompenso a FE <40 per cento (HFrEF) e lo scompenso con FE preservata (HFpEF) >50 per cento. Si tratta di una condizione che riguarda molti pazienti, per i quali al momento non vi sono trattamenti mirati e nemmeno marcatori in grado di prevedere la risposta a una terapia in atto. La misurazione dei livelli della frazione N terminale del peptide natriuretico proB (NT-proBNP) potrebbe rivestire un ruolo prognostico anche nelle classi di scompenso “mid range” o con FE conservata. Indicazioni in merito provengono da questo studio condotto in pazienti con HFmrEF e HFpEF, per i quali erano disponibili almeno due dosaggi consecutivi dello NT-proBNP. I valori sono stati messi in relazione con la mortalità complessiva, l’ospedalizzazione per scompenso e

acuti nell’arco di 12 mesi. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: 55 hanno ricevuto dosi elevate di vitamina D (in media 3.300-4.300 U/die), e 52 dosi più basse, variabili fra 400 e 1.000 U/die. Tra i soggetti trattati con i dosaggi più elevati, l’incidenza di episodi acuti è stata 0,67 per persona/ anno, mentre tra chi aveva ricevuto dosi più basse è risultata 1,11 (IRR, incidence rate ratio, 0,60 CI 95 0,38-0,94, P =0,02). In pratica, gli episodi sono stati quasi dimezzati tra le persone che avevano ricevuto una supplementazione più alta. In questo gruppo tuttavia, si è avuto un aumento significativo, più che raddoppiato, dell’incidenza di cadute (1,47 per persona/anno vs 0,63; IRR =2,33, CI 95 1,49-3,63, P <0,001). A questo non corrispondeva un aumento del rischio di fratture, che sono risultate poco frequenti e sovrapponibili nei due gruppi. Secondo gli Autori del lavoro, si tratta di una scoperta importante, dato che attualmente esistono poche

l’outcome composito tra le due. La coorte era costituita da 650 pazienti, in cui la mediana tra le due misurazioni di NT-proBNP era di 7 mesi. Nel follow up (mediano) di 1,65 anni, il 55 per cento dei pazienti ha mostrato una riduzione dei livelli di NT-proBNP, mentre il 45 un aumento. Il 16 per cento dei soggetti nel gruppo “NTproBNP ridotto” è deceduto rispetto al 27 per cento nel gruppo “NT-proBNP aumentato” (HR aggiustato 0,53, CI 95 0,36-0,77); un trend analogo è stato osservato per l’ospedalizzazione, 17 vs 30 per cento (HR 0,41, CI 95 0,29-0,60), e per l’outcome composito, 27 per cento vs 43 per cento (HR 0,46, CI 95 0,34-0,62). Nei soggetti che manifestano una frazione d’eiezione conservata e in quelli nella classe mid range, concludono gli Autori, la diminuzione dei livelli di NT-proBNP correla con una prognosi migliore, data da una riduzione della mortalità e della frequenza di ricovero. Savarese G, Hage C et al. Circulation: heart failure 2016; 9: e003105

opzioni a disposizione del medico per combattere le malattie respiratorie acute, anche perché la maggior parte di esse sono di origine virale. Naturalmente occorre cautela, e le prove definitive di un effetto protettivo della supplementazione con vitamina D ad alte dosi devono ancora venire. Un altro punto che dovrà essere esplorato meglio su casistiche più ampie è il rischio di cadute in relazione al dosaggio. È auspicabile che questi aspetti vengano approfonditi e se vi saranno ulteriori conferme, la supplementazione con vitamina D potrebbe rivelarsi un’opportunità efficace (anche dal punto di vista economico) in termini di salute pubblica. Le malattie respiratorie acute sono in crescita soprattutto tra gli anziani residenti in RSA e correlano con complicanze, a volte anche fatali. Gindle AA, Blatchford P et al. J Am Ger Soc 2016; DOI: 10.1111/ jgs.14679

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Patologie metaboliche

Prevenzione

del diabete di tipo 2 L’iperglicemia alla prima ora durante OGTT identifica i soggetti con aumentato rischio di sviluppare la patologia e un peggiore profilo cardio-metabolico La glicemia alla prima ora durante ogtt si rivela utile nell’identificare tra i soggetti comunemente considerati a basso rischio, una sottoclasse con maggiori probabilità di sviluppare diabete di tipo 2

A cura di

Teresa Vanessa Fiorentino, Giorgio Sesti Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro

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l diabete mellito tipo 2 è una patologia cronica progressiva con un’elevata morbilità e mortalità cardiovascolare, la cui prevalenza è in continuo aumento a causa della diffusione anche nei Paesi in via di sviluppo di cambiamenti dello stile di vita, caratterizzati da una riduzione dell’attività fisica e un aumentato introito calorico. La compromissione dell’azione dell’insulina nei tessuti bersaglio e la disfunzione β cellulare sono le principali alterazioni fisiopatologiche del diabete mellito tipo 2 che risultano essere presenti molti anni prima dell’insorgenza della patologia [1]. La precoce identificazione di soggetti a rischio di insorgenza di diabete tipo 2 rappresenta una importante sfida poiché cambiamenti dello stile di vita e/o approcci farmacologici si sono dimostrati in grado di prevenire lo sviluppo del diabete e l’insorgenza di malattie cardiovascolari a esso associate

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[2-5]. Numerosi trials clinici hanno infatti dimostrato che un aumento dell’attività fisica associata a un moderato calo ponderale risulta in una riduzione di circa il 58 per cento del rischio di sviluppare diabete tipo 2 e che il trattamento con i farmaci ipoglicemizzanti quali metformina, pioglitazone o acarbosio in soggetti a rischio è in grado di prevenire significativamente l’insorgenza della patologia diabetica [2-4]. Questi risultati suggeriscono che la prevenzione del diabete tipo 2 è una promettente strategia per contrastare la diffusione epidemica della patologia e delle sue complicanze gravate da un significativo impatto sulla qualità e sull’aspettativa di vita dei pazienti oltre che sulla spesa sanitaria.

Alterata tolleranza agli idrati del carbonio e alterata glicemia a digiuno Le condizioni di disglicemia, note con il termine di pre-diabete in quanto associate a un aumentato rischio di diabete mellito tipo 2, tipicamente conosciute sono l’alterata tolleranza agli idrati del carbonio (IGT) e l’alterata glicemia a digiuno (IFG) [6]. Lo

stato di IGT è definito da una concentrazione di glucosio plasmatico tra 140-199 mg/dl 2 ore dopo un carico orale di 75 gr di glucosio (OGTT). In numerosi studi è stato osservato che circa il 30-40 per cento dei soggetti con IGT dopo 5-10 anni dalla diagnosi sviluppa diabete mellito [1]. La condizione di IFG è caratterizzata da una glicemia a digiuno compresa tra 100126 mg/dl secondo i criteri diagnostici dell’American Diabetes Association [6]. Da studi prospettici è emerso che i soggetti con IFG hanno un rischio di progressione verso il diabete tipo 2 simile a quello dei soggetti con IGT (5 per cento per anno) [1]. Nonostante siano accomunate da un simile rischio di progressione verso il diabete tipo 2, le due condizioni di pre-diabete presentano anomalie fisiopatologiche sottostanti differenti, con l’IGT sottesa principalmente dall’insulino-resistenza a livello muscolare e dalla compromissione della seconda fase della secrezione insulinica, e l’IFG caratterizzata dall’insulino-resistenza epatica e dal difetto della fase precoce della secrezione insulinica [1]. Sebbene l’IFG e l’IGT siano condizioni determinate da alterazioni del metabolismo glucidico tipicamente caratterizzanti la patogenesi del diabete tipo 2, studi epidemiologici prospettici hanno dimostrato che il 30-40 per cento dei pazienti che sviluppa diabete presentava una normale tolleranza glucidica (NGT) [1]. Queste evidenze suggeriscono che un sottogruppo di soggetti con NGT, condizione comunemente considerata a basso rischio cardio-metabolico, in realtà ha un aumentato rischio di sviluppare diabete


Tabella 1.

Studio

San Antonio Heart Study [7]

Botnia Study [8]

CATAMERI Study [9]

Studi longitudinali prospettici sulla capacità della glicemia alla prima ora durante OGTT di predire lo sviluppo di diabete mellito tipo 2 Popolazione esaminata

2.616 soggetti Messicani-americani

2.442 soggetti Caucasici

392 soggetti Caucasici

Follow-up

7-8 anni

7-8 anni

5-6 anni

Outcome

Risultati

Insorgenza di DM2

La glicemia alla prima ora durante OGTT correla significativamente con gli indici di secrezione e sensibilità insulinica. Un valore di glicemia alla prima ora durante OGTT ≥155 mg/dl ha una elevata sensibilità (75%) e una specificità (79%) nel predire l’insorgenza di DM2.

Insorgenza di DM2

L’incidenza di DM2 è più alta nei gruppi di tolleranza glucidica con glicemia alla prima ora durante OGTT ≥155 mg/dl (NGT 1h-low vs NGT-1h high: 1,3% vs 8,5%, p <0,001; IFG 1h-low vs IFG 1h-low: 1,8% vs 11,4%; IGT 1h-low vs IGT 1h-low: 0% vs 14%).

Insorgenza di DM2

L’incidenza di DM2 nei soggetti con NGT 1h-low, NGT 1h-high, IFG e IGT al baseline è rispettivamente di 2,9%, 16,7%, 12,5%, e 31,4%. Il rischio di sviluppare DM2 è più alto nei soggetti con NGT 1h-high (4,02 [95% CI 1,06-15,26] e IGT (6,67 [95% CI 2,09-21,24]) rispetto ai soggetti NGT 1h-low, ma non nei soggetti con IFG (1,91 [95% CI 0,44-8,29).

Note: IFG: alterata glicemia a digiuno; IGT: alterata tolleranza agli idrati del carbonio; DM2: diabete mellito tipo 2; 1h-low: glicemia alla prima ora durante OGTT <155 mg/dl; 1h-high: glicemia alla prima ora durante OGTT ≥155 mg/dl.

mellito tipo 2 e che i criteri diagnostici basati sulla glicemia a digiuno e 2 ore dopo OGTT non sono sufficienti per identificare tutti i soggetti a rischio di sviluppo di diabete tipo 2, che potrebbero beneficiare di un programma di intervento finalizzato a prevenire l’insorgenza della malattia e delle sue complicanze.

Iperglicemia alla prima ora durante OGTT e rischio di diabete mellito tipo 2 Nell’ultimo decennio studi longitudinali prospettici hanno dimostrato che un valore di glicemia alla prima ora durante OGTT ≥155 mg/dl si associa a un maggiore rischio di sviluppare diabete mellito tipo 2

(Tabella 1). Nel San Antonio Heart Study per la prima volta è stato riportato che un valore di glicemia alla prima ora durante OGTT ≥155 mg/dl correla fortemente con gli indici di secrezione e di sensibilità insulinica ed è in grado di predire l’insorgenza di diabete tipo 2 con maggiore accuratezza rispetto al valore di glicemia a digiuno e dopo 2 ore durante OGTT in una popolazione messicana-americana [7]. Successivamente nel Botnia Study condotto su popolazione scandinava veniva confermato il potere predittivo della glicemia alla prima ora durante OGTT e la sua superiorità rispetto alla glicemia dopo 2 ore durante OGTT e quella a digiuno [8]. Si osservava inoltre che, suddividendo i

soggetti in base alla tolleranza glucidica, gli individui NGT con un valore di glicemia a 1 ora durante OGTT ≥155 mg/dl (NGT 1h-high) avevano un rischio di sviluppare diabete tipo 2 più alto rispetto ai soggetti NGT con una glicemia a 1 ora durante OGTT <155 mg/dl (NGT 1h-low) indipendentemente dalla presenza di sindrome metabolica. Anche tra i soggetti IFG e IGT la glicemia a 1 ora si è dimostrata in grado di identificare quelli a rischio più elevato di ammalarsi di diabete tipo 2 [8]. Recentemente il nostro gruppo di ricerca ha pubblicato uno studio in cui è stata valutata l’incidenza di diabete mellito tipo 2 dopo un periodo di follow-up di circa 5 anni in una popolazione di 392 soggetti italiani suddivisi in base alla loro tolleranza glu-

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Patologie metaboliche cidica in NGT 1h-low, NGT 1h-high, IFG e IGT [9]. L’incidenza di diabete mellito tipo 2 durante il periodo di osservazione è risultata più elevata tra i soggetti con NGT 1h-high (16,7 per cento), IFG (12,5 per cento) e IGT (31,4 per cento) rispetto agli NGT 1h-low (2,9 per cento). Dopo correzione per età, sesso e BMI il rischio di sviluppare diabete mellito tipo 2 nei soggetti NGT 1h-high è risultato 4 volte più alto rispetto ai soggetti con NGT 1hlow. In questo studio, inoltre, da un’analisi effettuata su 595 soggetti non-diabetici sottoposti a una dettagliata caratterizzazione metabolica comprensiva di OGTT, misurazione di fattori di rischio cardio-metabolici classici e non classici e clamp euglicemico iperinsulinemico, che rappresenta il gold standard per valutare la sensibilità insulinica, è emerso che i soggetti NGT 1h-high esibivano un peggior profilo metabolico rispetto ai soggetti NGT 1 h-low [9]. Dopo correzione per BMI, età e sesso i soggetti NGT 1h-high presentavano aumentati livelli di glicemia e insulinemia sia a digiuno che durante OGTT, trigliceridi e proteina C reattiva e ridotti livelli di colesterolo HDL. La sensibilità insulinica valutata mediante

Le condizioni di disglicemia, note con il termine di pre-diabete in quanto associate a un aumentato rischio di diabete mellito di tipo 2, tipicamente conosciute sono l’alterata tolleranza agli idrati del carbonio e l’alterata glicemia a digiuno clamp euglicemico iperinsulinemico è risultata significativamente ridotta nei soggetti con NGT 1h-high rispetto ai soggetti NGT 1h-low così come la fase precoce di secrezione insulinica valutata durante OGTT. I soggetti NGT 1h-high esibivano inoltre una riduzione significativa della capacità della beta cellula pancreatica di adeguare la secrezione insulinica al grado di sensibilità periferica dell’ormone rispetto ai soggetti NGT 1h-low [9]. Complessivamente i dati finora pubblicati dimostrano che oltre alle

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due categorie tipicamente conosciute di prediabete, l’IFG e l’IGT, esiste un sottogruppo di soggetti, che pur avendo NGT, presenta un aumentato rischio di sviluppare diabete mellito tipo 2 e che è identificato da un valore di glicemia alla prima ora durante OGTT ≥155 mg/dl (Figura 1).

Iperglicemia alla prima ora e rischio cardio-metabolico L’identificazione di soggetti con alterazioni del metabolismo glucidico a rischio di diabete mellito tipo 2 è fondamentale non solo ai fini della prevenzione primaria della malattia diabetica, ma anche per l’attuazione di approcci di screening e di prevenzione di malattie cardiovascolari che sono associate sia al diabete che alle stesse condizioni di prediabete. Numerose evidenze attestano che individui con IGT hanno non solo una maggiore probabilità di sviluppare diabete, ma presentano anche un aumentato rischio di malattia aterosclerotica [10]. Un significativo rischio di malattie cardiovascolari, inoltre, è stato osservato anche tra i soggetti con NGT e in ampi studi longitudinali è stata riscontrata una positiva associazione tra i livelli di glicemia alla prima durante OGTT in soggetti non diabetici ed eventi cardiovascolari [11]. Recentemente un notevole numero di studi condotti dal nostro gruppo di ricerca ha dimostrato come individui NGT, ma con glicemia alla prima ora ≥155 mg/dl presentino un insieme di alterazioni cardio-metaboliche, come un peggior profilo lipidico, ridotta sensibilità insulinica e funzionalità beta cellulare, elevati markers infiammatori, ridotti livelli di IGF-1 e vitamina D, aumentati livelli di acido urico, e segni di danno d’organo predittivi di eventi cardiovascolari simili a quelli riscontrati nei soggetti con IGT [12-24]. In uno studio in cui sono stati analizzati 710 individui non diabetici sottoposti a OGTT, il nostro gruppo di ricerca ha osservato un peggiore profilo metabolico tra i soggetti NGT 1h-high rispetto agli NGT 1h-low, caratterizzato da aumentati livelli di body mass index (BMI), glicemia e insulinemia durante OGTT, trigliceridi, proteina C reattiva e dai ridotti livelli di colesterolo HDL [19]. I soggetti con NGT

1h-high inoltre presentavano livelli significativamente più alti degli enzimi epatici e del liver insulin resistance index, un indice surrogato di insulinoresistenza epatica. Il peggiore profilo metabolico riscontrato nei soggetti NGT 1h-high si associava a un rischio significativamente più alto rispetto ai soggetti NGT 1h-low di steatosi epatica non alcolica diagnosticata mediante ecografia epatica [19]. In uno studio osservazionale effettuato su 400 soggetti non-diabetici sottoposti a OGTT e valutazione ecografica dello spessore medio-intimale (IMT) della carotide comune, un marker di aterosclerosi vascolare precoce predittivo di eventi cardiovascolari [20], abbiamo osservato che i soggetti NGT 1h-high presentavano valori di IMT significativamente aumentati rispetto ai soggetti NGT 1h-low [20]. Un altro indice di danno vascolare precoce associato a un maggiore rischio di outcome cardiovascolari avversi è l’aumento della stiffness arteriosa, ossia della rigidità delle pareti arteriose. In uno studio condotto su 584 soggetti ipertesi di nuova diagnosi, è stato osservato che i soggetti con NGT 1h-high presentavano un significativo aumento della stiffness arteriosa rispetto ai soggetti NGT 1h-low [21]. Inoltre, in uno studio da noi condotto su 767 individui sottoposti a OGTT e a valutazione ecocardiografica dei diametri e delle volumetrie cardiache, i soggetti con NGT 1h-high presentano valori di massa ventricolare sinistra significativamente aumentati rispetto ai soggetti NGT 1h-low e simili rispetto ai soggetti con IGT o con diabete mellito tipo 2 [22]. La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, un noto fattore predittivo indipendente di morbilità e mortalità cardiovascolare, è risultata più elevata tra i soggetti con NGT 1h-high, IGT e diabete mellito rispetto al gruppo NGT 1h-low (rispettivamente 41,1 per cento, 36,3 per cento e 41,1 per cento vs 25,8 per cento, p <0,001). Le alterazioni dell’architettura strutturale del ventricolo sinistro riscontrate nei soggetti con alterazioni del metabolismo glucidico si associano anche a una compromissione della funzionalità diastolica [23]. Analogamente ai soggetti con IGT e a quelli affetti da diabete tipo 2, i soggetti con NGT 1h-high


Figura 1

Condizioni che espongono ad aumentato rischio di diabete di tipo 2

Note: NGT: normale tolleranza glucidica; IFG: alterata glicemia a digiuno; IGT: intolleranza agli idrati del carbonio

mostravano una funzionalità diastolica del ventricolo sinistro peggiore rispetto agli individui NGT 1h-low, come dimostrato dal riscontro ecocardiografico di elevati valori del volume dell’atrio sinistro, del tempo di rilasciamento isovolumetrico del ventricolo sinistro e dai ridotti livelli del rapporto E/A [23]. I meccanismi patogenetici sottostanti l’associazione tra iperglicemia alla prima ora durante OGTT e le alterazioni vascolari e cardiache riscontrate nei soggetti NGT 1hhigh non sono completamente noti. Oltre al danno cellulare mediato direttamente dall’iperglicemia un ruolo importante potrebbe essere svolto dall’attivazione di pathways pro-infiammatori, dall’insulinoresistenza e dall’iperinsulinismo compensatorio. L’infiammazione cronica subclinica rappresenta un substrato fisiopatologico che accomuna molte patologie metaboliche quali il diabete tipo 2 e l’obesità alle malattie cardiovascolari, ed è considerata un fattore predittivo sia per lo sviluppo di diabete che di malattie cardiovascolari [25]. Il nostro gruppo di ricerca, analizzando i livelli di diversi markers infiammatori, quali fibrinogeno, proteina C reattiva, velocità di eritrosedimentazione, complemento C3 in una popolazione di 1.099 soggetti non diabetici ha osservato un peggiore profilo infiammatorio nei soggetti con NGT

1h-high rispetto agli individui con NGT 1h-low [14]. La compromissione dell’azione biologica dell’insulina e il conseguente aumento dei livelli plasmatici di insulina come fisiologico meccanismo per mantenere l’euglicemia giocano un ruolo importante nella patogenesi delle malattie cardiovascolari. Nei soggetti con NGT 1hhigh è stata riscontrata una significativa riduzione della sensibilità insulinica e un significativo aumento dei livelli di insulinemia [9,12-24] che è, almeno in parte, dovuto a una ridotta capacità dei tessuti di metabolizzare e rimuovere l’insulina dalla circolazione sanguigna come suggerito da uno studio in cui la clearance dell’insulina, valutata mediante clamp euglicemico iperinsulinemico su 438 individui non diabetici, è risultata significativamente più bassa nei soggetti NGT 1h-high rispetto a quelli NGT 1h-low [13]. Un altro predittore indipendente di outcome cardiovascolari avversi che è stato riscontrato più comunemente nei soggetti con NGT 1h-high è la disfunzione renale [24]. In uno studio effettuato su 1.075 soggetti non diabetici abbiamo osservato una riduzione del filtrato glomerulare calcolato e un aumento di 4 volte del rischio di insufficienza renale cronica tra i soggetti con NGT 1h-high rispetto ai soggetti NGT 1h-low [24].

Conclusioni Il diabete mellito tipo 2 e le sue complicanze micro- e macrovascolari hanno raggiunto negli ultimi decenni una diffusione pandemica rappresentando una delle principali cause di mortalità e morbilità nella popolazione mondiale. Interventi sullo stile di vita e/o farmacologici si sono rivelati capaci di ritardare o evitare l’insorgenza del diabete tipo 2 e delle complicanze cardiovascolari a esso associate e alle condizioni di prediabete enfatizzando l’importanza di una precoce identificazione di soggetti a rischio [2-5]. Le due categorie di prediabete comunemente conosciute sono caratterizzate da elevati livelli di glicemia a digiuno e/o glicemia 2 ore dopo carico orale di glucosio [1,6]. Tuttavia lo sviluppo di diabete mellito e di malattie cardiovascolari è comune anche tra i soggetti con NGT. Recenti evidenze suggeriscono che un valore di glicemia dopo 1 ora durante OGTT superiore a 155 mg/dl possa identificare soggetti con ridotta sensibilità insulinica e disfunzione beta cellulare a rischio di diabete tipo 2 anche tra coloro che presentano normale tolleranza glucidica (NGT) [7-9]. Inoltre soggetti NGT, ma con iperglicemia alla prima ora superiore a 155 mg/dl (NGT 1h-high) mostrano un peggiore profilo cardio-metabolico ri-

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Patologie metaboliche spetto ai soggetti NGT 1h-low, con un più alto rischio di avere segni di danno d’organo precoci quali steatosi epatica, ipertrofia miocardica, disfunzione diastolica, aterosclerosi vascolare e riduzione del filtrato glomerulare [12-24]. Gli studi finora pubblicati supportano l’importanza della determinazione della glicemia alla prima ora durante OGTT, in aggiunta alla glicemia a digiuno e 2 ore dopo OGTT, al fine di riconoscere precoci alterazioni del metabolismo glucidico e per una migliore stratificazione del rischio cardiometabolico. È stato dimostrato infatti che un cutoff di 155 mg/dl per la glicemia alla prima ora durante OGTT può essere in grado di identificare tra i soggetti con NGT, condizione classicamente ritenuta essere a basso rischio, un sottogruppo di individui che presenta una aumentata probabilità di sviluppare diabete tipo 2 e malattie cardiovascolari (Figura 1), distinto dalle altre due condizioni di disglicemia, IFG e IGT, e che potrebbe beneficiare di interventi sullo stile di vita e/o farmacologici.

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reumatologia

Algodistrofia Inquadramento clinico e terapeutico Nelle sindromi algodistrofiche, la diagnosi precoce riveste un ruolo essenziale dal momento che permette l’attuazione di un approccio terapeutico opportuno

A cura di Giovanni Iolascon Dipartimento multidisciplinare di Specialità Medico-Chirurgiche e Odontoiatriche, Seconda Università degli Studi di Napoli

I

l dolore è un sintomo comune a molte malattie, ma talvolta può assurgere a vero elemento caratterizzante una patologia. È questo il caso dell’algodistrofia. La prima descrizione di un paziente affetto da questa malattia fu fatta da un chirurgo militare inglese, Denmark, che cosi descriveva il caso di un soldato ferito da un proiettile perforante la regione sovracondiloidea del braccio durante l’assalto di Badajoz, che permise a Wellington di iniziare la conquista della Spagna e lo smantellamento dell’impero napoleonico: “L’ho sempre trovato (il paziente) con il gomito flesso ed avambraccio supino, sorretto dall’altra mano, e con un dolore di tipo bruciante e così forte che sudava freddo” .

La storia dell’algodistrofia Denmark ipotizzò che questo particolare quadro clinico fosse collegato a una lesione da proiettile del nervo radiale. L’ipotesi di un dolore cronico severo e persistente da danno nervoso traumatico fu confermata dagli studi di Weir Mitchell, che così descrisse i segni e i sintomi di una condizione che noi oggi chiameremo

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Algodistrofia o Complex Regional Pain Syndrome (CRPS). “La pelle della zona colpita era profondo rosso o a chiazze rosse miste a pallide. I tessuti sottocutanei erano quasi del tutto rattrappiti…Nelle dita spesso c’erano crepe nella pelle alterata, con gonfiore che davano l’aspetto di distensione dei tessuti sottostanti. La superficie di tutte le parti interessate è lucida e brillante ….Niente di più curioso di questi tessuti rossi e brillanti può essere concepito! Nella maggior parte della superficie la pelle era priva di rughe e perfettamente priva di peli”. Anche Weir Mitchell ritenne che questo quadro clinico fosse collegato a un danno nervoso periferico di tipo traumatico, ad esempio da proiettile. La patologia fu successivamente denominata “causalgia”. L’etimologia del termine derivava dalla crasi tra le parole greche “kavaros” (calore) e “ockyos” (dolore), sottolineando le caratteristiche cliniche della regione corporea colpita dalla patologia. Alcuni decenni dopo, un grande chirurgo tedesco, Paul Sudeck, presentò durante il congresso della Società di chirurgia tedesca svoltosi a Berlino, alcuni casi clinici di una nuova forma di eclatante “atrofia ossea”, documentata radiograficamente (i raggi x da poco scoperti erano entrati nella pratica clinica della chirurgia ortopedica), che poteva comparire dopo vari traumi, e che successivamente fu chiamata, in suo onore, atrofia di Sudeck. Questa forma di atrofia aveva molte caratteristiche cliniche della causalgia di Weir Mitchell, dal-

la quale la distingueva soprattutto il fatto che spesso non si riusciva a ritrovare un danno nervoso periferico come fattore scatenante. La scoperta che il sistema simpatico giocasse un ruolo importante nel controllo della vascolarizzazione periferica portò all’ipotesi che la sindrome potesse essere in qualche modo collegata a un’iperattività del simpatico, ipotesi che sembrò confermata dal fatto che la simpaticectomia, da poco ideata da Leriche, potesse qualche volta migliorare il quadro clinico. Venne quindi proposto il termine di “distrofia simpatico-riflessa”, ancora oggi molto utilizzato, che sottolineava l’importante ruolo patogenetico di questa parte del sistema nervoso autonomo. Rimaneva comunque non ben definito il ruolo di quello che sembrava il sintomo prevalente, il dolore, che era generalmente sproporzionato rispetto alla causa traumatica che aveva scatenato il processo patologico. La IASP (International Association for the Study of Pain) propose di definire la patologia come CRPS (Complex Regional Pain Syndrome), suddivisa in tre sottotipi: CRPS 1 (la vecchia distrofia simpatico-riflessa), nella quale non vi è un danno nervoso periferico accertato, CRPS 2 (la vecchia causalgia), nella quale vi è una lesione nervosa accertata, e CRPS – NOS (not otherwise specified), che include quelle condizioni patologiche che incontrano solo parzialmente i precisi criteri diagnostici proposti [1]. A tal proposito la IASP cercò di fare chiarezza fornendo dei parametri diagnostici, esclusivamente anamnestici e clinici, che culminarono nella formulazione dei criteri di Budapest, considerati attualmente il gold standard per la diagnosi di CRPS (Tabella 1). È da sottolineare che comunque i criteri non comprendono alcuna valutazione strumentale [2].


Tabella 1. Criteri

di Budapest

1

Dolore persistente, sproporzionato rispetto all’evento scatenante

2

Almeno 1 sintomo in almeno 3 delle 4 categorie

Sensibilità

Iperestesia e/o allodinia

Vasomotorio

Asimmetria cutanea in termini di temperatura e/o colorito locali

Sudomotorio/Edema

Edema e/o iper- o ipoidrosi asimmetrici

Motorio/Trofico

Rigidità articolare e/o disfunzione motoria (ipostenia, tremore, distonia) e/o distrofismi di cute e annessi cutanei

3

Almeno 1 segno al momento della valutazione in almeno 2 categorie

Sensibilità

Iperalgesia alla puntura di spillo e/o allodinia (al tocco leggero, alla pressione, al ROM passivo)

Vasomotorio

Obiettività di asimmetria cutanea in termini di temperatura e/o colorito locali

Sudomotorio/Edema

Obiettività di edema e/o iper- o ipoidrosi asimmetrici

Motorio/Trofico

Obiettività di rigidità articolare e/o disfunzione motoria (ipostenia, tremore, distonia) e/o distrofismi di cute e annessi cutanei

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Nessuna altra diagnosi possibile in base ai segni e ai sintomi riportati

I meccanismi patogenetici L’algodistrofia (o CRPS) può verificarsi 4-6 settimane dopo piccoli traumi, fratture, immobilizzazione di un segmento scheletrico (soprattutto distale di arto superiore o inferiore), ictus o intervento chirurgico. È opinione condivisa che la patologia nasca dall’interazione di diversi pattern fisiopatologici che agiscono sia a livello periferico che centrale, e che si innescano su una predisposizione geneticamente determinata (Figura 1). Nella CRPS è presente un significativo aumento delle citochine pro-infiammatorie che si ritiene svolgano un ruolo centrale nello sviluppo e/o nel mantenimento della patologia stessa. Ciò avviene grazie alla coesistenza di due processi infiammatori, l’infiammazione classica con dolore, arrossamento, calore, gonfiore e disabilità, e l’infiammazione neurogena, in cui il nervo rilascia neuropeptidi infiammatori nel tessuto leso, innescando un processo di iniziale cronicizzazione. Il simpatico può venire coinvolto già nelle fasi iniziali, causando una maggiore suscettibilità della microcircolazione ai vari agenti paracrini ed endocrini, inclusi i

neurotrasmettitori specifici, legati ai meccanismi della infiammazione neurogena. L’ipossia locale, causa di acidosi tissutale, costituisce un elemento comune della patologia che necessariamente interferisce con i pattern patogenetici e le manifestazioni cliniche. Il dolore, elemento caratterizzante la patologia, sarà di tipo misto, nocicettivo e neuropatico, e procede attraverso i meccanismi della sensibilizzazione periferica e centrale verso la cronicizzazione. La sensibilizzazione centrale coinvolge il SNC sia nella componente midollare che cerebrale. Sono infatti state identificate variazioni neuroplastiche da riorganizzazione della corteccia somatosensoriale e anche della corteccia motoria [3].

Diagnosi Nella forma classica, la localizzazione dei segni e dei sintomi è per lo più alle estremità distali quali mano o piede con distribuzione a guanto o a calza. Questi sintomi possono diffondersi, nei casi più gravi, anche prossimalmente o perfino all’altro lato come conseguenza della riorganizzazione plastica cerebrale.

È comunque noto che possono esserci localizzazioni più prossimali (spalla, ginocchia, anca) in assenza di sintomi distali. Se il quadro clinico soddisfa i criteri diagnostici (di Budapest) e non c’è altra diagnosi che possa spiegare meglio i sintomi, allora la patologia dovrebbe essere considerata CRPS e trattata come tale. Clinicamente la CRPS viene descritta come “calda” o “fredda”. La prima forma presenta le caratteristiche di acuzie flogistica (segmento affetto caldo ed edematoso), la seconda si presenta con cute fredda e segni distrofici/atrofici marcati. Le due forme possono iniziare e proseguire come tali o trasformarsi con il tempo l’una (la calda) nell’altra (fredda). Il quadro clinico è polimorfo e comprende vari sintomi e segni. Primo fra tutti è il dolore cronico persistente, accompagnato spesso da allodinia e iperalgesia [4]. Comuni sono i disturbi del movimento, caratterizzati da una riduzione del ROM attivo e, nelle fasi avanzate, anche passivo per la comparsa di retrazioni dei tessuti molli. Talvolta sono anche presenti segni di alterato controllo motorio, come tremori, mioclonie e disturbi del tono [5-7]. La comparsa di una sindrome chinesofobica

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reumatologia Figura 1

Ipotesi patogenetica della CRPS

può ulteriormente peggiorare la rigidità articolare e la riduzione della performance muscolare [8]. Altra caratteristica clinica della patologia è la sintomatologia da anomalie autonomiche, che coinvolgono la microcircolazione con ipo- o ipertermia, iper- o ipoidrosi, discromie cutanee, edema e tumefazione. Frequenti conseguenze sono anche i distrofismi tissutali con annessi cutanei (unghie e peli) che possono crescere a una velocità insolita (più lenta o più veloce) e talvolta con deformazioni, e con tessuti molli cutanei, sottocutanei e profondi alterati. Con una certa frequenza sono presenti disturbi dispercettivi, che possono simulare una sindrome da inattenzione, per alterata percezione del segmento scheletrico sede del processo patologico [6,9]. In realtà la CRPS è una malattia con un quadro clinico estremamente eterogeneo, con una variabilità temporale e di intensità dei segni e dei sintomi, pertanto si assiste di frequente a una fluttuazione del quadro clinico che non rende impropria una classificazione in stadi che si susseguono. La diagnosi può essere completata con una scintigrafia ossea trifasica e/o con una RMN che possono, ma non sempre, evidenziare aree di iperaccumulo o di ede-

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ma nel segmento coinvolto. Questi esami assumono un ruolo più importante nella diagnostica delle forme di CRPS-NOS, comprese le sindromi algodistrofiche con edema osseo doloroso. La diagnosi precoce riveste un ruolo essenziale, poiché la possibilità di remissione del quadro clinico è strettamente correlata alla rapidità e all’intensità della terapia farmacologica e non farmacologica da somministrare.

Trattamento Il trattamento dell’algodistrofia è ancora oggi una sfida, anche a causa della scarsità di dati di efficacia sulle terapie disponibili. Obiettivi della terapia della CRPS sono il sollievo dal dolore, il ripristino funzionale, e la stabilizzazione psicologica [10]. L’approccio interdisciplinare per il trattamento di pazienti affetti da CRPS è il più pragmatico, utile e conveniente oggi disponibile [11]. Esso prevede interventi di terapia farmacologica associata a terapia fisica/riabilitativa, terapia psicologica/ comportamentale, interventi inerenti l’attività lavorativa e ludica, e infine tecniche interventistiche, laddove necessarie, quali blocchi nervosi, neurostimolazione del midollo spinale e simpaticectomia. La terapia riabilitativa comprendente l’uso

di agenti fisici, chinesiterapia e terapia occupazionale costituisce l’elemento cardine di ogni piano terapeutico per l’algodistrofia [12,13]. L’approccio riabilitativo sarà adattato alle specifiche esigenze e condizioni funzionali del segmento coinvolto. La chinesiterapia si basa essenzialmente su programmi di esercizio terapeutico progressivo, sia attivo che passivo, per mantenere e migliorare il ROM articolare e la forza muscolare. Recentemente sono state introdotte tecniche riabilitative innovative, come la mirror therapy, che modulano la percezione del dolore e riducono il rischio di cronicizzazione.

Terapia farmacologica Elemento cardine della gestione dell’algodistrofia rimane la terapia farmacologica. Attualmente non ci sono linee guida che definiscono in modo chiaro il trattamento farmacologico da utilizzare nei pazienti affetti da CRPS. Diversi farmaci sono stati utilizzati, negli ultimi decenni, per ridurre il dolore e migliorare lo stato funzionale, e tra questi, più comunemente i FANS, gli anticonvulsivanti, gli antidepressivi, i miorilassanti, i corticosteroidi, la calcitonina, i bisfosfonati (BP), i calcio-antagonisti e i farmaci topici [14]. I glucocorticoidi orali, come il prednisolone alla dose di


40 mg/die per 14 giorni, seguiti da una graduale riduzione di 10 mg/settimana [15] hanno dimostrato di avere una certa efficacia nel trattamento della CRPS, suggerendo che un breve ciclo di steroidi può essere indicato nelle fasi iniziali della CRPS nelle forme “calde” [16]. Cicli più lunghi di trattamento con steroidi non sono stati ancora sperimentati, anche in considerazione dei rilevanti eventi avversi che possono comparire. In una recente revisione sistematica con metanalisi pubblicata su Lancet Neurology [17], gli Autori sottolineano che l’uso di oppioidi per il dolore neuropatico è una ragionevole opzione di trattamento di seconda o terza linea, e pertanto essi potrebbero avere un ruolo nelle forme di algodistrofia con dolore a prevalente componente neuropatica. Tuttavia, la tolleranza e la tossicità a lungo termine di questi farmaci rimangono questioni irrisolte [18], e inoltre terapie a lungo termine ad alte dosi di oppioidi potrebbero anche peggiorare l’allodinia e/o l’iperalgesia. Gli anticonvulsivanti, come il gabapentin e il pregabalin, utili nel controllo del dolore neuropatico da nevralgia del trigemino, non hanno dimostrato di essere altrettanto efficaci in altre condizioni di dolore neuropatico, inclusa l’algodistrofia [19,20]. Anche gli antidepressivi, utilizzati in alcune forme di dolore neuropatico non hanno prove di efficacia nel trattamento della CRPS. La vitamina C (500 mg al giorno per 50 giorni) potrebbe rappresentare un approccio costo-efficace nel prevenire la CRPS dopo un trauma ortopedico o chirurgico (in particolare frattura del radio distale), anche se prove scientifiche robuste non esistono sulla sua efficacia [21,22]. I BP sono gli agenti farmacologici più studiati per il trattamento della CRPS [23] e più utilizzati nella pratica clinica in tutte le forme di edema osseo doloroso. I BP sono potenti inibitori del turnover osseo ampiamente utilizzati per la terapia dell’osteoporosi e di altre malattie metaboliche dell’osso. Anche se non in maniera costante, l’algodistrofia può essere caratterizzata da un rimaneggiamento osseo eccessivo e pertanto può giovarsi della terapia antiriassorbitiva con BP. Tuttavia, i potenziali

Figura 2

Efficacia della somministrazione di neridronato vs placebo

Fonte: Varenna M et al. Rheumatology (Oxford) 2013; 52(3): 534-42. [26]

effetti benefici dei BP nella CRPS potrebbero non essere correlati alla loro attività antiosteoclastica, ma all’interferenza di questi farmaci con le pathway flogistiche e nocicettive attivate nell’algodistrofia. È stato ipotizzato che l’acidificazione del mezzo extracellulare causato o meno dagli osteoclasti può attivare i nocicettori acido-sensibili con conseguente rilascio di citochine pro-infiammatorie [24,25].

Inoltre, i BP potrebbero interferire direttamente con l’attivazione macrofagica, e la conseguente iperespressione di nerve growth factor (NGF) a sua volta elemento determinante nell’infiammazione neurogena [26]. Tra i BP, il neridronato ha dimostrato una robusta efficacia nel controllo della sintomatologia e della clinica della CRPS. Recentemente Varenna et al. [26] hanno

Figura 3

Efficacia della somministrazione di neridronato vs placebo nella fase di estensione in aperto dello studio

Periodo di wash-out Neridronato ev 100 mg x 4 P=0,0001 P<0,0001

Giorni Fonte: Varenna M et al. Rheumatology (Oxford) 2013; 52(3): 534-42. [26]

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reumatologia pubblicato uno studio randomizzato controllato, condotto su una popolazione di 82 pazienti con CRPS I, ai quali è stato somministrato neridronato o placebo. Gli Autori hanno riportato che nei pazienti trattati con neridronato endovena alla dose di 100 mg/dose per quattro dosi (per complessivi 400 mg) si aveva una diminuzione molto più importante del dolore misurato con una Visual Analogue Scale (VAS) come anche di altri indici clinici, e un conseguente impatto positivo sulla qualità della vita quando confrontati con quelli trattati con placebo (Figura 2). Lo studio ha anche previsto una fase in aperto di estensione, nella quale i pazienti già arruolati nel gruppo placebo hanno ricevuto neridronato allo stesso dosaggio (Figura 3), manifestando anch’essi un netto miglioramento. I risultati positivi sono stati confermati a 1 anno di follow-up. La possibilità di utilizzare, con lo stesso risultato clinico-funzionale, la somministrazione per via intramuscolare del neridronato a dosaggi refratti, ma complessivamente simili (25 mg per 16 giorni consecutivi), è oggetto di un trial randomizzato controllato attualmente in fase di esecuzione.

CONCLUSIONI In conclusione, le sindromi algodistrofiche costituiscono un universo clinico polimorfo, che riconosce percorsi patogenetici multipli, e pertanto devono essere affrontate, dal punto di vista terapeutico, in maniera multimodale. La terapia farmacologica, se appropriata e rapidamente instaurata, può ridurre il rischio di cronicizzazione e portare alla guarigione.

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C O NG R E S S I 32° Congresso ECTRIMS, 14-17 settembre 2016 - Londra

Sclerosi multipla Le principali novità in terapia dal meeting europeo Ogni anno l’appuntamento con l’ECTRIMS è tra i più attesi da tutti coloro che si occupano di sclerosi multipla. La ricerca in questo ambito è particolarmente dinamica e necessita di continui aggiornamenti sia sul fronte clinicodiagnostico che terapeutico. Accanto a farmaci “vecchi” e di uso consolidato, ma che tuttora rivestono un ruolo di primo piano nel trattamento, vi sono molecole dal meccanismo d’azione sempre più mirato e innovativo, permettendo così l’attuazione di un approccio sempre più individualizzato

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l principale appuntamento annuale della comunità scientifica impegnata nel campo della sclerosi multipla si è tenuto a metà dello scorso settembre. Londra ha ospitato in una maratona di quattro giorni i maggiori specialisti, riunitisi in occasione dell’ECTRIMS (European committee for treatment and research in multiple sclerosis). È uno degli appuntamenti più attesi da quanti operano nel settore della sclerosi multipla (SM), in quanto momento privilegiato per fare il punto sulla ricerca, sullo sviluppo di nuove terapie e per delineare il percorso futuro. All’apertura dei lavori, in una lectio magistralis il presidente dell’ECTRIMS Xavier Montalban ha introdotto il meeting sottolineando i grandi passi compiuti in ambito diagnostico e terapeutico, con farmaci sempre più innovativi che nel corso degli ultimi anni hanno implementato il ventaglio delle opzioni, dando la concreta possibilità ai clinici di poter adottare un trattamento a misura di ogni singolo paziente. Sebbene la strada verso

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la personalizzazione dell’approccio sia ancora lunga, un’ampia tratta è stata già percorsa. L’Italia ha un ruolo privilegiato nell’ambito dell’ECTRIMS. La ricerca nel nostro Paese conferma il suo livello di eccellenza sotto diversi punti di vista. Un esempio è il ruolo di primo piano nel progetto MAGNIMS (Magnetic resonance imaging in multiple sclerosis), il network europeo che si occupa di sviluppare e migliorare le tecniche diagnostiche di risonanza magnetica. Al congresso, Paolo Preziosa, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, uno tra i più giovani ricercatori del MAGNIMS, ha presentato i nuovi criteri radiologici messi a punto per un’individuazione della malattia sempre più precoce, in pazienti con CIS (sindrome clinicamente isolata). Dal 2001 i dati di RMN sono usati di routine per la diagnosi di SM. Nel corso degli ultimi anni, gli sviluppi tecnologici hanno portato continue revisioni dei criteri e dei parametri tanto che oggi vi è la possibilità di diagnosticare la malattia precocemente e

in maniera molto accurata, anche quando i pazienti presentano pochi segni clinici. I dati presentati da Preziosa derivano dall’osservazione di 72 pazienti CIS che sono stati reclutati da cinque Centri europei e sono stati seguiti per 2 anni. Uno degli obiettivi (particolarmente arduo) era identificare meglio le lesioni presenti nella sostanza grigia e nell’adiacente sostanza bianca, predittive di evoluzione verso la forma clinicamente definita. All’inizio i pazienti sono stati sottoposti a DIR MRI (double inversion recovery MRI), tecnica che permette di identificare meglio rispetto alla RMN standard le lesioni sopracitate. A due anni, nel 90 per cento dei pazienti reclutati si è manifestata un’evoluzione verso una forma clinicamente definita di SM, mentre nel 10 per cento sono state diagnosticate altre patologie neurologiche. L’impiego della DIR MRI dunque ha portato risultati incoraggianti e grazie alla precisione e all’identificazione delle lesioni della sostanza grigia è stato possibile formulare la diagnosi corretta nella maggioranza dei casi, già all’inizio dello studio. Altro tema interessante del Congresso riguarda la riabilitazione, a cui sono state dedicate diverse sessioni. I continui sviluppi della riabilitazione anche in un’ottica multidisciplinare stanno portando ottimi risultati, permettendo di migliorare la gestione della disabilità e la qualità di vita dei malati.

Cosa ci aspettiamo sul fronte delle terapie? Il trend ormai lo conosciamo: accanto a farmaci di uso consolidato, si accostano molecole sempre più innovative con meccanismi d’azione mirati, pensate e


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costruite per cercare di contenere il più possibile gli effetti collaterali. Nel giro di pochissimo tempo oltre dieci farmaci di nuova generazione sono stati resi disponibili, permettendo al clinico di impostare una strategia terapeutica “su misura”. Tra le novità non possiamo trascurare daclizumab (Biogen e AbbVie). Il farmaco già approvato in UE, ma non è ancora disponibile in Italia, è un anticorpo monoclonale IgG1 umanizzato che si lega in modo selettivo alla subunità (CD25) del recettore dell’interleuchina 2 (IL-2) a elevata affinità. CD25 è espressa ad alti livelli sui linfociti T, che vengono attivati nei soggetti con SM. Il farmaco è approvato nella SMRR, ed è autosomministrabile una volta al mese per via sottocutanea. Sono stati resi noti i risultati di una nuova analisi post-hoc dello studio registrativo DECIDE e ulteriori dati ad interim provenienti dallo studio di estensione a lungo termine EXTEND. Nel confronto con interferone beta-1a (DECIDE) emerge come una quota significativamente superiore di pazienti trattati con daclizumab ha raggiunto il NEDA a 96 settimane rispetto a quelli trattati con l’interferone beta-1a. Lo stato NEDA è stato definito come il composito di assenza di recidive cliniche, assenza di progressione della disabilità, assenza di lesioni iperintense in T2 nuove o di recente estensione e assenza di lesioni captanti gadolinio. L’analisi ha esaminato la percentuale di pazienti che ha raggiunto lo stato NEDA in base all’intervallo di tempo, e si è concentrata sull’efficacia di daclizumab sia durante i primi sei mesi sia dopo i 18 mesi di trattamento al fine di valutare il potenziale impatto dell’attività patologica presistente. È stato quindi dimostrato che l’efficacia di daclizumab sul NEDA è più evidente al termine del periodo di valutazione. Secondo quanto dimostrato dai dati ottenuti nello studio EXTEND, daclizumab è stato associato a benefici a lungo termine nella quota di pazienti

liberi da recidiva e in quelli che non hanno mostrato progressione della disabilità confermata a 24 settimane. EXTEND è un’estensione di DECIDE, in aperto, di fase III, attualmente in corso, che valuta la sicurezza e l’efficacia del farmaco in 1.516 soggetti. I pazienti che erano stati trattati con interferone beta-1a da due a tre anni (media di 26 mesi) nello studio DECIDE, sono passati a daclizumab nello studio EXTEND e sono stati confrontati con i pazienti trattati in modo continuativo con daclizumab in entrambe gli studi. Il profilo di sicurezza di daclizumab è stato simile a quello osservato nello studio clinico controllato DECIDE. L’incidenza complessiva degli eventi avversi, escluse le recidive della malattia, è rimasta stabile nel tempo. La maggior parte degli eventi avversi di interesse, tra cui infezioni epatiche, cutanee e linfoadenopatia, è stata di grado da lieve a moderato. Il professor Giancarlo Comi, direttore dell’Istituto di neurologia sperimentale dell’IRCCS San Raffaele di Milano, ha commentato così i dati ottenuti con daclzumab, nell’ottica

di una sua collocazione nell’algoritmo di terapia: “…daclizumab ha una determinata forza senza dover pagare prezzi elevati in termini di sicurezza e tollerabilità. Ciò permette di approcciare la malattia secondo nuove potenzialità. Per malati molto gravi si ricorrerà ad anticorpi monoclonali killer di cellule B e T, ma in casi meno gravi si può modulare l’intervento. Daclizumab non ha azione diretta nel distruggere le cellule patogeneticamenti rilevanti, ma agisce sui natural killer che hanno funzione controregolatoria sulle cellule patogenetiche: difatti ha un’azione veramente immunomodulante e non di immunosoppressione. Per queste sue caratteristiche daclizumab ha una sua utilizzabilità in quei pazienti in fase iniziale di malattia che non hanno una prognosi for-

Sclerosi multipla secondaria progressiva

L’acido lipoico svela le sue potenzialità

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iamo solo all’inizio, ma i primi passi sembrano davvero promettere bene, soprattutto considerando che la sclerosi multipla secondariamente progressiva (SMSP) è una forma attualmente orfana di terapia. Ebbene, l’acido lipoico, un supplemento con note proprietà antiossidanti, sembra rallentare l’atrofia cerebrale in pazienti affetti da questa forma di malattia. I dati di un piccolo studio pilota sono stati presentati all’ultima edizione dell’ECTRIMS, e fanno ben sperare, seppure preliminari. Lo studio è stato condotto in 51 pazienti che sono stati randomizzati a ricevere 1.200 mg /die di acido lipoico (27 pz.) o placebo (24 pz.). Dopo 96 settimane i soggetti che avevano assunto l’acido lipoico mostravano un significativamente inferiore tasso annualizzato di atrofia, pari a 0,22 per cento, che se confrontato rispetto a quanto osservato nel gruppo placebo significa un rallentamento dell’atrofia del 66 per cento. L’auspicio è che ricerche future possano approfondire questa attività dell’acido lipoico.

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C O NG R E S S I 32° Congresso ECTRIMS, 14-17 settembre 2016 - Londra

Cambiano le prospettive del paziente con SM

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edichiamo questo spazio ad alcune riflessioni sul congresso ECTRIMS del professor Giancarlo Comi (nella foto), direttore dell’UO Neurologia sperimentale (INSpe), dell’IRCCS San Raffaele di Milano, raccolte nell’ambito di un incontro che si è tenuto a margine del meeting. Uno dei “take home message” di questo congresso è che finalmente al paziente affetto da sclerosi multipla (SM) possiamo parlare di prospettive e di un futuro, nemmeno tanto di breve durata. Le nuove terapie stanno cambiando il paradigma del trattamento e dell’approccio, delineando la concreta possibilità di offrire al malato una vita il più normale possibile. Prospettive che certamente qualche anno fa erano un po’ meno nitide. “Certamente le novità ci sono, ma questa edizione dell’ECTRIMS ha rappresentato un momento di riflessione. Il problema è ora: come usare al meglio i farmaci resi disponibili negli ultimi tempi e, soprattutto, come mettere a profitto tutto ciò che oggi sappiamo in termini di ottimizzazione del trattamento. Finalmente è passato il concetto dell’individualizzazione della terapia, avendo a disposizione elementi a sufficienza per dare indicazioni di natura predittiva e prognostica della malattia. Si è sempre più consolidato il concetto che mentre la malattia è fortemente condizionata da elementi genetici, che agiscono in modo concertato (ovvero un solo elemento non è sufficiente, ci vuole un certo livello di carica genetica per far crescere il rischio), il suo andamento non sembra risentire di tali effetti genetici. O per meglio dire, la genetica non influisce sulle modalità di evoluzione della SM nel singolo soggetto. Questo sposta la nostra attenzione sull’ambiente (fumo, livelli di vitamina D, obesità) e su come lo stile di vita possa influenzare l’evoluzione della malattia. Per esempio se all’esordio un paziente ha bassi livelli di vitamina D, sappiamo che andrà peggio, ha più rischio a breve termine e necessita di un intervento più rapido e di uno strumento terapeutico più aggressivo”. Oggi la disponibilità di numerose opzioni di trattamento, con differente “forza”, agevola l’approccio individualizzato. “Nell’individualizzazione devo scegliere farmaci diversi

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a seconda delle condizioni del malato. Non è un esercizio facile, perché la predittività non è perfetta, ma esistono elementi sufficienti che consentono di orientarsi. Questo è il messaggio più importante. Avere la possibilità di capire chi va meglio e chi va peggio significa avere la possibilità di offrire il trattamento giusto. Ecco che il concetto di trattamento di prima, seconda, terza linea diventa superato dalla personalizzazione: si può decidere di agire in modo aggressivo a seconda di come potrà evolvere il paziente. ‘Cosa farò nel prosieguo’ è la domanda che dobbiamo porci sempre quando si comincia una terapia. Si tratta di una decisione strategica”. Per quel che riguarda le molecole di recentissima introduzione come daclizumab, il prof. Comi sottolinea che “daclizumab può competere con le terapie di media forza, come fingolimod, dimetilfumarato, ma anche con gli iniettivi. Il farmaco può essere dato subito, in quanto non ha grossi effetti collaterali, ma anche in seguito ad altri trattamenti. Non possiamo dare terapie aggressive per tanto tempo: daclizumab può essere somministrato anche a chi è stato trattato con immunosoppressori pesanti (natalizumab, alemtuzumab), perché non è ‘distruggente’, ma è immunomodulante”. A conclusione, il prof. Comi ci offre anche una visione globale della malattia, che “ha un impatto enorme non solo sulla persona per quanto non può più fare o pensa di non poter fare o non si sente in grado di poter fare, ma si ripercuote in modo drammatico anche sul futuro, sulla sessualità, sulla famiglia”. Oggi però le cose sono cambiate, dal momento che si può offrire una prospettiva. “Se si riesce a dare una diversa prospettiva al paziente, già si opera un cambiamento radicale. Si è deciso di avere come obiettivo lasciare una persona priva di malattia: ciò in realtà non è perseguibile in tutti, ma è un quadro molto diverso rispetto alla disperazione, che apre la possibilità di poter tornare a fare di tutto, non è ‘sconfitto’ a priori. Oggi, anche affrontare in tranquillità la maternità è possibile. Naturalmente la donna va seguita e accompagnata”. Con questa visione che apre al futuro si abbattono anche i costi individuali e sociali, fortemente influenzati dalle aspettative e dalla realtà. “È un’altra grande rivoluzione...”.


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temente negativa, ma non sono neanche così benigni nella loro presentazione”.

L’efficacia dei trattamenti si mantiene nel tempo All’ECTRIMS diverse presentazioni sono state dedicate al dimetilfumarato (Biogen), terapia orale per la SMRR disponibile da qualche tempo. Di interesse sono i risultati ottenuti dagli studi in real life e dalla pratica clinica che confermano l’efficacia significativa del farmaco in termini di riduzione dell’attività di malattia nel lungo periodo, ovvero 9 anni, e ne sostengono così l’impiego precoce al fine di migliorare gli esiti dei pazienti con SM. È importante segnalare che oltre all’efficacia questi risultati sul lungo periodo ne avvalorano il profilo di sicurezza e un rapporto rischio-beneficio complessivo favorevole. Benefici nel tempo in termini di progressione della disabilità sono stati osservati anche nello studio ACROSS, condotto in pazienti con SMRR trattati con fingolimod (Novartis). Nello specifico dai risultati presentati al meeting londinese è emerso come i soggetti con SMRR trattati in modo continuativo con il farmaco sperimentano una progressione della disabilità significativamente inferiore rispetto a quelli in cui il trattamento era stato interrotto. Non solo, ma anche un minor numero di pazienti rimasti in terapia da 8 a 10 anni ha manifestato un’evoluzione verso la forma secondariamente progressiva. E infine, dato particolarmente significativo, quasi il 60 per cento dei pazienti arruolati nel trial è rimasto in terapia con fingolimod fino a 10 anni, a dimostrazione della persistenza a lungo termine. Nel complesso questi dati, come è stato sottolineato, contribuiscono a implementare le conoscenze su fingolimod, in particolare sul mantenimento dell’efficacia terapeutica nel lungo periodo.

Cladribina: la riscoperta di una “vecchia” molecola

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ladribina è una piccola molecola orale di sintesi, un pro-farmaco (Merck) che agisce in modo selettivo sui linfociti. Non è una molecola nuova, ma la conosciamo per i suoi trascorsi un po’ burrascosi. A seguito di un’iniziale entusiasmo, le sperimentazioni con cladribina nella sclerosi multipla recidivante-remittente vennero interrotte perché il trattamento correlava con un’elevata tossicità, e in particolare con un aumento nella frequenza di tumori. Vi era tuttavia solo uno studio, e i dati non erano sufficienti. Ma per ovvi motivi di sicurezza, il programma di studi venne bloccato. Ora però, sotto la spinta di diversi clinici e specialisti, tra cui anche il professor Giancarlo Comi, dell’Irccs San Raffaele di Milano, uno dei maggiori esperti nel campo della SM, le sperimentazioni sono state riprese e il farmaco è all’attenzione dell’EMA. In particolare sono stati accumulati dati dall’estensione dello studio CLARITY, e dati provenienti da pazienti in CIS, che sostanzialmente portano all’osservazione di una frequenza di tumori sovrapponibile a quanto riscontrato nella popolazione generale. È stato osservato come il trattamento con cladribina vs. placebo ha mostrato efficacia nei confronti dell’atrofia cerebrale, come ha sottolineato il prof. Nicola de Stefano, dell’Università di Siena, al congresso. Cladribina ha effetti nel "ridurre quell’accelerata riduzione del volume cerebrale che si accompagna alla SM, e di conseguenza ha un effetto anche sulla disabilità". Vi è dunque un ripensamento alle potenzialità di commercializzazione, e un primo responso dall’EMA è atteso a breve.

Anche l’estensione degli studi clinici condotti con alemtuzumab (Sanofi Genzyme) ha portato risultati molto interessanti. La fase di estensione a 6 anni è stata condotta sui pazienti che avevano preso parte a CARE-MS I e II. Vediamo meglio quali sono stati i risultati. Dopo i primi due cicli di trattamento (al basale e a 12 mesi) negli studi CAREMS, il 64 per cento dei pazienti in CAREMS I e il 55 per cento in CARE-MS II non hanno ricevuto alcun trattamento aggiuntivo durante i successivi 5 anni. Il basso tasso annualizzato di ricadute osservato negli studi è rimasto costante per tutta l’estensione (0,12 CARE-MS I, 0,15 CARE-MS II a 6 anni), e oltre il 70 per cento dei pazienti di entrambi gli studi non ha mostrato un peggioramento della disabilità confermata. Alemtuzumab

ha mostrato importanti effetti nel tempo anche in termini di rallentamento dell’atrofia cerebrale. “I dati presentati sull’estensione degli studi confermano l’unicità del meccanismo di azione di alemtuzumab, la persistenza dell’efficacia e la sicurezza a 5 anni dall’ultima infusione”, ha sottolineato il prof. Antonio Bertolotto, direttore del CRESM del Piemonte, di Orbassano. “È importante, e lo conferma anche la mia esperienza clinica diretta, vedere questi effetti duraturi nel tempo su ricadute, disabilità e risonanza, ma non solo: è anche da sottolineare che circa il 60 per cento dei pazienti non ha ricevuto ulteriori infusioni del farmaco nei 5 anni successivi all’ultima infusione, riducendo così notevolmente anche l’impatto sulla spesa farmaceutica”.

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ALLEANZA per la CURA

Trattamento del dolore cronico nell’anziano I vantaggi dell’associazione precostituita paracetamolo-codeina

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a gestione del dolore nei soggetti anziani costituisce tuttora una sfida per il clinico. Si tratta infatti, di pazienti fragili sia sul piano fisico, sia per quanto riguarda lo stato cognitivo, psico-emotivo e funzionale, come anche per la condizione socio-economica e l’ambiente sociale. Tra le principali patologie che sono causa di dolore in questa fascia di popolazione possiamo citare la lombalgia (40 per cento), l’artrosi (37 per cento), gli esiti di una frattura (14 per cento); altre condizioni possono essere problemi gastrointestinali, fibromialgia, vasculopatie periferiche, sindrome post-stroke, cefalee, lesioni cutanee, posture scorrette. Sebbene in Italia la Legge 38/2010 abbia segnato una svolta nella terapia del dolore, permangono le criticità. I dati di alcuni studi mostrano come il dolore venga spesso considerato in modo non adeguato, con il rischio di essere sottotrattato: circa il 74 per cento della popolazione con più di 65 anni riferisce dolore cronico e il 67 per cento degli anziani istituzionalizzati riporta dolore cronico benigno moderato-severo. Il rischio di sottotrattamento è uno dei principali gap da colmare e può interessare sia i pazienti che i medici. Spesso i soggetti anziani hanno una percezione del dolore per così dire un po’ distorta: per molti infatti, esso rappresenta un’inesorabile manifestazione dell’invecchiamento, e pertanto viene riferito in misura minore di quanto effettivamente sia nella realtà. A questo possono essere collegate situazioni di deficit cognitivi e sensoriali che portano a una sottostima. In più, negli anziani vi è la concreta possibilità di una scarsa conoscenza della disponibilità di terapie efficaci, come anche la paura di interazioni farmacologiche e di non riuscire a gestire correttamente la terapia antalgica, perché complessa. I medici d’altra parte possono non avere una conoscenza adeguata dei meccanismi del dolore, oppure possono essere per esempio, poco inclini a credere a quanto riferito dal paziente, possono considerare problemi trattabili o reversibili, erroneamente collegati all’invecchiamento, pos-

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sono aver paura dei possibili rischi derivanti dall’uso degli analgesici nei casi di disturbi cognitivi o neurologici. Nella pratica tutti questi aspetti convergono, generando una tuttora insufficiente gestione del dolore nel paziente anziano. Le conseguenze possono essere di enorme impatto: delirio, alterazione delle funzioni cognitive, ridotta autonomia, depressione, grande afflusso nelle strutture sanitarie, outcome peggiori, e costi sanitari e sociali maggiori. Approccio multimodale al dolore I recenti progressi compiuti nell’ambito della conoscenza dei meccanismi patofisiologici che sottendono il dolore acuto e la sua cronicizzazione hanno portato a un cambio di paradigma nel trattamento. Il cardine della terapia analgesica dovrebbe essere un approccio multimodale, che contempli contestualmente diversi metodi di controllo del dolore. Gli studi sulla plasticità neuronale che hanno permesso di fare luce sulla cronicizzazione del dolore hanno ulteriormente confermato la necessità di utilizzare analgesici ad azione centrale in alternativa ai comunemente usati FANS. Questi ultimi agiscono principalmente “in periferia” a livello delle ciclossigenasi e dunque intervengono solo marginalmente nel controllo del dolore cronico. In più, specialmente nella popolazione anziana e per lunghi periodi di trattamento, i FANS sono gravati da problemi di tollerabilità e sicurezza cardiovascolare e gastrointestinale. Infatti sono controindicati in caso di ulcera peptica attiva, insufficienza renale cronica e insufficienza cardiaca; particolare attenzione e cautela vanno prestate in caso di ipertensione arteriosa, gastrite da Helicobacter pylori, storia di ulcera peptica, contemporaneo uso di corticosteroidi o SSRI. Sulla base di queste considerazioni, la maggior parte delle linee guida internazionali raccomanda un utilizzo dei FANS per brevi periodi di tempo, al più basso dosaggio efficace e nelle condizioni di effettiva acutizzazione dell’infiammazione. Nella gestione del dolore acuto e cronico e nell’ottica di un


trattamento multimodale basato sulTabella 1 Parametri farmacocinetici del paracetamolo e della codeina la somministrazione di principi attivi con differenti meccanismi d’azione, Emivita plasmatica Esordio dell’azione Durata dell’azione vi è la possibilità di pianificare la tera(T1/2, min) analgesica (min) analgesica (h) pia utilizzando associazioni di farmaParacetamolo 150 15-30 6 (4-8) ci diversi, in un’unica formulazione. 120-180 30 6 (4-8) L’impiego di una terapia di combina- Codeina zione possiede molteplici vantaggi, tra Fonte. Mattia C, Coluzzi F. Eur Rev Med Pharmacol Sci 2015 cui la riduzione nel numero di sommicome nei pazienti con dolore non neuropatico, l’associazionistrazioni quotidiane e il conseguente miglioramento della compliance da parte del paziente, il tallone d’Achille delle ne paracetamolo-codeina sia stata prescritta nel 77,7 per terapie croniche. cento dei casi, confermandone l’utilità d’impiego in questa tipologia di dolore. Il trattamento del dolore nell’anziano va sempre intrapreso con bassi dosaggi da incrementare L’associazione paracetamolo-codeina gradualmente, a causa delle variazioni bioumorali e fisioDiverse società scientifiche nazionali e internazionali suggeriscono l’uso del paracetamolo specialmente in assopatologiche dell’organismo, che possono indurre alteraciazione con la codeina, un oppioide debole, quale terapia zioni nella farmacocinetica. L’associazione precostituita iniziale e a lungo termine nel trattamento del dolore paracetamolo+codeina bene si adatta a questa esigenza, persistente, soprattutto se di origine muscoloscheletrica. dal momento che è disponibile in compresse divisibili che Il razionale clinico di questa associazione analgesica è permettono di modulare la terapia in funzione delle necesche l’efficacia ottenuta è significativamente superiore, per sità del singolo paziente. un effetto sinergico, rispetto a quanto riscontrato con i due componenti usati singolarmente. Gli studi condotti Considerazioni conclusive con l’associazione paracetamolo-codeina mostrano chiaL’approccio al dolore nel soggetto anziano è complesso e articolato, e non può prescindere dalla valutazione comramente un miglioramento dell’attività analgesica, con una conseguente riduzione dell’NNT (Number needed to plessiva del profilo di rischio beneficio del singolo paziente. treat): da 5 (NNT medio riportato per paracetamolo) a 2,3L’impiego di associazioni precostituite con principi attivi 3,1, per l’associazione. Questo effetto sinergico inoltre non che agiscono in modo complementare, come paracetamoinfluisce sulla tollerabilità dei singoli componenti (Toms et lo-codeina, rappresenta un’opportunità di trattamento di al., 2009). La combinazione di due agenti differenti è perparticolare interesse, permettendo di massimizzare l’effitanto un’opzione di grande interesse nella pratica clinica, cacia analgesica, con il minimo dosaggio. L’associazione in grado di esercitare la propria azione su più componenti paracetamolo-codeina garantisce un buon controllo del dodel dolore e di migliorare la tollerabilità delle singole molore in molteplici condizioni tipicamente presenti nell’anzialecole: il paracetamolo agisce sui meccanismi biochimici no, che vanno dalla cefalea muscolotensiva alle patologie centrali e periferici del dolore, mentre la codeina agisce osteoarticolari e osteomuscolari. In aggiunta, la possibilità come agonista dei recettori mu degli oppioidi. In pratica, di disporre della formulazione in compresse divisibili perciò comporta la garanzia di un’efficacia analgesica a dosi mette al clinico di impostare la terapia per gradi, adattaninferiori rispetto a quanto si ottiene con le singole modola nel tempo e in funzione dello stato psico-fisico del paziente. In ultimo, ma non per importanza, la possibilità di noterapie. Nella combinazione paracetamolo-codeina, i semplificare lo schema di terapia, attraverso una riduzione parametri farmacocinetici sono simili (Tabella 1) e dunque nel numero di farmaci da assumere, aiuta a migliorare le due molecole esercitano la propria azione in maniera l’aderenza alla terapia, che, come ben noto, ha un peso sincrona, con analoga durata, ottenendo il massimo efdeterminante sull’efficacia della terapia stessa. fetto sinergico (Mattia, Coluzzi, 2015). Gli effetti collaterali bibliografia sono minimizzati, attraverso la riduzione del dosaggio dei principi attivi: nell’associazione paracetamolo-codeina l’opDrewes AM et al. Br J Clin Pharmacol 2013; 75(1): 60-78. timum, considerato sulla base dei dati degli studi clinici, è Toms L et al. Cochrane Data Base Syst Rev 2009; (1): CD001547. rappresentato da 500 mg+30 mg. Una survey condotta sui Mattia C, Coluzzi F. Eur Rev Med Pharmacol Sci 2015; 19(3): 507-16. MMG francesi (Martinez et al., 2014) ha messo in evidenza Martinez V et al. PloS One 2014; 9: e93855

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Bayer

Disponibile in Italia una nuova formulazione di naprossene sodico Il dolore muscoloscheletrico è una delle cause più frequenti di richiesta di consulto in Medicina generale. Le strategie per ottenere sollievo dal dolore e migliorare la qualità di vita del paziente sono diverse, e prevedono una fase di educazione verso stili di vita salutari: controllare il peso corporeo, svolgere attività fisica, evitare posture improprie, ridurre sforzi e traumi meccanici sono alla base di questo percorso. La prescrizione di un adeguato trattamento farmacologico, che coniughi efficacia e sicurezza è fondamentale. Oggi vi è la possibilità di personalizzare la terapia sulla base sia della tipologia di dolore sia delle caratteristiche del singolo soggetto. Gli antinfiammatori non steroidei (FANS) sono gli analgesici più comunemente prescritti per la gestione

del dolore osteoarticolare e il loro potere sul controllo del dolore è stato ampiamente dimostrato; tra questi il naprossene è una delle molecole maggiormente studiate, con provata efficacia sui sintomi dell’osteoartrosi e sulla disabilità a essi correlata. È utilizzato infatti da 40 anni nella pratica clinica. Per questa molecola è disponibile nel nostro Paese una nuova formulazione. Si tratta di naprossene sodico 660 mg a rilascio modificato che permette di ottenere un rapido sollievo dal dolore mantenendo l’effetto analgesico nell’arco dell’intera giornata. La nuova formulazione è stata “testata” in più di 600 pazienti in due studi randomizzati separati. In entrambi i casi, l’efficacia è stata significativamente superiore al placebo per tutti gli endpoint considerati, e

in particolare la nuova formulazione ha determinato una riduzione del dolore già dopo 15 minuti dall’assunzione e per una durata di 24 ore, con una sola somministrazione, in maniera paragonabile alla formulazione a rilascio immediato, assunta però tre volte al giorno. Il vantaggio della monosomministrazione giornaliera si concretizza in un effetto antalgico costante nell’arco della giornata, minori occasioni di ricomparsa del dolore, e di conseguenza una maggiore aderenza terapeutica del paziente, soprattutto se anziano e politrattato. Sul fronte della sicurezza, in particolare gastrointestinale, sette giorni di trattamento con naprossene sodico al dosaggio di 660 mg ha confermato una tollerabilità sovrapponibile a quella del paracetamolo.

Novartis

Terapie a bersaglio molecolare per il melanoma in fase avanzata

È

una delle neoplasie cutanee più aggressive e con maggiore probabilità di decorso maligno, in aumento tra la popolazione giovane italiana, al di sotto dei 50 anni. È il melanoma, un tumore molto complesso che si presenta sotto svariate forme. Di questo si è parlato in un incontro per la stampa che si è tenuto a Milano, lo scorso ottobre, alla presenza di specialisti dell’Intergruppo Melanoma Italiano (IMI). “Il melanoma rappresenta il 3 per cento di tutti i tumori sia negli uomini che nelle donne. Nonostante sia il meno frequente tra le neoplasie della pelle, è potenzialmente il più maligno, ossia con maggiori probabilità di metastatizzare”, ha spiegato Giuseppe Palmieri, presidente eletto dell’IMI. Gli studi sulla cellula tumorale hanno permesso di mettere a punto trattamenti mirati che hanno come bersaglio specifiche mutazioni del DNA. Particolare attenzione meritano le mutazioni a carico del gene BRAF-V600 e del MEK (componente della cascata molecolare immediatamente a valle di BRAF), e le ricerche hanno condotto allo sviluppo di terapie di combinazione ad hoc. Tra queste,

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l’associazione dabrafenib+trametinib, BRAF e MEK inibitori, si è rivelata molto promettente. L’obiettivo delle terapie è quello di rallentare la progressione della malattia, prolungando la sopravvivenza del paziente. I dati dello studio Combi-v, con un follow up di 3 anni, hanno dimostrato per il trattamento di prima linea con la combinazione dabrafenib-trametinib rispetto alla monoterapia con vemurafenib un miglioramento in termini di sopravvivenza globale nel 45 per cento dei pazienti rispetto al 31 di quelli trattati con vemurafenib, e di sopravvivenza libera da progressione nel 24 vs il 10 per cento. “Grazie alle evidenze di efficacia e sicurezza dimostrate in importanti studi clinici”, ha precisato Paola Queirolo, presidente dell’IMI, “la combinazione dabrafenib+trametinib a breve sarà rimborsabile per il trattamento dei pazienti adulti con melanoma non resecabile o metastatico, positivo per la mutazione di BRAF-V600”. Ricordiamo che la mutazione BRAF è presente in circa il 50 per cento della popolazione affetta da melanoma metastatico, e rappresenta un bersaglio molecolare cruciale.


Un strumento in piĂš per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo


Premio Ernst&Young

Mylan

Un test di “autodiagnosi” per il virus HIV

A

partire dal 1 dicembre scorso è possibile acquistare anche nelle farmacie italiane, un test per l’autodiagnosi del virus HIV (Mylan). Il test può essere richiesto dalle persone maggiorenni e senza alcun tipo di ricetta medica. Già introdotto in Francia, l’autotest è uno strumento utile per far emergere il sommerso delle diagnosi tardive da HIV - in Italia si stimano da 6.500 a 18.000 persone sieropositive non diagnosticate - con una conseguente diminuzione del rischio collettivo. Con questo nuovo “mezzo” sarà possibile anche intercettare persone che oggi non se la sentono di rivolgersi alle strutture preposte in cui si eseguono abitualmente i test per l’HIV. Semplice, rapido e affidabile: sono queste le caratteristiche del test. È sufficiente un prelievo di sangue dal polpastrello e un’attesa di 15 minuti per leggere il risultato. Prima di fare il test è però fondamentale osservare il cosiddetto “intervallo finestra”, ovvero quel lasso di tempo che intercorre tra il momento del presunto contagio e la produzione di anticorpi che segnalano la presenza del virus. Per poter eseguire il test capillare bisogna quindi aspettare 90 giorni. L’autotest per l’HIV, se utilizzato correttamente, assicura anche la massima attendibilità nella rilevazione dell’infezione (di poco inferiore al 100 per cento). Come per altri test è possibile, in rari casi, che risulti una falsa positività al virus, ossia che venga rilevata un’infezione in realtà non presente: per questo motivo, in caso di test positivo, è sempre necessario consultare immediatamente un medico e ripetere l’esame presso una struttura sanitaria e/o un laboratorio di analisi. L’autotest ha un costo di 20 euro.

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Il presidente di Abiogen Pharma è “imprenditore dell’anno”

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assimo Di Martino, presidente e AD di Abiogen Pharma, ha vinto la categoria “Innovation & Technology” con il premio “L’Imprenditore dell’anno” di Ernst&Young, arrivato alla sua XX edizione italiana. La motivazione di questo importante riconoscimento, secondo la giuria di qualità, deriva dai grandi successi ottenuti nel settore farmaceutico e dal raggiungimento di elevati standard di qualità, valorizzando il patrimonio di know-how scientifico attraverso un modello competitivo basato sugli investimenti in sviluppo e innovazione tecnologica. “Tutti i premi che abbiamo ottenuto in questi anni – ha commentato Di Martino – sono il frutto di un importante lavoro di squadra, che vede tutti i 368 dipendenti dell’azienda in prima linea per garantire a noi e a loro stessi un futuro che oggi appare luminoso. Per questo motivo, sento il dovere di condividere questa soddisfazione con tutte le persone che quotidianamente lavorano in Abiogen con passione e dedizione”. Abiogen è in crescita, come esemplificato dai “numeri”. Nel 2015 ha registrato un incremento del fatturato rispetto al 2014 del 14 per cento circa e un incremento medio nel triennio 2013-2015 del 13,28 per cento. Da segnalare inoltre l’incremento dei ricavi dell’area Marketing e Vendite (+14 per cento) e i ricavi dell’area Contract Manufacturing, che evidenziano una decisa inversione di tendenza (+17 per cento) dopo che l’esercizio 2014 aveva fatto registrare una lieve flessione in un settore i cui ricavi sono influenzati dal tipo di produzione e dalle dinamiche commerciali dei partner.

Fondazione A.R.M.R Onlus

Un premio a Sergio Dompé per l’impegno nelle malattie rare Un riconoscimento importante quello che è stato conferito lo scorso 26 novembre al presidente Sergio Dompé, dalla Fondazione Aiuto alla Ricerca nelle Malattie Rare (A.R.M.R.), per l’impegno del gruppo Dompé nell’ambito di queste patologie. La Fondazione opera dal 1993 per promuovere la conoscenza e la ricerca sulle malattie rare, allo scopo di dare un futuro e una speranza ai pazienti.

MSD

Il “Brisighella project” per mantenere in forma il cuore

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l Brisighella heart study ha insegnato che il modello medicalizzato dell’imposizione, del divieto e della paura non serve per ridurre l’impatto delle malattie cardiovascolari. Molto più efficaci sono il dialogo e l’educazione. Ed è proprio da questi spunti che nasce il “Brisighella project”, rivolto a tutti. Partecipare è semplice. Basta andare sul sito www.atuttocuore.it, giocare a essere un brisighellese, far tesoro dei consigli per uno stile di vita sano, e poi

applicarli nel proprio ambito quotidiano. Dunque “se hai a cuore il tuo cuore vai a vivere a Brisighella”, il piccolo paese dell’Emilia Romagna apre le porte a tutti, e virtualmente tutti possono visitarlo. I MMG hanno un ruolo fondamentale nello studio, e sul sito c’è uno spazio dedicato a loro. L’obiettivo è trasformare ogni studio medico in una piccola Brisighella utilizzando uno strumento applicativo che gode di grande forza e credibilità.


Novartis

In arrivo una nuova opzione di trattamento per lo scompenso cardiaco

T

ra le patologie cardiovascolari, è la più sconosciuta ai pazienti e la più “sfuggente” ai medici. È lo scompenso cardiaco che colpisce nel nostro Paese più di 1 milione di soggetti sopra i 65 anni, ed è responsabile di oltre 190mila ricoveri all’anno. A delineare i tratti di questa patologia è un media tutorial che si è tenuto a Milano, il 23 novembre scorso. Conoscere i sintomi, le cause e i fattori di rischio anche in questo caso è fondamentale per la diagnosi precoce e per orientare il paziente a un trattamento appropriato. Ma riconoscere la patologia non sempre è facile. “I sintomi non sono specifici – ha ricordato Maria Frigerio, dell’Ospedale Niguarda di Milano, all’incontro – potendosi associare a diverse altre condizioni. Questo a volte inganna i medici, che ad esempio possono indirizzare a indagini sull’apparato digerente anziché sull’apparato cardiovascolare

pazienti per lo più giovani, nei quali lo scompenso si manifesta con inappetenza, dolore alla bocca dello stomaco dopo pranzo o sotto sforzo, anziché con i sintomi più classici conosciuti. Un altro aspetto che può ritardare la percezione dei disturbi da parte del soggetto è che, quando i sintomi si sviluppano gradualmente, il paziente può quasi inconsciamente modificare a poco a poco le abitudini, in modo da poter compiere le attività della giornata, nonostante la limitazione progressiva della tolleranza allo sforzo fisico”. Riconoscere i sintomi dunque è il primo passo verso la gestione corretta: una diagnosi e un trattamento precoci possono garantire una buona qualità della vita. “Per molto tempo l’approccio tradizionale alla terapia medica dello scompenso si è basato sull’utilizzo in combinazione di alcuni farmaci, rappresentati da diuretici,

AbbVie

teva

Da 20 anni un motore per il nostro Paese

C

rescita, innovazione, valore per l’Italia: questo è il ritratto di Teva, tracciato da una ricerca condotta da The European House-Ambrosetti: un totale di 1.400 occupati, 140 milioni di euro di investimenti nei siti produttivi negli ultimi 10 anni, 200 milioni di contributo medio al risparmio del SSN con i farmaci equivalenti ogni anno. Il Gruppo opera sul territorio con una sede commerciale, 5 siti per la produzione di principi attivi e 1 sito di prodotto finito, di recente acquisizione, che permette di coprire nel Paese tutto il ciclo produttivo del farmaco. Il cammino ha avuto inizio nel 1996 con l’apertura della sede in Italia per la commercializzazione di farmaci equivalenti oncologici in ambito ospedaliero. Da allora Teva Italia è diventata leader nei farmaci generici (1 farmaco equivalente su 5, dispensato in Italia, è un prodotto Teva), e si contraddistingue per una crescita nell’offerta che risponde ai nuovi bisogni di cura: innovativi, sostenibili, ma anche e soprattutto a misura di paziente.

beta-bloccanti, ace-inibitori, antagonisti recettoriali dell’angiotensina, antagonisti dei mineralcorticoidi, somministrati in genere con un dosaggio inizialmente basso e poi crescente”, ha spiegato Claudio Rapezzi, del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna. È in arrivo però una nuova opzione di trattamento. “La nuova opzione terapeutica ha dentro di sé due molecole” ha specificato Rapezzi. “Il valsartan, che è un antagonista recettoriale dell’angiotensina, già noto, e il sacubitril, che inibisce l’enzima che degrada i peptidi natriuretici atriali”. L’efficacia e sicurezza del farmaco sono stati testati su migliaia di pazienti, con evidenti benefici legati a una diminuzione del rischio di mortalità del 10-20 per cento, e di ricovero. È importante notare che questi effetti positivi sono stati dimostrati senza l’aggiunta di ulteriori farmaci alla terapia.

Una campagna per conoscere l’idrosadenite suppurativa

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o scorso novembre AbbVie in collaborazione con l’associazione Inversa Onlus ha dato il via a una campagna di informazione e di sensibilizzazione sull’idrosadenite suppurativa (HS) dal titolo HS – Dona i Tuoi Amici. L’HS è una patologia cronica della pelle, infiammatoria, legata ad alterazioni del sistema immunitario. Il quadro clinico è complesso e richiede una scrupolosa diagnosi differenziale; in aggiunta i sintomi creano disagio e imbarazzo al punto che la maggior parte delle volte i pazienti stessi preferiscono non parlarne. Per questi motivi la diagnosi è spesso tardiva. La campagna si articola sul web attraverso una pagina Facebook, una landing page e un video dedicati, e ha le caratteristiche di una ‘call to action’: chiunque in Italia abbia un profilo Facebook può accedere a una specifica applicazione che consente di scegliere gli amici a cui far pervenire le informazioni sull’HS con messaggi personalizzati. Per partecipare alla campagna basta andare al seguente link: https://apps.facebook.com/donaituoiamici/.

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sanitÀ news l Salute mentale

Discriminazione e stigma pesano sulle persone affette da patologie psichiatriche La SIP si mobilita per “accendere” l’attenzione delle Istituzioni

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a Giornata mondiale della salute mentale (10 ottobre) è l’occasione per sensibilizzare la popolazione e le Istituzioni, e per aumentare la consapevolezza sui problemi dei malati: è un primo aiuto a chi ne ha bisogno, superando pregiudizi, stigma, isolamento e discriminazione che continuano a gravare sui malati e i familiari. La salute mentale è un bene individuale e collettivo, un motore per lo sviluppo sociale ed economico del Paese. Eppure non ha la considerazione che si meriterebbe. I disturbi mentali si contendono il primato di patologie più comuni, insieme ai tumori, alle malattie cardiovascolari, al diabete e alla BPCO. In Italia i disturbi psichici coinvolgono a vari livelli di gravità circa un terzo della popolazione. Secondo le stime, negli ultimi anni sono cresciute di oltre un milione le persone affette da ansia e depressione. Ma l’attenzione rimane scarsa: le risorse disponibili sono sempre meno, sia a livello economico sia a livello di personale sanitario, con il risultato di un’assistenza inadeguata. In occasione della Giornata, la SIP (Società italiana di psichiatria) avanza alcune proposte allo scopo di migliorare e rinvigorire il sistema della salute mentale. Vale la pena di ricordare che i due Progetti Obiettivi Nazionali (PON 1996-98 e 1998-2000) abbiano già delineato gli obiettivi e l’organizzazione dei servizi di salute mentale, sebbene molti aspetti di tale organizzazione risultino oggi da rivedere alla luce dei cambiamenti dei bisogni di cura. Va anche sottolineato che i due

PON sono affiancati da documenti regionali in tema di salute mentale che hanno determinato assetti normativi e organizzativi specifici delle singole realtà. A livello nazionale poi, nel 2013 è stato emanato il Piano Nazionale Salute Mentale, affiancato nel corso del tempo da documenti approvati dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, nonché atti legislativi di grande importanza per il sistema della salute mentale, che riguardano il passaggio delle competenze dell’assistenza sanitaria nelle carceri, inclusa quella psichiatrica, ai Sistemi sanitari regionali ai quali è stata devoluta anche la competenza della creazione e gestione delle residenze esterne di massima sicurezza (REMS), a seguito della recentissima chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). L’aumento della domanda di cure per i disturbi psichiatrici di varia natura ha reso evidente come il sistema di cure fornito attualmente dai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) italiani, il cui ruolo, sancito peraltro dai PON, è tuttora quello di assicurare prioritariamente assistenza alle persone affette da disturbi mentali gravi, sia ormai obsoleto. L’assistenza a tale fetta della popolazione di fatto assorbe in maniera drammatica la gran parte delle risorse dei DSM, lasciando inevitabilmente e largamente insoddisfatta la richiesta di cure da parte della restante, larga maggioranza dell’utenza. Vi è dunque la necessità di ripensare l’assistenza, partendo da nuovi modelli organizzativi e

operativi dei DSM. La “politica” non può e non deve più trascurare la salute mentale, ed è prioritario dunque che le Istituzioni sia in ambito regionale che nazionale si impegnino in tal senso. La scomparsa di questo tema dall’agenda politica non contribuisce certo a potenziare gli investimenti per garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale il diritto alla cura e all’inclusione sociale delle persone con disturbi psichiatrici. Appare fondamentale definire in maniera chiara gli standard minimi inderogabili nelle dotazioni di personale dei DSM in rapporto alla popolazione assistita, distinti per ciascuna figura professionale, imponendo il principio del rispetto di tali standard da parte delle Regioni e la garanzia, di risorse da destinare all’adeguamento delle dotazioni di personale, all’auspicato miglioramento delle condizioni strutturali dei servizi e alla formazione del personale, in funzione del miglioramento degli standard di cura. Più in particolare appare indispensabile inserire un livello di risorse vincolate da destinare al settore della salute mentale nell’ambito del budget sanitario nazionale, che auspicabilmente non sia inferiore almeno al 6 per cento. Oltre a una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni, la Società italiana di psichiatria ricorda anche l’importanza di campagne di sensibilizzazione a livello della popolazione generale, per allontanare lo stigma e la discriminazione che tuttora segnano i malati.

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Medico e Paziente + La Neurologia Italiana

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news sanitÀ l iniziative

Giornata mondiale contro l’AIDS 2016

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l primo dicembre di ogni anno si celebra in tutto il mondo la Giornata per la lotta all’AIDS. Da quando nel lontano 1983 il virus HIV è stato isolato e messo in relazione con la malattia, sono stati fatti progressi enormi che hanno visto la comunità scientifica internazionale protagonista di una lunga battaglia contro il virus. Le conquiste ci sono. I trattamenti antiretrovirali sono sempre più all’avanguardia, c’è maggiore informazione e maggiore consapevolezza, grazie alle campagne di sensibilizzazione e di educazione. In termini di numeri, questo si concretizza in una lieve

tendenza alla diminuzione dell’incidenza, anche nel nostro Paese. I dati sono quelli che ha diffuso l’Istituto Superiore di Sanità, in occasione della Giornata. Nel 2015, sono state segnalate 3.444 nuove diagnosi di infezione da HIV pari a un’incidenza di 5,7 nuovi casi di infezione da HIV ogni 100.000 residenti. Un dato che segna un calo del 10 per cento rispetto al 2014. Il nostro Paese si colloca così al tredicesimo posto per incidenza nell’ambito dell’UE. A livello territoriale Lazio, Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna sono le regioni a più elevata incidenza. Le persone che hanno scoperto di essere HIV positive nel 2015 erano maschi nel 77,4 per cento dei casi, e l’età mediana era di 39 anni

l FIMMG Silvestro Scotti è il nuovo segretario

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l nuovo segretario generale nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg) è Silvestro Scotti, già vicesegretario vicario e presidente dell’Ordine dei medici di Napoli. Lavorerà insieme al vicesegretario vicario Pier Luigi Bartoletti, Giacomo Caudo, Malek Mediati, Filippo Anelli, Vittorio Boscherini e Fiorenzo Corti. Domenico Crisarà è stato nominato segretario del segretario. Diversi i punti all’ordine del giorno del nuovo “esecutivo”. Al primo posto sicuramente la ripresa delle trattative per il nuovo ACN. Al riguardo il neo segretario ha così commentato “Il primo impegno resta la ripresa delle trattative per il nuovo ACN. Bisogna fare presto e fare bene perché non è più rimandabile la definizione di una Convenzione che ci permetta di curare i nostri pazienti al meglio. Il nostro modello è chiaro: è necessario potenziare, anche a livello contrattuale, l’autonomia organizzativa e la responsabilità professionale per garantire una presa in carico globale del paziente mantenendo fermo il valore fondante della Medicina generale che è il rapporto di fiducia con i nostri pazienti”. Tra le priorità vi è anche il potenziamento della medicina generale. Secondo Scotti, per consentire la continuità nei prossimi anni, il numero di medici che accedono ai corsi di formazione specifica in Medicina generale dovrebbe essere raddoppiato. “Per la Fimmg si apre oggi una nuova fase” spiega il neosegretario nella nota diffusa “a caldo”, dopo la nomina. “La collegialità responsabile deve essere il punto di riferimento delle azioni del nostro sindacato, recuperando il ruolo fondamentale che svolgono i territori nei rapporti istituzionali e politici”.

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MEDICO E PAZIENTE

6.2016

per gli uomini e di 36 anni per le donne. In realtà però il picco di incidenza è tra i giovani: nella fascia 25-29 anni si sono registrati 15,4 nuovi casi ogni 100.000 residenti. Vediamo le cause di infezione: i rapporti sessuali non protetti costituivano l’85,5 per cento di tutte le segnalazioni. Per quel che riguarda i casi di malattia conclamata, dall’inizio dell’epidemia a oggi sono stati segnalati oltre 68.000 casi di AIDS; di questi più di 43.000 sono deceduti. Nel 2015 sono stati diagnosticati 789 nuovi casi di AIDS pari a un’incidenza di 1,4 nuovi casi per 100.000 residenti. Anche in questo caso si assiste a un calo; nel 2014 i casi erano stati 913. L’identificazione precoce del virus resta il tallone d’Achille nella lotta all’AIDS. In Italia si stimano da 6.500 a 18.000 persone con HIV non diagnosticato. Nell’ultimo decennio è aumentata la proporzione delle persone con nuova diagnosi di AIDS che ignorava la propria sieropositività e ha scoperto di essere HIV positiva nei pochi mesi precedenti la diagnosi di AIDS, passando dal 20,5 del 2006 al 74,5 per cento del 2015. Il numero stimato dall’ISS di persone che vivono con l’infezione da HIV non diagnosticata è di 6.250 nel 2014. I maschi rappresentano il 73 per cento dei non diagnosticati. Cosa possiamo concludere dunque sulla base di questi numeri? I risultati nel complesso denotano un calo dell’incidenza, ma allo stesso tempo impongono maggiore attenzione verso le strategie di identificazione precoce dell’HIV, e questo soprattutto tra la popolazione maschile. Ulteriori sforzi poi, sono necessari per aumentare la consapevolezza e la sensibilizzazione tra i giovani.


sanitÀ news l Professione

I medici di famiglia: una figura a rischio di estinzione

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ntro 7 anni circa 21.700 medici di famiglia italiani andranno in pensione, e con l’attuale sistema per l’assegnazione dei posti da medici di base si farà fatica a sostituirli: potrebbero essercene 16mila in meno rispetto al numero necessario. Questi i dati diffusi dall’Enpam in occasione del 72esimo Congresso nazionale della Federazione Italiana dei Medici di Famiglia (Fimmg) che si è svolto lo scorso ottobre. Considerando che il numero medio di pazienti per ogni MMG è circa 1.200, nel 2023 un italiano su tre potrebbe rimanere senza medico di base: le regioni in cui andranno in pensione più medici sono la Lombardia (2.776), il Veneto (1.600) e il Piemonte (1.173). Già qualche anno fa Enpam e Fimmg avevano sollevato la questione. I dati del Ministero della Salute sul numero di medici italiani non sono recenti, risalgono infatti al 2012, ma sono sovrapponibili alle stime dell’Enpam: sui 45.437 MMG che lavoravano in Italia nel 2012, 28.463, più del 60 per cento, erano laureati da più di 27 anni e dunque erano vicini alla pensione, che per i medici si può raggiungere dopo 35 anni di contributi se si hanno almeno 61 anni. Anche il numero di medici di base laureati da meno di 6 anni è indicativo della situazione della Medicina generale: nel 2012 erano solo 69 in tutta Italia, cioè meno dell’1 per cento. Le ragioni di questa situazione sono da ricercare tra le altre anche nel percorso di formazione. Il diploma di formazione specifica in Medicina generale è affidato alle regioni e province autonome, non alle università. Il corso dura tre anni e comprende una parte di lezioni e un’altra, molto consistente, di servizio in reparti ospedalieri,

in poliambulatori dell’Azienda sanitaria locale e nello studio di un MMG. Per frequentarlo i laureati abilitati alla professione medica ricevono una borsa di studio di circa 800 euro al mese, molto più bassa rispetto alla retribuzione prevista per le specialistiche. Per poter accedere al corso, a numero chiuso, è necessario superare un esame che si tiene una volta all’anno: il concorso è bandito dal Ministero della Salute, ma organizzato dagli assessorati regionali competenti.

Il numero di posti disponibili nei corsi di formazione varia da regione a regione, in media di 900-1.000 all’anno. I medici di base che invece vanno in pensione ogni anno sono circa 3.000: sembra impossibile quindi mantenere costante il numero di medici di base in servizio, tenendo poi conto del fatto che alcuni di quelli che iniziano il corso post-laurea lo abbandonano prima di terminarlo (nel 2013 il tasso di abbandono medio era del 10 per cento).

l ONDa

La nuova edizione del Libro bianco sulla salute delle donne

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onsumano più farmaci, fumano e bevono di meno rispetto agli uomini, ma vivono più a lungo. Questo emerge nella V edizione del Libro bianco sulla salute delle donne, realizzato da Onda. Il volume è stato stilato in concomitanza con il decennale dell’Osservatorio, costituitosi nel 2006 per promuovere in Italia la medicina di genere e la salute della donna. Le donne italiane hanno un’aspettativa di vita di 85 anni, contro gli 80,3 degli uomini. Tra le principali cause di decesso troviamo quelle che un tempo erano ritenute patologie esclusivamente dell’universo maschile, ovvero malattie cardiovascolari, obesità, carcinoma polmonare. Rispetto agli uomini poi, consumano più farmaci, con una prevalenza d’uso del 67,5 per cento contro il 58,9 degli uomini, fumano di meno (14,8 vs 24,5 per cento) e fanno decisamente meno uso di alcol: le consumatrici a rischio sono l’8,2 per cento rispetto al 22,7 degli uomini. Nonostante le donne in sovrappeso siano meno degli uomini (28,2 per cento vs 44,8), praticano poca attività sportiva e conducono una vita più sedentaria. Una novità rispetto alle precedenti edizioni è l’introduzione di un capitolo dedicato al welfare, che affronta temi quali le politiche di conciliazione, il welfare contrattuale, le pensioni e i loro riflessi sulla salute femminile, nonché un’analisi del welfare aziendale in particolare nel settore farmaceutico, dove vi sono molte donne in posizioni apicali e dove vi è una grande attenzione verso le lavoratrici. Emerge per esempio quanto le donne italiane siano sottoposte a peggiori condizioni lavorative rispetto agli uomini, fattore questo che le espone a maggiori rischi di stress con ripercussioni sulla salute. Migliori condizioni si riscontrano nelle aziende farmaceutiche, dove la differenza di genere è molto inferiore alla media, perché le mansioni delle donne sono di primo livello e sono molte le iniziative volte a conciliare il lavoro con le esigenze della vita privata e familiare.


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