Malattie autoimmuni
Neuromielite ottica Caratteristiche cliniche e opzioni di terapia
> Raffaele Iorio, Gregorio Spagni •
Epilessia
Le crisi epilettiche sintomatiche acute secondarie a disturbi elettrolitici Inquadramento clinico-diagnostico e indicazioni terapeutiche
> Francesco Brigo, Monica Storti, Raffaele Nardone •
Neuropsicologia
Il disturbo depressivo nel paziente con sclerosi multipla Un approccio psicologico
> Monica Falautano •
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6
DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con
CLINICA
Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci
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Le novità dal Congresso dei neurologi americani
2
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Anno XIV - n. 1 - 2018
Anno XIV - n. 1 - 2018
MP
Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel. 02 4390952 - Fax 02 56561838 Registrazione del Tribunale di Milano n. 781 del 12/10/2005 - Filiale di Milano info@medicoepaziente.it Direttore editoriale Anastassia Zahova abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi segreteria di redazione Concetta Accarrino progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Hanno collaborato a questo numero Francesco Brigo, Stefano De Santis, Vincenzo Di Lazzaro, Monica Falautano, Raffaele Iorio, Raffaele Nardone, Tania Sabatino, Gregorio Spagni, Monica Storti
direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza
Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina
Sommario 8
Malattie autoimmuni
Neuromielite ottica
1
Caratteristiche cliniche e opzioni di terapia
Raffaele Iorio, Gregorio Spagni
16 Epilessia
Le crisi epilettiche sintomatiche acute secondarie a disturbi elettrolitici Inquadramento clinico-diagnostico e indicazioni terapeutiche
Francesco Brigo, Monica Storti, Raffaele Nardone
22 Neuropsicologia
Il disturbo depressivo nel paziente con sclerosi multipla Un approccio psicologico
Monica Falautano
26 Malattie rare
Malattia di Niemann-Pick tipo C Le raccomandazioni aggiornate per un corretto percorso diagnostico
Stefano De Santis, Vincenzo Di Lazzaro
32 segnalazioni malattie rare
Adrenoleucodistrofia
Una patologia altamente invalidante, ancora misconosciuta
Tania Sabatino
rubrich e
4 34 36 38
news dalla letteratura news dai congressi news farmaci news dalle associazioni
Direttore Responsabile Sabina Guancia Scarfoglio
la neurologia italiana
numero 1 2018
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NEWS dalla letteratura M. Galovic, N. Döhler, B. Tettenborn et al.
Previsione di crisi epilettiche secondarie a ictus ischemico con un nuovo modello prognostico: il punteggio SeLECT ❱❱❱ Lancet Neurology 2018; 17(2): 143-52 L’ictus è una delle principali cause di epilessia acquisita in età adulta. Attualmente tuttavia non è disponibile alcuno strumento per prevedere se una persona è ad alto rischio di sviluppare attacchi post-ictus. L’obiettivo di questo ampio studio internazionale, a cui hanno partecipato Anna Serafini, Giorgia Gregoraci, Mariarosa Valente e Gian Luigi Gigli, del Dipartimento Area Medica dell’Università di Udine era di sviluppare e validare un modello prognostico di attacchi successivi (>7 giorni) dopo ictus ischemico. Gli Autori hanno così sviluppato un punteggio, denominato SeLECT analizzando i dati clinici di 1.200 soggetti
svizzeri colpiti da ictus ischemico, utilizzando un modello di rischio proporzionale multivariato Cox. Il modello finale includeva cinque variabili: gravità dell’ictus, precocità delle crisi, eziologia aterosclerotica delle grandi arterie, coinvolgimento corticale e coinvolgimento dell’arteria cerebrale media. Gli Autori hanno poi validato il punteggio su 1.169 soggetti di tre coorti internazionali indipendenti in Austria, Germania e Italia. Complessivamente, il rischio di attacchi successivi è risultato del 4 per cento (CI 95 per cento 4–5) a un anno dall’ictus e dell’8 per cento a 5 anni. Il valore SeLECT più basso (0 punti) era associato a un rischio di attacchi entro un anno dall’ictus pari allo 0,7 per cento (CI 95 0,4-1,0) e pari all’1,3 per cento entro cinque anni (CI 95 0,7-,1,8) mentre i valori più elevati (9 punti) erano correlati a un 63 per cento (42–77) di rischio di successivi attacchi entro un anno e dell’83 per cento entro cinque anni (62-93). In conclusione lo strumento, disponibile gratuitamente su app, è di facile applicazione e ha dimostrato di essere un buon predittore del rischio di attacchi epilettici post-ictus ischemico in tre coorti esterne di validazione. Il punteggio SeLECT ha la capacità di identificare i soggetti ad alto rischio di crisi e rappresenta un passo avanti verso una medicina più personalizzata.
N. Specchio, M. Bellusci, F. Vigevano et al.
La fotosensibilità è un marker precoce di ceroidolipofuscinosi neuronale di tipo 2 ❱❱❱ Epilepsia 2017; 58(8): 1380-88. doi: 10.1111/epi.13820 La fotosensibilità precoce – tipicamente, una risposta fotoparossistica (PPR) a basse frequenze di stimolazione di 1-3 Hz – è un segno di ceroidolipofuscinosi neuronale di tipo 2 (CLN2). È questa la conclusione di uno studio condotto da un gruppo dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, guidato da Federico Vigevano. Si tratta di una revisione clinica retrospettiva di una serie di casi clinici relativi a 14 soggetti che hanno ricevuto la diagnosi di CLN2 tra il 2005 e il 2015 in un singolo centro. L’età media dell’insorgenza di malattia nell’intero gruppo era di 3 anni (range 2,0-3,8). Dall’analisi dei dati, l’epilessia è risultata il sintomo di presentazione più comunemente riportato (7 dei 14 pazienti, 50 per cento), all’età media di 3,2 anni (2,6-3,8). La prima crisi è stata di tipo mioclonico nel 36 per cento dei pazienti, seguita da crisi di tipo tonico-clonico generalizzato nel 29 e atonico nel 22 per cento. Tutti i pazienti erano in grado di camminare in modo indipendente a 12 mesi, ma nel 100 per cento dei soggetti all’età di tre anni era presente un ritardo nel linguaggio o una regressione delle capacità verbali. L’EEG rivelava una PPR alla stimolazione fotica intermittente in 13 dei 14 pazienti (93 per cento). La PPR era presente fin dalla prima EEG, condotta all’età di 3,6 anni (3,1-4,0) in 6 dei 14 pazienti (43 per cento); è stata documentata a basse frequenze di stimolazione (1-3 Hz) in 9 casi su 13 (69 per cento) e ha preso la forma di una risposta flash-per-flash in 9 casi su13. La prima RMN all’età di 3,8 anni ha rivelato un’atrofia cerebellare nel 100 per cento dei casi e un’alterazione del segnale della materia bianca periventricolare nella regione emisferica posteriore nel 79 per cento dei pazienti. Sulla base dei risultati, gli Autori sottolineano come il sospetto diagnostico di CLN2 dovrebbe essere preso in considerazione in pazienti con qualunque tipo di crisi epilettiche, in particolare se esse sono accompagnate da un ritardo del linguaggio e/o atassia, nonché da anomalie alla RMN, quali un’alterazione del segnale della materia bianca posteriore o atrofia cerebellare.
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numero 1 · 2018 la neurologia italiana
e n i l n o
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NEWS dalla letteratura D. Baroncini, M. Zaffaroni, A. Ghezzi et al. iMED Registry e Gruppo di studio SM-Società italiana di neurologia
I. Berardelli, M.C. Bloise, G. Fabbrini et al.
Nella popolazione pediatrica con SM, l’avvio alla terapia a un’età inferiore ai 12 anni potrebbe avere un miglior impatto sulla prognosi
anche di gruppo, può migliorare i sintomi psichiatrici nei pazienti con malattia di Parkinson
❱❱❱ Multiple Sclerosis Journal 2018; Jan 1; Doi: 10.1177/1352458518754364 (Epub ahead of print) Allo stato attuale vi sono poche indicazioni sul profilo di rischio beneficio a lungo termine dei trattamenti disease modifying (DMT) nella popolazione pediatrica affetta da sclerosi multipla (SM). Indicazioni al riguardo giungono da questo lavoro che ha valutato l’impatto sul lungo periodo delle terapie iniettive in prima linea. Sono stati raccolti e analizzati i dati relativi al tipo di trattamenti impiegati, al tasso annuale di ricadute (ARR), al punteggio EDSS e alla comparsa di effetti collaterali gravi in un gruppo di 97 pazienti, che sono stati seguiti per 12,5±3,3 anni. Sono state analizzate in un modello multivariato le caratteristiche al basale per identificare i fattori predittivi di progressione della SM. L’età di inizio della terapia era 13,9±2,1 anni; quest’ultima per 88 pazienti era a base di interferoni e per 9 di copaxone. Nel corso del follow up, per 82 soggetti è stato effettuato un cambio di terapia, e nel 58 per cento dei casi si è trattato di uno switch verso terapie immunosoppressive/di seconda linea. Rispetto alla fase di pre-terapia è stata riscontrata una significativa riduzione nell’ARR con i trattamenti di prima linea (da 3,2±2,6 a 0,7±1,5, p <0,001), e il trend si è mantenuto basso per tutta la durata del follow up. All’ultimo controllo, il 40 per cento dei soggetti ha mostrato un peggioramento della disabilità, anche se lo score all’EDSS nell’89 per cento dei casi è risultato inferiore a 4. Da segnalare il decesso di un paziente a causa della malattia e un caso di PML (leucoencefalopatia multifocale progressiva) correlata a trattamento con natalizumab. L’analisi multivariata ha evidenziato come l’avvio alla terapia prima dei 12 anni di età avesse un impatto migliore sull’evoluzione della patologia. Nel complesso dunque questo lavoro evidenzia gli effetti positivi delle terapie iniettive in prima linea quali, interferoni e copaxone, anche se nella maggioranza dei casi è stato necessario lo switch verso agenti più potenti. Gli Autori sottolneano che l’avvio precoce alla terapia, a un età inferiore ai 12 anni, potrebbe apportare maggiori benefici sulla progressione della malattia.
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numero 1 · 2018 la neurologia italiana
La terapia cognitivo-comportamentale,
❱❱❱ Neuropsychiatric Disease and Treatment 2018; 14: 399-405 La malattia di Parkinson (MP) ha un forte impatto sulla sfera psicologica, tanto che nella maggior parte dei pazienti MP si riscontrano ansia, depressione, apatia, psicosi e disturbi del controllo degli impulsi. Secondo le stime, ansia e sintomi depressivi colpiscono oltre il 50 per cento dei malati, compromettendone ulteriormente la qualità di vita. Tra gli interventi volti al controllo di queste condizioni, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata un’opzione promettente ed efficace. Pochi lavori hanno preso in considerazione però l’impatto che potrebbe avere una CBT svolta in gruppo sui sintomi psichiatrici associati al Parkinson. Ed è proprio questo l’obiettivo dello studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, dell’Irccs Neuromed di Pozzili in collaborazione la University School of Medicine di Atlanta (USA). Il lavoro in questione ha valutato l’impatto della CBT in gruppo confrontando i risultati con quanto ottenuto in pazienti che sono stati sottoposti a un intervento di tipo psico-educazionale. Vi hanno preso parte 20 soggetti con MP e diagnosi confermata di disturbi psichiatrici, che sono stati assegnati a CBT di gruppo per 12 settimane oppure a un protocollo di intervento psico-educazionale. La valutazione neurologica è stata effettuata con l’utilizzo della UPDRS e della scala dei sintomi non motori, mentre per stabilire la gravità delle psicosi sono state usate la Hamilton Depression Rating scale, Hamilton Anxiety Rating scale, Brief Psychiatric Rating scale e la Clinical Global Impressions. Al termine del periodo di intervento, i risultati hanno mostrato l’efficacia della CBT di gruppo sui sintomi depressivi e d’ansia, come anche sulla riduzione nella gravità dei sintomi non motori associati alla MP. Per contro, i pazienti che hanno seguito l’intervento di tipo psico-educazionale non hanno mostrato significativi cambiamenti. Secondo quanto ottenuto, gli Autori suggeriscono come nell’ambito di un approccio multidisciplinare alla malattia di Parkinson, l’intervento riabilitativo basato sulla terapia comportamentale di gruppo possa essere un buon alleato del trattamento farmacologico standard, nei soggetti che manifestano disturbi legati alla sfera psichiatrica.
SEMPRE PIÙ DIFFICILE! La crisi economica e le difficoltà dell'editoria rendono sempre più difficile far arrivare la rivista sulla scrivania del Medico
Assicurarsi tutti i numeri di Medico e Paziente è facile
Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012
6
DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
MP
Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con
CLINICA
Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci
TERAPIA
Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci
> Domenico D’Amico
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64° AAN ANNUAL MEETING
Le novità dal Congresso dei neurologi americani
2
I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM
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Medico e Paziente
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Malattie autoimmuni
Neuromielite ottica
Caratteristiche cliniche e opzioni di terapia Per anni considerata una variante della sclerosi multipla, la neuromielite ottica è oggi una patologia ben inquadrata con caratteristiche cliniche e radiologiche peculiari e distintive. L’intervento prevede una terapia della fase acuta e una a lungo termine per la prevenzione delle recidive Raffaele Iorio, Gregorio Spagni
L
Istituto di Neurologia, Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
a neuromielite ottica (nota anche come malattia di Devic) è una malattia autoimmune caratterizzata dal prevalente coinvolgimento dei nervi ottici e del midollo spinale (1). Il termine “neuromielite ottica acuta” fu adottato per la prima volta da Eugène Devic (1858–1930) che nel 1894 descrisse una nuova sindrome (neuro-myélite optique aiguë) caratterizzata da mielite e neurite ottica a insorgenza acuta. Nello stesso anno lo studente Fernand Gault (1873–1936), allievo di Devic, pubblicò la sua tesi di dottorato intitolata “De la neuro-myélite optique aiguë “ che includeva una revisione della letteratura e l’analisi clinico-patologica del caso descritto da Devic (2). Dalla descrizione di Devic e per tutto il XX secolo, la neuromielite ottica è stata considerata una variante della sclerosi multipla (SM). Nel 2004 Lennon e collaboratori identificarono un autoanticorpo di tipo immunoglobulina G (IgG) inizialmente denominato NMO-IgG, che distingue la neuromielite ottica dalla sclerosi multipla (Tabella 1) e da altre malattie infiammatorie del sistema nervoso centrale (SNC) (3). L’anno seguente la proteina astrocitaria acquaporina-4 (AQP4), il principale canale dell’acqua del SNC, fu identificato come l’autoantigene bersaglio di NMO-IgG (4). L’identificazione di questo biomarker ha avuto un’importanza critica per la caratterizzazione clinica dello spettro della neuromielite ottica e per la comprensione della patogenesi della malattia. La presenza degli anticorpi anti-AQP4 (AQP4-IgG) unifica uno spettro di manifestazioni cliniche che include oltre alla neuromielite ottica clinicamente definita, anche forme parziali come neurite ottica recidivante, mielite trasversa con estensione longitudinale (con lesioni che interessano ≥3 segmenti vertebrali contigui) monofoasica o recidivante e altre sindromi dovute all’interessamento degli organi circumventricolari (ad es. area postrema). Inoltre la presenza di AQP4-IgG predice l’insorgenza di recidive caratterizzate da una marcata disabilità neurologica che è correlata all’attacco.
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numero 1 · 2018 la neurologia italiana
Epidemiologia
La prevalenza della NMO varia tra i diversi Paesi ed etnie da 0,3 a 4,4 casi per 100.000 abitanti, con la massima incidenza osservata nelle popolazioni asiatiche e afro-americane (5). È probabile che in futuro si assista a un aumento della prevalenza della malattia, dal momento che la diffusione del test per dosare gli anticorpi AQP4-IgG sta diventando sempre maggiore e che la sensibilità dell’esame continua a migliorare (6). L’età mediana di esordio della NMO è pari a 39 anni. Le femmine sono più frequentemente affette rispetto ai maschi, con un rapporto F:M che varia da 3:1 a 9:1 nei diversi studi (7, 8).
Immunopatogenesi e ruolo degli anticorpi AQP4-IgG
Il canale dell’acqua acquaporina-4 (AQP-4) esiste in due isoforme principali, M1 ed M23, che hanno lo stesso dominio extracellulare e differiscono per un residuo di 22 aminoacidi intracellulare (9). Queste due isoforme si assemblano a costituire omo- ed eterotetrameri. Più tetrameri di AQP4 si aggregano sulla membrana plasmatica a formare una struttura sopramolecolare che prende il nome di “assemblamento ortogonale di particelle” (abbreviato dall’inglese “orthogonal array of particles” in OAP) (10). Gli studi in vitro hanno dimostrato che il legame tra le AQP4-IgG e il dominio extracellulare del canale induce i seguenti processi patogenetici: (i) internalizzazione e degradazione dell’AQP4; (ii) disregolazione dell’omeostasi dell’acqua e del glutammato; (iii) attivazione della via classica del complemento (11,12,13); (iv) rottura della barriera ematoencefalica e induzione della citotossicità anticorpo-mediata (14). È stato dimostrato che la disposizione in OAP dell’AQP4 favorisce l’interazione tra gli anticorpi e il canale dell’acqua potenziando l’attivazione del complemento. Studi recenti hanno dimostrato che i neutrofili, i macrofagi e le cellule natural killer (NK) contribuiscono alla formazione delle lesioni nella
Tabella 1
Caratteristiche cliniche distintive dello spettro della neuromielite ottica rispetto alla sclerosi multipla Sclerosi multipla
NMOSD
Positività per AQP4-IgG
0%
80-90%
Esordio e decorso clinico
85% recidivante-remittente; 15% primariamente progressivo; non monofasico
90 % remittente-recidivante; 10% monofasica
Età mediana all’esordio
29 anni
39 anni
Rapporto F:M
2:1
9:1
Decorso secondariamente progressivo
Comune
Raro
RMN cerebrale
Lesioni ovoidali periventricolari
Lesioni aspecifiche della sostanza bianca; 10% lesioni uniche ipotalamiche, callosali, periventricolari, periacqueduttali, bulbari, troncoencefaliche. N.B. enhancement “a nuvola”. Occasionalmente lesioni estese, simmetriche
RMN midollo spinale
Lesioni periferiche, non estese longitudinalmente
Lesioni estese longitudinalmente per almeno 3 segmenti, centromidollari
Liquor: cellularità e concentrazione di GFAP e IL-6
Lieve pleiocitosi, cellule mononucleate, bassi livelli di IL-6 e GFAP
Occasionalmente marcata pleiocitosi; cellule polimorfonucleate e mononucleate; alte concentrazioni di IL-6 e GFAP
Bande oligoclonali
85%
15-30%
Associazione di altre malattie autoimmuni
Rara
Frequente: lupus eritematoso sistemico, sindrome di Sjögren, miastenia gravis, tireopatie autoimmuni, sindrome da anticorpi antifosfolipidi
Terapie che riducono il rischio di nuovi attacchi
Interferone-beta, glatiramer acetato, teriflunomide, dimetilfumarato, fingolimod, natalizumab
Prednisone, azatioprina, micofenolato mofetile, rituximab, ciclofosfamide, metotrexate
NMO tramite diversi meccanismi quali la produzione di elastasi (neutrofili) (15), la secrezione di citochine, l’attività fagocitaria (macrofagi), e la citotossicità anticorpo-dipendente (NK). Anche gli eosinofili sono coinvolti nella patogenesi delle lesioni nella NMO, ed è stato dimostrato che queste cellule contribuiscono al danno tissutale (16). L’interazione tra l’autoanticorpo e l’AQP4 è l’evento patogenetico primario della NMO, mentre la demielinizzazione e la perdita di cellule neuronali sono secondarie al danno astrocitario. Per tale motivo la NMO è considerata un’astrocitopatia e non una malattia demielinizzante primaria. I meccanismi patogenetici del danno neuronale e oligodendrocitario sono attualmente in corso di studio, ma si ritiene che l’eccitotossicità da glutammato causata dalla disfunzione astrocitaria abbia un ruolo critico. Alcuni studi in vitro hanno mostrato che gli anticorpi anti-AQP4 determinano l’internalizzazione del trasportatore per aminoacidi eccitatori EAAT2 (12,17), fisicamente ancorato all’AQP4, con conseguente riduzione dell’”uptake” del glutammato a livello
delle sinapsi astro-gliale e astro-neuronale. Un aumento della concentrazione extracellulare del glutammato, e la conseguente continua attivazione dei recettori per questo neurotrasmettitore, determina un elevato influsso intracellulare di calcio che può portare a morte cellulare. w Neuropatologia La NMO presenta un quadro neuropatologico caratteristico che riflette una patogenesi anticorpo-mediata. La deposizione perivascolare di immunoglobuline e di frammenti litici terminali del complemento, così come la predominanza di eosinofili e neutrofili nell’infiltrato cellulare, sono caratteristiche tipiche della NMO (18). Gli studi immunopatologici dell’encefalo e del midollo spinale di pazienti affetti da NMO hanno mostrato un pattern unico di perdita di AQP4 indipendente dal livello di demielinizzazione, dalla sede della lesione e dal grado di necrosi tissutale (19). È inoltre osservabile una marcata riduzione dell’EAAT2. Queste alterazioni precedono la demielinizzaziola neurologia italiana
numero 1 2018
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Malattie autoimmuni ne. Di contro, nelle fasi iniziali della formazione delle lesioni nella SM, si assiste a una aumentata espressione dell’AQP4 e di EAAT2 (19). Anche gli studi in vivo supportano un ruolo patogenetico dell’AQP4-IgG nella NMO. In quattro studi indipendenti recentemente pubblicati, IgG derivate da pazienti affetti da NMO sono state iniettate in roditori con una barriera ematoencefalica sperimentalmente danneggiata: il quadro infiammatorio del SNC che ne è conseguito è risultato, dal punto di vista immunopatologico, analogo a quello osservato nella NMO (20,21,22,23).
nofasiche di NMO la quota di pazienti che risultano positivi per AQP4-IgG è notevolmente inferiore e si attesta intorno al 12 per cento. I casi di NMO con assenza di recidive per almeno 2 anni sono generalmente post-infettivi, più frequentemente AQP4-IgG negativi, e in questo gruppo non si osserva preferenza di genere (25). È stato inoltre documentato che la neurite ottica bilaterale e la presenza simultanea di neurite ottica e mielite sono più frequenti nelle forme monofasiche di NMO (25). w Predilezione per il midollo spinale e i nervi ottici
Le recidive di NMO (neurite ottica e mielite trasversa estesa longitudinalmente per ≥3 segmenti vertebrali contigui) hanno un esordio della durata di alcuni giorni (quindi subacuto), La NMO presenta frequentemente un decorso remittente-reci- raggiungono l’acme e poi migliorano lentamente nel giro di divante, mentre un decorso monofasico si osserva nel 10-15 settimane-mesi. Una neurite ottica può essere il primo sintomo per cento dei casi. La forma cronica progressiva è invece con- dello spettro di manifestazioni cliniche della NMO e tende ad siderata rarissima (24). Nelle forme recidivanti la positività per avere le seguenti caratteristiche: (i) coinvolge le parti più poAQP4-IgG raggiunge il 78 per cento mentre nelle forme mo- steriori dei nervi ottici incluso il chiasma; (ii) ha un esordio bilaterale (sincrono o metacrono); e (iii) è associata a una prognosi Figura 1. Caratteristiche radiologiche dei disturbi severa per quanto riguarda il redello spettro della Neuromielite Ottica (NMOSD) cupero dell’acuità visiva (26,27). Studiando questi casi con la toa b c d mografia a coerenza ottica viene generalmente riscontrato un maggior assottigliamento dello strato di fibre retiniche rispetto a quanto osservato nella neurite ottica associata alla SM (28). Le immagini di risonanza magnetica e f nucleare (RMN) del midollo nella NMO mostrano lesioni infiammatorie con coinvolgimento della sostanza grigia centrale, che si estendono per tre o più segmenti vertebrali contigui, e che spesso interessano il tronco dell’encefag h i lo e l’area postrema (Figura 1) l (29). Nella SM, invece, le lesioni midollari tendono a essere più periferiche e più corte (Tabella 1). Nella NMO, contrariamente a quanto osservato nella SM, il recupero dagli attacchi tende a essere generalmente incomple(a) Alterazione di segnale con potenziamento contrastografico del nervo ottico di destra. (b, e) to, e lo sviluppo e l’accumulo di Lesioni iperintense del chiasma ottico nelle sequenze FLAIR in sezione coronale (b) e assiale disabilità è dipendente dalle reci(e). (c, d) Lesioni iperintense del midollo in due diversi pazienti che si estendono longitudinalmente per più di 3 segmenti vertebrali contigui e che interessano la sostanza grigia centromidive di malattia (1). La prognosi dollare (i, l). (f, g, h) Alterazioni iperintense degli organi circumventricolari, a livello dell’area dei pazienti NMO non trattati è postrema (f e g) e del diencefalo (g). significativamente peggiore riFonte: parzialmente riprodotta da Iorio e Pittock. Neuromyelitis optica and the evolving specspetto a quelli affetti da SM (26). trum of autoimmune aquaporin-4 channelopathies. Clinical and Experimental NeuroimmunoLa principale causa di morte è logy. 2014; 5(2): 175-187. Permesso n. 4126510129036 rappresentata dall’insufficienza
Caratteristiche cliniche e radiologiche dello spettro della NMO associata ad AQP4-IgG
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respiratoria “neurogena” come risultato di lesioni cervicali alte o bulbari basse. Frequenti attacchi nei primi anni dalla diagnosi sono associati a una prognosi peggiore. A differenza della SM, nella quale i pazienti sviluppano la maggior parte della disabilità durante la fase progressiva della patologia, nella NMO la disabilità è correlata all’attacco acuto di malattia, e un decorso secondariamente progressivo è molto raro. Circa il 30 per cento dei pazienti con NMO non trattati va incontro a decesso entro 5 anni dall’esordio della malattia. Dati recenti suggeriscono che la diagnosi precoce seguita da un appropriato trattamento immunosoppressivo determina una prognosi più favorevole (30). w Sindrome dell’area postrema e coinvolgimento encefalico nella NMO
Lesioni cerebrali sono osservate in più del 60 per cento dei pazienti affetti da NMO, ma la maggior parte è aspecifica. Lesioni infiammatorie “simil-SM” sono riportate in circa il 10 per cento dei pazienti e in alcuni casi soddisfano i criteri di Barkhof (31). Le lesioni encefaliche caratteristiche della NMO sono localizzate dove vi è la più alta espressione di AQP4, in particolare nelle aree subpiali e subependimali delle regioni periventricolari, frequentemente intorno al terzo e quarto ventricolo cerebrale. Le lesioni diencefaliche (talamiche e ipotalamiche) possono associarsi a endocrinopatie, forme sintomatiche di narcolessia o alterazione dello stato di coscienza; in questi casi i livelli liquorali di ipocretina possono risultare ridotti. Segni e sintomi riferibili a coinvolgimento dell’area postrema includono singhiozzo persistente, nausea e vomito incoercibili (32,33) e sindrome da inappropriata antidiuresi (SIAD), conseguente alla disregolazione dei sistemi implicati nell’omeostasi osmotica (33). Tali sintomi possono precedere il classico esordio della NMO caratterizzato da neurite ottica e mielite trasversa estesa longitudinalmente. In questi pazienti, l’assenza del fenotipo “ottico-spinale” rende la sfida diagnostica più complessa, e proprio in questi casi la sieropositività per AQP4-IgG può consentire la diagnosi differenziale rispetto ad altre malattie infiammatorie del SNC, inclusa la SM. I pazienti pediatrici hanno una maggior probabilità di manifestare sintomi causati dal coinvolgimento cerebrale, con un quadro neuroradiologico generalmente più grave. Inoltre, in questa sottopopolazione, fino al 16 per cento dei casi esordisce proprio con una sintomatologia riferibile a lesioni cerebrali. Il 30 per cento dei pazienti pediatrici affetti da NMO presenta una sintomatologia cerebrale durante la fase acuta della malattia (encefalopatia, oftalmoparesi, atassia, crisi comiziali, vomito e singhiozzo intrattabili) (34). Le alterazioni encefaliche osservabili alla RMN nei pazienti con NMO includono: (i) lesioni clinicamente silenti limitate alle regioni periventricolari; (ii) lesioni talamiche e diencefaliche; (iii) alterazioni di segnale che, dalle pareti dei ventricoli laterali, si estendono in modo tentacolare nella sostanza bianca; (iv) alterazioni di segnale della sostanza bianca, estese e confluenti in sede periventricolare; e (v) lesioni cerebellari o troncoencefaliche adiacenti all’acquedotto silviano e al quarto ventricolo.
Ito et al. hanno riportato differenze nel pattern di potenziamento contrastografico osservato alla RMN nei pazienti con SM e con NMO. Quasi tutte le lesioni captanti mezzo di contrasto nella NMO hanno un aspetto “a nuvola” caratterizzato da multiple areole di potenziamento dopo somministrazione di mezzo di contrasto con margini sfumati (35). Un recente studio ha confrontato la morfologia e la distribuzione delle lesioni cerebrali nella NMO e nella SM, evidenziando alcune caratteristiche utili nella distinzione neuroradiologica delle due patologie. In particolare orienta verso una diagnosi radiologica di SM la presenza di: (i) lesioni iperintense nelle sequenze T2-pesate adiacenti ai ventricoli laterali; (ii) lesioni localizzate nelle porzioni inferiori del lobo temporale; (iii) lesioni sottocorticali a carico delle fibre a U; (iv) lesioni pericallosali tipo “Dawson’s finger” (36). Una pleiocitosi liquorale (50-1.000 cellule/mm3), spesso con predominanza di cellule polimorfonucleate e un’iperprotidorrachia sono tipicamente osservate nella NMO, specialmente durante le fasi acute della malattia. Tali reperti differiscono da quanto solitamente riscontrato nella SM, dove la pleiocitosi raramente supera le 50 cellule/mm3 (Tabella 1). Le bande oligoclonali sono invece presenti solo in un’esigua porzione di pazienti positivi per AQP4-IgG.
Criteri diagnostici
Nel 2015 sono stati proposti i nuovi criteri diagnostici della NMO. Nei nuovi criteri il termine “disturbi dello spettro della neuromielite ottica” (NMOSD) è utilizzato per definire sia la NMO che le sue forme parziali. Secondo tali criteri la diagnosi di NMOSD può essere effettuata in presenza anche di una manifestazione clinica tipica (Tabella 2) isolata e della positività al dosaggio degli anticorpi anti-AQP4. In caso di negatività al test per AQP4-IgG la diagnosi richiede la presenza di 2 o più manifestazioni cliniche tipiche di cui almeno una sia neurite ottica, mielite a estensione longitudinale o sindrome dell’area postrema, di una disseminazione nello spazio e di specifici criteri neuroradiologici (Tabella 2).
Neuromielite ottica sieronegativa e MOG-IgG
Il 20-30 per cento di pazienti con NMO risulta negativo al dosaggio di AQP4-IgG. Recenti studi hanno evidenziato che il 2530 per cento dei pazienti con NMO sieronegativa ha anticorpi, di tipo IgG, specifici per la glicoproteina oligodendrocitaria della mielina (MOG). I pazienti con MOG-IgG hanno più frequentemente un esordio con neurite ottica e mielite acuta contemporanee o che si susseguono nell’arco di pochi giorni. Inoltre nella NMO associata a MOG-IgG non si osserva una preponderanza di soggetti di origine asiatica e di pazienti di sesso femminile, come avviene nella NMO associata ad AQP4-IgG (37).
Patologie associate e NMO paraneoplastica
I pazienti con NMOSD hanno frequentemente una comorbidità con altre patologie autoimmuni a differenza dei pazienti la neurologia italiana
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Malattie autoimmuni con SM. In particolare nei pazienti con NMOSD è di frequente riscontro una positività per anticorpi anti-nucleo, anti-DNA a doppia elica, anti-antigeni nucleari estraibili (es. SSA, SSB, U1-RNP), e del fattore reumatoide. La maggior parte dei pazienti non presenta le caratteristiche cliniche di una malattia reumatologica definita, tuttavia alcuni pazienti con NMOSD hanno una diagnosi di malattia di Tabella 2
Sjögren, lupus eritematoso sistemico o sindrome da anticorpi antifosfolipidi. In alcuni casi, i NMOSD possono manifestarsi come sindrome paraneoplastica. Sono stati descritti numerosi casi di pazienti con età maggiore di 50 anni con diagnosi di NMOSD e associata neoplasia, in cui è stata dimostrata l’espressione dell’AQP4 nelle cellule tumorali, reperto che supporta l’eziologia paraneoplastica (38).
Criteri diagnostici per Neuromyelitis optica spectrum disorders (NMOSD) 2015
Criteri per NMOSD con AQP4-IgG (+) 1. Almeno una manifestazione clinica tipica 2. Positività per AQP4-IgG usando il miglior test disponibile (test su substrato di cellule transfettate con DNA ricombinante fortemente raccomandato) 3. Esclusione di possibili diagnosi alternative Criteri per NMOSD negativa per AQP4-IgG o NMOSD nella quale non è stata effettuata ricerca di AQP4-IgG: 1. Almeno due manifestazioni cliniche tipiche, risultanti da un singolo o da multipli attacchi, che soddisfino i seguenti criteri: a. Almeno 1 manifestazione clinica deve essere: neurite ottica oppure mielite acuta con mielite trasversa estesa longitudinalmente (LETM) oppure sindrome dell’area postrema. b. “Disseminazione nello spazio”, dimostrata dalla presenza di 2 o più manifestazioni cliniche tipiche differenti (causate dal coinvolgimento da parte della malattia di due regioni anatomo-funzionali diverse). c. Criteri RMN soddisfatti, laddove applicabili (vedi sotto). 2. Test per AQP4-IgG negativo o non effettuato. 3. Esclusione di possibili diagnosi alternative. Manifestazioni cliniche tipiche: 1) Neurite ottica 2) Mielite acuta 3) Sindrome dell’area postrema: episodio caratterizzato da singhiozzo altrimenti non spiegabile o nausea e vomito difficilmente trattabili 4) Sindrome tronco-encefalica acuta 5) Narcolessia sintomatica o sindrome acuta diencefalica con lesioni RMN diencefaliche tipiche per NMOSD 6) Sindrome “cerebrale” sintomatica con lesioni RMN tipiche per NMOSD Criteri RMN, richiesti nelle forme AQP4-IgG negative per le seguenti manifestazioni cliniche tipiche: 1) N eurite ottica: alla RMN (a) reperti normali o anomalie aspecifiche, OPPURE (b) lesione iperintensa in T2 o captante mezzo di contrasto nelle sequenze T1 post-contrasto a livello del nervo ottico, che si estende per più di metà del nervo ottico o che coinvolge il chiasma; 2) M ielite acuta: evidenza RMN di lesione iperintensa nelle sequenze T2/FLAIR, che si estende per più di tre segmenti contigui (LETM) OPPURE atrofia focale del midollo spinale che si estende per più di tre segmenti contigui in pazienti con storia clinica compatibile con mielite acuta; 3) Sindrome dell’area postrema: evidenza RMN di lesioni del bulbo dorsale/area postrema; 4) Sindrome tronco-encefalica acuta: evidenza RMN di lesioni nelle regioni peri-ependimali del tronco-encefalo. Red Flags: 1. Decorso clinico progressivo, con accumulo dei deficit in modo indipendente rispetto agli attacchi 2. T empo atipico per raggiungere il nadir dell’attacco: meno di 4 ore (ischemia?), peggioramento progressivo per più di 4 settimane dall’inizio dell’attacco (neoplasia? sarcoidosi?) 3. Mielite trasversa parziale, specialmente se non associata a LETM (SM?) 4. Presenza di bande oligoclonali su liquor (nella NMO in meno del 20% dei casi, nella SM in più del 95% dei casi) (1)
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Test diagnostici per AQP4-IgG e MOG-IgG
I test diagnostici per AQP4-IgG con maggiore sensibilità e specificità si basano su metodiche di immunofluorescenza indiretta e citofluorimetria e utilizzano un substrato di cellule transfettate con DNA ricombinante umano codificante AQP4. La sensibilità e la specificità dei test diagnostici per gli anticorpi anti-MOG è ancora oggetto di studio. Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che i test più affidabili si basano su un substrato di cellule non fissate, transfettate con DNA ricombinante codificante l’isoforma umana completa di MOG. Inoltre l’utilizzo di anticorpi secondari specifici per la frazione Fc delle IgG umane sembra avere un’importanza critica per l’affidabilità del test (39).
Terapia
La strategia terapeutica dei pazienti con NMOSD si struttura in due fasi: una terapia della fase acuta e una terapia a lungo termine volta alla prevenzione delle recidive della malattia. Nella fase acuta il trattamento farmacologico di prima linea è costituito da metilprednisolone per via endovenosa ad alte dosi (1 g/ die per 5 giorni). Se il quadro clinico è severo e la risposta al metilprednisolone è solo parziale si associa terapia con plasma-
feresi (3-5 sedute). Le terapie immunomodulanti approvate per il trattamento della SM sono inefficaci nei NMOSD e in alcuni casi possono anche peggiorare il decorso della malattia. Non sono stati condotti studi clinici randomizzati in doppio cieco nei pazienti con NMOSD, per cui i dati disponibili sulle diverse opzioni terapeutiche si basano su studi osservazionali. L’azatioprina (2-3 mg/kg/die), associata almeno per i primi 6-12 mesi a prednisone per os, si è dimostrata efficace nel ridurre le recidive della malattia (40). Il rituximab, un anticorpo monoclonale specifico per la molecola CD20 espressa dai linfociti B, induce una deplezione selettiva di questa popolazione di linfociti responsabile della produzione degli anticorpi AQP4-IgG. Una recente metanalisi ha dimostrato l’efficacia del rituximab nel diminuire le recidive della malattia e nel migliorare la disabilità dei pazienti con NMOSD (41). Il micofenolato, la ciclofosfamide, il metotrexate e la ciclosporina sono alternative valide per la prevenzione a lungo termine delle recidive. Alcuni studi hanno evidenziato che il tocilizumab, anticorpo monoclonale anti-interleuchina-6, è efficace nel trattamento dei pazienti con NMOSD che non rispondono al rituximab. L’eculizumab, anticorpo monoclonale specifico per la frazione C5 del complemento si è dimostrato efficace nel ridurre le recidive dei NMOSD associati ad AQP4-IgG (42).
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Le crisi epilettiche sintomatiche acute secondarie a disturbi elettrolitici Inquadramento clinico-diagnostico e indicazioni terapeutiche Queste crisi si riscontrano con maggiore frequenza in pazienti con iponatremia, ipocalcemia e ipomagnesemia, e vanno considerate come una reazione acuta a un insulto sistemico. Le crisi sintomatiche acute secondare a disionia possono verificarsi in soggetti di qualsiasi età Francesco Brigo1,2, Monica Storti3, Raffaele Nardone4 1. Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento, Università degli Studi di Verona 2. Divisione di Neurologia, Ospedale Franz Tappeiner, Merano (BZ) 3. Divisione di Medicina Interna, Ospedale Franz Tappeiner, Merano (BZ) 4. Dipartimento di Neurologia, Christian Doppler Klinik, Paracelsus Medical University, Salisburgo, Austria. *Gli Autori hanno contribuito in misura eguale alla realizzazione di questo articolo
I
disturbi elettrolitici sono di frequente riscontro nella pratica clinica e, quando particolarmente gravi, possono manifestarsi con crisi epilettiche, che talora possono essere l’unico o il primo sintomo della sottostante disionia. Le crisi epilettiche si riscontrano più frequentemente in pazienti con iponatremia, ipocalcemia e ipomagnesemia [Castilla-Guerra et al., 2006; Nardone et al., 2016]. Di per sé tali crisi epilettiche non comportano una diagnosi di epilessia, in quanto non sono indicative di una persistente predisposizione del cervello a generare crisi epilettiche [Fisher et al., 2005], ma vanno piuttosto considerate come una reazione acuta a un insulto sistemico. Tali crisi dovrebbero pertanto essere classificate come crisi sintomatiche acute (crisi provocate o “reattive”) in quanto si
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verificano in stretta relazione temporale con il disturbo metabolico [Beghi et al., 2010]. In particolare, secondo la Lega Internazionale Contro l’Epilessia (ILAE) è possibile porre diagnosi di crisi epilettiche sintomatiche acute secondarie a disturbi elettrolitici qualora le crisi insorgano entro 24 ore dal riscontro della disionia [Beghi et al., 2010]. È quindi di particolare importanza, sebbene talora complesso, cercare di stabilire un nesso di causalità tra il disturbo elettrolitico riscontrato agli esami ematochimici e la crisi epilettica presentata dal paziente [Nardone et al., 2016]. La stretta relazione temporale è un elemento chiave per definire una crisi come provocata dalla disionia (crisi sintomatica acuta). Altri elementi da prendere in considerazione per determinare il nesso di causalità
Tabella 1
Criteri per stabilire un nesso di relazione causale fra disturbo elettrolitico e crisi epilettica
1. Associazione temporale: l´esposizione alla disionia deve precedere la comparsa della crisi epilettica. La crisi epilettica deve verificarsi entro 24 ore dalla comparsa o dal riscontro del disturbo elettrolitico.
2. Forza dell´associazione: l’incidenza di crisi epilettiche fra gli esposti alla disionia è più elevata della corrispondente incidenza nella popolazione di riferimento non affetta da disionia.
3. Specificità: l’associazione riguarda una specifica esposizione e un particolare disturbo elettrolitico. 4. Gradiente biologico: relazione dose-risposta tra crisi epilettica/che (durata, frequenza o rischio di comparsa) ed entità della disionia.
5. Plausibilità biologica: i meccanismi fisiopatologici che portano alla/e crisi epilettica/che sono correlati al disturbo elettrolitico e possono essere spiegati da esso.
tra i due fenomeni sono: la forza e la specificità dell’associazione, il gradiente biologico e la plausibilità biologica [Shorvon, 2011] (Tabella 1). Il gradiente biologico è spesso particolarmente difficile da valutare, soprattutto quando non ci si trovi di fronte a una disionia a insorgenza acuta. Attribuire con certezza una crisi epilettica a un disturbo elettrolitico subacuto o cronico è talora impossibile; in questi casi è opportuno tenere conto del quadro clinico complessivo e della presenza di altri fattori in grado di indurre crisi epilettiche [Nardone et al., 2016].
Fisiopatologia La funzionalità del sistema nervoso dipende dall’eccitabilità elettrica, a sua volta determinata da gradienti di voltaggio attraverso la membrana cellulare dei neuroni e delle cellule gliali. Il mantenimento di tali gradienti di voltaggio è garantito dal corretto funzionamento delle pompe ioniche. Alterazioni dei gradienti elettrolitici a livello delle membrane cellulari possono così avere effetti rilevanti sull’eccitabilità cellulare dei neuroni e delle cellule gliali, aumentando il rischio di crisi epilettiche [Schwartzkroin et al., 1998]. La probabilità che un disturbo elettrolitico si manifesti con sintomi e segni di interessamento neurologico, tra cui crisi epiletti-
Tabella 2
che, dipende dalla severità della disionia e dalla rapidità con cui essa si instaura. Disturbi elettrolitici a rapida insorgenza tendono a causare crisi molto più frequentemente rispetto a quelli che si instaurano più gradualmente [Castilla-Guerra et al., 2006; Nardone et al., 2016]. Inoltre l’età, il sesso, l’eventuale assunzione di farmaci e la presenza di comorbidità sono fattori in grado di influenzare il rischio di comparsa di crisi epilettiche secondarie a disionia. È pertanto difficile definire con precisione dei livelli “soglia” per le anomalie elettrolitiche oltre i quali vi sia un aumentato rischio di crisi epilettiche [Nardone et al., 2016] (Tabella 2).
Principali disturbi elettrolitici associati a crisi epilettiche Disturbi dell’osmolarità plasmatica e della sodiemia possono indurre la comparsa di una encefalopatia caratterizzata da alterazione dello stato di vigilanza di vario grado, confusione e cefalea, solitamente associati a segni di irritabilità corticale [Castilla-Guerra et al., 2006; Nardone et al., 2016]. L’iponatremia tende a manifestarsi con sintomi e segni di disfunzione neurologica (di grado variabile fino al coma, solitamente secondario all’edema cerebrale con erniazione), so-
Gradi di severità dei disturbi elettrolitici frequentemente associati a crisi epilettiche sintomatiche acute
Disionia
Lieve
Moderata
Severa
Iponatremia
130-134 mEq/L
125-129 mEq/L
<125 mEq/L
Ipernatremia
145-149 mEq/L
150-169 mEq/L
≥ 170 mEq/L
Ipocalcemia Ipercalcemia Ipomagnesemia
1,9-2,2 mEq/L 2,5-3 mEq/L
<1,9 mEq/L 3-3,5 mEq/L
0,8-1,6 mEq/L
3,5-4 mEq/L <0,8 mEq/L
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epilessia prattutto in caso di insorgenza acuta (<48 ore) o iperacuta. Le crisi epilettiche in corso di iponatremia sono solitamente di tipo generalizzato tonico-clonico, talora anche in forma di stato di male epilettico, e si verificano perlopiù quando le concentrazioni plasmatiche di sodio scendono rapidamente sotto i 115 mEq/L [Nardone et al., 2016]. Le crisi epilettiche in corso di Tabella 3
iponatremia hanno solitamente un significato prognostico sfavorevole, essendo gravate da una elevata mortalità. Le condizioni responsabili di iponatremia sono numerose (le principali sono riportate in Tabella 3). Tra queste va ricordato come l’utilizzo dei farmaci antiepilettici carbamazepina, eslicarbazepina e – soprattutto – oxcarbazepina, sia associato al rischio
Principali condizioni responsabili dei disturbi elettrolitici associati a crisi epilettiche
Disturbo elettrolitico
Principali cause
Iponatremia
Riduzione di volume Insufficienza cardiaca congestizia Cirrosi epatica Diarrea Condizioni che determinano un aumento dei livelli di ormone antidiuretico (ADH) Sindrome da inappropriata secrezione di ADH Insufficienza surrenalica Ipotiroidismo Gravidanza Recente intervento chirurgico Eccessivo introito idrico Farmaci Diuretici tiazidici, desmopressina, mannitolo, carbamazepina, oxcarbazepina, eslicarbazepina
Ipernatremia
Eccessiva perdita idrica Ridotta idratazione (infanti, anziani) Diarrea Diabete insipido centrale o nefrogenico Farmaci (mannitolo) Sovraccarico di sodio Soluzione ipertonica salina Spostamento dell´acqua (mediato da meccanismi osmotici) dallo spazio extracellulare all´interno della cellula Crisi epilettiche convulsive Esercizio fisico massivo
Ipocalcemia
Ipoparatiroidismo Post-chirurgico (tiroidectomia, paratiroidectomia) Idiopatico Secondario a ipocalcemia (insufficienza renale) Farmaci Bifosfonati Calcitonina Grave carenza di vitamina D Insufficiente apporto di calcio (malnutrizione) Infanti nati da donne con deficit di vitamina D
Ipercalcemia
Neoplasie Farmaci Diuretici tiazidici Intossicazione da vitamina D Litio Iperparatiroidismo primario
Ipomagnesemia
Deplezione di magnesio Diarrea Abuso di lassativi Farmaci (diuretici tiazidici e dell´ansa, ciclosporine, aminoglicosidi)
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di iponatremia clinicamente rilevante. Il monitoraggio della sodiemia in chi assume tali farmaci è particolarmente raccomandato in presenza di trattamento concomitante con diuretici depletori di sodio (tiazidici), condizioni a rischio di iponatremia, età avanzata, inspiegabile aumento nella frequenza delle crisi, o sintomi suggestivi di iponatremia (cefalea, malessere, confusione, sonnolenza). Un rapido incremento dei livelli sierici di sodio (ipernatremia) induce uno stato di iperosmolarità con disidratazione e raggrinzimento delle cellule neuronali, con la conseguente comparsa di emorragie cerebrali e subaracnoidee. Sia la disidratazione neuronale che le emorragie possono indurre la comparsa di crisi epilettiche [Nardone et al., 2016]. Va ricordato inoltre come anche le crisi epilettiche convulsive, specialmente se di lunga durata, possano di per sé essere causa di ipernatremia. L’ipercalcemia è una disionia molto più comune rispetto all’ipocalcemia, ma è meno frequentemente associata a crisi epilettiche [Nardone et al., 2016]. Ipercalcemia e ipomagnesemia sono accomunate dalla capacità di causare una encefalopatia caratterizzata da alterazione dello stato di vigilanza di vario grado, confusione, cefalea e segni di irritabilità corticale [Nardone et al., 2016]. Per converso, ipocalcemia e ipomagnesemia tendono a manifestarsi quasi esclusivamente con crisi epilettiche. I sintomi dell’ipocalcemia dipendono dalla severità della disionia e dalla sua rapidità di insorgenza. Le crisi epilettiche in corso di ipocalcemia sono solitamente di tipo generalizzato tonicoclonico, focale motorio, o assenza atipica (talora in forma di stato di male non-convulsivo). Tali crisi si possono verificare anche in assenza di tetania e ipereccitabilità neuromotoria e possono quindi rappresentare l’unico sintomo (e quello iniziale) dell’ipocalcemia [Nardone et al., 2016]. Il magnesio è un elettrolita dotato di effetti di stabilizzazione sulla membrana e di proprietà modulanti l’eccitabilità neuronale, attraverso le sue interazioni con i recettori glutamatergici di tipo NMDA e con i canali del calcio voltaggio-dipendenti. L’ipomagnesemia si manifesta generalmente con ipereccitabilità neuromuscolare, aritmie e crisi epilettiche (solitamente di tipo generalizzato tonico-clonico) [Nardone et al., 2016]. I bambini (soprattutto in età neonatale e infantile) sono particolarmente soggetti a sviluppare crisi epilettiche secondarie a ipomagnesemia [Nardone et al., 2016]. Disturbi della potassiemia (ipokaliemia o iperkaliemia) causano manifestazioni neurologiche cerebrali o crisi epilettiche solo in casi eccezionali, e perlopiù si esplicano in aritmie o debolezza muscolare di vario grado [Nardone et al., 2016]. Il medico generalista e il neurologo devono conoscere le condizioni responsabili delle principali disionie, in modo da poter operare una adeguata e tempestiva correzione del disturbo metabolico.
Manifestazioni cliniche Le crisi epilettiche secondarie a disturbi elettrolitici sono so-
litamente di tipo generalizzato tonico-clonico, sebbene si possano verificare anche crisi focali [Castilla-Guerra et al., 2006; Nardone et al., 2016]. In un’ampia casistica di 375 soggetti adulti con stato di male epilettico generalizzato convulsivo, disturbi metabolici (tra cui disordini elettrolitici) venivano identificati come il principale fattore eziologico nel 10 per cento dei casi; la mortalità in questi soggetti era particolarmente elevata (40 per cento) [DeLorenzo et al., 1992]. Crisi sintomatiche acute secondarie a disionia possono verificarsi a qualunque età, inclusa quella infantile [Hirtz et al., 2000].
Approccio diagnostico Una valutazione biochimica per escludere la presenza di un sottostante disturbo elettrolitico deve essere effettuata in maniera sistematica in ogni paziente con crisi epilettica, soprattutto se di nuova insorgenza. Particolare attenzione deve essere rivolta all’identificazione di un disturbo della sodiemia, calcemia e magnesemia [Castilla-Guerra et al., 2006; Nardone et al., 2016]. Tali indagini rivestono particolare importanza nel bambino, soprattutto in presenza di diarrea, vomito o disidratazione, o qualora non vi sia stato un completo recupero dello stato di vigilanza dopo la crisi epilettica [Hirtz et al., 2000]. Allo stesso modo, una valutazione degli elettroliti è di fondamentale rilevanza nel soggetto anziano, considerando che in tali soggetti fino al 30 per cento delle crisi epilettiche sintomatiche acute si verifica come conseguenza di un disturbo tossico-metabolico [LaRoche et al., 2003]. Dal punto di vista funzionale, gli effetti cerebrali indotti dalla disionia possono essere valutati mediante una registrazione elettroencefalografica (EEG). Solitamente, l’EEG evidenzia un rallentamento del ritmo di fondo, la cui entità correla con la gravità della sottostante encefalopatia metabolica [Nardone et al., 2016]. Il grado e la severità delle anomalie elettroencefalografiche tendono di solito a rispecchiare la rapidità di insorgenza della disionia, più che i livelli sierici dell’elettrolita coinvolto [Nardone et al., 2016]. Le anomalie EEG riscontrate hanno tuttavia una scarsa specificità nella diagnosi differenziale tra encefalopatie metaboliche di diversa eziologia, che infatti tendono a manifestarsi con pattern EEG aspecifici (rallentamento dell’attività di fondo di vario grado, anomalie epilettiformi, attività lenta ritmica, comparsa di onde lente trifasiche [Brigo, 2011; Brigo, Storti, 2011]).
Gestione terapeutica A differenza delle crisi epilettiche non provocate, le crisi epilettiche secondarie a disturbi elettrolitici non sono necessariamente caratterizzate dalla tendenza alla recidiva, a meno che la condizione eziologica sottostante (ossia la disionia) non si ripeta o persista nel tempo [Beghi et al., 2010]. Tuttavia le crisi sintomatiche acute sono gravate da una mortalità in fase acuta molto superiore rispetto a quella delle crisi non provocate [Hesdorffer et al., 2009]. È pertanto fondamentale identificare la neurologia italiana
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epilessia tempestivamente la presenza del disturbo elettrolitico e la condizione che lo ha provocato al fine di impostare un’adeguata correzione della disionia, rimuovendo così la causa delle crisi. Una accurata e dettagliata descrizione del trattamento dei principali disturbi elettrolitici si può ritrovare in trattazioni specifiche sull’argomento. Va comunque ricordato come la correzione dell’iponatremia debba essere eseguita con estrema prudenza. Le concentrazioni di sodio dovrebbero essere corrette a una velocità di 0,5 mE/L/ora, con l’obiettivo iniziale di raggiungere valori di sodiemia compresi tra 120 e 125 mEq/L. Un trattamento più aggressivo comporta infatti il grave rischio di una sindrome da demielinizzazione osmotica, caratterizzata da un’importante compromissione neurologica con tetraparesi, disartria, disfagia, coma e morte [Nardone et al., 2016].
La maggior parte dei pazienti con crisi sintomatiche acute secondarie a disturbo elettrolitico presenta un basso rischio di recidiva e quindi non necessita di un trattamento antiepilettico prolungato [Beghi et al., 2010]. Tuttavia, in rari casi - soprattutto qualora la correzione dello squilibrio debba essere effettuata molto lentamente o la disionia sia molto grave - può essere indicata la somministrazione di farmaci antiepilettici. In tal caso, la scelta dovrebbe ricadere su farmaci di rapida efficacia, facile modalità di somministrazione e privi di effetto sugli elettroliti sierici. Nella maggior parte dei casi, comunque, l’adeguata correzione del sottostante disturbo elettrolitico non rende necessaria l’instaurazione o la prosecuzione di un trattamento antiepilettico [Beghi et al., 2010; Nardone et al., 2016].
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olti studi scientifici, negli ultimi anni, hanno messo in evidenza come in persone con sclerosi multipla (PwMS) vi sia un’elevata incidenza di depressione. Gli stessi Autori dei suddetti studi evidenziano come questi presentino importanti limiti metodologici. In alcuni casi dovuti alla ridotta numerosità del campione, sia dei soggetti sperimentali che dei controlli ma, soprattutto, legati ai metodi e agli strumenti utilizzati. Spesso, infatti, vengono usati, come strumenti atti a identificare la presenza di depressione, questionari di stato, i cui risultati non possono certo essere considerati come diagnostici circa la presenza di sindrome depressiva, ma unicamente indicativi della presenza e della gravità della sintomatologia depressiva. Inoltre, un aspetto confondente è rappresentato dal fatto che spesso nella clinica e nei trials sperimentali i
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sintomi depressivi sono gli unici aspetti psicopatologici misurati, a scapito della possibile presenza di sintomatologia psicologica di altro genere, ovvero di vissuti di benessere e di appagamento. Studi più recenti hanno, finalmente, iniziato a considerare le possibili correlazioni con tratti di personalità e presenza di sintomi depressivi o altri sintomi psicopatologici. A conferma della parziale attendibilità e specificità degli studi sopradetti, sono i risultati che mettono in evidenza un’importante variabilità relativamente all’incidenza di depressione in PwMS (20-50 per cento). Alcuni studi riportano anche una maggiore incidenza di atti suicidari tra PwMS, ma va specificato come le persone con tale propensione e che hanno attivamente commesso l’atto autolesivo, vengono descritte come sole, senza rapporti sociali, avvezze all’abuso di alcolici e quindi da verificare se fos-
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se corretta la diagnosi di depressione. Recenti pubblicazioni di matrice psicologica hanno evidenziato grazie a uno studio multicentrico su un vasto campione di PwMS e caregivers come vi sia una relativa maggiore incidenza di sintomi depressivi tra le persone con SM, ma come siano presenti vissuti di benessere e descritti episodi di intenso stato di piacere percepito. La scarsa integrazione tra scienza medica e psicologica è, in parte, causa di alcune limitazioni che si identificano sia nella pratica clinica che nella ricerca. Un importante limite alla conoscenza e quindi alla possibilità di capire e di curare, o meglio di prendersi cura, è strettamente legato alla modalità interpretativa basata sul dualismo cartesiano. Lo stile di pensare e di operare legato a queste credenze ha influenzato e continua a influenzare la ricerca e la pratica medica con il risultato che le conseguenze psicologiche delle malattie del corpo in senso stretto vengono spesso trascurate, o prese in considerazione solamente in un secondo momento, e ancora più negletti rimangono i fenomeni inversi, ovvero, i possibili effetti somatici del disagio psichico. Teorie scientifiche recenti hanno cercato di superare la visione cartesiana. Come suggerisce, infatti, A. Damasio, il cervello non può essere studiato senza tener conto dell’organismo cui appartiene e dei suoi rapporti con
Figura 1. Schema della mente umana
l’ambiente. L’errore di Cartesio è stato quello di non capire che la natura ha costruito l’apparato della razionalità non solo al di sopra di quello della regolazione biologica, ma anche a partire da esso e al suo stesso interno. Anche G. Bateson, criticando il dualismo cartesiano, afferma che la mente è una totalità tenuta insieme dalla circolazione d’informazioni. Descrive l’esistenza di un vasto “conoscere integrato” che caratterizza l’unità della biosfera di cui il processo individuale cognitivo rappresenta una piccola parte. Colloca la mente in stretto contatto con il corpo, ma anche con l’ambiente. Ancor più recentemente V. Guidano afferma che non esistono “cause” in grado di provocare certe specifiche reazioni nel soggetto; al contrario è il modo di funzionare del soggetto che consente a un evento (individuato come “causa”) di produrre proprio una certa reazione. L’ordinamento della realtà è un principio inerente alla dinamica della vita stessa, conoscere diventa indistinguibile dall’esistere.
Una questione rilavante attiene all’ipotesi che l’espressione di depressione possa essere associata a specifiche lesioni del Sistema Nervoso Centrale (SNC). Gli studi condotti in merito, in particolare un recente lavoro di Feinstein, hanno rilevato come tra le PwMS vi siano evidenze in favore di una possibile associazione tra depressione e interessamento neuropatologico nelle aree cerebrali anteriori temporo-parietali di sinistra.
L’ORGANIZZAZIONE DELLA CONOSCENZA Con il termine conoscenza s’intende la modalità con la quale l’essere umano entra in rapporto con se stesso e con l’ambiente in cui vive e attribuisce significati ai propri stati interni ed agli avvenimenti esterni (Figura 1). La conoscenza è indispensabile per percepire l’ambiente esterno, per modificare stati interni, per costruire piani, per agire nel mondo; non basta possedere la conoscenza, ma determinante è la capacità di usarla. Possiamo conside-
rare la conoscenza come un sistema complesso caratterizzato da un substrato genetico e sul quale incidono significativamente le situazioni di reciprocità, ricercate attivamente dall’individuo. L’integrazione fra i sistemi porta a un’attività cognitiva complessa che funziona tanto meglio quanto più si riesce a stabilire un equilibrio dinamico fra le parti. Si può quindi capire come avvenimenti stressanti, fonti di fluttuazioni, saranno tali solo per alcune persone e non per altre, a seconda delle aspettative consentite dalle singole modalità organizzative. Dire che il sistema di conoscenza dell’uomo è in equilibrio significa dire che esso si equilibra oscillando e si adatta alle richieste dell’ambiente. Quanto più la nostra organizzazione personale sarà elastica e adattabile tanto maggiore sarà la possibilità di ristrutturarsi di fronte a oscillazioni intense e a eventi percepiti come stressanti. Fin dall’inizio l’organizzazione della conoscenza appare del tutto individuale e differenziata, perché uniche e differenti sono le esperienze di interazione
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Neuropsicologia di ciascun essere umano. Per l’avvio e il progredire dello sviluppo della conoscenza è indispensabile la ricerca continua di una figura materna che dia accudimento. Questa interazione diadica, che è stata ampiamente studiata e che viene definita attaccamento, ha inizio fin dai primi momenti dello sviluppo fetale e caratterizza l’attività dell’essere umano “dalla culla alla tomba” (Bowlby, 1979). L’attaccamento sembra anche essere la base di regolazione dell’interazione fra i vari sistemi di un’organizzazione in via di sviluppo. A modalità differenziate nello stabilire la reciprocità, sembra corrispondere un’iniziale impostazione diversificata dell’impalcatura della conoscenza. A diversi stili di attaccamento corrisponde l’organizzazione di schemi cognitivi di base, che ritroviamo nel modo di raccontarsi, di comportarsi, di interagire ecc. Credo, a questo punto possa essere utile procedere con un approfondimento psicologico circa la natura e il significato del disturbo depressivo, tenendo in considerazione che l’essere umano è un individuo complesso e che complessa e composita è la sintomatologia della sclerosi multipla.
L’ORGANIZZAZIONE COGNITIVA DI TIPO DEPRESSIVO È importante considerare come le diverse organizzazioni di personalità venutesi a costituire come sopra esposto, non conducano necessariamente allo sviluppo di un disturbo. Si può dire che l’organizzazione di personalità costituitasi, predisponga, qualora il sistema si scompensi, a una sintomatologia riconducibile allo stile di organizzazione (depressiva, fobica, ossessiva ecc.). L’organizzazione depressiva definisce un modo particolare di ordinare stabilmente il flusso dell’esperienza, le attribuzioni di significato, le conoscenze personali; tale modalità viene vissuta in modo egosintonico dal soggetto e non porta necessariamente a sentimenti di intensa sofferenza.
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La sindrome depressiva indica, invece, l’emergere, generalmente episodico, di forti emozioni legate alle dimensioni di colpa, vergogna e rabbia e vissute con un pervasivo senso di tristezza e di disperazione. Tale situazione costituisce, pertanto, una perturbazione dell’equilibrio personale e può evolvere sia verso esiti di cambiamento che permettono di assestarsi su un equilibrio più funzionale (crisi utile), sia verso un collasso delle capacità di organizzare in modo adattivo la visione del mondo e il senso dell’esistenza. In altri termini, una persona può mostrare un’organizzazione depressiva senza presentare crisi depressive, mentre altre persone possono vivere una crisi depressiva pur non presentando questa organizzazione di personalità. In alcuni casi, ad esempio, una crisi depressiva può essere una risposta fisiologica a gravi eventi di perdita o comunque di cambiamento destrutturante, anche in assenza di una predisposizione personale alla depressione.
PECULIARITà DELLA SM Come noto la SM è una malattia autoimmune, cronica e demielinizzante che interessa il sistema nervoso centrale e comporta un ampio spettro di segni e sintomi. In tale contesto la diagnosi di disturbo depressivo appare ancora più complicato, proprio per il fatto che alcuni sintomi tipici della malattia neurologica possono avere manifestazione analoga ad alcuni sintomi depressivi. Frequentemente le PwMS lamentano fatica, spossatezza, riduzione del sonno e dell’appetito; tipico può essere anche il rallentamento esecutivo e la riduzione della funzionalità mnemonica oltre alla presenza di disordini della sfera sessuale. Da non sottovalutare che la maggior parte delle PwMS fa uso di terapie farmacologiche (immunomodulanti, immunosoppressive, terapia steroidea e altre terapie sintomatiche), il cui beneficio non è scevro da possibile interferenza chimica e psicologica sulla persona.
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COME VALUTARE LA DEPRESSIONE NELLE PwMS Per valutare l’organizzazione di personalità è necessario condurre un assessment di tipo psicodiagnostico. Lo strumento elettivo disponibile allo psicologo/psicoterapeuta è il colloquio psicologico clinico al quale si associano questionari di personalità o test proiettivi. Lo scopo è fare emergere i tratti personologici, non necessariamente la presenza di elementi psicopatologici. Nelle PwMS è possibile che, a seconda della forma di malattia, della durata e della gravità dei sintomi, alcuni aspetti strutturali della personalità possano risultare difficilmente inquadrabili. Spesso, infatti, il momento della diagnosi rappresenta per le persone coinvolte un blocco, o un secondo punto di partenza a causa di possibile mancanza o riduzione di continuità dell’identità personale e della coerenza nella narrazione di sé. La considerazione e quantificazione della sintomatologia depressiva si basa, senza prescindere da un colloquio d’inquadramento psicologico, sui risultati di questionari di stato che hanno lo scopo di fare emergere la presenza e l’entità di sintomi appartenenti all’area depressiva. È chiaro come le PwMS possano presentare sintomi quali stanchezza, fatica fisica e cognitiva, disturbi del sonno, rallentamento ideativo e procedurale, disturbi di memoria e della sfera sessuale che possono essere confusi con sintomi depressivi e viceversa. È pertanto fondamentale che il neurologo che segue le PwMS sia attento circa la possibile presenza di sintomi depressivi e che lo psicologo/psichiatra sia competente circa la SM. Per determinare, invece, la presenza di disturbo depressivo maggiore è necessario, oltre alla conduzione di colloquio psicologico clinico l’esecuzione di un’intervista strutturata facente riferimento a quanto riportato nel compendio psichiatrico DSM-V. Per far
diagnosi di disturbo depressivo risulta, infatti, necessario soddisfare i criteri previsti nel DSM. Elementi importanti da considerare sono i criteri d’esclusione, ovvero la differenziazione che deve essere fatta tra disturbo depressivo maggiore e: - disturbo dell’umore dovuto a una condizione medica generale; - disturbo dell’umore indotto da sostanze; - disturbo distimico; - disturbo schizoaffettivo; - sintomi cognitivi. Anche in questo caso vale quanto detto sopra e nello specifico caso si segnala, inoltre, come sia da tenere in considerazione lo stato della PwMS circa il proprio andamento di malattia (presenza di attività di malattia, lesioni captanti alla RMN) e la concomitanza di trattamenti farmacologici (disease modifying e steroidei) con possibile sviluppo di sintomi iatrogeni.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Considerando quindi quanto sopra riportato risulta chiaro come sia estremamente complesso comprendere il significato dei sintomi e delle manifestazioni comportamentali e psicologiche di un individuo. Molteplici sono gli elementi e i livelli da considerare nell’approccio clinico al paziente con sclerosi multipla. Ci troviamo, infatti, di fronte a un individuo - sistema complesso non lineare – e la condizione malattia rappresenta, a sua volta, un insieme di variabili che possono avere diversa espressione nella tipologia, nella gravità e nell’andamento. Quindi possiamo avvalerci di punti di riferimento che provengono dalle evidenze della ricerca e della clinica in ambito neurologico, neuropsicologico, della psicologia, e della psicoterapia, senza dimenticare la complessità intrinseca allo studio dei sistemi non lineari:…“sistemi strutturalmente identici possono manifestare comportamenti selvaggiamente diversi” (M. Cini), e ciò non rappresenta un limite, ma una risorsa per lo sviluppo della conoscenza”.
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Malattia di Niemann-Pick tipo C Le raccomandazioni aggiornate per un corretto percorso diagnostico
n Stefano De Santis, Direzione Medica Actelion Pharmaceuticals Italia, Imola n Vincenzo Di Lazzaro, Unità Operativa di Neurologia, Università Campus Bio-Medico, Roma Negli ultimi anni, grazie a maggiore consapevolezza riguardo all’importanza di alcuni segni e sintomi neurologici, unitamente alla scoperta di nuovi biomarkers, il percorso diagnostico della malattia di Niemann-Pick tipo C (NP-C) è profondamente mutato. Le raccomandazioni appena pubblicate tengono ovviamente conto di tutto ciò, offrendo utili strumenti nella fase di sospetto clinico, screening e diagnosi, con un algoritmo finale completamente rivisto. Un primo significativo elemento riguarda l’età di insorgenza; la NP-C non deve essere più considerata una patologia di interesse pediatrico bensì una malattia che non raramente interessa l’età adulta. Pazienti NP-C possono celarsi all’interno di più ampi gruppi clinici “clinical niches”, che devono richiamare l’attenzione dello specialista, specie in presenza di una combinazione di due o più segni/sintomi neurologici. In sede di esame obiettivo è imperativo procedere a un’accurata valutazione neuro-oftalmologica, con particolare attenzione ai movimenti saccadici volontari. Il Suspicion Index (SI), carta del rischio per quantificare la probabilità di una condizione di NP-C, è stata anch’essa aggiornata e resa ancora più affidabile, con una versione specifica per le forme di esordio in epoca pediatrica precoce (0-4 anni). I prodotti di ossidazione non enzimatica del colesterolo (ossisteroli) e forme N-deacetilate degli sfingolipidi (lisosfingomielina 509) sono importanti biomarkers che hanno reso ancora più facile la fase di screening, ampliando la platea di pazienti potenzialmente interessati a tale verifica. La disponibilità, infine, di tecniche di genetica molecolare sia di primo che di secondo livello, permettono nella quasi totalità dei casi di pervenire a una definizione diagnostica. Nell’immediato, quindi, sulla base delle importanti novità a disposizione dei clinici specialisti è lecito attendersi una più agevole diagnosi della NP-C con conseguente tempestivo inizio della terapia e una migliore qualità di vita dei pazienti.
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e prime raccomandazioni internazionali riguardo la gestione clinica della NP-C furono redatte nel 2009 (24) sulla base della revisione della letteratura e il consenso da parte di un panel di esperti, e successivamente aggiornate nel 2012 (13). Le recenti acquisizioni sia nell’ambito dello screening iniziale che nella fase diagnostica hanno indotto a rilasciare un nuovo aggiornamento (12). La malattia di Niemann-Pick tipo C (NP-C) è un raro disturbo lisosomiale neuro-viscerale causato da una mutazione a carattere autosomico recessivo del gene NPC1,
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condizione questa di comune riscontro nel 95 per cento dei pazienti, o del gene NPC2 (20). Sotto il profilo epidemiologico l’incidenza stimata è di 1/92.104 per NPC1 e 1/2.858.998 per NPC2 (21). Un importante dato ormai evidente è che la NP-C non debba essere più considerata una malattia di esclusiva pertinenza pediatrica, bensì una patologia che interessa anche la popolazione adulta con una incidenza stimata, per le due varianti NPC1 più comuni di 1/36.000 nelle forme late-onset (12,21). Tuttora, inoltre, la NP-C in relazione all’eterogeneità e non specificità del suo quadro sintoma-
Tabella 1
Gruppi clinici “a rischio” ove possono trovarsi i pazienti affetti dalla malattia di Niemann- Pick tipo C (NP-C)
Clinical niches con rischio aumentato di NP-C
Segni ai quali prestare la massima attenzione • Precocità di esordio (età <40 anni) • “Atassia plus”: coesistenza di declino cognitivo, disturbi psichiatrici, distonia, paralisi sopranucleare della saccade (sguardo) verticale (VSSP) • Atassia a eziologia sconosciuta • Atassia in assenza di neuropatia
Atassia
Disturbo cognitivo lieve
• Precocità di esordio (età <40 anni) • Sintomatologia neurologica associata: atassia, distonia, VSSP • Precocità di esordio (età <40 anni) • Distonia generalizzata • “Distonia plus”: coesistenza di declino cognitivo, disturbi psichiatrici, VSSP
Distonia
Sintomatologia psichiatrica a esordio precoce
• Sintomatologia neurologica associata: atassia, distonia, VSSP, disturbo cognitivo • Presente farmaco-resistenza
Demenza fronto-temporale
• Precocità di esordio (età <40 anni)
Ritardo nello sviluppo psicomotorio
• Interessamento degli organi ipocondriaci (riscontro di splenomegalia e/o epatomegalia)
Sintomatologia viscerale
• Splenomegalia, colestasi, epatosplenomegalia (soprattutto se non vi è una chiara definizione eziologica) • Sintomatologia neurologica associata: atassia, distonia, VSSP
Fonte: modificata da Patterson et al. Neurol Clin Pract 2017; 7: 1-13
tologico, presenta un ritardo diagnostico medio, dall’esordio dei sintomi/segni neurologici di 4-5 anni e oltre (14,18) con evidente ripercussione negativa sull’efficacia terapeutica successiva.
I gruppi clinici a rischio: il quadro sintomatologico al quale prestare attenzione La suddetta mancanza di specificità sintomatologica implica che pazienti NP-C possano celarsi all’interno di più ampi gruppi clinici che le recenti raccomandazioni conTabella 2
siderano gruppi clinici a rischio. Sono stati individuati, infatti, segni/quadri sintomatologici principali “clinical niches” (5,12) in presenza dei quali la NP-C deve essere sempre presa in considerazione nel percorso di diagnosi differenziale. Il sospetto trova ulteriore sostegno se ai suddetti segni si associano, a completamento del quadro clinico, ulteriori specifici elementi sintomatologici (Tabella 1) (12). Da evidenziare ancora una volta come l’inquadramento clinico di questi pazienti necessiti di un estremo rigore procedurale (Tabella 2). L’atassia dovuta essenzialmente al coinvolgimento cerebellare, è un segno di comune riscontro nei pazienti NP-C
Individuazione iniziale e gestione del paziente
I pazienti con il sospetto di NP-C necessitano di un rigoroso e completo inquadramento clinico come descritto nelle raccomandazioni del 2012 Le manifestazioni, viscerali, neurologiche, oftalmologiche e psichiatriche devono essere analizzate e studiate in modo approfondito I pazienti non diagnosticati con qualsiasi manifestazione di NP-C devono essere indirizzati a un centro di riferimento regionale/nazionale per la malattie metaboliche ereditarie Fonte: modificata da Patterson et al. Neurol Clin Pract 2017; 7: 1-13
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Figura 1. L’algoritmo diagnostico aggiornato per la malattia di Niemann-Pick tipo C
(16,17); massima attenzione va posta alle forme a esordio precoce e in presenza di altri segni/sintomi neurologici associati quali, iniziale declino delle funzioni cognitive, distonia, quadro di tipo psichiatrico. La presenza di un disturbo soggettivo di memoria o comunque un perturbamento delle funzioni cognitive costituisce un altro aspetto frequente in questa tipologia di pazienti. L’esordio precoce e/o l’associazione con altri segni (atassia), anche in questo caso, rende ancora più robusto il sospetto clinico. La letteratura ci dà altresì conto di come i sintomi psichiatrici siano presenti con percentuali significative nei pazienti adulti NP-C (2,10,17). Infatti, un terzo e oltre delle forme NPC adolescenziali/adulte, esordisce con un quadro sintomatologico di tipo psichiatrico: il suddetto
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fenotipo precede, talora anche di anni, eventuali segni/ sintomi neurologici (8). La sintomatologia è composta spesso da disturbi dello spettro della schizofrenia, non raramente con caratteristiche atipiche, nonché da disturbi dell’umore (10). Non è rara la presenza di un disturbo del movimento come la distonia (1); le recenti raccomandazioni segnalano, inoltre, come la combinazione con altri segni/sintomi neurologici impongano allo specialista di porre la massima attenzione riguardo la NP-C (12). Altri disturbi del movimento come il mioclono, devono essere comunque tenuti in considerazione, in sede di diagnosi differenziale (9). È ormai evidente, nella storia naturale della malattia di Niemann-Pick tipo C, l’instaurarsi di un precipuo
interessamento del nucleo interstiziale rostrale del fascicolo longitudinale mediale (riMLF, centro di controllo del movimento coniugato dello sguardo verticale) con conseguente alterazione del movimento verticale dello sguardo. È perciò cruciale, durante la valutazione neurologica, procedere a un’attenta valutazione della funzionalità oculomotoria ricordando che il movimento lento di inseguimento è conservato nei pazienti NP-C mentre è la saccade verticale volontaria la prima a essere interessata e pertanto, necessita di scrupolosa valutazione funzionale al fine di intercettare prontamente questo segno altamente suggestivo di NP-C. Un rallentamento del suddetto movimento saccadico, può essere mascherato dal “blinking” palpebrale perciò è buona norma, durante l’esame, tenere ferme in alto le palpebre. Per quanto attiene la popolazione pediatrica l’interessamento viscerale epato-splenico, Tabella 3
zioni aggiornate, tiene conto di tutto ciò (Figura 1). Il sospetto clinico di NP-C può essere ora valutato in modo estremamente semplice e affidabile attraverso una carta del rischio: il Suspicion Index (SI) (23). Tale metodologia, disponibile in formato elettronico per PC (www. npc-si.com) e smartphone (scaricabile gratuitamente dagli store per Apple e Android), mette in relazione segni e sintomi delle tre principali categorie che compongono il fenotipo clinico della NP-C: interessamento viscerale, neurologico e psichiatrico, alle quali si affiancano alcuni dati anamnestici familiari. Il SI consta ora di due versioni, una per la popolazione adulta (6) e un’altra per quella pediatrica (età 0-4 anni) (15). Sulla base del punteggio ottenuto ciascun paziente viene stratificato in base al rischio: in presenza di un rischio moderato per NP-C è buona norma contattare il centro esperto per una valu-
Raccomandazioni per la definizione diagnostica mediante metodiche di genetica molecolare per NPC1 e NPC2
Riscontro genetico
Raccomandazioni
2 mutazioni patogenetiche
Conferma dell’eterozigosi attraverso la segregazione allelica parentale
1 mutazione patogenetica e 1 variante di significato sconosciuto
Conferma dell’eterozigosi attraverso la segregazione allelica parentale Conferma del sospetto clinico elevato (segni/sintomi clinici e profilo biomarker) ed esecuzione del filipin staining Esecuzione di test di genetica molecolare addizionali: sequenziamento intero gene, MLPA, sequenziamento DNA complementare
1 sola mutazione patogenetica oppure 1 sola variante di significato sconosciuto
Conferma del sospetto clinico elevato (segni/sintomi clinici e profilo biomarker) ed esecuzione del filipin staining Esecuzione di test di genetica molecolare addizionali: sequenziamento intero gene, MLPA, sequenziamento DNA complementare
Nessuna mutazione patogenetica
Esecuzione di test di genetica molecolare addizionali: sequenziamento intero gene, MLPA, sequenziamento DNA complementare Conferma del sospetto clinico elevato (segni/sintomi clinici e profilo biomarker) ed esecuzione del filipin staining
Fonte: modificata da Patterson et al. Neurol Clin Pract 2017; 7: 1-13
il riscontro di un ittero neonatale prolungato con iperbilirubinemia coniugata, sono manifestazioni che devono essere prese in considerazione ai fini di una tempestiva diagnosi di NP-C. Un ritardo nello sviluppo psicomotorio, ovvero il palesarsi di una disabilità intellettiva, costituiscono, altresì, dei sintomi di allarme che impongono un rigoroso inquadramento neuropsichiatrico.
Lo screening e la diagnosi Gli ultimi anni hanno visto l’acquisizione di importanti e utili novità per quanto attiene il sospetto iniziale, la fase di screening e la definizione diagnostica finale. Il nuovo algoritmo diagnostico (12) presente nelle raccomanda-
tazione del caso mantenendo un rigoroso monitoraggio clinico del paziente. In caso di sospetto elevato l’invio del paziente a un centro di riferimento per la conferma diagnostica, è imperativo. In caso di atassia a esordio precoce, il “2 di 3” del SI permette una rapida valutazione. In questa specifica condizione, si assegna un punto per ciascuna delle tre manifestazioni eventualmente presenti: VSGP, declino cognitivo e distonia. Un punteggio di 2 è indicativo di un sospetto elevato di NP-C (19) . Il nuovo algoritmo assegna una maggiore intrinseca valenza ai biomarkers per la NP-C, il cui impiego è indicato nelle fase iniziali di screening (12). Gli ossisteroli: colestano-3ß,5α,6ß-triolo (C-triolo) e 7-ketocolesterolo (7-KC), la cui titolazione avviene attraverso un prelievo la neurologia italiana
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ematico, risultano elevati nei pazienti NP-C (7), con una più elevata sensibilità e specificità del C-triolo. Una forma N-deacetilata degli sfingolipidi (22), la lisosfingomielina 509 risulta, altresì, elevata in questi pazienti (3). La quantificazione di tale forma può essere eseguita attraverso un campione di sangue secco (dried blood spot, DBS), per una maggiore semplicità di acquisizione e spedizione del campione. Recentemente infine, è stato dimostrato un incremento, nei pazienti NP-C, di uno specifico acido biliare, la cui titolazione può essere fatta su diverse tipologie di campioni: plasma, DBS, urina (11). L’accertamento genetico si conferma tappa cruciale nel percorso diagnostico in questa tipologia di pazienti. Le metodiche di sequenziamento, che rappresentano il primo livello di indagine, sono frequentemente in grado di documentare la presenza di due mutazioni patogenetiche su entrambi gli alleli a conferma del sospetto clinico di malattia di Niemann-Pick tipo C. Accertamenti di genetica molecolare di secondo livello si rendono necessari in tutti i casi per i quali le metodiche di primo livello
non hanno permesso una chiara definizione diagnostica (Tabella 3). Il test del filipin staining, a fronte dei recenti sviluppi, ha visto ridursi il suo campo di applicazione. Nel nuovo algoritmo, infatti, il suddetto test trova giustificazione, come metodica opzionale nei casi in cui l’inquadramento genetico non ha documentato la presenza dei due alleli mutati. A tale riguardo, come riportato nell’algoritmo diagnostico (12), il mancato rilevamento di una duplice mutazione patogenetica a fronte, però, di una positività dei biomarkers coniugata con altri elementi “probatori” non impedisce la diagnosi di malattia di Niemann-Pick tipo C.
Conclusioni È del tutto evidente come le recenti innovazioni consentiranno una più agevole identificazione dei pazienti affetti da malattia di Niemann-Pick tipo C. L’auspicio è di poter ridurre il ritardo diagnostico così da garantire una più valida azione terapeutica e una migliore e stabile qualità di vita a questa popolazione di pazienti.
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Adrenoleucodistrofia Una patologia altamente invalidante, ancora misconosciuta A cura di Tania Sabatino
L’
adrenoleucodistrofia è una malattia genetica rara altamente invalidante, legata al cromosoma X (X-ALD), ed è un difetto perossisomiale. Gli effetti della patologia sono una demielinizzazione del sistema nervoso centrale, cioè alterazione delle guaine mieliniche, con compromissione nella conduzione degli impulsi nervosi provenienti dal cervello e conseguenti disturbi motori e sensitivi. Attualmente purtroppo, si contano circa 200 pazienti diagnosticati su 3.500 attesi, essendovi un’incidenza di 1/17mila nati vivi per anno. “La mutazione del gene ABCD1– spiega Marco Cappa, responsabile dell’Unità Operativa di Endocrinologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma – provoca un accumulo di acidi grassi a catena lunga e molto lunga nel surrene, determinando la malattia di Addison, e nel sistema nervoso centrale, generando una progressiva perdita di mielina”. I 200 pazienti diagnosticati, a fronte delle migliaia di malati attesi, rende evidente l’esistenza di un gap “pericoloso”, fra diagnosi attese e reali. Indicatore che la stragrande maggioranza dei pazienti è oggetto di una mancata diagnosi o di errore diagnostico. I motivi parrebbero risiedere nei sintomi aspecifici e in un’evoluzione molto imprevedibile, tali da rendere questa patologia subdola e sfumata con molte altre. “Laddove si presentino sintomi isolati – spiega Cappa – non associati tra loro, è oggettivamente molto difficile per uno specialista ricondurli a una diagnosi di adrenoleucodistrofia. In linea generale, ad esempio, i neuropsichiatri infantili potrebbero attribuire alcune alterazioni comportamentali tipiche della malattia, come un’estrema irritabilità, a disturbi dell’attenzione o sindromi da iperattività, che cominciano a essere evidenti soprattutto in ambito scolastico”. Secondo gli esperti nell’ambito del trattamento della patologia, inoltre, l’ALD, nella sua forma infantile, che è anche la più devastante e rapida nei danni provocati a livello cerebrale, potrebbe essere, per esempio, erroneamente inviata allo specialista otorinolaringoiatra, per riduzione dell’udito o dermatologo per un’alopecia precoce. “Nella forma adulta – continua Cappa – generalmente la progressione della malattia è molto più
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lenta, tranne in alcune rare forme cerebrali molto gravi. Anche a livello endocrinologico, c’è il rischio che l’adrenoleucodistrofia venga confusa con la malattia di Addison, che si manifesta con la classica iperpigmentazione cutanea (morbo bronzino)”. Infatti, secondo quanto ribadisce Cappa, nell’ambito della malattia di Addison l’80 per cento dei casi ha genesi autoimmune, ma circa il 78 per cento è affetto da adrenoleucodistrofia. A favorire l’errore diagnostico, poi, concorrerebbe anche l’atassia che, in base a quanto evidenziano gli specialisti, è un sintomo così aspecifico che è comune a moltissime malattie neurologiche. Lo screening neonatale permetterebbe una diagnosi estremamente precoce con un monitoraggio attento allo scopo di agire immediatamente con terapie definitive quali il trapianto di midollo e la terapia genica con la sostituzione del gene malato, o con un corretto approccio dietetico in grado di rallentare l’evoluzione della patologia. “Per questo – evidenzia Cappa – sarebbe necessario e auspicabile inserire lo screening neonatale per l’ALD nei livelli essenziali di assistenza”. Secondo gli esperti nel trattamento della malattia, nel caso in cui lo screening neonatale fosse attivato, all’età di 2 anni tutti i piccoli pazienti potrebbero essere trattati con un’adeguata terapia dietetica che prevede il possibile utilizzo di vari oli a disposizione, tra i quali uno dei più efficaci è l’Aldixyl, un prodotto perfezionato attraverso un processo di purificazione, con l’aggiunta del CLA l’unica sostanza in grado di superare la barriera emato-encefalica e la presenza di sostanze che riducono gli stress ossidativi. Lo scopo dell’utilizzo congiunto di questi strumenti è quello di rallentare l’evoluzione della malattia e nello stesso tempo di individuare più precocemente i pazienti potenzialmente sottoponibili a trapianto di midollo o terapia genica. Una diagnosi tempestiva è nevralgica anche per gli adulti, perché avere a disposizione una terapia dietetica adeguata e interventi mirati con antispastici può portare a un netto miglioramento del quadro clinico e quindi della stessa qualità della vita. “È fondamentale – conclude Cappa – prendere in carico tempestivamente anche le madri, che sono portatrici della malattia”. Infatti, secondo gli esperti, è proprio nelle madri portatrici che la terapia nutrizionale può far registrare i risultati migliori.
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NEWS congressi Congresso congiunto SISC-EHF , 1-3 dicembre 2017, Roma
Trattare gli adolescenti con sostanze naturali con risultati simili ai farmaci, ma senza i loro effetti collaterali IL RUOLO EMERGENTE DELLA NUTRACEUTICA NELLE CEFALEE
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ue milioni di persone circa, un quarto degli emicranici italiani, soffre della cosiddetta emicrania con aura, una forma di mal di testa che si accompagna alla cosiddetta aura, cioè a sintomi neurologici particolari come formicolii al braccio o alla mano dal lato del dolore e ad alterazioni visive che durano da pochi minuti a qualche ora e per lo più precedono, ma anche accompagnano o possono talora seguire l’attacco doloroso, a volte per giorni, lasciando un senso di malessere generale. In particolare, l’aura visiva è costituita da annebbiamento, visione di lampi o bagliori colorati a zigzag, scintille luminose, deformazione degli oggetti. Possono presentarsi formicolii o sensazione di punture di spillo e ridotta sen-
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sibilità tattile a partire dalla mano verso l’avambraccio e la parte inferiore del volto, fino alla bocca. Rispetto all’emicrania senz’aura, dove questi sintomi di accompagnamento mancano, gli attacchi dolorosi sono meno frequenti e più irregolari, ma tendono a essere più gravi perché l’aura intensifica la percezione soggettiva del dolore. Talora compaiono disturbi della forza o alterazioni del linguaggio e ancor più rari sono disorientamento, confusione, perdita di equilibrio. L’aura può addirittura presentarsi da sola, senza mal di testa e allora si parla di aura sine haemicrania. Questa forma non risparmia nemmeno l’età pediatrica dove il suo trattamento ha sempre posto una serie di problemi a causa della cautela del medico nell’uso dei farmaci efficaci nell’adulto anche a prezzo di effetti collaterali che invece si tende sempre a risparmiare ai piccoli pazienti. Nuove prospettive di terapia per la popolazione pediatrica Per il trattamento dell’età pediatrica, infatti, di fianco ai triptani, sono spesso
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stati proposti i cosiddetti nutraceutici, trattamenti supplementari a base di vitamine (coenzima Q10, vitamina D), minerali (magnesio) melatonina ecc. Dal Congresso congiunto fra società italiana ed europea (EHF, European Headache Federation e SISC, Società Italiana per lo Studio delle Cefalee) svoltosi all’Auditorium Parco della Musica di Roma dall’1 al 3 dicembre scorsi potrebbe arrivare una svolta grazie a una miscela di sostanze (Tanacetum partenium, griffonia e magnesio) segnalata per la prima volta nel 2016 da Thilinie Rajapakse e Tamara Pringsheim dell’Università canadese di Calgary sulla rivista Headache e poi entrata in commercio con il nome Aurastop anche in Italia come integratore in capsule e in bustine (da preferire in età pediatrica) . A onor del vero magnesio e Tanacetum erano già stati inseriti fin dal 2011 nelle linee guida di terapia delle cefalee della SISC, ma la formulazione con l’aggiunta di griffonia è stata presentata per la prima volta in Italia l’anno scorso al congresso congiunto ANIRCEF-SISC dai neurologi dell’Istituto Clinico Città di Brescia, del gruppo San Donato, diretti da Giorgio Dalla Volta che l’ha ora riproposta a Roma con conferme più ampie. Andando ad agire sugli stessi recettori TRP su cui puntano i più recenti anticorpi monoclonali, il partenolide del Tanacetum partenium interviene nei processi di rilascio del CGRP e blocca la crisi dolorosa con un’azione più naturale. A ciò si aggiungono altri due fattori: 1) l’azione del magnesio, la cui carenza notoriamente innesca la spreading de-
NEWS pression, la classica onda di depolarizzazione elettrica che s’innesca durante l’attacco, scoperta da Leao nel ’44 e 2) l’azione del 5-idrossi-triptofano contenuto nei semi della Griffonia simplicifolia che si oppone al legame fra l’amminoacido eccitatorio glutammato e i recettori NMDA, i principali canali ionici che consentono l’ingresso di ioni calcio nella cellula nervosa con conseguente iperattivazione neuronale e attacco emicranico. Le conferme dagli studi clinici Il primo studio di Dalla Volta era solo nell’adulto e su una cinquantina di casi dove riduceva di 10-20 minuti la cosiddetta aura che precede, accompagna e talora segue l’attacco provocando una grave disabilità che si associa al dolore con disturbi visivi e formicolii al braccio o alla mano dallo stesso lato del dolore e che Aurastop dimezza in oltre il 90 per cento dei casi. Al congresso congiunto di Roma i dati non solo sono stati confermati e ampliati su centinaia di pazienti sia nella profilassi che nel trattamento sintomatico dell’emicrania con e senz’aura (200 pazienti solo in Lombardia con età 1865 anni), ma adesso evidenziano un’efficacia anche nei più giovani (5-16 anni) dove si verifica riduzione della frequenza e dell’intensità (Antonia Versace della Città della Salute e della Scienza di Torino trova valori del 76,19 per cento) sia nell’emicrania con che senza aura, con conseguente calo del ricorso ad analgesici superiore alla metà (61,90 per cento). Anche il confronto effettuato da Maria Pia Prudenzano dell’Università di Bari con un farmaco come l’amitriptilina da tempo usata in profilassi non ha evidenziato vantaggi significativi per il farmaco a fronte di effetti collaterali come incremento ponderale e sonnolenza (il 18,20 per cento cioè 6 pazienti su 33), mentre solo 1 paziente in trattamento con Aurastop ha riferito formicolii a una mano. Come ha commentato Vincenzo Guidetti dell’Università La Sapienza di Roma, è necessario ampliare la casistica nella popolazione pediatrica perché l’adolescente non è un piccolo adulto e su di lui
l’effetto placebo è molto più importante e potrebbe cambiare risultati che per ora appaiono molto incoraggianti. Valga per tutti lo studio CHAMP, acronimo di Childhood & Adolescent Migraine Prevention cioè prevenzione dell’emicrania nell’infanzia e nell’adolescenza, con cui l’anno scorso un gruppo di ricercatori di Cincinnati ha voluto verificare l’efficacia di farmaci comunemente usati fra 8 e 17 anni: il 52 per cento circa di chi è stato trattato con amitriptilina e il 55 per cento di chi ha ricevuto topiramato ha avuto un dimezzamento delle crisi. Ma chi prendeva un placebo inerte è andato ancora meglio, con una riduzione del 61per cento. Un’altra categoria particolare di pazienti è quella delle donne emicraniche, dato che le rappresentanti del gentil sesso, superata la soglia della pubertà, diventano spesso vittime del mal di testa. Prima dell’arrivo delle mestruazioni, il rischio generale di cefalea fra bambine e bambini è pressoché sovrapponibile e nei primi anni dell’età scolare per tutti va dal 4 al 15 per cento. Poi il mal di testa “si mette la gonna” (fra i 12 e i 17 anni soffre di cefalea il 56 per cento dei ragazzi e ben il 74 per cento delle ragazze) e le bambine raddoppiano in pochi anni la frequenza degli attacchi, mantenendo questo spiacevole primato fino alla menopausa. Questo integratore può essere utilizzato anche nella prevenzione dell’emicrania senz’aura con assunzioni b.i.d. per 3 mesi, un protocollo che riduce frequenza, durata e intensità delle crisi. Ottimo è il suo effetto anche nel caso dell’emicrania mestruale, forma che compare nei giorni perimestruali in maniera particolarmente intensa: il suo utilizzo 2 volte al giorno da iniziare pochi giorni prima del ciclo fino al suo termine, può ridurre l’intensità e la durata delle crisi . Dieta chetogenica: un trattamento sfaccettato Sempre restando in ambito non farmacologico va segnalato un altro studio presentato al Congresso di Roma da Cherubino di Lorenzo della Sapienza, Polo
pontino di Latina circa l’applicazione di un altro trattamento non farmacologico nell’emicrania e cioè della cosiddetta dieta chetogenica utilizzata nella versione VLCKD, acronimo di very low-calorie ketogenic diet, cioè dieta chetogenica a bassissimo apporto calorico, in uno studio dove fra i coautori figura anche lo stesso presidente del congresso nonché presidente della SISC Francesco Pierelli, dell’Università La Sapienza di Roma. Questa dieta era già stata proposta due anni fa da Cherubino sull’European Journal of Neurology dove indicava come fosse in grado di ridurre significativamente sia gli attacchi sia la necessità di ricorrere ai farmaci, con un miglioramento che si protrae fino a sei mesi dalla fine del regime dietetico, probabilmente migliorando il metabolismo neuronale e riducendo la situazione infiammatoria. La dieta chetogenica sembra agire sull’onda di ipereccitabilità neuronale che si verifica durante l’attacco. Le applicazioni di questa dieta, comunque, spaziano su vari fronti e hanno continuato a crescere negli anni a partire dai primi studi di una decina d’anni fa sul suo impiego nell’epilessia da parte dei ricercatori dell’Università di Vienna che con questa dieta ottennero una risposta superiore al 52 per cento in tre diverse forme di epilessia che colpiscono i bambini (spasmi infantili, sindrome di Dravet e sindrome di Lennox-Gastaut), a quelli della Johns Hopkins University di Baltimora che ottennero miglioramenti del 70 per cento nell’epilessia mioclonoastatica, si è giunti a uno studio dell’Hospital for Sick Children di Toronto che l’anno scorso ha riportato un’efficacia dell’82 per cento nello stato epilettico refrattario e un altro studio svedese secondo cui gli effetti neuroprotettivi di questa dieta la renderebbero efficace anche nei disturbi del sonno e della memoria, fino alla demenza come ha di recente dichiarato la direttrice del Centro Alzheimer della Wake Forest University Suzanne Craft al congresso mondiale sulla resistenza insulinica di Los Angeles dove ne ha indicato l’efficacia come terapia di associazione all’insulina in spray nasale.
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NEWS farmaci Atrofia muscolare spinale
Nuove conferme per nusinersen dai risultati definitivi dello studio CHERISH
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ono stati da poco pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati dello studio di fase 3 CHERISH, che dimostrano come il trattamento con nusinersen sia in grado di determinare significativi miglioramenti sulla funzionalità motoria in pazienti affetti da atrofia muscolare spinale (SMA) a esordio tardivo. Il farmaco sviluppato da Biogen, ricordiamo, è l’unico a essere autorizzato per il trattamento di questa grave e disabilitante condizione. CHERISH è uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con procedura di trattamento simulato (sham) e volto a valutare l’efficacia e la sicurezza di nusinersen nei soggetti affetti da SMA a esordio tardivo. Lo studio, durato 15 mesi, ha visto la partecipazione di 126 pazienti non deambulanti di età compresa tra i 2 e i 12 anni, con insorgenza dei sintomi dopo i 6 mesi di età. L’endpoint primario di efficacia era il miglioramento della funzione motoria, definito in base alla variazione, rispetto al basale, della scala Hammersmith Functional Motor Scale-Expanded (HFMSE). L’analisi finale ha dimostrato un miglioramento statisticamente e clinicamente significativo della funzione motoria nei soggetti trattati con nusinersen rispetto al gruppo di controllo, come osservato sulla base della differenza di 4,9 punti nella variazione media rispetto al basale al mese 15 nel punteggio HFMSE. Nel corso della misurazione delle variazioni rispetto al basale, i soggetti che hanno ricevuto nusinersen (n =84) hanno raggiunto un miglioramento medio di 3,9 punti al mese 15, mentre i soggetti non sottoposti a terapia (n =42) hanno registrato una diminuzione media di 1,0 punti. Eugenio Mercuri dell’U.O.C. Neuropsichiatria Infantile del Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma e investigatore principale dello studio ha commentato così gli importanti traguar-
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di raggiunti: “La pubblicazione dei risultati dello studio CHERISH sul NEJM sottolinea i notevoli miglioramenti prodotti da nusinersen sulla funzionalità motoria generale e degli arti superiori nei soggetti con SMA a esordio tardivo. Risultati raramente visibili nel normale decorso della malattia, che comporta un costante peggioramento della funzionalità motoria nel corso del tempo. Durante lo studio, alcuni soggetti trattati con nusinersen hanno raggiunto importanti traguardi motori, tra cui il gattonamento o
la stazione eretta assistita, in altri casi la progressione della malattia ha registrato una stabilizzazione o un rallentamento. Abbiamo inoltre osservato un miglioramento della funziononalità degli arti superiori, tra cui il sollevamento di oggetti”. A seguito dei risultati positivi emersi dall’analisi ad interim, Biogen ha interrotto prematuramente lo studio CHERISH in modo che tutti i partecipanti avessero la possibilità di ricevere nusinersen nell’ambito dello studio di estensione in aperto SHINE.
Sclerosi multipla Con ocrelizumab una svolta nella terapia delle forme più severe di malattia
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distanza di due mesi dal parere positivo dello Chmp, è arrivata lo scorso gennaio l’approvazione definitiva da parte della Commissione europea per ocrelizumab (Roche). Una decisione tanto attesa per una molecola che si è dimostrata in grado di agire sulle forme più severe della sclerosi multipla (SM). Ocrelizumab è approvato infatti come terapia per le persone con forma attiva di SM recidivante (SMR) definita da segni clinici o radiologici, e da SM primariamente progressiva (SMPP) in fase iniziale, in termini di durata di malattia e livello di disabilità, e in presenza di segni radiologici caratteristici dell’attività infiammatoria. Ocrelizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato, colpisce selettivamente le cellule B CD20+, ma non le plasmacellule o le cellule staminali, preservando così importanti funzioni del sistema immunitario. L’approvazione europea si basa sui risultati ottenuti in tre studi clinici registrativi di Fase III. I trial OPERA I e OPERA II nella SMR hanno dimostrato la superiore efficacia di ocrelizumab nel quasi dimezzare il numero di recidive su base annua, oltre che nel rallentare significativamente la progressione della malattia rispetto a interferone beta-1a ad alto dosaggio nei due anni di trattamento. Ocrelizumab ha inoltre aumentato significativamente la probabilità di assenza di evidenze di attività della malattia (lesioni a livello cerebrale, ricadute e peggioramento della disabilità). Nello studio ORATORIO sulla SMPP, ocrelizumab è stata la prima e unica terapia a rallentare in maniera significativa la progressione della disabilità e a ridurre i segni di attività della malattia a livello cerebrale (lesioni rilevate alla RMN) rispetto al placebo con follow-up mediano di 3 anni. Gli effetti collaterali più comuni osservati sono state reazioni all’infusione e infezioni delle vie respiratorie superiori, prevalentemente di grado da lieve a moderato. Ocrelizumab viene somministrato per infusione ev ogni sei mesi, e non prevede monitoraggi aggiuntivi. È attesa ora l’approvazione da parte dell’Aifa.
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farmaci NEWS Malattia di Parkinson
La stimolazione cerebrale profonda adattativa lasciata accesa tutto il giorno potrebbe far dimenticare di soffrire di Parkinson
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scono su Neurology gli ultimi risultati sull’impiego della cosiddetta aDBS, acronimo di stimolazione cerebrale profonda adattativa, definita “controllo autopilotato” della neurostimolazione della malattia di Parkinson in un editoriale dedicatole sullo stesso numero di Neurology da Daniel Weiss della Tübingen University e Joäo Massano dell’Università di Porto (Neurology 2018; doi:10.1212/ WNL.0000000000005111). Il progetto per la sua messa a punto era stato avviato nel 2004 da Alberto Priori dell’Università Statale di Milano e dal suo gruppo che ha man mano coinvolto la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Policlinico di Milano, l’Università degli Studi di Trieste e quelle di Toronto, Würtzburg e Grenoble. Proprio da quest’ultima negli anni ‘80 era arrivata grazie ad Alim Louis Benabid la neurostimolazione cerebrale profonda per il trattamento della malattia di Parkinson farmacoresistente, la DBS, acronimo di deep brain stimulation, una tecnica che, tramite microimpulsi elettrici riattiva i neuroni dopaminergici, riportandoli indietro di anni alla condizione che avevano quando erano ancora sensibili alla classica terapia con levodopa. Col tempo però, nonostante i tanti perfezionamenti apportati in questi ultimi vent’anni, la DBS di Benabid ha dimostrato vari limiti, primo fra tutti il mancato controllo delle fluttuazioni della ma-
lattia, che non ha un andamento lineare, ma presenta improvvisi peggioramenti sia dei sintomi motori che di quelli non motori anche se curata con farmaci efficaci come la levodopa che col tempo richiede dosaggi sempre più elevati. Nel corso della giornata il paziente si muove meglio (la cosiddetta fase on, legata all’effetto del farmaco), per poi peggiorare man mano che l’effetto della terapia va calando, fase off. Questo deperimento motorio da calo farmacologico, il cosiddetto wearing off, è abbastanza prevedibile, mentre ci sono altri tipi di fluttuazione imprevedibili come il cosiddetto freezing, cioè il congelamento da blocco motorio improvviso, che può presentarsi ad esempio quando il paziente inizia a camminare, se deve cambiare direzione di marcia oppure attraversare una porta stretta o uno spazio angusto. “È intuitivo comprendere che le richieste motorie del malato cambiano con un’attività complessa come vestirsi rispetto a quando sta seduto a leggere un libro e gli stimolatori DBS classici non ne tenevano conto -precisa Alberto Priori- La stimolazione era fissa, sempre uguale, mentre la gravità dei sintomi fluttua rapidamente anche a distanza di pochi minuti, senza che la stimolazione vi si adatti. La nostra idea -prosegue- è stata ‘semplicemente’ quella di mettere a punto una DBS capace di leggere l’attività elettrica
dei neuroni stimolati e di interpretare le esigenze del momento, modulando di conseguenza la neurostimolazione”. Presentata per la prima volta con un solo paziente al 44° congresso della Società italiana di neurologia (SIN), la aDBS ha fatto una fugace comparsa con dati ancora preliminari sulla rivista Experimental Neurology nel 2012 e poi l’anno scorso al 3° congresso dell’Accademia italiana LIMPE-DISMOV di Verona con i primi 10 pazienti italiani valutati in condizioni di vita reale. Adesso lo studio in aperto su 13 pazienti comparso su Neurology ne ha confermato l’efficacia e la sicurezza anche quando viene mantenuta accesa in maniera continuativa, cioè per 8 ore, praticamente per l’intero arco della giornata diurna (Arlotti M et al. Eight-hours adaptive deep brain stimulation in patients with Parkinson disease. Neurology 2018;90:e972–e977). “Siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti – commenta Alberto Priori. Un progetto iniziato grazie all’entusiasmo dei giovani ricercatori del nostro primo laboratorio, li sta rendendo protagonisti di un’importantissima scoperta che promette di contrastare il Parkinson in modo sempre più efficace”. Come indicano nel loro editoriale di commento Weiss e Massano occorre ora verificare se questa promessa sarà mantenuta in valutazioni a lungo termine che verifichino la stessa efficacia e sicurezza anche nei mesi e negli anni. Se così sarà e se l’aDBS potrà essere adattata in maniera flessibile alle esigenze di ogni paziente per il controllo di singoli sintomi come tremore, discinesia, bradicinesia ecc., questa tecnica ci potrà avvicinare alla soluzione della malattia di Parkinson nella vita reale.
L’edizione 2017 del Premio Roche per la Ricerca
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i è svolta lo scorso 20 febbraio la cerimonia di assegnazione del Premio Roche per la Ricerca. Otto i vincitori, tutti “under 40”, di quest’anno con una forte rappresentazione femminile. Per l’area Neuroscienze, il riconoscimento è stato assegnato a Flavie Strappazzon, dell’Università di Roma Tor Vergata per le sue ricerche sulla sclerosi multipla, e a Sara Renata Francesca Marceglia, della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano per il suo progetto sulla stimolazione cerebrale profonda nel Parkinson, realizzato in collaborazione con il gruppo del prof. Alberto Priori, i cui risultati sono presentati in questa pagina. la neurologia italiana
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NEWS associazioni A.L.I.Ce. Italia Onlus
Verso il Mese della prevenzione dell’ictus Aprile è il mese della prevenzione dell’ictus cerebrale,
Una stoccata vincente all’ICTUS!
e in questa occasione l’Associazione italiana per la lotta all’ictus cerebrale - A.L.I.Ce. Italia Onlus- scende in campo per sensibilizzare la popolazione sull’importanza
Aprile è il mese della prevenzione dell’ICTUS
dell’identificazione precoce dei fattori di rischio per la
“Fai una vita sana, sport e non fumare! Tieni sotto controllo pressione arteriosa, fibrillazione atriale, colesterolo e glicemia! ”
patologia. Una patologia che come ben noto si colloca ai primi posti per mortalità e disabilità. Quasi 200mila italiani ne vengono colpiti ogni anno e la metà dei superstiti rimane con esiti di invalidità più o meno gravi. Oltre che
Valentina Vezzali e A.L.I.Ce Italia Onlus
per l’invecchiamento della popolazione, l’incidenza
un incremento nell’abuso di alcol e droghe.
Uniti contro l’ICTUS
Uno dei fattori di rischio principali è l’ipertensione, e proprio per questo l’Associazione lancia un appello affinché venga riconosciuta e trattata precocemente: ridurre i valori della pressione arteriosa fa diminuire di ben 40-50 per cento il rischio di andare incontro a un episodio ictale. In occasione del mese della prevenzione, A.L.I.Ce. Italia Onlus realizza, in numerose città italiane, iniziative di sensibilizzazione e di informazione sia sui principali fattori di rischio che sull’importanza del riconoscimento tempestivo dei sintomi. “I cittadini devono avere una maggiore conoscenza e consapevolezza dei fattori che da soli o, ancora di più, in combinazione tra di loro aumentano il rischio di avere un ictus: 8 ictus su 10, infatti, possono essere evitati seguendo stili di vita adeguati, attraverso un’attività fisica moderata e una sana
Per maggior informazioni consulta il sito www.aliceitalia.org
Per gentile concessione di Augusto Bizzi
di ictus è in aumento anche perché tra i giovani si segnala
alimentazione – sottolinea Nicoletta Reale, presidente di A.L.I.Ce. Italia Onlus. Il controllo della pressione arteriosa risulta fondamentale, fino dai 40 anni, ancora più importante nei diabetici, così come il riconoscimento della fibrillazione atriale e l’astensione dal fumo”.
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