La Neurologia italiana 1 16

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

patologie neurodegenerative

Malattia di Parkinson di nuova diagnosi Il ruolo dell’acido urico nella progressione motoria e non motoria Moccia, Carmine Vitale, Gabriella Santangelo, > Marcello Paolo Barone, Maria Teresa Pellecchia •

Malattia di Parkinson avanzata Quali criteri per una scelta terapeutica razionale

> Intervista al professor Leonardo Lopiano •

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Anno XII - n. 1 - 2016

patologie rare

Lo stato dell’arte sulle terapie

> Maria Sframeli, Gian Luca Vita, Sonia Messina •

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Contiene inserto redazionale

Distrofia muscolare di Duchenne


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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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2

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Anno XII - n. 1 - 2016

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Anno XII - n. 1 - 2016

MP

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 redazione Anastasia Zahova

Sommario 6

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Patologie neurodegenerative

Malattia di Parkinson di nuova diagnosi

Il ruolo dell’acido urico nella progressione motoria e non motoria

I risultati dello studio qui presentato dimostrano l’importanza dell’acido urico (AU) nella definizione diagnostica della MP e nella valutazione prognostica della progressione motoria e non motoria

segreteria di redazione Concetta Accarrino

Marcello Moccia, Carmine Vitale, Gabriella Santangelo, Paolo Barone, Maria Teresa Pellecchia

Speciale

epilessia

A cura di Maurizio Taglialatela, Umberto Aguglia

Hanno collaborato a questo numero Umberto Aguglia, Paolo Barone, Leonardo Lopiano, Sonia Messina, Marcello Moccia, Cesare Peccarisi, Maria Teresa Pellecchia, Gabriella Santangelo, Maria Sframeli, Maurizio Taglialatela, Gian Luca Vita, Carmine Vitale

17 Patologie neurodegenerative

progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno

Quali criteri per una scelta terapeutica razionale

Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza

Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina

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Malattia di Parkinson avanzata Intervista al professor Leonardo Lopiano

20 patologie rare

Distrofia muscolare di Duchenne Lo stato dell’arte sulle terapie

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Lo sviluppo delle conoscenze sui meccanismi che sottendono la distrofia di Duchenne ha promosso lo studio di molecole con attività terapeutica. Molti farmaci in sperimentazione hanno come target infiammazione, necrosi e fibrosi che sono alla base del processo distrofico

Maria Sframeli, Gian Luca Vita, Sonia Messina

rubrich e

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news dalla letteratura news libri la neurologia italiana

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NEWS dalla letteratura O. Musumeci, G. la Marca, A. Toscano et al. The Italian GSD II group

Lo studio LOPED dimostra l’accuratezza dello screening con “dried blood spot” per la diagnosi precoce della malattia di Pompe a esordio tardivo ❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2016; 87: 5-11 La diagnosi della malattia di Pompe rappresenta una vera sfida per i clinici, dal momento che si tratta di una patologia rara che ha sintomi iniziali aspecifici e sovrapponibili a quelli di altre malattie neuromuscolari. Eppure una diagnosi precoce permetterebbe l’inizio tempestivo della terapia enzimatica sostitutiva che è in grado di modificare il decorso della patologia, altrimenti orientato verso un’inesorabile progressione. Lo studio osservazionale LOPED che ha coinvolto 17 Centri per i disturbi neuromuscolari è stato disegnato per valutare la prevalenza della malattia di Pompe a esordio tardivo in un’ampia popolazione ad alto rischio per la presenza di sintomi sospetti, utilizzando come metodo di screening il dried blood spot (DBS). Si tratta di un esame semplice, facile e poco costoso che prevede il prelievo e l’analisi di una goccia di sangue essiccata su filtri di carta bibula. Per 14 mesi, nei Centri partecipanti sono stati coinvolti 1.051 pazienti con sintomi compatibili con la malattia. I criteri di inclusione erano: età ≥5 anni, iperCKemia persistente e debolezza muscolare agli arti inferiori o superiori (debolezza muscolare dei cingoli). Per ciascun soggetto è stata quantificata l’attività dell’alfa-glucosidasi acida (GAA), che è stata misurata separatamente sul DBS sia con metodi fluorometrici che con spettrometria di massa tandem. Il test è stato ripetuto nei pazienti risultati positivi al primo esame. Per la diagnosi finale, la carenza di GAA è stata confermata da un test biochimico nel muscolo scheletrico, mentre il genotipo è stato valutato con l’analisi molecolare dell’alfa-glucosidasi acida. Al primo screening con DBS sono stati rilevati 30 campioni positivi (2,9 per cento), e dopo il secondo test 21 campioni sono risultati ancora positivi. Ulteriori analisi genetiche, biochimiche e molecolari hanno confermato la diagnosi di malattia di Pompe a insorgenza tardiva in 17 casi (1,6 per cento). Il tempo medio dall’esordio dei sintomi alla diagnosi era di 5

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anni. Tra questi pazienti, il 35 per cento ha mostrato iperCKemia presintomatica, il 59 per cento iperCKemia e debolezza muscolare dei cingoli (LGMW), e il 6 per cento ha manifestato solo LGMW. I risultati ottenuti dallo studio LOPED dimostrano la validità e l’accuratezza dello screening mediante DBS anche in una fase molto precoce della malattia. Una diagnosi tempestiva è stata eseguita in cinque pazienti con iperCKemia presintomatica, ma in due di loro si era già manifestata con cambiamenti rilevanti sulla morfologia muscolare e nella risonanza magnetica. Di conseguenza, la terapia enzimatica sostitutiva è stata avviata in 14 pazienti su 17, compresi i due pazienti ancora clinicamente presintomatici, ma con prove di laboratorio di progressione della malattia. I pazienti in terapia verranno poi seguiti nel tempo per vedere se l’inizio precoce porterà migliori risultati nella cura. N. De Stefano, M.L. Stromillo, M.P.Sormani et al.

Atrofia cerebrale nella SM: identificato un “cut-off” utile per distinguere la perdita di volume cerebrale patologica da quella fisiologica ❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2016; 87: 93-9 L’atrofia cerebrale si sta affermando come uno dei migliori indicatori di progressione della disabilità a lungo termine nella sclerosi multipla (SM) ed è un argomento di grande interesse. Nei pazienti con SM, la perdita di volume cerebrale è da 3 a 5 volte più rapida rispetto a quanto osservato in persone sane di pari età; si può riscontrare già nelle fasi iniziali della malattia e prosegue per tutto il suo decorso, associandosi alla disabilità e alla compromissione cognitiva. Ma esiste un valore ovvero un cut off che permetta di distinguere una perdita di volume cerebrale patologica da una per così dire “fisiologica” associata alla senescenza? Al riguardo hanno cercato di fare chiarezza gli Autori di questo lavoro, che è stato condotto in diversi centri sul territorio e che aveva l’obiettivo di definire se esiste un valore limite, discriminante per il tasso di atrofia cerebrale patologico e fisiologico nei malati di SM. Avere a disposizione un cut-off potrebbe essere fondamentale perché permetterebbe di


NEWS individuare la fase degenerativa della malattia e orientare di conseguenza la scelta di trattamento. Sono stati raccolti e analizzati longitudinalmente i dati di RMN di 206 pazienti (87 per cento affetti da SMRR, 7 per cento da SMSP e 6 per cento da SMPP) e di 35 controlli sani. I tassi di atrofia cerebrale sono stati misurati (software SIENA) in un follow up di 7,5 anni per i pazienti SM e 6,3 anni per i controlli sani, e sono stati espressi come variazioni annualizzate percentuali del volume cerebrale (PBVC/y). Dopo analisi statistica i valori pesati di PBVC/y sono risultati -0,51 ±0,27 per cento e -0,27 ±0,15 per cento nei pazienti SM e nei controlli, rispettivamente. È stata osservata una differenza statisticamente significativa nei valori di PBVC/y nel gruppo controllo, e nello specifico tra i soggetti più anziani e quelli più giovani, di età inferiore ai 35 anni (p =0,02), ma non nel gruppo di pazienti

affetti da SM (p =0,8). Il cut-off per PBVC/y in grado di offrire la massima accuratezza nel discriminare i pazienti con SM dai controlli sani è risultato essere -0,37 per cento, cui corrispondono una specificità e sensibilità dell’80 e del 67 per cento, rispettivamente. Osservando la distribuzione, i valori di PBVC/y misurati che potevano definire uno stato patologico sono risultati essere superiori a -0,52 per cento (specificità del 95 per cento), a -0,46 per cento (specificità del 90 per cento) e a -0,40 per cento (specificità dell’80 per cento). Nelle conclusioni gli Autori fanno notare le implicazioni pratiche di questi risultati. Avere a disposizione criteri “evidence based” offre l’opportunità di discriminare tra la presenza e l’assenza di atrofia cerebrale patologica, con elevata specificità. Non vi sono dubbi inoltre, circa l’utilità che questi valori cut-off possano avere per monitorare l’efficacia di un trattamento per la SM.

D. Scrutinio, V. Montillo, P. Fiore et al.

Riabilitazione post-ictus: il recupero funzionale sembra conferire importanti vantaggi in termini di sopravvivenza a lungo termine ❱❱❱ Stroke 2015; 46: 2976-80 La riabilitazione riveste un ruolo di primo piano nel percorso clinico del paziente reduce da un ictus, e attualmente molto interesse è riservato alla possibilità di prevedere quali possano essere gli outcome funzionali raggiunti in seguito a un iter riabilitativo. Un tema da approfondire è il ruolo prognostico della riabilitazione post-stroke (SR) in termini di sopravvivenza a lungo termine del paziente. Proprio di questo si sono occupati i ricercatori afferenti a diverse strutture pugliesi (Bari, Taranto) che hanno condotto questo lavoro. Lo studio ha considerato una popolazione di 722 pazienti che sono entrati in un programma di riabilitazione entro 90 giorni dall’episodio ictale. Al basale ovvero all’inizio del percorso i partecipanti avevano score di indipendenza funzionale (FIM) inferiore a 80 punti. I ricercatori hanno condotto analisi di regressione a una o più variabili per stabilire la correlazione tra miglioramento dell’indipendenza funzionale e caratteristiche al basale, e un’analisi di regressione di Cox per valutare l’associazione tra il miglioramento dell’indipendenza funzionale ottenuto dopo la riabilitazione e la mortalità a lungo termine. I modelli hanno mostrato che tra le variabili che correlano in maniera indipendente con il miglioramento dell’indipendenza funzionale ottenuto rientrano l’età, lo stato civile, il tempo trascorso tra l’evento ictale e l’inizio della riabilitazione, lo score NIHSS (National Institutes of Health Stroke Scale) all’ingresso in terapia riabilitativa e l’afasia (coefficiente R2 del modello 0,275). Vediamo i dati sulla sopravvivenza. Durante un follow up di 6,17 anni è deceduto il 36,9 per cento dei pazienti. L’analisi statistica ha individuato i determinanti che correlano in maniera indipendente con la mortalità ovvero età, coronaropatie, fibrillazione atriale, colesterolemia totale miglioramento funzionale complessivo raggiunto. Calcolando gli hazard ratio (HR) aggiustati, i ricercatori hanno osservato che il valore di HR per mortalità, in pratica il rischio di decesso, diminuiva significativamente lungo i terzili di distribuzione dei punteggi di indipendenza funzionale. Questo significa che la sopravvivenza migliora con il miglioramento dell’indipendenza funzionale raggiunta dal paziente. In conclusione, sottolineano gli Autori, i determinanti che influenzano l’evoluzione dell’indipendenza funzionale in seguito a riabilitazione post-ictus sono diversi, ma soprattutto lo studio identifica la misura del recupero funzionale come un forte predittore della mortalità a lungo termine. la neurologia italiana

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Patologie neurodegenerative

Malattia di Parkinson di nuova diagnosi Il ruolo dell’acido urico nella progressione motoria e non motoria I risultati dello studio qui presentato dimostrano l’importanza dell’acido urico (AU) nella definizione diagnostica della MP e nella valutazione prognostica della progressione motoria e non motoria. Con valori di AU più alti i sintomi non motori migliorano a 2 anni dalla diagnosi di MP Marcello Moccia, Carmine Vitale, Gabriella Santangelo, Paolo Barone, Maria Teresa Pellecchia Rete Regionale Malattia di Parkinson e Disordini del Movimento (www.parkinsonweb.it); Centro Malattie Neurodegenerative (CeMaND) Università di Salerno; Centro Malattia di Parkinson – IDC Hermitage Capodimonte, Napoli

L’

uso di marcatori biologici nella malattia di Parkinson (MP) è diventato sempre più importante negli ultimi anni, al fine di avere una diagnosi più precoce e una prognosi più accurata. Tra i diversi marcatori biologici proposti da numerosi studi internazionali, l’acido urico (AU) sembra essere particolarmente promettente, non solo come bio-marcatore diagnostico e prognostico, ma anche per il suo possibile ruolo neuroprotettivo. Infatti, valori bassi di AU sono stati associati a un aumentato rischio di sviluppare MP nella popolazione generale, e a una peggiore progressione motoria e cognitiva tra coloro che hanno ricevuto una diagnosi di

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MP. Inoltre, dal momento che il danno da stress ossidativo e l’accumulo di ferro sono considerati meccanismi patogenetici per la MP, l’AU con le sue capacità antiossidanti e di legame col ferro (effetto scavenger) potrebbe svolgere un ruolo neuroprotettivo di difesa contro la MP. Appare quindi evidente la necessità di valutare l’utilità dell’AU sin dalle fasi iniziali della MP, e pertanto potrebbe essere di particolare rilievo lo studio delle possibili associazioni dell’AU con i sintomi non motori (SNM) della MP. Difatti, alcuni SNM possono comparire anni prima dell’esordio motorio della MP e in particolare, disturbi olfattivi,

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gastrointestinali, del sonno e dell’umore fanno parte a pieno titolo della cosiddetta fase pre-motoria della MP. Infatti, il coinvolgimento precoce dei nuclei tronco-encefalici e del plesso mienterico può spiegare la comparsa precoce di tali sintomi, mentre i sintomi motori sarebbero causati dalla progressione delle alterazioni patologiche in senso caudale dalle regioni bulbo-pontine verso il mesencefalo e i nuclei della base. Sempre al fine di valutare l’utilità dell’AU come marcatore precoce della MP, potrebbe essere utile lo studio della possibile associazione tra livelli di AU e i reperti di medicina nucleare come, ad esempio, l’imaging del trasportatore della dopamina (DaT) mediante SPECT che è non solo una metodica validata per la diagnosi di parkinsonismo degenerativo, ma anche un affidabile marcatore della progressione motoria e non motoria della MP. Il nostro gruppo di lavoro si è pertanto impegnato in questo senso e ha focalizzato la sua attenzione sui pazienti con MP di nuova diagnosi e non ancora in terapia anti-parkinsoniana, per valutare


le possibili associazioni tra i livelli di AU misurati al momento della diagnosi e: 1) la presenza e la progressione di sintomi non motori; 2) la compromissione dei terminali dopaminergici, mediante esame DaT Scan; 3) la presenza e la progressione dei sintomi motori; 4) la necessità di terapie anti-parkinsoniane.

Figura 1. Disegno dello studio

Metodi w Disegno dello studio Il presente lavoro è uno studio prospettico osservazionale della durata di 2 anni che ha coinvolto i pazienti con MP della coorte NASA, che comprende i soggetti che hanno ricevuto una nuova diagnosi di MP tra il 2008 e il 2009 presso la Rete regionale Malattia di Parkinson e Disordini del Movimento (http://www. parkinsonweb.it/) del Centro Malattie Neurodegenerative (CeMaND) dell’Università di Salerno e del Centro Parkinson dell’IDC Hermitage Capodimonte. Questo studio ha previsto una visita iniziale (al momento della diagnosi) e una visita di controllo a distanza di 2 anni (visita di follow-up) (Figura 1), con visite intermedie effettuate dal Neurologo curante che ha provveduto, a suo giudizio clinico, al trattamento della MP.

cleare progressiva, sindrome corticobasale, demenza a corpi di Lewy). Nello specifico, al fine di ottenere una conferma della diagnosi di MP, tutti i pazienti sono stati valutati non solo al momento della diagnosi, ma anche dopo 1 e 2 anni (Figura 1).

w Popolazione I criteri di inclusione sono stati: 1) diagnosi di sindrome parkinsoniana (bradicinesia insieme ad almeno uno tra rigidità, tremore a riposo, instabilità posturale); 2) esordio dei sintomi da meno di 2 anni; 3) nessuna precedente terapia con farmaci per la MP. Pertanto, al momento della diagnosi (visita di inizio studio) nessuno dei pazienti era trattato con farmaci antiparkinsoniani, anticolinergici, inibitori delle acetilcolinesterasi, antidepressivi, ansiolitici, o altri principi attivi con azione centrale che potessero influenzare la valutazione motoria e non-motoria dei pazienti. Invece, i criteri di esclusione sono stati: 1) diagnosi di sindrome parkinsoniana di origine secondaria (vascolare, da farmaci, lesionale); 2) diagnosi di parkinsonismo atipico (come ad esempio atrofia multisistemica, paralisi sopranu-

w Valutazioni di laboratorio L’AU è stato determinato al momento della diagnosi (visita di inizio studio) su campioni di siero ottenuti a digiuno, mediante una reazione enzimatica ottenuta con l’uso di un kit reagente ACN700 (UA2) e di un analizzatore COBAS c501 (Roche Diagnostic). Sempre alla visita iniziale sono stati registrati tutti i fattori potenzialmente in grado di modificare i valori di AU come, ad esempio, comorbidità, terapie concomitanti, fumo di sigaretta, uso di alcolici e peso corporeo. Sono quindi stati applicati ulteriori criteri di esclusione: 1) terapie concomitanti con diuretici, farmaci antinfiammatori non steroidei, o farmaci modificanti i livelli di AU; 2) fumo di sigaretta; 3) comorbidità cardiovascolari o metaboliche (ad esempio ipertensione arteriosa o gotta); 4) sottopeso o sovrappeso (BMI minore di 19 o maggiore di 25).

w Valutazioni cliniche Al momento della diagnosi (visita di inizio studio) tutti i pazienti hanno compilato il Questionario dei SNM (NMSQuest), uno dei meglio studiati per la valutazione clinica dei SNM. Il NMSQuest consiste di 30 domande sui SNM più comunemente riferiti, con risposta di tipo sì/no, e un punteggio totale che va da 0 a 30, con valori più alti che riflettono un numero maggiore di SNM. Le 30 domande inoltre, possono essere raggruppate in 9 domini principali (ognuno di questi include da 2 a 7 domande). Inoltre, i pazienti sono stati valutati dal punto di vista motorio con la scala UPDRS parte III e con la scala di Hoehn e Yahr (H&Y), e dal punto di vista cognitivo mediante Mini Mental Status Examination (MMSE). Dopo la diagnosi, in linea con il disegno osservazionale del presente studio, la terapia anti-parkinsoniana è stata iniziata a discrezione del Neurologo che aveva in trattamento il paziente. A distanza di 2 anni (visita di followup) è stata effettuata una nuova visita di protocollo per confermare la diagnosi clinica di MP, e per sottoporre nuovamente i pazienti alle valutazioni

la neurologia italiana

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Patologie neurodegenerative

Tabella 1

Dati demografici, di laboratorio e clinici dei pazienti al momento della diagnosi Pazienti con malattia di Parkinson (n=80)

Maschi/Femmine

51/29

Età (anni)

59,3± 7,9

Acido urico (mg/dl)

4,9± 1,1

Durata di malattia (mesi)

13,2± 5,7

UPDRS parte III

15,2± 7,7

Hoehn & Yahr

2 (da 1,0 a 2,5)

Mini Mental Status Examination (MMSE)

motorie (UPDRS parte III e H&Y) e non-motorie (NMSQuest). In particolare, l’UPDRS parte III è stato registrato dopo 12 ore di sospensione delle terapie anti-parkinsoniane (stato off-drug), ed è poi stata calcolata la differenza tra la disabilità motoria a 2 anni e alla diagnosi, in modo da ottenere un indicatore di progressione motoria (Δ-UPDRS). Inoltre, Tabella 2

27,3± 1,6

dopo aver raccolto i dati sui domini di SNM coinvolti a 2 anni, la popolazione è stata classificata in 4 gruppi: pazienti con miglioramento dei SNM (coinvolgimento del dominio alla diagnosi, ma non a 2 anni), con assenza di SNM (assenza del coinvolgimento del dominio alla diagnosi e a 2 anni), con presenza di SNM (coinvolgimento del dominio sia

alla diagnosi che a 2 anni), e con peggioramento dei SNM (assenza del coinvolgimento del dominio alla diagnosi, ma coinvolgimento a 2 anni). Inoltre, è stata calcolata la differenza del punteggio totale del NMSQuest tra i 2 anni e la diagnosi per ottenere un indicatore di progressione non-motoria (Δ-NMS). Infine, è stata registrata la terapia dopaminergica che è stata quindi convertita in unità equivalenti di dosaggio giornaliero di levodopa (LEDD), e i pazienti sono stati classificati in base alla necessità o meno di introdurre la levodopa. w Esame SPECT L’esame ha richiesto un’iniezione endovenosa di 185 MBq di [(123)I]FP-CIT (DaT Scan; GE Healthcare), dopo blocco tiroideo con somministrazione orale di soluzione di Lugol. La registrazione SPECT è stata effettuata con apparecchio E.CAM (Siemens Medical Systems). L’acquisizione è avvenuta tra 3,75 e 4,25 ore dopo l’iniezione del radiotracciante, per una durata di 40 minuti. Per l’analisi dei dati, sono stati calcolati

Dati clinici motori e non motori dei pazienti al momento della diagnosi (visita iniziale) e dopo 2 anni di osservazione Visita alla diagnosi

Visita dopo 2 anni

15,6± 7,7

19,8± 6,7

Dose equivalente di levodopa

0

339,5± 136,9

Uso di levodopa

0

35 (50,7%)

1. Digestivi

35 (50,7%)

29 (42,0%)

2. Urinari

23 (33,3%)

19 (27,5%)

3. Attenzione/Memoria

33 (47,8%)

27 (39,1%)

4. Allucinazioni/Deliri

1 (1,4%)

2 (2,09%)

5. Depressione/Ansia

47 (68,1%)

35 (50,7%)

6. Sessuali

7 (10,2%)

12 (17,4%)

7. Cardiovascolari

14 (20,3%)

7 (10,1%)

8. Sonno

39 (56,5%)

44 (63,8%)

9. Miscellanea

25 (36,2%)

37 (53,6%)

5,0 ± 3,4

4,0 ± 2,9

UPDRS parte III

Sintomi non motori:

Totale dei sintomi non motori (NMSQuest)

8

numero 1 · 2016 la neurologia italiana


i valori di captazione del radiotracciante per le regioni di interesse (ROI) nel caudato di destra e di sinistra, nel putamen di destra e di sinistra, e nel caudato e nel putamen di destra e di sinistra. Per l’analisi statistica abbiamo considerato i valori di captazione medi del putamen, del caudato e dello striato (caudato + putamen).

Figura 2. Livelli più alti di acido urico sono associati a meno sintomi non motori al momento della diagnosi di malattia di Parkinson

Risultati La popolazione totale presa in considerazione per lo studio è di 136 pazienti con nuova diagnosi di MP. Tuttavia, 56 sono stati esclusi per comorbidità o terapie concomitanti (8 pazienti usavano farmaci antipertensivi, 6 farmaci antinfiammatori non steroidei, 1 era affetto da gotta), per parkinsonismi atipici o secondari (5 pazienti hanno ricevuto una diagnosi di paralisi sopranucleare progressiva, 3 di demenza a corpi di Lewy, 2 di atrofia multisistemica, 1 di sindrome corticobasale, e 1 di parkinsonismo lesionale), per sovrappeso (7 pazienti) e per l’abitudine al fumo (22 pazienti). Sono stati inclusi 80 pazienti i cui dati sono riportati in Tabella 1 e in Tabella 2. w Sintomi non motori Alla visita iniziale (cioè alla diagnosi), eseguendo un’analisi di regressione logistica, livelli più alti di AU sono stati associati a una minore compromissione dei domini di Attenzione/Memoria (p =0,001; OR =0,45), Depressione/Ansia (p =0,027; OR =0,59), e Cardiovascolare (p =0,001; OR =0,29) del NMSQuest. Correggendo questo modello per età, sesso, durata di malattia, UPDRS parte III, H&Y e MMSE, le associazioni sono state confermate per i domini di Attenzione/Memoria (p =0,004; OR =0,23), e Cardiovascolare (p =0,009; OR =0,11). Inoltre, mentre il modello corretto non conferma l’associazione con il dominio Depressione/Ansia, emerge un’associazione con il dominio Sonno (p =0,028; OR =0,48). Invece, nessuna associazione viene evidenziata per gli altri domini analizzati (Digestivo, Urinario, Allucinazioni/Deliri, Sessuale e Miscellanea), né nei modelli esplorativi né in quelli cor-

retti. Infine, i livelli di AU presentavano un’associazione negativa con il punteggio totale del NMSQuest sia al modello esplorativo di regressione lineare (p =0,001; R2 =0,148), sia dopo che è stato covariato per età, sesso, durata di malattia, UPDRS parte III, H&Y e MMSE (p <0,001; R2 =0,319) (Figura 2).

Alla visita di follow-up dopo 2 anni, si sono ottenuti dati completi relativi a 69 pazienti che sono quindi stati inclusi nelle analisi. A un’analisi della varianza (con correzione post-hoc di Bonferroni), i valori di AU sono risultati significativamente più alti nei pazienti con assenza di SNM dei domini di Attenzione/Me-

Figura 3. Livelli più alti di acido urico sono associati a un miglioramento dei sintomi non motori dopo 2 anni dalla diagnosi di malattia di Parkinson

la neurologia italiana

numero 1 · 2016

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Patologie neurodegenerative moria (p =0,023), Depressione/Ansia (p =0,028) e Cardiovascolare (p =0,002), rispetto ai pazienti con presenza di SNM. Invece, nessuna associazione è stata trovata per i rimanenti domini di SNM (Digestivo, Urinario, Allucinazioni/Deliri, Sessuale, Sonno e Miscellanea). Infine, la variazione di SNM tra la visita a 2 anni e quella alla diagnosi è stata di 0,5±4,0 (Δ-SNM) ed è stata quindi categorizzata in terzili per essere inclusa in un’analisi di regressione multinomiale che ha evidenziato valori più alti di AU nei pazienti con più bassa progressione non-motoria (Figura 3). w Sintomi motori La progressione motoria durante i 2 anni di osservazione è stata di 4,2±2,8 punti di UPDRS parte III (Δ-UPDRS). Il test di Spearman ha mostrato che livelli più alti di AU sono significativamente associati a un Δ-UPDRS più basso (p =0,038; R2 =0,241) (Figura 4). Livelli più alti di AU alla diagnosi sono presenti nei soggetti senza terapia con levodopa dopo 2 anni di osservazione clinica, rispetto a quelli che invece hanno necessitato l’introduzione di levodopa (5,4±1,2 e 4,7±1,0 mg/ dl rispettivamente; p =0,042).

w DaT SPECT Per la valutazione SPECT si sono ottenuti i dati da 52 pazienti tra gli 80 precedentemente selezionati. Tutti questi pazienti hanno mostrato valori ridotti di captazione di [(123) I]FP-CIT, suggestivi di parkinsonismo di origine degenerativa. I valori di AU sono associati alla captazione media di DaT nel caudato (p =0,007; ρ=0,371), nel putamen (p <0,001; ρ =0,586) e nello striato (p <0,001; ρ =0,516) (Figura 5).

Discussione Gli studi svolti in questi anni dalla Rete Regionale Malattia di Parkinson e Disordini del Movimento (www.parkinsonweb.it) sono stati i primi a mostrare un’associazione tra i livelli di AU e i SNM nella MP. In particolare, i nostri risultati hanno evidenziato che livelli più alti di AU sono associati a una minore presenza e a una più lenta progressione dei SNM, con specifico riferimento ai disturbi che riguardano i domini di Attenzione/Memoria, Depressione/Ansia, Cardiovascolare e Sonno. Tale dato rappresenta quindi un ulteriore e nuovo elemento che supporta l’uso dell’AU

Figura 4. Livelli più alti di acido urico sono associati a una minore progressione motoria dopo 2 anni dalla diagnosi di malattia di Parkinson

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come biomarcatore della progressione della MP. Dai dati presentati, appare chiaro che livelli più alti di AU associano con meno SMN alla diagnosi e con una minore progressione degli stessi dopo 2 anni. Pertanto, i livelli di AU potrebbero avere un ruolo preventivo nella comparsa e nella progressione dei SNM. Non a caso questa ipotesi è in linea con gli attuali approcci terapeutici che cercano di modificare la progressione e i sintomi della MP con farmaci in grado di aumentare i valori sierici di AU. Nello specifico, l’associazione di valori alti di AU con minori disturbi di attenzione e di memoria, sia alla diagnosi che dopo 2 anni, non è particolarmente sorprendente, se si considera che livelli più alti di AU sono stati in precedenza associati con un ridotto rischio di demenza nella popolazione generale e con migliori funzioni cognitive nella MP. Vale la pena segnalare che la presenza di disturbi di attenzione e di memoria riferiti in maniera soggettiva al NMSQuest può rappresentare un primo indicatore di un futuro sviluppo di deficit cognitivi evidenti ai test neuropsicologici. Inoltre sempre nella nostra popolazione, abbiamo recentemente mostrato come i valori bassi di acido urico associano con la presenza alla diagnosi e con lo sviluppo dopo 2 anni di apatia, un importante marcatore di deficit cognitivo nella MP. In questo studio abbiamo inoltre descritto per la prima volta l’associazione tra AU e sintomi cardiovascolari nella MP. Bisogna tuttavia notare che livelli aumentati di AU sono stati associati a un maggiore rischio cardiovascolare nella popolazione generale, mentre in questo caso sono apparentemente associati a ridotti disturbi cardiovascolari. Questa apparente discrepanza in realtà può essere spiegata dal fatto che il dominio cardiovascolare del NMSQuest include domande che interessano il versante autonomico (come ad esempio l’ipotensione ortostatica) e che non riguardano i “tradizionali” disturbi cardiovascolari. Pertanto possiamo affermare che livelli aumentati di AU sono associati a ridotti sintomi autonomici nella MP.


Per quanto riguarda invece l’associazione con depressione e ansia sia al momento della diagnosi che dopo 2 anni è interessante riportare i dati di alcuni studi precedenti che hanno investigato l’AU in malattie psichiatriche, mostrando associazioni con depressione, fobia sociale e disturbi ciclici dell’umore. Pertanto è possibile che l’AU abbia un ruolo sia nello sviluppo che nella progressione dei disturbi dell’umore frequentemente presenti nella MP. Inoltre, un primo studio clinico di fase 2 sembra suggerire che l’uso di inosina (un farmaco che aumenta i livelli di AU nel siero) potrebbe migliorare i sintomi depressivi della MP e pertanto questa nuova opportunità terapeutica potrebbe essere particolarmente promettente per il futuro. L’associazione con i disturbi del sonno è limitata dal fatto che il dominio sonno del NMSQuest include diversi disturbi come la sindrome delle gambe senza riposo, il disturbo comportamentale del sonno REM, l’insonnia e la sonnolenza diurna, e quindi sono sicuramente necessari studi più approfonditi. Complessivamente, vale la pena notare che depressione/ansia, sintomi cardiovascolari e disturbi del sonno sono tra i SNM più spesso riportati nelle fase premotoria della MP. Infatti, sulla base del modello di Braak, questi disturbi sarebbero la conseguenza del coinvolgimento precoce di specifici nuclei tronco-encefalici. Pertanto questi risultati supportano fortemente l’ipotesi che livelli ridotti di AU rappresentino un correlato biologico precoce dei fenomeni patologici alla base della MP. Per quanto riguarda invece i risultati ottenuti con lo studio dei fenomeni neurodegenerativi a carico dei terminali dopaminergici (mediante DaT Scan), l’associazione tra i livelli sierici di AU e la captazione del DaT è un’ulteriore prova dell’importanza dell’AU sin dalle fasi iniziali della MP. La forza di queste associazioni insieme ai precedenti studi su questo stesso argomento, fanno ipotizzare un uso combinato dei livelli di AU con i dati del DaT Scan per aumentare la nostra confidenza nella conferma diagnostica e nella valutazione progno-

Figura 5. Livelli più alti di acido urico sono associati a una maggiore integrità dei terminali dopaminergici alla diagnosi di malattia di Parkinson

stica della MP. Lo studio da noi svolto, in particolare ha valutato per la prima volta l’associazione tra livelli di AU e la severità del danno alle vie dopaminergiche nigro-striatali con un’analisi semi-

quantitativa delle diverse regioni dello striato. Considerando che l’associazione si è rivelata valida per tutte le regioni di interesse (caudato, putamen e striato), è possibile che l’AU rappresenti un mar-

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Patologie neurodegenerative catore di neurodegenerazione valido per tutte le strutture nigro-striatali. Vale infine la pena commentare i nostri risultati sull’uso dell’AU come biomarcatore di progressione motoria e di necessità di L-Dopa dopo 2 anni. Infatti valori più alti di AU sono stati associati non solo con una più lenta progressione dei sintomi motori, ma anche con una ridotta necessità di levodopa dopo 2 anni dalla diagnosi. Tale risultato non è mai stato riportato in precedenza e potrebbe essere un altro elemento in favore dell’effetto neuroprotettivo dell’AU nella MP. Bisogna infine citare alcune limitazioni del nostro studio. Innanzitutto, il NMSQuest è in grado di valutare solo la presenza dei SNM, e non la loro severità e frequenza. Inoltre, i nostri risultati sono stati ottenuti su una coorte relativamente piccola e devono quindi essere confermati su popolazioni di maggiori dimensioni e con follow-up prolungati. Infine, appare evidente che l’AU non può esse-

re sufficiente di per sé, ma deve essere integrato a marcatori clinici, biologici e radiologici per una corretta e completa valutazione diagnostica e prognostica del paziente con MP.

Conclusioni In conclusione, i risultati dei nostri studi mostrano l’importanza dell’AU nella

definizione diagnostica di MP, e nella valutazione prognostica della progressione motoria e non motoria. Pertanto, riteniamo di grande interesse gli studi clinici con farmaci che aumentano i livelli di AU nel sangue delle persone con MP (come l’inosina) e suggeriamo che questi studi siano effettuati in pazienti nelle fasi precoci di malattia, in modo da ottenere il massimo risultato.

Ringraziamenti Un ringraziamento particolare va a tutte quelle persone con malattia di Parkinson che hanno pazientemente contribuito a questo studio. Va inoltre ringraziata tutta la Rete Regionale Malattia di Parkinson e Disordini del Movimento (www.parkinsonweb.it), diretta dal prof. Paolo Barone, e con personale afferente al Centro Malattie Neurodegenerative (CeMaND) dell’Università di Salerno (prof.ssa Maria Teresa Pellecchia, dott.ssa Autilia Cozzolino, dott. Roberto Erro, dott. ssa Marina Picillo, dott. Massimo Squillante), al Centro Parkinson dell’IDC Hermitage Capodimonte (dott.ssa Marianna Amboni, dott.ssa Katia Longo, prof. Carmine Vitale), alla Facoltà di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli (prof.ssa Gabriella Santangelo), e all’Università “Federico II” di Napoli (dott.ssa Sabina Pappatà, dott. Roberto Allocca, dott. Marcello Moccia, dott. Emanuele Spina)

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Speciale epilessia

Meccanismo d’azione dell’eslicarbazepina acetato Analogie e differenze con altri antiepilettici bloccanti dei canali del sodio voltaggio-dipendenti A cura di Maurizio Taglialatela Dipartimento di Medicina e Scienze della Salute “V. Tiberio”, Università del Molise

I

canali del sodio voltaggio-dipendenti (voltage-gated sodium channels, VGSCs) controllano l’eccitabilità di cellule muscolari e neuronali regolando la soglia, la velocità d’ascesa, e la frequenza dei potenziali d’azione in tali tessuti. In tutte le cellule eccitabili, i VGSCs vanno incontro, durante ciascun potenziale d’azione, a cicli sequenziali di: 1. Attivazione, durante la quale il sodio che fluisce all’interno della cellula ne determina una rapida e marcata depolarizzazione; 2. Inattivazione, che, interrompendo il flusso depolarizzante di sodio, consente al potenziale d’azione di ripolarizzarsi rapidamente e impedisce la genesi di ulteriori potenziali d’azione; e 3. Recupero dall’inattivazione, processo attraverso il quale il canale ritorna nella sua configurazione chiusa, pronto alla successiva attivazione. A ciascuna di queste configurazioni (aperta, chiusa, inattivata) corrisponde una specifica affinità per i farmaci antiepilettici attivi sui VGSCs; legandosi preferenzialmente allo stato inattivato, farmaci sia più datati quali la fenitoina e la carbamazepina, che più recenti quali la lamotrigina, l’oxcarbazepina, la zonisamide, la lacosamide, e l’e-

slicarbazepina acetato, stabilizzano il canale nella sua forma inattiva e impediscono la genesi e propagazione dei fenomeni epilettici, senza interferire con la normale attività neuronale che si verifica a frequenze inferiori. Dal punto di vista cinetico, esistono due forme di inattivazione dei VGSCs, veloce e lenta. L’inattivazione veloce richiede solo frazioni o pochi millisecondi per verificarsi e contribuisce alla terminazione del potenziale d’azione e alla regolazione della durata dello stato refrattario; tale forma di inattivazione rappresenta il bersaglio principale dell’azione dei tradizionali farmaci bloccanti dei VGSCs. Viceversa, il processo di inattivazione lenta richiede depolarizzazioni molto più prolungate (diverse centinaia di millisecondi o secondi) e contribuisce all’eccitabilità complessiva del neurone aumentando la soglia del potenziale d’azione, limitando la propagazione del potenziale d’azione nei dendriti, e quindi impedendo la genesi delle scariche prolungate ad alta frequenza, fenomeno quest’ultimo di particolare rilevanza per l’epilessia. Strutturalmente, la configurazione che il VGSC assume nell’i-

nattivazione lenta sembra diversa da quella dell’inattivazione rapida, per cui appare possibile che possano esistere farmaci che si legano preferenzialmente all’una o all’altra (Figura 1). A tale riguardo, studi recenti hanno chiarito che alcuni bloccanti dei VGSCs di più recente introduzione quali la lacosamide (LCS) e soprattutto l’eslicarbazepina interagiscono preferenzialmente con il processo di inattivazione lenta dei VGSCs, diversamente da carbamazepina e oxcarbazepina, che invece mostrano interazioni preferenziali con il processo d’inattivazione rapida degli stessi canali. Al contrario dell’eslicarbazepina, la lacosamide presenta un’interazione significativa anche con gli stati chiuso e velocemente-inattivato del VGSC. Tale diversità nel meccanismo d’azione tra molecole appartenenti alla stessa classe chimica (gli iminostilbeni), seppur sorprendente, insieme a importanti differenze farmacocinetiche, sembra offrire le basi razionali per spiegare le differenze di attività in vitro e in vivo (sia in animali che nei pazienti epilettici) riscontrate tra farmaci attivi sui VGSCs. Infatti, l’eslicarbazepina acetato è un analo-


te, e sembra in grado di revertire un meccanismo di resistenza cellulare a farmaci anticonvulsivanti tradizionali. Gli studi clinici registrativi hanno dimostrato che l’eslicarbazepina è efficace e sicura come terapia di “add-on” nel trattamento di pazienti con convulsioni parziali. L’approccio razionale alla polifarmacoterapia in tali pazienti è ancora oggetto di discussione; in linea di principio, utilizzare farmaci con meccanismi d’azione diversi dovrebbe essere preferibile rispetto a farmaci con meccanismi analoghi, sia per potenziare le azioni terapeuticamente rilevanti, che per ridurre l’incremento supra-additivo degli effetti collaterali. Negli studi effettuati, l’eslicarbazepina acetato riduce con uguale efficacia la frequenza di crisi a insorgenza parziale sia nei soggetti che assumevano carbamazepina che in quelli che assumevano altri farmaci antiepilettici; il fatto che l’eslicarbazepina fosse efficace anche nei pazienti non controllati dalla carbamazepina potrebbe essere riconducibile alle descritte differenze farmacodinamiche tra le due molecole. In conclusione, gli studi farmacologici qui brevemente riassunti mettono in evidenza un’interazione preferenziale dell’eslicarbazepina con lo stato di lenta inattivazione del VGSC non condivisa dalla maggioranza degli altri farmaci bloccanti dei VGSCs. L’identificazione di nuovi meccanismi d’azione responsabili di specifiche caratteristiche cliniche potrebbe porre l’eslicarbazepina in una categoria distinta nell’ambito dei farmaci bloccanti dei VGSCs.

FIGURA 1. CONFIGURAZIONI DEI CANALI VOLTAGGIO-DIPENDENTI DEL SODIO E DIVERSI MECCANISMI D’INATTIVAZIONE

go strutturale della carbamazepina e dell’oxcarbazepina, essendo queste tutte molecole a struttura triciclica dibenzazepinica (iminostilbeni). Analogamente alla carbamazepina e all’oxcarbazepina, l’eslicarbazepina presenta un sostituente 5-carbossamidico, ma differisce da queste in posizione 10,11; tale variazione strutturale determina la minore formazione di metabolita 10,11-epossido, potenzialmente tossico e ritenuto responsabile dell’induzione farmaco metabolica caratteristica di tali molecole. In modelli animali, l’eslicarbazepina è attiva in test classici di epilessie generalizzate (come nell’elettroshock massimale e nelle convulsioni psicomotorie a 6Hz), di epilessie focali (come nel kindling dell’amigdala, un modello di epilessia temporale), oltre a esercitare effetti antiepilettogenici in test specifici (come nel kindling corneale, e in modelli di epilessia cronica farmacologicamente indotti). Sebbene in tali modelli l’eslicarbazepina mostri un profilo di attività simile a quello della carbamazepi-

na, il suo indice protettivo (ovvero il rapporto tra la dose responsabile di effetti tossici e quella responsabile degli effetti farmacologici desiderati) è più ampio di circa due volte rispetto a quello della carbamazepina. L’eslicarbazepina si è inoltre dimostrata in grado di inibire l’attività neuronale in cellule granulari ippocampali dissociate da tessuti di pazienti operati per epilessia farmacoresistente; nelle stesse cellule, i VGSCs sono tipicamente resistenti all’inibizione uso-dipendente da parte della carbamazepina. Analogamente, l’eslicarbazepina era ugualmente efficace nell’inibire l’attività neuronale di cellule ippocampali da topi trattati con pilocarpina per indurre lo status epilepticus e da topi di controllo, laddove la carbamazepina mostrava un’attività notevolmente ridotta in questo modello sperimentale di epilessia cronica. Tali risultati dimostrano quindi che l’eslicarbazepina esercita effetti uso-dipendenti responsabili di una ridotta attività di neuroni eccitatori in un modello preclinico di epilessia farmacoresisten-


Speciale epilessia

Profilo di efficacia e sicurezza di eslicarbazepina Dagli studi clinici ai risultati in real life A cura di Umberto Aguglia Scuola di Medicina e Chirurgia, Università Magna Graecia, Catanzaro

E

slicarbazepina acetato (ESL) è un nuovo farmaco antiepilettico approvato dall’EMA e, più recentemente, dalla FDA sulla base di studi registrativi di fase III, in cui ESL ha dimostrato di ridurre la frequenza delle crisi fino al 45% in pazienti con epilessia parziale refrattaria. È disponibile sul mercato italiano al dosaggio di 800 mg (compresse divisibili) dal 2014 ed è indicato e rimborsato dal SSN in monosomministrazione giornaliera in aggiunta alla terapia basale, in pazienti adulti affetti da crisi focali, con o senza secondaria generalizzazione. Per via orale, ESL è assorbita a livello del tratto gastroenterico e metabolizzata a livello epatico. Il metabolismo idrolitico coinvolge il 95% della dose assorbita e porta alla formazione di eslicarbazepina, metabolita attivo responsabile degli effetti farmacologici. Una modesta quantità (circa il 5%) di ESL va incontro a un metabolismo epatico ossidativo con produzione di oxcarbazepina (OXC) e R-licarbazepina (R-MHD). I metaboliti di ESL vengono eliminati dalla circolazione sistemica principalmente attraverso l’escrezione renale, immodificati per circa due terzi e come glucuronoconiugati per circa un terzo. A differenza di OXC e CBZ e grazie alla sua emivita di 20-24 ore, ESL

può essere somministrata una volta al giorno; ciò aumenta l’aderenza al trattamento da parte dei pazienti sottoposti a terapie a lungo termine, con conseguente miglioramento della compliance e del controllo delle crisi. Degni di nota sono i risultati dei trials di fase III eseguiti con dosaggi di 800 o 1.200 mg/die. In questi studi, ESL ha ridotto la frequenza delle crisi del 35% (800 mg/die) o del 39% (1.200 mg/die) rispetto alla riduzione con placebo del 15%, ha dimezzato la frequenza delle crisi in oltre un terzo dei pazienti (36% dei pazienti con 800 mg/die, 44% con 1.200 mg/die, 22% con placebo), e indotto libertà da crisi nel 3,8% (800 mg/die) e nel 7,5% (1.200 mg/die) dei pazienti (2% con placebo). Il dosaggio di 400 mg/ die è consigliato nella titolazione del farmaco, con un incremento a 800 mg/die dopo una o due settimane. Una posologia più elevata (1.200 mg/ die) potrà essere considerata in base alla risposta individuale. Uno degli studi registrativi di ESL ha incluso la valutazione di un interessante endpoint, cioè la gravità delle crisi, mediante lo specifico questionario Seizure Severity Questionnaire (SSQ). La variazione del punteggio dell’SSQ è accettata come endpoint secondario dalle autorità regolatorie e permette di valutare come le crisi

gravino sul paziente nel tempo, indipendentemente dalla loro frequenza. Rispetto al basale, il punteggio SSQ si è ridotto maggiormente nei pazienti che avevano ricevuto ESL 800 e 1.200 mg/die rispetto al placebo e la differenza è risultata statisticamente e clinicamente significativa. I pazienti che completavano la prima fase degli studi registrativi potevano continuare il trattamento con ESL per un anno al massimo nel contesto di studi di estensione in aperto, per valutare efficacia e tollerabilità nel lungo termine. Inoltre, conclusi i 12 mesi di trattamento, i pazienti compilavano i questionari QOLIE-31 (per valutare la qualità di vita) e la scala MADRS (Montgomery-Asberg Depression Scale, per monitorare i sintomi depressivi), i punteggi dei quali venivano confrontati con quelli rilevati al basale. In tutti gli studi di estensione, ESL ha dimostrato di ridurre significativamente rispetto al basale i sintomi depressivi e di migliorare il punteggio del QOLIE . Recenti studi post-marketing (fase IV) hanno confermato l’efficacia a medio termine dell’ESL in adulti con epilessia focale refrattaria. In uno studio che includeva 105 pazienti, 21 erano liberi da crisi e 59 hanno mantenuto una riduzione della frequenza delle crisi superiore al 50% dopo un anno


Speciale epilessia di terapia. In un altro studio di 61 pazienti (38 con epilessia refrattaria del lobo temporale) seguiti per 3 mesi, la riduzione media delle crisi è risultata pari al 64%, mentre una considerevole (80%) riduzione di frequenza delle crisi è stata ottenuta in un terzo dei casi. Un ulteriore studio prospettico non-interventistico in aperto, multicentrico condotto su 247 adulti con crisi parziali non controllate dalla monoterapia in un contesto di pratica clinica reale (EPOS) ha dimostrato per ESL una retention rate dell’ 82,2% a sei mesi e la libertà dalle crisi nel 39,2% dei pazienti (Figura 1). Gli eventi avversi da ESL si manifestano solitamente entro le prime settimane di terapia e sono dose-correlati. I più comuni (>10% dei pazienti) sono: vertigini, sonnolenza e cefalea. La reazione idiosincrasica più comune è il rush cutaneo, verificatosi nell’1% dei pazienti (contro il 10-11% dei pazienti trattati con OXC o CBZ). L’incidenza di alterazioni del tono dell’umore e del comportamento (depressione, apatia, agitazione) è risultata bassa e non si sono registrati casi o tentativi di suicidio. La sospensione di

ESL a causa di eventi avversi gravi è stata necessaria nel 14% dei pazienti trattati con 800 mg/die e nel 19% di quelli trattati con 1.200 mg/die. Non è stata inoltre evidenziata nessuna anomalia degli esami ematochimici eccetto lieve iposodiemia in meno del 10% dei pazienti. Particolare attenzione va posta per le popolazioni speciali. Non essendo disponibili dati sulla sicurezza e l’efficacia, l’uso di ESL non è indicato al di sotto dei 18 anni di età. Negli “over 65” invece ESL può essere usata con cautela. Dal punto di vista delle interazioni farmacologiche, ESL ha un modesto effetto inducente del CYP3A4 e della UDP-glucuronil transferasi riducendo quindi la biodisponibilità dei farmaci la cui clearance è dipendente da queste vie enzimatiche. Inoltre ESL inibisce il CYP2C19, elevando la biodisponibilità dei farmaci metabolizzati da questo enzima. A sua volta la biodisponibilità di ESL è influenzata da farmaci induttori o inibitori del metabolismo epatico. Le principali interazioni di ESL si verificano con CBZ, fenitoina (PHT), contraccettivi orali e warfarin. Il trattamento concomitante ESL-CBZ

FIGURA 1. RISULTATI DELLO STUDIO EPOS

82,2%

39,2%

aumenta il rischio di reazioni avverse quali diplopia, coordinazione anormale e capogiro. La cosomministrazione di ESL (1.200 mg/die) e PHT determina una riduzione del 30% del livello plasmatico di ESL (verosimilmente per aumento PHTindotto della glucuronidazione) e un incremento medio del 30% della biodisponibilità della PHT (probabilmente per inibizione ESL-indotta del CYP2C19). Per tale motivo, in questi casi potrebbe essere necessario aumentare il dosaggio di ESL o ridurre quello della PHT. La terapia con ESL (1.200 mg/die) in donne che assumono contraccettivi orali combinati (levonorgestrel ed etinilestradiolo) riduce considerevolmente (intorno al 40%) la biodisponibilità di entrambi i contraccettivi (probabilmente per induzione del CYP3A4). Si consiglia pertanto alle donne in età fertile in trattamento con ESL di utilizzare un metodo contraccettivo differente. L’uso concomitante di ESL (1.200 mg/die) con warfarin non determina rilevanti modifiche dell’INR, si consiglia tuttavia di controllare periodicamente l’INR, soprattutto nelle prime settimane di co-terapia con ESL. Lamotrigina, digossina, metformina e simvastatina non hanno significative interazioni con ESL. In conclusione, si può affermare che l’ESL sia un farmaco efficace, sicuro e ben tollerato. La monosomministrazione in early add-on in pazienti adulti con epilessia focale refrattaria offre un buon controllo delle crisi e una riduzione significativa dei sintomi depressivi, grazie all’equilibrio fra efficacia e tollerabilità. La farmacodinamica lineare e le scarse interazioni con altri farmaci la rendono un antiepilettico maneggevole. I dosaggi di 800 e 1.200 mg/die si sono dimostrati efficaci nel ridurre la frequenza delle crisi, con scarsa incidenza di eventi avversi.


patologie neurodegenerative

Malattia di Parkinson avanzata Quali criteri per una scelta terapeutica razionale Intervista a Leonardo Lopiano, professore ordinario di Neurologia, Università di Torino; direttore SC Neurologia 2U-AOU Città della Salute e della Scienza di Torino

L’aspettativa di vita dei pazienti con malattia di Parkinson (MP) è in crescita, e di conseguenza aumenta il numero di quei soggetti che entrando nella fase avanzata di malattia richiedono un approccio terapeutico più complesso. Quali sono i criteri per classificare un paziente come “avanzato”? ❱❱❱ La MP viene classicamente suddivisa in tre fasi: fase iniziale, la cosiddetta “luna di miele”, fase intermedia e fase avanzata. Grazie ai numerosi farmaci dopaminergici oggi disponibili, i pazienti in fase iniziale riescono a compensare bene i sintomi. La risposta ai farmaci è stabile e con un’opportuna terapia il paziente riesce ad avere una buona qualità della vita nonostante la malattia. I problemi insorgono di solito dopo 5-10 anni dall’esordio, quando in seguito alla progressione di malattia e alla terapia continuativa cominciano a manifestarsi le cosiddette complicanze motorie. Le complicanze motorie appartengono a due categorie: le fluttuazioni motorie e i movimenti involontari. Durante la fase intermedia le complicanze motorie sono di lieve entità, sono prevedibili in base

a quello che è lo schema terapeutico del paziente, sono abbastanza facilmente correggibili con la terapia tradizionale, ovvero per via orale e transdermica. Il grosso problema della MP è quello della fase avanzata, quando nonostante la migliore terapia tradizionale possibile (per os e per via transdermica) i pazienti hanno gravi fluttuazioni motorie e discinesie o movimenti involontari. Le fluttuazioni motorie sono rappresentate da periodi della giornata in cui il paziente non è in grado di muoversi in modo adeguato. Bradicinesia, tremore e rigidità non sono sufficientemente compensati dalla terapia, e si arriva a una condizione molto grave che è il fenomeno ON-OFF, rappresentato da blocchi motori improvvisi, nonostante il migliore trattamento possibile. In questa fase di malattia anche quando i farmaci funzionano, e dunque quando il paziente è nella fase ON, compaiono gravi discinesie. La fase avanzata è contraddistinta dunque da due fenomeni principali: i blocchi motori fino ai fenomeni ON-OFF, e le fasi ON con presenza di gravi movimenti involontari che sono altrettanto causa di disabilità, con problemi di equilibrio e aumentato rischio di cadute. Il vero problema della terapia della MP si pone quando compaiono le complicanze della fase avanzata. È necessario studiare molto bene la giornata dei pazienti “avanzati” per capire quali sono i problemi principali e cercare di ottimizzare la terapia il più possibile. Quando

questo non è più possibile significa che è arrivato il momento di pensare alle terapie cosiddette complesse, della fase avanzata. Accanto a questa evoluzione “classica” della MP, ci sono tante altre forme di malattia. Le forme a esordio precoce per esempio (secondo le stime rappresentano circa il 10 per cento dei casi di MP) si manifestano prima dei 50 anni, e a volte con esordio giovanile prima dei 40, hanno due caratteristiche fondamentali: i pazienti manifestano un’ottima risposta alla terapia, ma precocemente possono sviluppare complicanze motorie, soprattutto movimenti involontari.

Per la fase avanzata di malattia esistono tre differenti opzioni: l’infusione sc di apomorfina, l’infusione continua intradigiunale di levodopa/carbidopa, e la DBS (Deep Brain Stimulation). Quali fattori possono guidare il Neurologo per una scelta razionale della terapia? ❱❱❱ Quando la terapia tradizionale non è più in grado di controllare le complicanze motorie si propone al paziente una

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patologie neurodegenerative delle tre opzioni di trattamento della fase avanzata. Sono terapie con un diverso grado di invasività. L’apomorfina è un potente dopaminoagonista ed è assorbita per via sottocutanea (sc). L’infusione sc di apomorfina viene eseguita attraverso un apposito device che è programmato dal Neurologo, e in cui viene impostata la velocità di infusione del farmaco stesso. La seconda possibilità è l’infusione intestinale continua di levodopa/carbidopa (Duodopa) tramite PEG (gastrostomia endoscopica percutanea). L’intervento di PEG permette la somministrazione del farmaco direttamente nel duodeno. La terza opzione è la stimolazione cerebrale profonda (DBS), che prevede l’impianto intracerebrale di un elettrodo stimolante. Le tre terapie condividono alcune indicazioni, ma possono differire in base alla tipologia di paziente. Dal punto di vista generale quello che condividono è l’indicazione elettiva per la fase avanzata. Un criterio di scelta può per esempio essere l’età. L’infusione sc di apomorfina è generalmente indicata nei pazienti più giovani perché spesso gravata da effetti collaterali, come confusione mentale, allucinazioni o più in generale problemi psichici, sonnolenza o ipotensione. Quindi è una terapia che raramente trova indicazione nei pazienti oltre i 70 anni di età. Sulla base delle linee guida, l’infusione duodenale di Duodopa può essere eseguita anche in pazienti di età più avanzata, superiore ai 70 anni, purché non vi siano comorbilità o patologie sistemiche importanti. Sempre rispetto all’età, la DBS viene proposta a soggetti che non abbiano superato i 70 anni: dopo i 70 anni aumenta il rischio chirurgico, e inoltre è stato osservato che pazienti più giovani rispondono meglio a questo tipo di terapia. Primo elemento per la scelta dunque è il grado di invasività, secondo elemento l’età, e poi non è da trascurare la preferenza del malato. Al paziente devono essere proposte tutte le terapie disponibili. Molti per esempio preferiscono una terapia meno invasiva, altri

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la DBS perché questa assicura uno stile di vita un po’ più vicino alla normalità a differenza della PEG, che richiede un sistema di infusione con un dispositivo portatile. La scelta terapeutica è dunque assai articolata e dovrebbe tenere conto di molteplici fattori quali, fase avanzata di malattia, fluttuazioni motorie, il singolo paziente, il singolo quadro clinico, l’età, eventuali comorbilità, la preferenza del paziente e infine il contesto familiare. A quest’ultimo riguardo è importante ricordare che per apomorfina e Duodopa è fondamentale la presenza di un caregiver (anche per la DBS, seppure in misura minore) che possa aiutare il paziente a gestire il sistema infusionale al fine di prevenire infezioni e complicanze. La scelta della terapia per la fase avanzata può essere difficile e dovrebbe essere affidata a persone esperte, con una decisione condivisa per quanto possibile con il paziente e il contesto familiare. Il paziente poi, dovrebbe essere supportato da un team multidisciplinare composto da diversi professionisti, che vanno da infermieri specializzati fino a tutte le figure mediche coinvolte. Nel caso di una terapia con infusione di Duodopa è necessaria la presenza di un gastroenterologo e di un nutrizionista, e soprattutto di un servizio che gestisca le emergenze al quale il paziente possa accedere direttamente o nel centro in cui ha eseguito la PEG oppure nella struttura dedicata al follow up. Allo stesso modo per la chirurgia è fondamentale un team composto da neurochirurghi, psicologi, neuroradiologi, fisiatri. Sono terapie che richiedono, come si può intuire, un’organizzazione abbastanza particolare. Un aspetto fondamentale per la terapia della fase avanzata è la selezione dei pazienti, e in base a questa si può decidere qual è la migliore opzione per il singolo. Non tutti i soggetti affetti da MP possono essere indirizzati verso queste terapie, ed esistono ormai protocolli standardizzati per la selezione. Tutte e tre le opzioni di trattamento funzionano esclusivamente nella malattia di Parkinson idiopatica, quindi nei pazienti che hanno una buona risposta alla levodopa o alle

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terapie dopaminergiche. Esistono sindromi parkinsoniane che assomigliano alla MP idiopatica in cui però la risposta alla levodopa è scarsa o assente: in questi casi le tre terapie della fase avanzata non trovano indicazione. Uno screening neuropsicologico è fondamentale soprattutto per la DBS: il paziente candidato a questo tipo di intervento non dovrebbe presentare “al basale” disturbi psichici o cognitivi. È stato osservato per esempio, che in seguito all’intervento alcuni pazienti possono sviluppare depressione o apatia. Su questo punto le altre due opzioni sono in vantaggio. L’infusione di Duodopa è indicata dalle linee guida anche nel caso di pazienti con deficit cognitivo lievemoderato.

Il trattamento dei sintomi non motori della MP avanzata costituisce una sfida per il Neurologo. Quanto pesano questi sintomi nella scelta terapeutica? ❱❱❱ I sintomi non motori fanno parte della malattia: la MP non è solo tremore, bradicinesia, rigidità, ma è una costellazione infinita di sintomi non motori. Questi ultimi hanno due caratteristiche principali: alcuni possono precedere l’esordio dei sintomi motori anche di alcuni anni, per esempio la stipsi, i disturbi dell’olfatto, i disturbi del sonno. In secondo luogo, i sintomi non motori aumentano con la progressione della MP, tanto che dopo 10-15 anni di malattia, la disabilità dei pazienti è dovuta anche ai sintomi non motori oltre che alle complicanze motorie. I sintomi non motori appartengono alla sfera neuropsichiatrica (ansia, attacchi di panico, depressione, apatia), alla sfera autonomica (disturbi cardiovascolari e della pressione arteriosa, disturbi dell’intestino come la stipsi), e spesso sono presenti disturbi del sonno come il disturbo comportamentale in sonno REM, e disturbi della sensibilità con il dolore che costituisce spesso un grosso


problema per i pazienti. Tutti questi sintomi si aggiungono ai problemi motori della fase avanzata, e rendono la disabilità dei pazienti davvero molto grave. In questi ultimi anni abbiamo osservato che anche i sintomi non motori possono avere delle fluttuazioni. Spesso quando finisce l’effetto della levodopa, oltre al blocco motorio i pazienti possono andare incontro a una serie di sintomi non motori gravissimi, come per esempio ansia, attacchi di panico, dispnea, mancanza di fiato, dolore. Molto spesso questi sintomi migliorano aggiustando la terapia dopaminergica esattamente come accade per quelli motori. Anche i sintomi non motori devono essere considerati nel passaggio dalla terapia tradizionale alle terapie della fase avanzata. In alcuni casi, la disabilità del paziente è correlata soprattutto ai sintomi non motori e alle volte c’è una difficoltà a individuare se il paziente è in una fase avanzata proprio perché le manifestazioni principali sono di tipo non motorio. Quindi il paziente è già in fase avanzata, ma questo non viene

percepito dal Neurologo proprio perché abbiamo sempre pensato che questa fase fosse esclusivamente caratterizzata dalle complicanze motorie. Anche la presenza di gravi fluttuazioni non motorie può essere considerato un criterio per avviare il paziente verso le terapie della fase avanzata. Altro problema, specialmente per la selezione dei pazienti, è rappresentato dal disturbo cognitivo, che può evolvere verso una franca demenza: un paziente che ha un grave disturbo cognitivo non può trarre beneficio da terapie complesse, perché i miglioramenti dal punto di vista motorio sarebbero vanificati dall’entità del disturbo cognitivo. Nell’approccio al paziente con MP avanzata vanno ben distinti i sintomi non motori che contribuiscono alla disabilità e che possono indirizzare il paziente verso terapie complesse, dallo screening che facciamo per decidere quale delle tre terapie è la più indicata per quel paziente. Il paziente con deficit cognitivo lieve-moderato verrà indirizzato verso la Duodopa, un paziente con disturbi psi-

chici come allucinazioni o confusione mentale non potrà fare l’apomorfina, per un paziente giovane che lavora e viaggia sarà meglio la DBS, piuttosto che un sistema portatile per quanto piccolo possa essere. Come già sottolineato, la decisione terapeutica dipende da molteplici fattori ed è essenziale che la selezione del paziente avvenga in centri specializzati che abbiano maturato esperienza con le terapie della fase avanzata. La decisione finale comunque è personalizzata. Quadro clinico, esigenze del paziente, età, contesto familiare, grado di invasività delle terapie, screening neuropsicologico, comorbilità: sono davvero tanti i fattori che ci guidano nella scelta. E per concludere, è importante sottolineare che le tre terapie non sono per così dire “in competizione” l’una con l’altra ovvero devono essere proposte tutte e tre, ma deve essere scelta la migliore per il singolo paziente. Si tratta di tre opportunità differenti che il Neurologo ha per migliorare la qualità di vita del paziente parkinsoniano.

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Patologie rare

Distrofia muscolare di Duchenne Lo stato dell’arte sulle terapie Lo sviluppo delle conoscenze sui meccanismi che sottendono la distrofia di Duchenne ha promosso lo studio di molecole con attività terapeutica. Molti farmaci in sperimentazione hanno come target infiammazione, necrosi e fibrosi che sono alla base del processo distrofico Maria Sframeli1, Gian Luca Vita1, Sonia Messina1,2 1 Centro Clinico Nemo Sud, Messina. 2 Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Messina, U.O.C. Neurologia e Malattie

L

Neuromuscolari, Azienda Ospedaliera Universitaria “G. Martino”, Messina

a distrofia muscolare di Duchenne (DMD) è una malattia con ereditarietà X-linked con un’incidenza stimata di circa 1:5.000 maschi (1). L’assenza della proteina distrofina (Figura 1) comporta una serie di alterazioni del muscolo, quali necrosi e sostituzione fibro-adiposa, che determinano una progressiva ipostenia e atrofia muscolare.

Inquadramento clinico La storia naturale della DMD è ben conosciuta e quindi il decorso clinico prevedibile. Inizialmente i bambini affetti possono presentare un ritardo nell’acquisizione delle tappe motorie. In genere i primi sintomi muscolari possono rendersi evidenti intorno ai 3 anni con incertezza nella deambulazione e cadute frequenti, andatura anserina e difficoltà nell’alzarsi da terra (con la manovra dell’arrampicamento o segno di Gower’s) e nel salire le scale. La perdita della deambulazione autonoma avviene entro i 13 anni di età e nella seconda decade si assiste a un progressivo coinvolgimento degli altri apparati, in particolare quello respiratorio con diminuzione della capacità vitale fino all’insufficienza respiratoria e del cuore con un quadro di cardiomiopatia dilatativa. Visti i progressi nella gestione delle complicanze respiratorie con l’uso della ventilazione non-invasiva e degli strumenti a supporto della tosse, il decesso avviene

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nella maggior parte dei casi in età giovane adulta per cause cardiogene (2). Il recente miglioramento degli standard di cura ha permesso un prolungamento del mantenimento della deambulazione e un miglioramento dell’aspettativa di vita (3-4). Negli ultimi anni si è assistito a un significativo avanzamento delle conoscenze sulla patogenesi della DMD e un conseguente incremento degli approcci terapeutici in corso di sperimentazione con l’obiettivo di rallentare o arrestare la progressione della malattia (5) (Tabella 1). I progressi nel campo della biologia molecolare hanno promosso lo sviluppo di molecole che intervengono sul difetto genetico alla base della malattia. Tali farmaci si propongono come terapie specifiche per la DMD, poiché sono in grado di indurre l’espressione della proteina mancante (6-7). Alcune di queste terapie sono in fase di sperimentazione su pazienti e un primo farmaco (Ataluren), che agisce sulle mutazioni “nonsense” (circa il 7 per cento delle mutazioni riscontrate nella DMD), ha recentemente ottenuto l’approvazione da parte dell’EMA per il commercio in Europa. Le nuove conoscenze sui processi flogistici e degenerativi alla base della DMD hanno promosso lo studio di molecole specifiche che agiscano a valle del deficit di proteina. È noto, infatti, che la proteina distrofina è uno dei componenti del complesso di proteine associate al sarcolemma (Figura 1), essenziale per garantire l’integrità del muscolo. Le mu-


Figura 1. Distrofina e proteine del muscolo scheletrico a essa correlate

basata sull’exon skipping ha come obiettivo di ristabilire la reading frame. In particolare gli oligonucleotidi antisenso (AON) utilizzati sono complementari a specifiche sequenze di pre-mRNA corrispondenti agli esoni in cui è presente la mutazione. Il legame degli AON al pre-mRNA consente al ribosoma di continuare la traduzione, “saltando” (skipping) la mutazione e ristabilendo la reading-frame del gene. Ciò porta alla produzione di una certa quantità di distrofina, più corta del normale, ma parzialmente funzionale (9). Tale approccio terapeutico si pone come obiettivo di convertire la distrofia di Duchenne in quella di Becker, riducendo la gravità di malattia. Diversi sono i trials clinici volti a valutare l’efficacia di tali molecole in pazienti DMD. In particolare gli studi si sono concentrati su due principali oligonucleotidi antisenso (AON): 2’O-methylribo-oligonucleoside-phoshophorothioate (Drisapersen) e phosphorodiamidate morpholino oligomers (Eteplirsen) (10,11). I primi studi hanno avuto come target l’esone 51 in quanto permette di trattare le mutazioni più frequenti nei pazienti con DMD. I risultati dei primi studi di fase I e II sono stati molto promettenti. Mentre la sperimentazione di fase III con l’Eteplirsen sullo skipping dell’esone 51 è ancora in corso, lo studio di fase III con Drisapersen è stato interrotto a causa di un mancato raggiungimento degli endpoints primari

tazioni nel gene della distrofina determinano l’assenza della proteina (Figura 2) che a sua volta causa una destabilizzazione della membrana cellulare e conduce a degenerazione e necrosi del tessuto muscolare. Il processo degenerativo è esacerbato da una risposta infiammatoria endogena e da un incremento dello stress ossidativo. Molti farmaci in attuale fase di sperimentazione hanno come target i processi di infiammazione, necrosi e fibrosi alla base del processo distrofico (5). In base al differente approccio terapeutico di- Figura 2. Espressione della distrofina stinguiamo i seguenti tipi di trattamento: terapie su diversi campioni di muscolo molecolari che inducono l’espressione o la sostituzione funzionale della distrofina e terapie che agiscono sul processo distrofico.

Terapie molecolari che inducono l’espressione della distrofina w Terapia con oligonucleotidi antisenso-exon skipping

Le mutazioni che modificano la cornice di lettura (reading frame) del gene della distrofina impedendo la produzione della proteina funzionale (definite out-of-frame), causano l’insorgenza della DMD. La base per l’applicazione di terapie antisenso nella DMD risiede nell’osservazione che i pazienti con la forma più lieve di distrofinopatia, la distrofia muscolare di Becker (BMD), hanno mutazioni in-frame, che consentono la produzione di una proteina troncata e parzialmente funzionante (8). La terapia

A) Tessuto muscolare con normale espressione della distrofina. B) Distrofina ridotta, distrofia muscolare di Becker (BMD). C) Minima espressione della distrofina, forma intermedia BMD/DMD. D) Assenza della distrofina, DMD.

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Patologie rare

Tabella 1

Principali trial clinici nella DMD

Molecole in studio

Fase 1

Fase 2

Fase 3

Scopo

Stato

Ataluren (PTC124)

Mutazioni nonsense

In corso

Eteplirsen (AVI-4658)

Skipping esone 51 (AON)

In corso

SRP-4053 e 4045

Skipping esoni 45 e 53 (AON)

Non ancora iniziato

SRP-4053

Skipping esone 53 (AON)

In corso

Drisapersen (PRO051)

Skipping esone 51 (AON)

Extension Study, In corso

PRO044

Skipping esone 44 (AON)

Extension Study, In corso

PRO045

Skipping esone 45 (AON)

In corso

PRO053

Skipping esone 53 (AON)

In corso

Corticosteroidi (for DMD)

Prednisone vs deflazacort

In corso

Idebenone (Catena)

Antiossidante

Completato

Givinostat

Inibitore istone deacetilasi (HDAC)

In corso

Flavocoxid (Limbrel)

Antiossidante e antinfiammatorio

Completato

Estratti tè verde (ECGG)

Antiossidante

In corso

SMT C1100

Up-regulation dell’utrofina

Completato

PF-06252616

Inibitore miostatina

In corso

Ramipril vs carvedilolo

Ramipril vs carvedilolo

In corso

Tadalafil

Inibitore fosfodiesterasi 5

In corso

Mini-dystrophin

Terapia genica (AAV)

Completato

Note: AON, oligonucleotidi antisenso

(12). In seguito, ulteriori analisi dei dati clinici dello stesso studio e dei dati dello studio di prolungamento hanno dimostrato che la somministrazione precoce del farmaco e il prolungamento della terapia hanno avuto un effetto clinico positivo sui pazienti trattati con Drisapersen. In atto altri studi clinici con AON procedono con molecole volte allo skipping anche di altri esoni e i risultati preliminari sono molto incoraggianti (http://www.clinicaltrials.gov). Inoltre, riguardo all’approccio terapeutico con AON nella DMD, nuovi scenari sembrano aprirsi sulla base di un recente studio pubblicato su Nature (13). È infatti stato dimostrato che un sito di partenza aggiuntivo della trascrizione, localizzato sull’esone 6, è attivo in alcuni soggetti con delezione nei primi due esoni del gene della distrofina (14). Tale sito di partenza può essere attivato mediante l’utilizzo di un nuovo AON avente come target proprio l’esone 2 ed è stata dimostrata la riespressione della distrofina in mioblasti con

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duplicazioni dell’esone 2, una mutazione molto frequente nei pazienti con DMD, trattati con tale AON. w Terapie che inducono il “read-through” ribosomiale

Un secondo approccio molecolare è volto a correggere le mutazioni nonsense alla base della DMD. Una mutazione nonsense del DNA causa un’interruzione precoce della traduzione della distrofina cui segue una sua degradazione. La gentamicina è un antibiotico aminoglicosidico capace di far superare al ribosoma i codoni di stop introdotti dalla mutazione. Uno studio clinico eseguito su pazienti DMD con mutazioni nonsense, trattati per sei mesi con gentamicina ev, ha mostrato un significativo aumento dei livelli di distrofina e una stabilità della forza muscolare (15). Tale studio ha dimostrato il potenziale terapeutico della gentamicina, tuttavia la nota tossicità renale associata agli antibio-


Clinicaltrial.gov

Sponsor

NCT01826487

PTC Therapeutics

NCT02255552

Sarepta Therapeutics

NCT02500381

Sarepta Therapeutics

NCT02310906

Sarepta Therapeutics

NCT01803412

BioMarin Nederland BV

NCT02329769

BioMarin Nederland BV

NCT01826474

BioMarin Nederland BV

NCT01957059

BioMarin Nederland BV

NCT01603407

University of Rochester

NCT01027884

Santhera Pharmaceuticals

NCT01761292

Italfarmaco

NCT01335295

University of Messina

NCT01183767

Charite University, Berlin, Germany

NCT02383511

Summit Therapeutics

NCT02310763

Pfizer

NCT00819845

Catholic University, Italy

NCT01865084

Eli Lilly and Company

NCT00428935

Nationwide Children’s Hospital

tici aminoglicosidici e le difficoltà della somministrazione endovenosa hanno spinto gli studi verso l’identificazione di un agente somministrato per via orale. Ataluren, precedentemente noto come PTC124, è una molecola somministrata per via orale e capace di rendere i ribosomi meno sensibili ai codoni di stop prematuri, consentendo in tal modo la produzione di una proteina completa (16). Un primo studio di fase I su volontari sani ha stabilito la sicurezza e la tollerabilità del farmaco a dosi superiori a quelle necessarie per l’efficacia preclinica. È stato condotto un trial clinico, in doppio cieco, randomizzato e controllato con placebo di fase IIb, volto a valutare la sicurezza e l’efficacia del trattamento con Ataluren, assunto per 48 settimane. Dallo studio clinico che ha incluso 174 pazienti deambulanti, di età compresa tra 5 e 20 anni, è emerso un profilo di sicurezza molto forte del farmaco ed è stato raggiunto l’endpoint primario di efficacia, valutato come la variazio-

ne nella distanza percorsa al test del cammino per 6 minuti (6MWT) (17). Un successivo studio di fase III eseguito con lo specifico obiettivo di confermarne l’efficacia, sta per essere completato. Il farmaco, conosciuto con il nome Translarna, ha ottenuto nel luglio 2014 l’autorizzazione dall’EMA all’immissione in commercio in Europa. w Terapie geniche e cellule staminali Approcci terapeutici alternativi che in futuro potranno avere un ruolo importante includono la terapia genica e con cellule staminali. I virus-adeno-associati (AAV) sono senz’altro i più efficaci vettori di trasferimento genico nel muscolo scheletrico, tuttavia presentano un limite importante nella loro capacità di clonazione, in quanto la lunghezza del gene per la distrofina (14 kb) risulta maggiore della capacità di incorporazione di un adenovirus (4,5 kb). Lo sviluppo di metodologie che consentano un trasferimento di geni sicuro, efficiente e di lunga durata nel muscolo scheletrico rappresenta uno dei traguardi più importanti della terapia genica. Inoltre, nell’unico studio su terapia genica umana effettuato in pazienti DMD è stata riscontrata una risposta immunitaria che dovrà essere presa in considerazione nel disegno di trial futuri (18). In merito all’utilizzo di cellule staminali, un’altra promettente strategia che si basa sul presupposto di fornire direttamente cellule muscolari sane, sono stati ottenuti risultati positivi nel modello animale con l’utilizzo di mesangioblasti (19). È stato quindi condotto uno studio di fase I su pazienti DMD con lo scopo di verificare la sicurezza relativa al trapianto dei mesoangioblasti provenienti da un donatore immunocompatibile e di valutare l’effetto del trapianto sulla forza muscolare. Altri studi proseguono per valutare la possibilità di trapianto autologo che avrebbe il vantaggio di non necessitare di un donatore immunocompatibile, né di lunghe terapie immunosoppressive. w Terapie sostitutive della distrofina A questo gruppo appartengono alcuni farmaci sviluppati per aumentare l’espressione di proteine che potrebbero sostituire la distrofina a livello della membrana delle cellule muscolari. Una proteina strutturalmente molto simile alla distrofina è l’utrofina. Le due proteine hanno una funzione corrispondente nei muscoli ed è stato dimostrato che l’utrofina può sostituire funzionalmente la distrofina (20); essa inoltre, risulta sovraespressa nei pazienti DMD, verosimilmente nel tentativo dell’organismo di compensare l’assenza di distrofina. La sovraespressione (up-regulation) dell’utrofina è pertanto un’altra strategia terapeutica che ha la potenzialità di trattare tutte le forme genetiche di DMD. Diverse sono le molecole potenzialmente in grado di up-regolare l’utrofina, in particolare la molecola SMT C1100 è risultata sicura e ben tollerata in uno studio condotto su volontari sani (21). Attualmente uno studio su pazienti DMD è in corso nel Regno la neurologia italiana

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Patologie rare Unito per valutare la sicurezza di SMT C1100 e l’impatto su biomarkers enzimatici connessi al muscolo.

Terapie che agiscono sul processo distrofico Le ultime evidenze dai trial clinici (12) mostrano che l’approccio volto al ripristino della presenza di distrofina, potrebbe non essere sufficiente a determinare un miglioramento del quadro funzionale motorio. Sviluppare nuove strategie terapeutiche volte a limitare il processo distrofico e inibire il complesso pathway infiammatorio che lo sostiene, rimane dunque un obiettivo fondamentale. Numerose sono le molecole coinvolte nel processo infiammatorio che sostiene la degenerazione muscolare, tra queste le specie reattive dell’ossigeno (ROS) e il fattore nucleare-κB (NF-kB) sembrano giocare un ruolo cruciale; in particolare, le ROS inducono l’attivazione di NF-kB (22), un fattore di trascrizione che svolge un ruolo centrale nel mediare l’infiammazione. I corticosteroidi, prednisone e deflazacort, attualmente rappresentano il gold standard terapeutico nella DMD (3). Il preciso meccanismo d’azione attraverso il quale agiscono sul muscolo scheletrico non è ancora del tutto definito, ma certamente sfruttano la loro nota azione antinfiammatoria. È stato dimostrato che la terapia con cortisone preserva la funzione muscolare nella DMD promuovendo il mantenimento della deambulazione di circa due anni e migliorando a lungo termine la funzione respiratoria e cardiaca. La prova inequivocabile del miglioramento indotto dalla terapia con glucocorticoidi è emersa dallo studio in doppio cieco, randomizzato e controllato eseguito in un’ampia coorte di soggetti (N =103) (23) in cui è stata dimostrata l’efficacia del prednisone al dosaggio di 0,75 mg/kg/die. Successivamente molti lavori hanno confermato l’efficacia del deflazacort al dosaggio di 0,9 mg/kg/die (24). È in corso uno studio clinico multicentrico di fase III, randomizzato in doppio cieco a gruppi paralleli, in cui vengono confrontati i tre regimi di corticosteroidi di ampio uso nella distrofia di Duchenne per stabilire quale sia quello ottimale (prednisone tutti i giorni al dosaggio 0,75 mg/kg/die vs prednisone 0,75 mg/kg/die, 10 giorni di trattamento e 10 giorni di sospensione vs deflazacort tutti i giorni al dosaggio di 0,9 mg/kg/die). Tuttavia, la somministrazione di steroidi a lungo termine può essere limitata dalla comparsa dei conosciuti effetti collaterali della terapia steroidea (aumento di peso con aspetto cushingoide, ipertensione arteriosa, cataratta, osteoporosi) e in alcuni casi da disturbi comportamentali indotti o accentuati da questa classe di farmaci. Numerose ricerche sono in corso con l’obiettivo di sviluppare nuovi farmaci volti a inibire il processo infiammatorio caratteristico del muscolo distrofico e con un profilo di effetti collaterali migliore rispetto ai corticosteroidi. Molte terapie antiossidanti sono state studiate per il loro effetto nel ridurre l’infiammazione e i segni di danno mu-

24

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scolare (25-29). Uno dei più promettenti è l’idebenone, un benzochinone a catena corta strutturalmente correlato al coenzima Q10, un antiossidante che migliora la funzione della catena respiratoria mitocondriale. Uno studio di fase II ha dimostrato la sicurezza e tollerabilità dell’idebenone nei pazienti DMD e un trend di miglioramento della funzione respiratoria confermata dallo studio di fase III, i cui risultati sono stati recentemente resi noti (25). Il tè verde, fonte naturale di polifenoli e flavonoidi, è un altro agente farmacologico testato per l’inibizione dello stress ossidativo. Studi preclinici con estratto di tè verde e il suo principio attivo, l’epigallocatechina gallato (EGCG) hanno dato dei risultati incoraggianti (26) ed è in corso uno studio clinico di fase II su pazienti DMD volto a valutare la sicurezza e la tollerabilità dell’EGCG. Un’altra molecola d’interesse, capace di ridurre lo stress ossidativo è il flavocoxid, un integratore con proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, in commercio negli Stati Uniti per il trattamento dell’osteoartrite. L’attività antinfiammatoria del flavocoxid (27) è data dall’inibizione degli enzimi COX, LOX e di citochine pro-infiammatorie; inibisce, inoltre, l’attività del fattore NF-κB mediante la riduzione di ROS e non presenta gli effetti collaterali tipici dei corticosteroidi. È stato recentemente testato in uno studio clinico di fase II su pazienti DMD deambulanti, risultando sicuro e ben tollerato anche in associazione con cortisone. Un farmaco che ha mostrato risultati promettenti nel ridurre la fibrosi e promuovere la rigenerazione muscolare compensatoria è il givinostat, un istone deacetilasi (HDAC) (28). Uno studio di fase II condotto in Italia su 20 pazienti DMD deambulanti ha mostrato che il trattamento con givinostat contrasta la necrosi e la sostituzione fibroadiposa del muscolo, aprendo la strada a un successivo studio più esteso di fase III. Tutti i meccanismi coinvolti nel processo distrofico, che si estendono dall’infiammazione alla necrosi e alla fibrosi, contribuiscono all’atrofia muscolare finale che caratterizza la DMD. Alcuni approcci terapeutici presuppongono l’uso di anabolizzanti e ormoni per contrastare l’atrofia muscolare. Alcuni studi si sono concentrati sull’inibizione del gene della miostatina, un membro della famiglia di TGF-β e un regolatore negativo della crescita del muscolo scheletrico (30). È in corso un trial clinico di fase II, in fase di reclutamento, volto a valutare la sicurezza e l’efficacia dell’anticorpo monoclonale PF-06252616, inibitore della miostatina, in pazienti DMD, che ha mostrato risultati promettenti nello studio di fase I condotto su soggetti sani nei quali è stato dimostrato un aumento della massa muscolare alle immagini di risonanza magnetica. In attesa della terapia risolutiva per la DMD, un’adeguata presa in carico del paziente, che tenga conto delle più recenti linee guida sugli standard di cura (3,4), è fondamentale per garantirgli le migliori condizioni cliniche e permettergli di usufruire al meglio dell’efficacia di possibili future terapie.


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NEWS libri clinica

Prognosis of Neurological Diseases

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ell’era di Internet esce per i tipi di Springer un libro che sulla carta può reggere il confronto con il web: il merito va soprattutto ad Angelo Sghirlanzoni, primo editor di Prognosis of Neurological Diseases, che ha ideato il format con cui il volume è strutturato dalla prima all’ultima pagina, la 519ma. Fino a pochi anni fa primario del Besta di Milano e ora alla Fondazione Giancarlo Quarta che, insieme al Besta ha sponsorizzato questo volume, Sghirlanzoni ha dato vita a un’opera a metà strada fra gli atti di un congresso specialistico e un testo universitario, che ha il pregio di offrire al lettore una struttura precisa sempre definita in capitoli tematici brevi e corposi nei quali non si disperde, ma trova rapidamente ciò che gli occorre, quasi stesse consultando una banca dati. Appare per esempio assai azzeccata l’idea di porre all’inizio di ogni capitolo le Abbreviations, cioè le key words delle sigle usate nel testo e i Key Facts. In più, e non se ne abbiano a male i produttori di smartphone, APP et similia, chi legge ha la consistenza della tradizionale

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informazione cartacea cui è abituato da sempre, corredata da iconografie e tabelle up-to-date, spesso visibili nella stessa pagina del testo, con ulteriore risparmio di attenzione e di tempo. La bibliografia è altrettanto puntuale e ricca e, visti i temi affrontati, non poteva essere altrimenti: le più recenti acquisizioni di neuroimaging, di biochimica molecolare e di laboratorio utili a pianificare una giusta prognosi e una corretta terapia. Se già è difficile saper curare un paziente neurologico, ancor di più lo è prevedere con plausibile precisione l’esito delle cure, individuando peraltro quelle giuste fra le tante possibili, un tema che con il dilagare della medicina difensiva diventa ogni giorno più caldo, interessando non solo il neurologo e più spesso il neurochirurgo, ma ovviamente anche il medico legale. Il pregio didattico dell’opera resta comunque il format con cui è strutturato e che il lettore si abitua presto a ritrovare in tutti i capitoli come quando sa cosa attendersi da un sito internet che consulta spesso dal suo PC. E, a ben vedere, anche on-line ogni tanto il format dei siti

viene cambiato, mentre questo resta sempre a disposizione così come s’impara a consultarlo la prima volta: • Titolo • Key Facts • Terminologia e definizioni • Epidemiologia • Fattori di rischio associati • Genetica • Caratteristiche cliniche • Marker diagnostici - ematici - liquorali • Esami MRI/TC • Biopsia cerebrale • Criteri di diagnosi differenziale • Prognosi - Principi di trattamento • Mortalità e disabilità Il secondo pregio, non certo da sottovalutare, è il fatto che a riempire la struttura a incastro predisposta da Sghirlanzoni hanno quasi sempre contribuito, insieme ad altri, i migliori specialisti della Fondazione IRCCS Carlo Besta di Milano che, ognuno nel suo campo, ha fornito dati certamente d.o.c. e up-to-date. Leggere questo libro è un po’ come partecipare a un congresso di aggiornamento di ottimo livello standosene comodamente seduti alla propria scrivania. Cesare Peccarisi

Come abbonarsi a la neurologia italiana Abbonamento annuale € 12,00 Abbonarsi è facile: ❱ basta una telefonata allo 024390952 ❱ un fax allo 024390952 ❱ o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it

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