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Patologie neurodegenerative
La terapia dei disturbi del sonno nei pazienti con malattia di Parkinson Dalla ricerca alla pratica clinica Loddo, Giovanna Calandra-Buonaura, Luisa Sambati, > Giuseppe Giulia Giannini, Annagrazia Cecere, Pietro Cortelli, Federica Provini •
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L’ASA nella prevenzione primaria dell’ictus I vantaggi alla luce delle recenti evidenze cliniche
> Roberto Sterzi •
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Vent’anni di ricerca e studi sulle cefalee
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
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Sommario
info@medicoepaziente.it Direttore editoriale Anastassia Zahova abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi segreteria di redazione Concetta Accarrino progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Hanno collaborato a questo numero Giovanna Calandra-Buonaura, Annagrazia Cecere, Pietro Cortelli, Giuseppe Frazzitta, Giulia Giannini, Giuseppe Loddo, Federica Provini, Luisa Sambati, Roberto Sterzi
direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza
Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina Direttore Responsabile Sabina Guancia Scarfoglio
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Patologie neurodegenerative
La terapia dei disturbi del sonno nei pazienti affetti da malattia di Parkinson Dalla ricerca alla pratica clinica
In queste pagine, gli Autori descrivono le diverse opzioni di trattamento oggi disponibili per la terapia dei disturbi del sonno nel paziente affetto da Parkinson
Giuseppe Loddo, Giovanna Calandra-Buonaura, Luisa Sambati, Giulia Giannini, Annagrazia Cecere, Pietro Cortelli, Federica Provini
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L’ASA nella prevenzione primaria dell’ictus I vantaggi alla luce delle recenti evidenze cliniche Sulla base delle attuali evidenze non si possono formulare conclusioni definitive né a favore e neppure contro l’impiego generalizzato di ASA in prevenzione primaria. In corso vi sono quattro studi che potranno forse meglio chiarire il rapporto fra benefici e rischi di basse dosi di ASA nella prevenzione di esiti molteplici
Roberto Sterzi
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news dalla letteratura news dai congressi news farmaci la neurologia italiana
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NEWS dalla letteratura P. Annunziata, C. Cioni, F. Corelli et al.
E. Premi, M. Grassi, B. Borroni et al.
COR 167, un cannabinoide di sintesi si rivela promettente nella sclerosi multipla
Il “peso” dei determinanti genetici e dei fattori ambientali nella demenza frontotemporale in pazienti presintomatici
❱❱❱ Journal of Neuroimmunology 2017; 303: 66-74 Negli ultimi anni, diversi studi clinici hanno dimostrato che i cannabinoidi estratti dalla cannabis, come il delta9-tetraidrocannabinolo (Delta9-THC), il nabilone, e il Delta9-THC emisuccinato, sono in grado di determinare un miglioramento dei sintomi della sclerosi multipla (SM), tra cui la spasticità percepita, gli spasmi e il dolore. Un forte limite alla diffusione dell’uso clinico dei cannabinoidi, in particolare nel trattamento dei disturbi neurologici, è dovuto alla loro relativa specificità di legame per i recettori cannabinoidi CB1 e CB2, per la maggior parte situati sui neuroni e sulle cellule immunocompetenti, rispettivamente. Per un uso prolungato nella SM, il cannabinoide ideale non dovrebbe stimolare i recettori CB1, in modo da evitare effetti psicoattivi, ed essere invece altamente selettivo per il recettore CB2, in modo da favorire la modulazione di cellule autoreattive nella periferia e la neuroprotezione contro il danno infiammatorio acuto e cronico. In questo modo, si otterrebbe un trattamento della SM non semplicemente sintomatico, ma in grado di modificare il corso della malattia. COR167, un cannabinoide di sintesi scoperto una decina di anni fa, sembra candidarsi a questo ruolo. Ha dimostrato infatti di possedere affinità e selettività elevate per il recettore CB2, una significativa attività analgesica nel modello murino e una potenza sufficiente da risultare efficace a una concentrazione di 10 nM, cioè circa cento volte inferiore a quella di altri ligandi del CB2. In questo nuovo studio, Pasquale Annunziata e colleghi dell’Università di Siena hanno valutato gli effetti antinfiammatori e immunomodulatori della somministrazione di COR167 su linee cellulari immunocompetenti, tra cui le cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) e i linfociti T reattivi verso la proteina basica della mielina (MPB), raccolte da soggetti sani e da soggetti affetti da SM recidivante remittente. I risultati hanno dimostrato che il cannabinoide esercita un effetto inibitorio potente e dose-dipendente sulla proliferazione di entrambe le linee cellulari derivate da entrambi i gruppi di soggetti. Nelle cellule derivate da pazienti affetti da SM, l’effetto è risultato ancora più significativo in pazienti in trattamento con farmaci modificanti la malattia rispetto ai pazienti naïve. Il risultato conferma l’ipotesi che il recettore cannabinoide CB2 è un nuovo bersaglio farmacologico per contrastare la neuroinfiammazione.
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numero 2 · 2017 la neurologia italiana
❱❱❱ Brain 2017 Apr 27; doi: 10.1093/ brain/awx103 [Epub ahead of print] Quali sono i fattori che determinano la progressione della malattia e l’età d’insorgenza? È questa una delle questioni fondamentali, ma finora irrisolte per chi si occupa di demenza frontotemporale. Si tratta infatti di un disturbo neurodegenerativo eterogeneo: in un terzo dei casi è caratterizzato da una trasmissione ereditaria autosomica dominante, e il suo fenotipo è estremamente variabile, anche all’interno di un’unica famiglia. Un elemento in grado di contrastare l’insorgenza dei processi neurodegenerativi è la riserva cognitiva, misurata dal livello di scolarizzazione. Inoltre, si è scoperto che l’età d’insorgenza della patologia di tipo TDP-43 dipende dal genotipo TMEM106B. Questo studio della Genetic Frontotemporal dementia Initiative è stato disegnato per chiarire l’effetto di modulazione dell’ambiente, nella fattispecie del livello di scolarizzazione, e del background genetico sul volume della materia grigia (GM), in 231 soggetti. Di questi, 108 erano portatori asintomatici di mutazioni legate alla demenza frontotemporale (MAPT, GRN e C9orf72) e 123 erano i controlli (senza mutazioni). Per ciascun soggetto, è stato stimato il volume GM utilizzando scansioni volumetriche di RMNf pesate in T1. I dati ottenuti sono stati confrontati con quelli relativi alla genotipizzazione TMEM106B e con gli anni di scolarizzazione. La presenza di una mutazione era associata a un volume GM inferiore, anche in soggetti presintomatici (P =0,002). Il livello di scolarità influenzava il volume GM in tutti i campioni (P =0,02): i più bassi livelli di educazione scolastica erano associati ai volumi più piccoli. Il genotipo TMEM106B non influenzava direttamente il volume; tuttavia, nei portatori di mutazioni modulava la correlazione tra livello di scolarità e volume GM (P =0,007). L’atrofia cerebrale, dunque, nei portatori presintomatici di comuni mutazioni legate alla demenza frontotemporale è influenzata da fattori sia genetici sia ambientali: l’interazione fa sì che il genotipo TMEM106B aumenti i benefici della riserva cognitiva sulla struttura cerebrale. Queste conclusioni, secondo gli Autori, andrebbero tenute in conto nella valutazione dei futuri studi sui farmaci modificanti la malattia, e supportare la ricerca di meccanismi protettivi in persone a rischio che possano facilitare nuove strategie terapeutiche.
NEWS S. Zambito-Marsala, R. Erro, M. Tinazzi et al.
Anomalie a livello centrale nell’elaborazione nocicettiva nel Parkinson: uno studio basato sui potenziali evocati da stimolo laser ❱❱❱ Parkinsonism & Related Disorders 2017; 34: 43-48 I potenziali evocati da stimolo laser (LEP) rendono accessibili le vie centrali del dolore e sono quindi impiegati nella valutazione del sistema nocicettivo e nella diagnosi di dolore neuropatico. Le registrazioni LEP mostrano un complesso negativo-positivo N2/P2, generato per la maggior parte dalla corteccia cingolata anteriore, preceduto da una componente negativa precoce N1, che si origina dalla corteccia opercolare. Si tratta perciò di una tecnica ideale per verificare strumentalmente la conclusione di alcuni studi da cui è emersa un’anomala elaborazione nocicettiva nei pazienti affetti da malattia di Parkinson, con una riduzione di ampiezza di N2/P2, e un patomeccanismo che agisce probabilmente a livello centrale. Questo studio è stato condotto in 13 pazienti affetti da emi-Parkinson e senza sintomatologia dolorosa e in 13 soggetti sani che costituivano il gruppo controllo. L’obiettivo era di verificare, utilizzando un LEP di tipo Nd:YAP, se in questi pazienti le anomalie degli input nocicettivi in risposta a stimolazioni prodotte sulle mani si verificassero a livello centrale o a livello periferico. Secondo l’analisi dei risultati, i pazienti parkinsoniani e i soggetti normali avevano latenze N1, N2 e P2 tra loro simili. Tuttavia, l’ampiezza N2/P2 è risultata significativamente più bassa nei pazienti parkinsoniani rispetto ai controlli sani, indipendentemente da quale fosse il lato del corpo colpito dalla malattia. Le ampiezze N1/P1 invece non mostravano significative differenze tra loro. L’utilizzo di scale del dolore ha permesso inoltre di quantificare la presenza di sintomatologia dolorosa derivante dall’applicazione del laser: i pazienti parkinsoniani hanno ottenuto mediamente punteggi più elevati, indicativi di iperalgesia. I risultati dimostrano che nei pazienti parkinsoniani l’anomala elaborazione degli stimoli dolorosi si verifica a livello centrale e non a livello periferico. Inoltre, la concomitante presenza di iperalgesia e di ridotta ampiezza del complesso N2/P2, a fronte di una componente N1/ P1 normale, è indicativa di uno squilibrio tra i sistemi del dolore mediale e laterale. Questa dissociazione potrebbe spiegare la genesi del dolore centrale nel Parkinson.
L. Degli Esposti, C. Piccinni, F. Lombardo et al.
Predittori di non aderenza, switch e interruzione di terapia nella SM: uno studio analizza i cambiamenti che si verificano in corso di trattamenti iniettivi di prima linea ❱❱❱ Neurological Sciences 2017; 38(4): 589-594 L’obiettivo di questo studio condotto su una coorte di pazienti con sclerosi multipla (SM) era descrivere le modificazioni che intervengono in corso di terapia con trattamenti modificanti la malattia e d’identificare i possibili predittori di tali modificazioni. I pazienti (1.698) sono stati scelti presso il Centro SM di Cagliari, in Sardegna, tra quelli trattati in prima linea con interferoni o glatiramer tra il 1/7/2009 e il 31/10/2012. Tutti sono stati seguiti per 36 mesi per valutare cambiamenti terapeutici in termini di non aderenza, switch, interruzioni temporanee o permanenti. Questi dati sono poi stati incrociati con le informazioni socio-demografiche, terapeutiche e cliniche nei 6 mesi precedenti la prescrizione. L’assunzione dei farmaci era così distribuita tra i partecipanti: glatiramer 27 per cento, IFNβ-1b 22 per cento, IFNβ-1a-im 20 per cento, IFNβ-1a-sc-44mcg 19 per cento, IFNβ-1a-sc-22mcg 12 per cento. Ed ecco i risultati: la non aderenza è stata riscontrata nel 25 per cento dei casi, uno switch di farmaco nel 30, la sospensione nel 37 e l’interruzione permanente nel 28 per cento. Il rischio di non aderenza è risultato più elevato per l’IFNβ-1b rispetto all’IFNβ1a-im (adjOR =1,73); lo switch si è verificato con maggiore frequenza in pazienti di recente diagnosi; il rischio d’interruzione era più elevato per valori all’EDSS di 4-6 e 7-9 (adjHR =1,52 e 4,42, rispettivamente) e lo stesso trend è stato osservato per il rischio di sospensione permanente (adjHR =1,67 e 5,43 per EDSS pari a 4-6 e 7-9, rispettivamente). Lo studio traccia un quadro dettagliato delle prescrizioni e identifica i fattori correlati ai cambiamenti in corso di terapia. Le conclusioni potranno essere di aiuto nella pratica clinica per valutare e massimizzare i benefici associati alle terapie a lungo termine. la neurologia italiana
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Patologie neurodegenerative
la terapia dei disturbi del sonno nei pazienti affetti da malattia di parkinson Dalla ricerca alla pratica clinica In queste pagine, gli Autori descrivono le diverse opzioni di trattamento oggi disponibili per la terapia dei disturbi del sonno nel paziente affetto da Parkinson Giuseppe Loddo1, Giovanna Calandra-Buonaura1,2, Luisa Sambati1,2, Giulia Giannini1,2, Annagrazia Cecere2, Pietro Cortelli1,2, Federica Provini1,2* 1. Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie, Università degli Studi di Bologna 2. IRCCS, Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna
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sintomi non motori (SNM) interessano la quasi totalità dei pazienti affetti da malattia di Parkinson (MP), talora precedendo la comparsa dei sintomi motori (1). I SNM influenzano la qualità di vita dei pazienti e sono spesso causa di istituzionalizzazione. Tra i SNM, i disturbi del sonno (DS) colpiscono circa il 41 per cento dei pazienti de novo e il 78 per cento dei pazienti con complicanze motorie (1), comprendono manifestazioni sia diurne che notturne, e hanno una origine multifattoriale. I disturbi notturni si caratterizzano per una ridotta quantità e qualità del sonno che può essere sia intrinseca alla MP che secondaria ad altre cause, quali i sintomi motori della MP (acinesia, rigidità, distonia), i sintomi autonomici (nicturia) o la presenza di un altro disturbo del sonno (sindrome delle gambe senza riposo, disturbo del comportamento in sonno REM, sindrome delle apnee ostruttive in sonno) (2). I disturbi diurni consistono in un’eccessiva sonnolenza diurna (ESD) che può manifestarsi anche con addormentamenti improvvisi. La ESD può essere secondaria alla presenza di un sonno notturno disturbato o ad altre cause, tra cui la terapia dopaminergica. La valutazione dei DS in pazienti parkinsoniani si avvale sia dei test comunemente usati per i pazienti affetti da disturbi del sonno che di scale specifiche validate
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per i pazienti affetti da MP, quali la Modified Parkinson’s Disease Sleep Scale (PDSS-2), la Scales for Outcomes in PD-Sleep Scale (SCOPA-S) e il Questionario sui Disturbi del Sonno e Mentali nella MP (QSMDPD). Nonostante la rilevanza dei DS nella MP, esistono pochi trial clinici sul loro trattamento (3-5). Lo scopo di questo lavoro è quello di descrivere le possibili opzioni terapeutiche per il trattamento dei DS nella MP.
DISTURBI DEL SONNO NOTTURNI w Insonnia L’insonnia cronica è definita come la difficoltà a iniziare o mantenere il sonno o come un risveglio mattutino precoce rispetto all’ora abituale, che persistono da almeno tre mesi (6). L’insonnia è il DS più frequente nei pazienti con MP, con una prevalenza compresa tra il 27 e l’80 per cento. Secondo i dati più recenti, l’insonnia sembra essere parte integrante della MP stessa e non secondaria ad altre cause. È soprattutto un’insonnia di mantenimento (81 per cento) benché i pazienti possano riportare anche difficoltà di addormentamento (18 per cento) e risvegli mattutini precoci (40 per cento). Le registrazioni videopolisonnografiche, pur in assenza di dati
Figura 1. Registrazione actigrafica della durata di 48 ore in condizioni basali (T0) e in terapia con rotigotina cerotto, 8 mg/24 ore (T1) La registrazione documenta una marcata riduzione dell’attività motoria durante le ore notturne (contrassegnate dalla banda grigia) in corso di terapia con rotigotina (T1) rispetto al periodo basale (T0). È inoltre evidente una riduzione dei periodi di sonno durante le ore diurne, rappresentati da una riduzione dell’attività motoria (vedi periodo compreso tra le ore 9 e le ore 11).
Figura 2. Algoritmo decisionale per il trattamento dell’insonnia COMPLICANZE MOTORIE MP
DISTURBI MOTORI E RESPIRATORI IN SONNO
NO
SÌ
SÌ
Trattamento specifico
DA CR Se inefficace LD CR Se inefficace
Terapia cognitivo-comportamentale; regole di igiene del sonno e/o melatonina (1-3mg)
Se insonnia iniziale: zolpidem (10mg) Se insonnia intermedia: trazodone (25-75mg)
univoci, dimostrano che i pazienti con MP possono presentare un’aumentata latenza del sonno e un numero elevato di risvegli infraipnici, con una fisiologica rappresentazione delle diverse fasi di sonno. I più importanti fattori di rischio per l’insonnia sono il sesso femminile, la durata della MP e la presenza di ansia. Altri Autori considerano possibili fattori causali anche la presenza di parestesie e dolore, di più frequente riscontro nella MP rispetto ai controlli sani (2). Non sarebbero invece direttamente correlate all’insonnia l’acinesia, le difficoltà nei movimenti durante la notte, i crampi, la nicturia, le difficoltà respiratorie e i sogni terrifici. Prima di iniziare uno specifico trattamento per l’insonnia, sia esso comportamentale o farmacologico, è importante analizzare i fattori associati all’insonnia e il periodo della notte in cui essa insorge. È fondamentale escludere ed eventualmente trattare disturbi motori e respiratori in sonno. Qualora l’insonnia sia iatrogena o determinata dalle complicanze motorie della MP è utile modificare la terapia. La levodopa/carbidopa a rilascio prolungato migliora i sintomi motori in sonno che possono contribuire all’insonnia, benché non ci siano dati sufficienti sulla sua reale efficacia nel determinare un miglioramento oggettivo e soggettivo della qualità del sonno (3-5). I dopaminoagonisti (DA) e il tolcapone in terapia aggiuntiva alla levodopa (LD) sembrano migliorare la qualità del sonno nella MP, al contrario della pergolide che peggiora l’insonnia (7). In particolare tra i DA, uno studio randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato, ha dimostrato che il cerotto di rotigotina (2-8 mg) può migliorare i punteggi della PDSS-2 e quindi la qualità del sonno in pazienti con sintomi motori e non motori durante la notte (8). Due recenti studi hanno confermato tale dato attraverso registrazioni actigrafiche e polisonnografiche, dimostrando che la rotigotina cerotto determina una notevole riduzione dell’attività motoria notturna e della durata media degli episodi di veglia infraipnica, della nicturia, del dolore e di coesistenti disturbi del sonno come la sindrome delle gambe senza riposo (Figura 1). La rotigotina, aumentando l’efficienza del sonno, riduce il numero e la durata degli addormentamenti diurni e migliora la qualità di vita (10,11). La terapia principale dell’insonnia indipendentemente dalla sua eziologia, è la terapia cognitivocomportamentale (12,13) che si avvale di tecniche cognitive e di rilassamento e dell’applicazione delle regole di igiene del sonno (Figura 2). Nei la neurologia italiana
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Patologie neurodegenerative casi in cui sia necessario impoFigura 3. Algoritmo decisionale per il trattamento stare una terapia farmacologidella nicturia ca, si possono utilizzare melatonina, zolpidem e trazodone, benché la loro efficacia non sia Cause secondarie (OSAS, infezioni urinarie, ipertrofia prostatica benigna, scompenso cardiaco, disturbi di ansia) stata documentata (14). La melatonina determina un miglioramento della qualità soggettiva SÌ NO del sonno, non oggettivata con la polisonnografia (4). Il trazodone migliora il punteggio moOttimizzare terapia Norme comportamentali: Trattamento torio dell’UPDRS, nei pazienti dopaminergica specifico - Ridurre l’assunzione dei liquidi dopo le 6 del con un disturbo depressivo aspomeriggio sociato, e migliora i parametri - Ridurre l’introito di alcool e caffè - Head-up tilt del letto del sonno, ma i suoi effetti col- Anticipare l’eventuale terapia diuretica al pomeriggio laterali, quali vertigini, aumentato rischio di cadute, disturbi di memoria a breve termine e Se inefficace della memoria verbale, ne scoraggiano l’impiego in pazienti parkinsoniani (15). Il ramelteRotigotina? on, farmaco non in commercio Anticolinergici selettivi: solifenacina (5-10mg die), in Italia, già utilizzato nella MP darifenacina (7.5mg die), tolterodina (2mg die) per il disturbo del comportamento in sonno REM, sembra migliorare la latenza del sonno, benché siano necessari studi maggiore. Tutti questi farmaci possono provocare sonnolenza, confusione, alterazione delle performance cognitive e nesu campioni più ampi per provarne la reale efficacia (16). cessitano dunque di cautela nei pazienti parkinsoniani (17). w Nicturia La nicturia è presente nel 35 per cento di pazienti affetti da w Disturbi motori e comportamentali in sonno MP (1). Il meccanismo attraverso il quale la MP possa de- Sindrome delle gambe senza riposo (Restless Legs Syndroterminare nicturia non è chiaro. Sono stati chiamati in causa me, RLS) diversi fattori, tra cui le alterazioni autonomiche e la perdita La sindrome delle gambe senza riposo è un disturbo sensidell’inibizione D1-mediata, con conseguente iperattività de- tivo-motorio che si verifica nel tardo pomeriggio o la nottrusoriale. Prima di iniziare qualsiasi trattamento terapeutico te, in situazioni di inattività, caratterizzato da una necessità è importante escludere e trattare cause secondarie di nicturia impellente di muovere gli arti, più spesso le gambe, assoquali un disturbo respiratorio in sonno, infezioni delle vie ciata a sensazioni fastidiose alle gambe che si risolvono col urinarie, ipertrofia prostatica, scompenso cardiaco e ansia. movimento (6). La RLS colpisce circa il 15 per cento dei Escluse le cause secondarie, può essere utile ottimizzare la pazienti con MP e può insorgere prima dell’esordio dei sinterapia dopaminergica e attuare strategie comportamentali tomi motori della MP (1). La sua prevalenza aumenta al pro(Figura 3). Non esistono studi randomizzati controllati sulla gredire della MP e della durata del suo trattamento, ma è terapia farmacologica nei pazienti con MP. Studi sugli effetti indipendente dal dosaggio dei farmaci. Probabilmente, l’età della levodopa o dei DA hanno evidenziato risultati contra- avanzata o condizioni secondarie, come un deficit di ferro, stanti. L’iperattività detrusoriale migliora dopo somministra- possono spiegare l’associazione tra MP e RLS. Da un punto zione di apomorfina, e in minor misura, dopo levodopa (17). di vista neurofisiopatologico, inoltre, è possibile che, nella Le evidenze riguardanti i farmaci anticolinergici periferici, la RLS in pazienti con MP, vengano coinvolti neurotrasmettitodesmopressina intranasale e le iniezioni di tossina botulinica ri differenti dalla dopamina o vengano interessate vie dopaa livello del muscolo detrusore della vescica sono da consi- minergiche differenti da quelle nigrostriatali. La diagnosi di derarsi insufficienti. Tra i farmaci anticolinergici, gli agenti RLS si basa su criteri clinici. Strumenti utili per la diagnosi selettivi sui recettori M3 della vescica, come solifenacina (5- sono la “Hening Telephone Diagnostic Interview” (HTDI), 10 mg/die), darifenacina (7,5 mg/die) e tolterodina (2 mg/ la “Cambridge-Hopkins diagnostic questionnaire for RLS” die), presentano la stessa efficacia degli agenti non selettivi, (CH-RLSq) e la “RLS Diagnostic Index” (RLS-DI) benché quali l’ossibutinina (5 mg, 2 volte/die) e il trospio cloruro non siano specifici per i pazienti con MP. Il trattamento del(10-20 mg, 2 volte/die), ma hanno un profilo di tollerabilità l’RLS nella MP non è stato valutato tramite studi controllati.
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Prima di iniziare la terapia è importante valutare la frequenza e l’intensità dei sintomi, e il loro impatto sulla qualità del sonno del paziente. Vanno inoltre indagati l’eventuale presenza di insufficienza renale cronica, alterazioni dell’assetto glucidico e la presenza di un deficit di ferro, attraverso la misurazione dei livelli ematici di transferrina e ferritina. Se la concentrazione di ferritina è <50–75 μg/ml o se la saturazione della transferrina è meno del 20 per cento è raccomandata la terapia marziale (18). È poi necessaria la sospensione di farmaci che potenzialmente possono peggiorare l’RLS quali gli antidepressivi (eccetto il bupropione), i neurolettici o gli antistaminici. I DA sono farmaci di provata efficacia per la terapia della RLS, anche se è raccomandato iniziare con il dosaggio minimo, per evitare l’augmentation. Tale effetto collaterale consiste in un peggioramento paradosso dei sintomi della RLS, in corso di terapia (inteso come un’anticipazione del momento di comparsa dei sintomi, una maggiore durata e una diffusione a distretti corporei precedentemente non interessati). Per prevenire l’augmentation è stato suggerito l’utilizzo di DA a lunga durata di azione. In alternativa si possono utilizzare gli α2δ ligandi (pregabalin 150-450 mg/die; gabapentin 900-2.400 mg/die; enacarbil 600-1.800 mg/die) i cui effetti collaterali più frequenti sono vertigini, sonnolenza e fatica. Nei casi resistenti si possono impiegare basse dosi di oppiodi, come l’ossicodone a lunga durata di azione, o il metadone, da evitare nei pazienti ad alto rischio di abuso o con preesistente allungamento del QTc, con storia di apnee o con stipsi (18). Infine, il paziente può trarre sollievo temporaneo con massaggi, bagni con acqua fredda o cal-
da, attività fisica o provando a distrarsi con esercizi mentali. Disturbo del comportamento in sonno REM (REM sleep behavior disorder, RBD) L’RBD è una parasonnia del sonno REM caratterizzata da comportamenti motori in sonno complessi, talora violenti e pericolosi, durante i quali il paziente agisce il contenuto onirico del momento (6). L’RBD è presente nel 30 per cento dei pazienti con MP e spesso ne precede l’insorgenza (1). L’associazione tra MP e RBD è dovuta, probabilmente, alle alterazioni che i pazienti con MP presentano a livello dei nuclei REM-on (precoeruleus e sub-laterale dorsale) e REM-off (porzione ventrolaterale della sostanza grigia periacqueduttale e tegmento pontino laterale). Indipendentemente dall’approccio farmacologico, in caso di RBD è sempre necessario mettere in sicurezza la stanza in cui dorme il paziente (Figura 4). È utile inoltre, ridurre o sospendere farmaci che possono causare l’RBD, in particolare, gli inibitori delle monoaminossidasi come la selegilina, gli antidepressivi triciclici, i beta bloccanti (bisoprololo), gli oppioidi (tramadolo), gli agonisti selettivi dei recettori alfa2-adrenergici (clonidina) (19). Se l’RBD determina un’alterazione della qualità del sonno del paziente o se influenza la sua sicurezza e quella del partner di letto, è indicato iniziare un trattamento farmacologico. Il clonazepam (CNZ) (0,25-2 mg prima di coricarsi) è il farmaco di prima scelta (19, 20). Anche se non sono mai stati effettuati studi randomizzati controllati, il CNZ è efficace
Figura 4. Algoritmo decisionale per il trattamento del disturbo comportamentale in sonno REM (RBD)
Paziente in trattamento con inibitori delle monoaminossidasi, antidepressivi, betabloccanti, oppioidi, agonisti selettivi dei recettori alfa 2 -adrenergici
SÌ
Sospensione o riduzione
Messa in sicurezza dell’ambiente: - Rimozione oggetti pericolosi vicino al letto - Utilizzo sbarre contenitive - Utilizzo materassi o cuscini sul pavimento adiacente al letto Paziente con OSAS, storia di cadute, predisposizione alla sonnolenza
NO Clonazepam (0.25-2mg) prima di dormire
NO
SÌ
Se inefficace
Melatonina (3-12mg) prima di dormire
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Patologie neurodegenerative
Figura 5. Algoritmo decisionale per il trattamento dell’eccessiva sonnolenza diurna Norme comportamentali: - Corretta igiene del sonno - Regolare attività fisica durante le ore diurne - Evitare attività fisica intensa 3-4 ore prima dell’addormentamento Paziente in terapia con antidepressivi, antipsicotici o sedativi
Pazienti con disturbi motori e/o respiratori nel sonno Se insufficienti
SÌ
Sospensione o riduzione della terapia
NO
NO
Provare a ridurre carico dopaminergico Se il paziente è in terapia con LD e DA sostituire DA con rasagilina o selegilina
SÌ
Trattamento specifico
Se inefficace
Modafinil?
nell’ 87-90 per cento dei pazienti con RBD (19, 20). La sonnolenza e il rischio di cadute sono possibili effetti collaterali; il farmaco è controindicato in caso di sindrome delle apnee ostruttive nel sonno di entità intermedia o grave (5,19). Il meccanismo d’azione del CNZ non è noto, ma certamente non influisce sul tono muscolare in REM né sopprime tale fase di sonno (20). In pazienti con MP, in cui il CNZ sia controindicato, la melatonina (3-12 mg prima di coricarsi) potrebbe essere il trattamento di scelta, come confermato da una recente metanalisi di studi clinici randomizzati (20). Anche se non è ancora del tutto chiaro il suo meccanismo d’azione, la melatonina sembra ridurre i comportamenti tipici dell’RBD, favorendo l’atonia in REM. Tale farmaco inoltre, presenta un favorevole profilo di sicurezza e di tollerabilità, con effetti collaterali (cefalea mattutina, sonnolenza diurna, allucinazioni) dovuti, in particolare, alle alte dosi (21). In casi resistenti, sono stati utilizzati il pramipexolo (0,5-1,5 mg), la paroxetina (10-40 mg), il donepezil (10-15mg) e la rivastigmina (4,5-6 mg) ma, in assenza di studi clinici randomizzati controllati, la loro efficacia non è dimostrata (19, 21). Molto limitate sono le evidenze circa l’efficacia e la sicurezza dello zopiclone, di benzodiazepine differenti dal CNZ, Yi-Gan San, desipramina, clozapina, carbamazepina e sodio oxibato (19, 22). Recenti e promettenti studi sono stati effettuati anche sul ramelteon, farmaco agonista del recettore della melatonina, non ancora in commercio in Italia, che presenta un buon profilo di sicurezza (16).
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w Disturbi respiratori in sonno Sindrome delle apnee ostruttive in sonno (Obstructive Sleep Apnea Syndrome, OSAS) La sindrome delle apnee ostruttive in sonno (OSAS) è caratterizzata dalla presenza di russamento ed episodi ripetuti di completa (apnea) o parziale (ipopnea) ostruzione delle vie aeree superiori, in sonno. I pazienti tipicamente lamentano risvegli con sensazione di soffocamento, sonno non ristoratore ed eccessiva sonnolenza durante il giorno (6). La prevalenza dell’OSAS nella MP è controversa, variando da 20 a 60 per cento. Anche se l’età intermedio-avanzata, i movimenti involontari della muscolatura delle vie aeree superiori, le disfunzioni autonomiche, la riduzione del drive respiratorio sono i fattori che potrebbero giustificare una maggior prevalenza dell’OSAS nella MP, gli studi più recenti ne riportano una prevalenza pari a quella della popolazione generale. D’altra parte, la frammentazione del sonno e l’ipossiemia intermittente dovuta alle apnee potrebbero contribuire ad aggravare la MP. Il gold standard della terapia dell’OSAS è rappresentato dalla ventilazione meccanica a pressione positiva continua (CPAP) che, ripristinando una normale respirazione, garantisce una fisiologica architettura del sonno e la scomparsa della sonnolenza diurna. Utile il controllo del peso corporeo e, durante il sonno, il mantenimento della posizione sul fianco, facilitando i cambiamenti posturali con la fisioterapia e l’ottimizzazione della terapia dopaminergica serale. Recentemente è stato sperimentato anche l’utilizzo di dispositivi di
avanzamento mandibolare con risultati simili a quelli della CPAP. Per quanto riguarda l’eventuale modulazione della funzione respiratoria dei farmaci antiparkinsoniani, i dati in letteratura sono contrastanti. I DA sembrano aumentare il rischio di disturbi respiratori centrali in sonno. Al contrario, in uno studio poligrafico condotto su 57 pazienti, la LD a rilascio prolungato sembra migliorare le apnee in pazienti con MP (23).
DISTURBI DEL SONNO DIURNI w Eccessiva sonnolenza diurna (ESD) L’eccessiva sonnolenza diurna può manifestarsi come “attacchi di sonno”, caratterizzati da sonnolenza improvvisa e irresistibile o come episodi di sonno preavvertito e preceduto da prodromi (sbadigli, lacrimazione, riduzione dell’ammiccamento). L’ESD è presente in circa il 21 per cento dei pazienti con MP ed è più frequente nelle fasi avanzate di malattia (1). L’origine dell’ESD è multifattoriale e vi concorrono l’alterazione del ciclo sonno-veglia, la ridotta mobilità, la presenza di apnee ostruttive e/o di movimenti periodici degli arti durante il sonno, i farmaci dopaminergici ma, soprattutto, la predisposizione individuale alla sonnolenza. Il test delle latenze multiple di sonno (Multiple Sleep Latency Test, MSLT) e il test di mantenimento della vigilanza (Maintenance Wakefulness Test, MWT), comunemente impiegati per la diagnosi di ESD, potrebbero non essere adeguati nei pazienti con MP, come pure la Epworth Sleepiness Scale. La Inappropriate Sleep Composite Score (ISCS) è la scala più specifica per identificare i pazienti con MP a più alto rischio di incidenti stradali. Il trattamento dell’ESD nei pazienti af-
fetti da PD rimane un problema di non facile soluzione. Una volta identificati e trattati i possibili disturbi del sonno che possono esserne causa, è necessario ridurre farmaci quali gli antidepressivi, gli antipsicotici o i sedativi che possono, a loro volta, determinare l’ESD. Per quanto riguarda i farmaci utilizzati nella MP, soltanto la selegilina, l’amantadina e l’entacapone non sembrano interferire con la vigilanza. Tutti i DA determinano maggiore sonnolenza diurna rispetto alla LD, senza differenze significative tra i diversi principi attivi, ma con una relazione diretta con la dose del farmaco. È poi importante educare il paziente a una corretta igiene del sonno (Figura 5). Qualora le strategie descritte non migliorino i sintomi, un farmaco stimolante come il modafinil (100-400 mg) potrebbe risultare efficace, migliorando la percezione della veglia (4, 25). Cefalea, secchezza delle fauci, capogiri, nausea, nervosismo, insonnia e prurito generalizzato sono possibili effetti collaterali legati al suo utilizzo anche se, solitamente, sono lievi e dose-dipendenti. Non ci sono evidenze sufficienti riguardanti l’efficacia e la sicurezza del modafinil soprattutto nel lungo periodo (3, 7, 24). La somministrazione notturna di sodio oxibato (3-9 mg a notte, in due dosi, di cui la prima al momento di coricarsi e la seconda 4 ore dopo) può migliorare l’ESD e la fatica nella MP, ma, anche per questo farmaco, sono necessari ulteriori studi per dimostrarne efficacia e sicurezza considerando, in particolare, il suo potenziale di abuso e la sua funzione depressogena sul sistema nervoso e respiratorio (25). Le stesse considerazioni possono essere fatte per il metilfenidato. Singoli trial hanno suggerito che anche la caffeina (200-400 mg/die) può essere efficace nel trattamento dell’ESD (7).
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Patologie neurodegenerative
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I QUADERNI
di Medico & Paziente
A partire dal mese di gennaio 2017 è disponibile il secondo Quaderno dedicato al DIABETE
Come ricevere i Quaderni di Medico e Paziente Tutti gli abbonati di Medico e Paziente riceveranno gratuitamente il Quaderno Chi sottoscrive un nuovo abbonamento alla rivista Medico e Paziente al costo di 20,00 euro riceverà gratuitamente il Quaderno In assenza di abbonamento è possibile richiedere il Quaderno versando un contributo di 9,00 euro comprensivo di spese di spedizione Le modalità di pagamento sono le seguenti:
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clinica
L’ASA nella prevenzione primaria dell’ictus I vantaggi alla luce delle recenti evidenze cliniche Roberto Sterzi
Primario emerito di Neurologia, Ospedale Niguarda, Milano
Sulla base delle attuali evidenze non si possono formulare conclusioni definitive né a favore e neppure contro l’impiego generalizzato di ASA in prevenzione primaria. In corso vi sono quattro studi che potranno forse meglio chiarire il rapporto fra benefici e rischi di basse dosi di ASA nella prevenzione di esiti molteplici
N
ella prevenzione secondaria delle malattie cardio- e cerebrovascolari, l’aspirina (ASA) a basse dosi riveste un ruolo ormai consolidato. Più controverso è invece il suo utilizzo nella prevenzione primaria, in quanto il bilancio rischio/beneficio è meno favorevole e varia in relazione al rischio di eventi vascolari nel singolo individuo. Questa incertezza si riflette nelle differenze fra le raccomandazioni per l’uso di aspirina in prevenzione primaria delle principali linee guida internazionali che, comunque, propendono per una prescrizione selettiva in quei pazienti altrimenti ritenuti a maggiore rischio. Tuttavia la questione rimane aperta, anche perché convincenti evidenze hanno documentato un effetto protettivo del farmaco nei confronti di alcuni tumori intestinali che trova riscontro anche nell’analisi secondaria di studi cardiovascolari randomizzati indicanti che l’ASA a basse dosi riduce
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in questa popolazione pure l’incidenza combinata di tumore.
Le evidenze in prevenzione primaria cardioe cerebrovascolare I principali studi clinici reperibili in letteratura, almeno quelli che più comunemente ricorrono nelle successive metanalisi, sono al momento dieci (Tabella 1, Figura 1). Tre studi sono stati chiusi prematuramente, PHS e PPP per un apparente vantaggio terapeutico di aspirina, e AAA a causa dell’improbabilità di trovare una differenza negli endpoint finali e dell’aumento del rischio di sanguinamento con l’aspirina. Il dosaggio dell’ASA in due studi del 1988 era di 500 mg e di 350 mg, mentre nei successivi era compreso fra 75 e 100 mg, ma in due studi l’ASA veniva assunta a giorni alterni (325 mg o 100 mg). A questo
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proposito va considerata la possibilità che un’inadeguata inibizione piastrinica durante la seconda metà dell’intervallo di somministrazione potrebbe aver ridotto la dimensione dell’effetto favorevole della profilassi antiaggregante e la potenza statistica in questi due studi (PHS e WHS, peraltro quelli con maggiore numerosità, con un totale di 61.947 soggetti) e quindi mascherare la significativa riduzione dei rispettivi endpoint finali (Patrono 2013). Una discrepanza fra gli esiti più favorevoli dei primi sei studi e quelli più incerti degli ultimi quattro è stata evidenziata da Sutcliffe (2013) e recentemente discussa da Miedema et al. (2016). w I risultati delle metanalisi
Su questi e su altri studi minori sono state condotte sei principali metanalisi (Tabella 2). La prima (ATT, 2009) dimostra che l’adozione di ASA in prevenzione primaria CCV determina una piccola, ma significativa riduzione del rischio assoluto di eventi vascolari maggiori (0,51 vs 0,57 per cento annuo, RR 0,88, 95 per cento CI 0,82–0,94, p =0,0001), a fronte di un incrementato rischio di complicanze emorragiche (emorragie gastrointestinali ed extracraniche: 0,10 vs 0,07 per cento per anno, p <0,0001). La riduzione del rischio è principalmente dovuta all’infarto miocardico non fatale (0,18 vs 0,23 per cento per anno, RR 0,77, 95 CI 0,670,89, p <0,0001), mentre non è significativo il beneficio sull’ictus (0,20 vs 0,21 per cento per anno, RR 0,95, 95 CI 0,85-1,06, p =0,4) e la mortalità vasco-
lare (0,19 vs 0,19 per cento per anno, p =0,7). Tuttavia, per quanto riguarda l’ictus ischemico, l’aspirina determinerebbe una riduzione di rischio maggiore nelle donne rispetto agli uomini (donne: 0,09 per cento aspirina vs 0,11 per cento controllo per anno, RR 0,77, 99 CI 0,590,99; uomini: 0,15 per cento vs 0,15 per cento, RR 1,01, 99 CI 0,74-1,39). Dopo questa prima metanalisi sono stati pubblicati altri quattro importanti studi di prevenzione primaria (POPADAD, JPAD, AAA, JPPP). Questi studi sono stati inclusi nelle più recenti metanalisi. I principali risultati di queste ultime non cambiano sostanzialmente le conclusioni della metanalisi ATT, anche perché gli studi più recenti hanno contribuito solo al 10 per cento della numerosità complessiva. Tuttavia una differenza è rappresentata dalla riduzione della mortalità per qualsiasi causa, marginalmente significativa nelle ultime metanalisi. Nel complesso, l’aspirina determina una riduzione proporzionale del 12 per cento degli eventi vascolari maggiori, soprattutto la riduzione di circa un quinto di infarti miocardici non fatali. w Studi in particolari categorie di pazienti
Alcuni studi hanno cercato di valutare l’efficacia dell’aspirina in prevenzione primaria in alcune specifiche classi di pazienti. Soggetti diabetici sono stati inclusi in diversi studi. Una metanalisi (De Berardis, 2009) su sei studi (per un totale di 10.117 diabetici) non ha mostrato alcuna significativa riduzione negli indicatori di esito primari. Una simile e più recente metanalisi (Kunutsor, 2016) su dieci studi e 16.690 partecipanti ha trovato una lieve benché significativa riduzione degli eventi maggiori cardiovascolari che, tuttavia, non giustifica un cambiamento nell’indicazione a non prescrivere in modo indiscriminato aspirina in prevenzione primaria in tutti i pazienti diabetici. Nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare le evidenze indicano una decisa superiorità degli anticoagulanti sull’aspirina (Zhang, 2015). Anche rispetto all’anticoagulazione a bassa inten-
Figura 1. Metanalisi cumulativa degli odds ratio (OR) per gli eventi cardiovascolari totali I primi studi tendevano a essere più favorevoli. Questo può essere attribuito al miglioramento dei trattamenti per le malattie cardiovascolari nel corso degli anni o ai cambiamenti nei fattori di rischio e negli stili di vita STUDIO
OR (95% CI)
aspirina migliore
comparatore migliore
Fonte: modificata da Sutcliffe 2013
sità l’aspirina in prevenzione primaria in questa patologia non conferisce vantaggi e sembra anzi essere associata a un aumentato rischio di mortalità per tutte le cause (Vazquez, 2015). Nei pazienti con grave insufficienza renale cronica, uno studio su 25.340 soggetti trattati con aspirina a basse dosi ha evidenziato un significativo raddoppio dei livelli di creatininemia e un aumento della mortalità per cause renali, associate a una maggiore incidenza di patologie cardiovascolari su base arteriosclerotica (Kim, 2014). Anche nei pazienti in emodialisi, come suggerisce uno studio prospettico di coorte, l’uso di aspirina a basso dosaggio non era associato ad alcuna significativa diminuzione dei rischi di mortalità per qualsiasi causa, CVD e ictus (Liu, 2016). w Effetto di genere nella prevenzione primaria
Una metanalisi (Berger, 2006) stratificata per sesso ha evidenziato una riduzione significativa del rischio di ictus ische-
mico nelle donne trattate con aspirina rispetto al placebo (24 per cento, OR 0,76, 95 per cento CI 0,63–0,93) a fronte di un aumentato rischio di sanguinamento maggiore principalmente gastrointestinale (OR 1,68; 95 CI 1,13-2,52) e in assenza di aumentato rischio di ictus emorragico (OR 1,07; 95 per cento CI 0,42-2,69). Negli uomini l’effetto era inverso: aumento del rischio di ictus emorragico senza effetto sull’ictus ischemico. Le ragioni per le quali l’aspirina avrebbe una differente efficacia in relazione al sesso nella prevenzione primaria dell’ictus sono ancora poco chiare e richiedono ulteriori studi. Un differente metabolismo dell’aspirina nei due sessi dovuto alla diversa attività piastrinica indotta dagli ormoni sessuali (il testosterone aumenterebbe l’attività piastrinica, mentre gli estrogeni la ridurrebbero) viene evocato come possibile spiegazione. Il diverso profilo d’incidenza dell’ictus e dell’infarto miocardico nei due sessi, il primo proporzionalmente maggiore nelle donne e il secondo negli
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clinica
Tabella 1. Studi di prevenzione primaria delle patologie cardio- e cerebrovascolari con aspirina Nazioni partecipanti
Anno pubblicazione
Numero partecipanti
Durata media follow-up
Popolazione target
Regno Unito
1988
5.139
5,6
M medici
Stati Uniti
1988
22.071
5,0
M medici
Thrombosis Prevention Trial (TPT)
Regno Unito
1998
5.085
6,7
M a rischio CHD
Hypertension Optimal Treatment (HOT)
Europa, Nord America, Sud Asia
1998
18.790
3,8
M/F DPB 100-115 mmHg
Primary Prevention Project (PPP)
Italia
2001
4.495
3,7
M/F a rischio CHD
Stati Uniti
2005
39.876
10,0
F professionisti della salute
Regno Unito
2008
1.276
6,7
M/F DT2 + ABI ≤0,99
Giappone
2008
2.539
4,4
M/F DT2
Regno Unito
2010
3.350
8,2
M/F ABI ≤0,95
Giappone
2014
14.658
5,02
British Doctors’ Trial (BDT) Physicians’ Health Study (PHS)
Women’s Health Study (WHS) Prevention Of Progression of Arterial Disease And Diabetes trial (POPADAD) Japanese Primary Prevention of Atherosclerosis With Aspirin for Diabetes (JPAD) Aspirin for Asymptomatic Atherosclerosis Trial (AAA) Japanese Primary Prevention Project (JPPP)
uomini, potrebbe giustificare un effetto sull’ictus più pronunciato nel sesso femminile rispetto a quello maschile. Infine, la resistenza all’aspirina sembrerebbe più comune nelle donne e sarebbe dovuta alla maggiore funzione piastrinica basale in misurazioni ex vivo rispetto agli uomini che determinerebbe valori più elevati dopo terapia con aspirina. Dal momento però che i numerosi studi di prevenzione secondaria sull’ASA non hanno evidenziato differenze di genere nel tasso di ricorrenza di ictus ed eventi ischemici vascolari, le ragioni per tale apparente differenza in prevenzione primaria rimane oscura (Adelman et al., 2011). Anche l’età potrebbe avere un ruolo determinante nel modificare il rapporto rischi/benefici nella popolazione femminile. Un recente studio (van Kruijsdijk et al.,
16
2015) su 27.939 donne sane reclutate nello Women’s Health Study, non ha mostrato benefici (o addirittura una potenziale nocività) derivanti dall’utilizzo indiscriminato di aspirina a giorni alterni. Tuttavia emergeva un possibile beneficio nel sottogruppo di donne più anziane. Mentre, infatti, considerando l’intero campione di donne, la riduzione del rischio assoluto (ARR) di eventi cardiovascolari maggiori era di 0,27 per cento, corrispondente a un numero di donne da trattare per impedire un evento (NNT, Number needed to treat) di 371, a fronte di un ARR di sanguinamento maggiore gastrointestinale di -0,75 per cento, corrispondente a un NNH (Number needed to harm) di 133, nel sottogruppo di donne di età maggiore di 65 anni, l’ARR saliva a + 3,39 per cento, corrispondente a un NNT di 29.
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M/F
w I rischi connessi all’uso di ASA
I principali eventi avversi connessi all’utilizzo di aspirina anche a basse dosi sono i sanguinamenti gastrointestinali (GI) e le emorragie cerebrali. In uno studio caso-controllo (Lin et al., 2014), nel quale sono stati identificati 2.049 casi in una popolazione e comparati a 20.000 controlli, il rischio di sanguinamenti GI nei pazienti che stavano assumendo aspirina a basso dosaggio rispetto ai non-utilizzatori era pari a 1,90 (ARR; 95 CI 1,59-2,26) nella coorte di prevenzione primaria e veniva causato 1 sanguinamento GI ogni 601 soggetti trattati per un anno con aspirina a basso dosaggio (NNH). Una metanalisi recente (Whitlock et al., 2016) sugli studi di prevenzione primaria con aspirina a dosi ≤100 mg/die o a giorni alterni ha stimato l’odds ratio (OR) relativo al rischio di gravi sanguinamenti gastrointestinali
Range età elegibile (% anziani)
Dose ASA/dì
Tipo di studio
Confronti
19–90 (14%>70)
300-500 mg/dì
aperto
nessuno
45–73 (7%>70)
325 mg/dì alterni
cieco
placebo, β-carotene
75 mg/dì
cieco
placebo, warfarin
50-80 (32%>65)
75 mg/dì
cieco
placebo, 3 regimi pressori
45–94 (50%>65)
100 mg/dì
aperto
vitamina E
>45 (10%>65)
100 mg/dì alterni
cieco
placebo, vitamina E
≥40 (52%>60)
100 mg/dì
cieco
placebo, antiossidanti
30–85 (54%>65)
81-100 mg/dì
aperto
nessuno
100 mg/dì
cieco
nessuno
100 mg/dì
cieco
terapia usuale
45–69
50–75
n/a
n/a
60-80 (55%>70)
pari a 1,58 (95 per cento CI 1,29-1,95) e il rischio di ictus emorragico pari a 1,27 (CI 0,96-1,68). L’eccesso di eventi emorragici maggiori ogni 1.000 persone/ anno esposte ad aspirina è stato stimato pari a 1,39 (CI 0,70-2,28) per i sanguinamenti gastrointestinali e a 0,32 (CI -0,05-0,82) per l’ictus emorragico usando come riferimento un campione osservazionale della popolazione generale. Le revisioni degli studi osservazionali e randomizzati suggeriscono che il rischio di gravi complicazioni GI aumenta ripidamente con l’età, passando da 1-2/1.000 per anno all’età di 60 anni a circa 7/1.000 sopra l’età di 80 anni. Altri importanti fattori di rischio per sanguinamenti extracranici comprendono diabete mellito, il sesso maschile, il fumo di sigaretta, l’ipertensione arteriosa, e un alto indice di massa corporea. Inoltre l’NNH per emorragie GI con aspirina
può variare sino a 100 volte, a seconda della precedente storia GI (nessun evento, dolore GI, ulcera semplice, ulcera complicata) e dell’età del paziente. Va tuttavia considerato che i rischi GI sono dose-dipendenti e che si riducono con dosaggi di 100 mg o inferiori (Eichelbom et al., 2012). Tale relazione dose-risposta riflette almeno due componenti COX-1-dipendenti, ossia l’inibizione dose-dipendente della COX-1 nella mucosa gastrointestinale e doseindipendente (entro la gamma di dosi esaminate) dell’inibizione di COX-1 nelle piastrine. Per quanto attiene alle emorragie intracraniche, nella metanalisi dell’ATTC, l’eccesso assoluto totale di tali emorragie collegate ad ASA era di 1 per 1.000 pazienti/anno nei soggetti ad alto rischio. Inoltre va considerato che anche per le emorragie cerebrali le metanalisi che
considerano le differenze di genere hanno evidenziato una minore incidenza nelle donne rispetto agli uomini. w I pazienti ad alto rischio vascolare
Dagli studi sinora considerati emerge con chiarezza che l’indicazione alla prescrizione dell’aspirina in prevenzione primaria dipende da un corretto bilancio fra i possibili benefici e i potenziali effetti collaterali. Nei pazienti vascolari ad alto rischio con una nota patologia arteriosa e un rischio annuo superiore al 3 per cento di un evento vascolare (definito come infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o morte vascolare) la prevenzione primaria con aspirina ha vantaggi paragonabili a quella secondaria. In questi pazienti infatti, i benefici dell’aspirina superano notevolmente i rischi di sanguinamento, come la metanalisi ormai storica dell’Antithrombotic Trialists’ Collaboration (2002) aveva già mostrato: per ogni 1.000 pazienti trattati per un anno, l’aspirina previene circa 10-20 eventi vascolari con lo svantaggio però di uno o due eventi emorragici gastrointestinali. In una vasta gamma di pazienti ad alto rischio, l’aspirina riduce il rischio di eventi vascolari di circa un quarto, con riduzioni di un terzo di infarto miocardico non fatale, di un quarto di ictus non fatale, e di un sesto di morte vascolare. Va quindi definito quali pazienti sono ad alto rischio di eventi cardiovascolari. Truong (2015) in base alle indicazioni della letteratura, suggerisce di considerare a maggiore rischio gli uomini di età superiore a 55 anni o le donne di età superiore a 65 anni con uno o più dei seguenti fattori di rischio: fumo, ipertensione, dislipidemia, storia familiare di precoce CVD, albuminuria o fibrillazione atriale con una CHADS2 da 0 a 1. Mentre i pazienti ad aumentato rischio di sanguinamento includono quelli con precedente sanguinamento gastrointestinale, con ulcera peptica o che assumono farmaci concomitanti che interagiscono con l’ASA, aumentando il rischio di sanguinamenti (ad esempio, farmaci antinfiammatori non steroidei).
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clinica Uno studio (Miedema, 2014) ha anche suggerito l’uso di un punteggio basato sulla determinazione delle calcificazioni coronariche (coronary artery calcium, CAC) per individuare i pazienti che maggiormente potrebbero beneficiare dell’aspirina in prevenzione primaria. Un approccio pragmatico per individuare i pazienti ad alto rischio candidabili all’utilizzo di aspirina a basso dosaggio nella prevenzione cardiovascolare primaria viene suggerito dall’European Society of Cardiology Working Group on Thrombosis (Halvorsen et al., 2014) che definisce tali i pazienti con rischio di eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico o ictus) a 10 anni superiore al 10 per cento, in particolare quelli con rischio superiore al 20 per cento, e che non sono ad aumentato rischio di sanguinamento (Figura 2). w Analisi costo-efficacia e rapporto beneficio/danno
Algra e Greving (2009) hanno effettuato un’analisi costo-efficacia e costruito un modello diviso per sesso e stratificato per età e rischio di eventi vascolari a 10 anni che consentirebbe di individuare i
soggetti con indicazione al trattamento con aspirina in prevenzione primaria. Il modello tiene conto dei rischi e dei benefici dell’aspirina sulla qualità di vita. L’aspirina viene raccomandata quando il rapporto incrementale costo-efficacia (ICER) aggiustato per anni di vita guadagnati e qualità di vita è inferiore a 20.000 euro. Il rischio di eventi vascolari a 10 anni comprende l’ictus ischemico ed emorragico, infarto miocardico fatale e non fatale. Secondo questo modello, gli Autori raccomandano la prescrizione di aspirina nelle donne di età superiore a 60 anni con un rischio medio di cinque volte aumentato e in quelle di età superiore a 70 anni con un rischio medio raddoppiato, mentre non vi sarebbe indicazione all’uso dell’ASA in donne di età inferiore a 59 anni. Negli uomini, raccomandano la prescrizione di aspirina in soggetti di età superiore a 70 anni, in quelli di età superiore a 50 anni con rischio medio associato di cinque volte, e di oltre 60 anni con un rischio medio raddoppiato. Il rapporto beneficio/danno permette di differenziare le possibili opzioni per la
Figura 2. Proposta di un approccio graduale pratico per l’uso di aspirina in prevenzione primaria cardiovascolare
Fase 1. Valutare il rischio a 10 anni di eventi cardiovascolari maggiori
Fase 2. Valutare l’anamnesi: storia di emorragia senza cause reversibili, uso concomitante di altri farmaci che aumentano il rischio di sanguinamento
Considerare la storia familiare di patologie gastrointestinali (in particolare colon) e i valori e le preferenze del paziente Stop Andare avanti con cautela
Aspirina a basso dosaggio
Procedere
Fonte: modificata da Halvorsen 2014
18
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Tabella 2. Metanalisi
Anno
Numero studi
ATTC
2009
6
Raju et al.
2011
9
Bartolucci et al.
2011
9
Seshasai et al.
2012
9
Xia et al.
2014
14
Guirguis-Blake et al.
2016
11
prevenzione primaria in una popolazione. In uno studio (Stegeman 2015) che ha utilizzato questo rapporto, l’analisi principale e quelle di sensibilità hanno mostrato che l’aspirina in prevenzione primaria produce più vantaggi che danni. Nell’analisi principale, l’indice (positivo se in più di 10 anni per 1.000 persone il numero di eventi prevenuti è superiore al numero di eventi danno) variava da 2 (95 CI 0,0 - 11,8 nelle donne di età da 45 a 54 anni) a 8 (95 CI -0,1 - 83,7 negli uomini di età da 65 a 74 anni). Nell’analisi di sensibilità, l’indice è risultato positivo anche per tutte le fasce di età, suggerendo che i benefici erano superiori ai danni. Secondo un modello proposto da Puhan et al. (2015), e reperibile sul sito http:// www.benefit-harm-balance.com, l’aspirina a basso dosaggio offrirebbe più benefici di quanti danni procura, soprattutto nei maschi, nelle persone anziane, e in quelle a basso rischio di gravi sanguinamenti gastrointestinali. Il vantaggio di questi modelli è che permettono di tenere conto delle preferenze individuali e dell’impatto di queste sul rapporto beneficio/danno. Per esempio, per gli individui nei quali è una priorità prevenire ictus e i tumori del colon
Principali metanalisi degli studi di prevenzione primaria con aspirina Numero soggetti inclusi
Misura di rischio
Mortalità complessiva
Mortalità CV
Eventi CV maggiori
Eventi coronarici
IMA non fatali
Ictus
95.000
rate ratio (95% CI)
0,95 (0,88–1,02)
0,97 (0,87–1,09)
0,88 (0,82–0,94)
0,82 (0,75–0,90)
0,77 (0,67–0,89)
0,95 (0,85–1,06)
100.076
relative risk (95% CI)
0,94 (0,88–1,00)
0,96 (0,84–1,09)
0,88 (0,83–0,94)
0,83 (0,69–1,00)
n/a
0,93 (0,82–1,05)
100.038
odds ratio (95% CI)
0,95 (0,88–1,01)
0,96 (0,80–1,14)
0,87 (0,80–0,93)
0,85 (0,69–1,06)
0,81 (0,67–0,99)
0,92 (0,83–1,02)
102.621
relative risk (95% CI)
0,94 (0,88–1,00)
0,99 (0,85–1,15)
0,90 (0,85–0,96)
0,86 (0,74–1,01)
0,80 (0,67–0,96)
0,94 (0,84–1,06)
107.686
risk ratio (95% CI)
0,94 (0,89–0,99)
1.04 (0,86 – 1,25)
0,90 (0,85–0,95)
n/a
0,86 (0,75–0,93)
0,95 (0.87 - 1.05)
118.445
relative risk (95% CI)
0,94 (0,86 - 1,03)
0,94 (0,89 – 0,99)
0,78 (0,71 - 0,87)
0,95 (0,85-1,06)
mentre considerano di scarsa importanza i sanguinamenti gastrointestinali gravi, il rapporto beneficio-danno sarebbe a favore dell’aspirina a basso dosaggio, mentre nelle persone che hanno priorità opposte il rapporto si capovolgerebbe a sfavore dell’aspirina.
ASA e prevenzione primaria delle neoplasie Nel settembre 2015, la U.S. Preventive Services Task Force-USPSTF (Dehmer et al., 2016), che nella precedente edizione del 2007 sconsigliava l’uso di aspirina per la prevenzione dei tumori colorettali, ha modificato la propria posizione raccomandando aspirina (81 mg/die) per la prevenzione delle patologie croniche, comprese le neoplasie colorettali, in adulti con un rischio cardiovascolare a 10 anni >10 per cento con grado “B” se di età compresa tra 50 e 59 anni, e con grado “C” se fra 60 e 69 anni (riquadro). Questa modifica è stata decisa in seguito alla pubblicazione di nuove evidenze sull’efficacia dell’aspirina nella prevenzione delle neoplasie colorettali. Il follow-up a lungo termine degli studi
randomizzati con aspirina quotidiana vs controlli in prevenzione cardiovascolare ha infatti, mostrato che basse dosi di aspirina riducono l’incidenza e la mortalità di tumori del colon-retto in un periodo di 8-10 anni (Rothwell et al. 2010), le morti per diversi altri tumori comuni dopo un intervallo di 5-15 anni (Rothwell et al. 2011) e l’incidenza di metastasi (Rothwell et al. 2012). I risultati sono sorprendenti in quanto le dosi più basse utilizzate in questi studi (75-100 mg una volta al giorno) sembrano essere parimenti efficaci alle dosi più elevate (300-1.200 mg al giorno). Successivamente, un’analisi combinata di sei studi di prevenzione primaria di uso quotidiano di basse dosi di aspirina (75-100 mg) ha riscontrato una simile riduzione (HR 0,76, 95 CI 0,66-0,88; p =0,0003) nell’incidenza globale del cancro durante il follow-up già dopo 3 o più anni con aspirina, e una riduzione della mortalità totale per cancro (HR 0,63; 95 CI 0,47-0,86; p = 0,004) dopo 5 anni. È interessante notare che non si sono osservate differenze di genere nella riduzione dell’incidenza di cancro indotta dall’aspirina. Uno studio (Cook et al., 2013) ha valutato l’efficacia di ASA a basse dosi (100 mg) a dì alterni nella prevenzione
primaria dei tumori in 39.876 donne di età superiore a 45 anni, reclutate nel Women’s Health Study. Mentre non si sono registrate diminuzioni nel numero complessivo di tumori, l’incidenza di neoplasie colorettali è risultata ridotta nel gruppo trattato con aspirina (HR 0,80 CI 0,67-0,97; p =0,021), principalmente per il cancro del colon prossimale (HR 0,73 CI 0,55-0,95; p =0,022). La differenza è emersa dopo 10 anni, con una riduzione post-trial del 42 per cento (HR 0,58 CI 0,42-0,80; p <0,001). Come atteso, nel gruppo con aspirina si sono verificati più sanguinamenti gastrointestinali (HR 1,14 CI 1,06-1,22; p <0,001) e ulcere peptiche (HR 1,17 CI 1,09-1,27; p <0,001). Questi recenti dati complessivamente impongono l’opportunità di una riconsiderazione del bilancio rischi-benefici nelle raccomandazioni relative alla prescrizione di aspirina in prevenzione primaria.
Conclusioni In base alle evidenze disponibili non si possono formulare conclusioni definitive né a favore e neppure contro un utilizzo generalizzato dell’aspirina in prevenzione primaria. Vi sono quattro studi in cor-
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clinica Le raccomandazioni delle linee guida statunitensi Linee guida dell’American Heart Association/ American Stroke Association (Meschia et al., 2014)
Linee guida dell’U.S. Preventive Services Task Force (Bibbins-Domingo et al., 2016)
l L’uso di aspirina per la prevenzione cardio- e cerebrovascolare (CCV) è raccomandato per le persone il cui rischio di eventi CCV è sufficientemente elevato (rischio a 10 anni >10 per cento) rispetto ai rischi associati al trattamento (Classe II, Livello di evidenza A). Un calcolatore del rischio cardiovascolare è reperibile sul sito: http://my.americanheart.org/cvriskcalculator. l Non viene viceversa consigliata l’aspirina per evitare un primo ictus in persone a basso rischio (Classe III, Livello di evidenza A), come pure in persone con diabete (Classe III, Livello di evidenza A) o con diabete e arteriopatia periferica asintomatica (ABI <0,99) in assenza di altra patologia CCV (Classe III, Livello di evi-
l Negli adulti di età compresa tra 50 e 59 anni che hanno un rischio di CVD a 10 anni pari o superiore al 10 per cento, non hanno un eccessivo rischio di sanguinamento, hanno un'aspet-
denza B). l Nelle donne a rischio o sane, l’aspirina (81-100 mg/die) potrebbe essere utile in quelle di età superiore a 65 anni se la pressione arteriosa è controllata e il beneficio nella prevenzione dell’ictus e dell’infarto del miocardio è verosimilmente superiore al rischio di emorragia gastrointestinale e di ictus emorragico (Classe IIa, Livello di evidenza B). l Nelle persone con malattia renale cronica (ad esempio, velocità di filtrazione glomerulare stimata <45 ml/min/1,73 m2), l'aspirina potrebbe essere considerata per la prevenzione di un primo ictus (Classe IIb, Livello di evidenza C). Questa raccomandazione non si applica alle gravi malattie renali (fase 4 o 5; velocità di filtrazione glomerulare stimata <30 ml/min/1,73 m2).
so che potranno meglio precisare il rapporto fra rischi e benefici di basse dosi di aspirina nella prevenzione di esiti molteplici (non solo eventi cardio- e cerebrovascolari ma anche cancro e demenza): ASCEND (https://clinicaltrials.gov/ct2/ show/NCT00135226) e ACCEPT-D nei diabetici (www.trialresultscenter.org/ study8830-ACCEPT-D.htm), ASPREE nell’età avanzata (https://clinicaltrials.
tativa di vita di almeno 10 anni, e sono disposti a prendere basse dosi di aspirina al giorno per almeno 10 anni si raccomanda di iniziare l'uso di aspirina a basso dosaggio per la prevenzione primaria della malattia cardiovascolare (CVD) e del cancro colorettali (CRC) (Raccomandazione B). l Negli adulti di età compresa tra 60 e 69 anni la decisione di iniziare l'uso di aspirina a basso dosaggio per la prevenzione primaria di CVD e CRC dovrebbe essere individualizzata in base al rischio di CVD (10 per cento o superiore a 10 anni) e alle preferenze del paziente (più interessate ai potenziali benefici che ai danni potenziali). Le persone che non sono ad aumentato rischio di sanguinamento, hanno un'aspettativa di vita di almeno 10 anni, e sono disposti a prendere basse dosi di aspirina al giorno per almeno 10 anni hanno maggiori probabilità di trarre beneficio (Raccomandazione C). l Le evidenze attuali sono insufficienti per valutare il rapporto fra benefici e rischi per l'uso di aspirina per la prevenzione primaria di CVD e CRC negli adulti di età inferiore ai 50 anni (I Statement). l L'evidenza attuale è insufficiente per valutare l'equilibrio dei benefici e rischi di avvio all’uso di aspirina per la prevenzione primaria della malattia cardiovascolare e CRC negli adulti di età compresa tra 70 o più anni (II Statement).
gov/ct2/show/NCT01038583) e ARRIVE (https://clinicaltrials.gov/ct2/show/ NCT00501059) nei pazienti con più fattori di rischio. Per il momento, la decisione clinica relativa alla prescrizione di aspirina in prevenzione primaria non può che essere una scelta personalizzata e condivisa che si deve basare sull’adeguata conoscenza dei dati disponibili (bilancio fra il beneficio atteso in termini
di riduzione del rischio vascolare e neoplastico e il danno atteso nei termini di eventi emorragici GI e cerebrali), sulla valutazione del livello del rischio cardioe cerebrovascolare del singolo paziente (basso, medio, elevato) e comunque non dovrebbe prescindere dalle preferenze e dai valori del paziente (quanto sia preferibile per una persona evitare un ictus o evitare un evento emorragico).
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NEWS congressi American Academy of Neurology - 22-28 aprile, Boston
La sclerosi multipla al centro del meeting dei neurologi americani È ormai ampiamente consolidato nell’ambito della comunità scientifica che l’avvio di una terapia adeguata subito dopo la diagnosi è in grado di rallentare il declino fisico e cognitivo associato alla sclerosi multipla (SM); evidenze avvalorate peraltro, anche dagli studi in real life. Al riguardo, sono stati presentati interessanti risultati alla 69sima edizione del meeting dell’American Academy of Neurology relativi alle terapie con dimetilfumarato e natalizumab Nel confronto con altri trattamenti orali, dimetilfumarato (DMT) ha confermato la sua efficacia sia nei pazienti naïve, sia in quelli già trattati con un farmaco modificante la malattia (DMD): il DMT ha ridotto significativamente il rischio di recidiva (30 per cento) rispetto a teriflunomide e la sua efficacia è risultata paragonabile a fingolimod. Le analisi dei sottogruppi degli studi in aperto PROTEC e RESPOND hanno valutato DMT, rispettivamente, nei pazienti con SM nelle fasi precoci e in quelli che effettuano un passaggio precoce al farmaco, da un precedente DMD. I risultati mostrano che DMT ha ridotto significativamente il tasso di recidiva annualizzato (ARR) nell’arco di un anno nei sottogruppi con SM nelle fasi precoci, compresi i sottogruppi di pazienti che sono passati a DMT da una terapia convenzionale. I nuovi dati dell’Observational Program su natalizumab (TOP) dimostrano che il trattamento tempestivo e continuato procura esiti clinici migliori nei pazienti con elevata attività di malattia. I parametri valutati sono stati l’ARR e il miglioramento o il peggioramento delle disabilità all’EDSS. Nell’arco di 3 anni, è stata riscontrata una probabilità significativamente mag-
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giore di miglioramento della disabilità nei pazienti trattati con natalizumab entro un anno dalla comparsa dei sintomi (49,3 per cento) rispetto a quelli trattati entro uno e fino a cinque anni (38,1 per cento) o dopo più di cinque anni (26,3 per cento) dall’insorgenza dei sintomi. Sempre gli studi in real world confermano l’efficacia di un “classico” nella SM, ovvero fingolimod, nel trattamento a lungo termine. Lo studio MS-MRIUS dimostra che fingolimod ha avuto un impatto positivo sull’attività di malattia nei soggetti SMRR fino a 16 mesi. È anche la prima volta in cui si è dimostrato che le scansioni RM di routine, effettuate nella pratica quotidiana, possono essere utilizzate in modo affidabile nelle persone con SMRR, per misurare la perdita del volume cerebrale. Al follow-up intermedio di 16 mesi, l’85,8 per cento dei soggetti trattati era in terapia. Lo status NEDA-3 (combinazione di nessuna recidiva, nessuna lesione nuova o di nuovo allargamento alla RM e nessuna progressione della disabilità) è stato raggiunto dal 59,6 per cento dei soggetti idonei a tale valutazione. Lo status NEDA-4 (NEDA-3 con l’aggiunta dell’assenza della perdita del volume cerebrale) è stato raggiunto
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da più di un terzo dei soggetti idonei a tale valutazione. Tra i pazienti NEDA-4, l’86,5 per cento di quelli trattati con fingolimod non ha avuto recidive, il 91,1 non ha sperimentato alcuna progressione della disabilità e il 79,7 non ha presentato alcuna lesione nuova o di nuovo allargamento alla RM. Inoltre, il 58,2 per cento dei pazienti non ha manifestato alcuna perdita del volume cerebrale correlato alla SM superiore allo 0,4 per cento, valore sovrapponibile a quanto si osserverebbe nelle persone non affette da SM. Al meeting di Boston sono stati presentati anche nuovi dati relativi a cladribina, molecola il cui dossier registrativo è attualmente in fase di valutazione. I risultati di un’analisi di sottogruppo dello studio CLARITY, condotto su 289 pazienti con elevata attività di malattia, hanno dimostrato una riduzione significativa del rischio di progressione della disabilità e di recidiva con il farmaco a un dosaggio di 3,5 mg/kg rispetto al placebo, nei soggetti con SM recidivante e naïve al trattamento oppure trattati in precedenza con un DMD. Dati molto significativi, poiché indicano che i pazienti con maggiore attività di malattia trattati hanno dimostrato una risposta più importante rispetto a quella osservata nella popolazione complessiva dello studio clinico CLARITY. Sul fronte della safety, l’analisi su pazienti in terapia con cladribina per 20 giorni nell’arco di 2 anni, ha dimostrato che a seguito dei 10 giorni di trattamento durante il primo anno, la conta linfocitaria mostrava un valore medio basso, pari a 1,00×109/l. Tuttavia, questo valore alla fine del primo e secondo anno di trattamento era rientrato nei valori di riferimento di normalità. Nel corso dei due anni dello studio CLARITY, l’evento avverso più comunemente riportato nei pazienti è stato la linfopenia.
NEWS STRESA HEADACHE 2017 International Multidisciplinary Seminar – 25-27 maggio, Stresa
Le cefalee a 360 gradi: dalla ricerca clinica agli aspetti sociali ed etnopsichiatrici
Il congresso Stresa Headache 2017 svoltosi a fine maggio conclude il primo ventennio di seminari interdisciplinari che ogni due anni raccolgono sulle rive del lago Maggiore i principali studiosi di mal di testa del mondo con studi e ricerche originali poi pubblicati sulla rivista Neurological Sciences della SpringerVerlag che dedica a ogni appuntamento congressuale un supplemento divenuto punto di riferimento per seguire l’evoluzione dello studio delle cefalee degli ultimi vent’anni con un elevato standard scientifico e un upto-date di raro riscontro Il presidente del Convegno Gennaro Bussone, specialista di fama internazionale nella patologia cefalalgica, che ha lanciato questi seminari con l’imprimatur del Centro Cefalee da lui fondato all’Istituto Nazionale Neurologico Besta di Milano poi divenuto Fondazione, sottolinea che hanno ripercorso tutte le fasi
della ricerca e della clinica fino all’attuale rivoluzione degli anticorpi monoclonali CGRP. Un aspetto insolito sottolineato nella giornata conclusiva da Frank Andrasik dell’Università di Memphis è la correlazione addirittura anatomica fra emozioni e dolore che si può combattere sfruttando questa ambivalenza: sotto la guida del medico infatti, le pratiche di mindfulness dimostrano un’efficacia comparabile ai farmaci che talora può essere addirittura superiore e il segreto sembra risiedere nella capacità di ridurre marker dello stress come l’interleuchina-6 che sono coinvolti nei meccanismi di scatenamento del dolore. All’ultimo congresso dell’American Academy of Neurology, uno studio condotto da Andrasik in collaborazione con Licia Grazzi del Centro Cefalee del Besta di Milano aveva dimostrato che in situazione di abuso nell’emicrania cronica le tecniche di mindfulness hanno un’efficacia simile ai farmaci. Queste tecniche stanno sempre più emergendo nel trattamento del dolore, ma non erano mai state provate nell’emicrania e in quella cronica in particolare. Poiché dopo la sospensione di un trattamento in cui si è instaurato abuso, i pazienti tendono a migliorare nel breve periodo, per poi tornare ai livelli di sofferenza precedenti, Licia Grazzi si era premurata di sottolineare che avrebbe tenuto sotto osservazione i pazienti per verificare se la mindfulness avrebbe mantenuto le promesse nel lungo termine. I risultati esposti a Stresa non solo ne hanno confermato l’efficacia, ma ne sono usciti addirittura rafforzati. Il congresso di Stresa ha comunque preso in considerazione tutti gli aspetti translazionali della ricerca clinica, da quelli sociali a quelli di comorbidità, a quelli professionali, di scolarità e di qualità
della vita, fino addirittura a quelli etnopsichiatrici. Sono emersi per esempio dati peculiari come quello che è già stato soprannominato il mal di testa da telefonino: al secondo posto fra i migliori lavori presentati e premiati è arrivato infatti uno studio del gruppo di Aldo Quattrone dell’Università Magna Grecia di Catanzaro, giunto comunque primo per diffusione mediatica perché, grazie al rilancio dell’Agenzia stampa AdnKronos, è finito sui media di mezza Italia. Si tratta della scoperta che l’uso prolungato del telefonino può scatenare dopo mezz’ora mal di testa per un’alterazione della pressione endocranica, un aspetto di cui d’ora in poi si dovrà tenere sempre più conto. Un’altra conferma del ruolo dell’ipertensione endocranica nella genesi del mal di testa arriva dallo studio di Roberto De Simone dell’Università Federico II di Napoli che dimostra come l’infusione di mannitolo possa risolvere il cosiddetto stato di male emicranico, un violento attacco che dura oltre 72 ore e spesso porta al Pronto Soccorso dove viene trattato, spesso inutilmente, con dosi massicce di triptani, analgesici, ergotaminici, antiemetici, ansiolitici, fino a corticosteroidi per via endovenosa, in genere desametasone. Gli oncologi usano il mannitolo per le sue proprietà osmotiche al fine di ridurre l’edema intracranico dei tumori cerebrali espansivi. Anche nello stato di male si verifica ipertensione endocranica nel 90 per cento dei casi che non rispondono ai convenzionali trattamenti. L’ipertensione determina lo «schiacciamento» di un tratto più o meno lungo del seno trasverso facendo aumentare sempre di più la pressione liquorale, e innescando un circolo vizioso che alla fine trova un suo equilibrio che oscilla attorno a valori pressori sensibilmente più elevati (+ 49 per cento).
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NEWS congressi Il nuovo equilibrio si chiama SVC, acronimo di self-limiting collapse, che, automantenendosi per ragioni pressorie, fa
persistere lo stato di male a dispetto delle terapie che nulla possono sui meccanismi fisicodinamici del fenomeno che
viene turbato solo dalle proprietà osmotiche del mannitolo che li combatte sul loro stesso piano.
Meeting annuale Accademia LIMPE-DISMOV – 17-19 maggio, Verona
Il sottile confine tra Parkinson e demenza Dal 17 al 19 maggio si è svolto a Verona il 3° congresso nazionale dell’Accademia Italiana LIMPE-DISMOV con oltre 700 partecipanti, al quale è poi seguito fino al 20 senza soluzione di continuo e nella stessa sede del Palazzo della Gran Guardia il corso Movement Disorders: Bridging Basic Science with Clinical Medicine, organizzato dall’International Parkinson and Movement Disorders Society Il presidente del congresso Michele Tinazzi della locale Università ha anche colto l’occasione per celebrare il bicentenario della scoperta della malattia di Parkinson in un momento storico in cui l’Accademia fa il punto sul confine fra gli universi delle due più diffuse patologie neurodegenerative, Parkinson e demenze, definendone le aree di overlapping e d’incontro, in modo da dissipare confusioni. Da qualche anno si sottolinea l’importanza del sottile deficit cognitivo definito PD-MCI, acronimo di Parkinson disease with mild cognitive impairment e della ancora più subdola e frequente forma sottosoglia definita non-amnestic PD-MCI, condizioni che possono aumentare il rischio di un viraggio in Parkinson-demenza nel lungo termine. Ma il ruolo chiave nella malattia di Parkinson appare ormai quello svolto dall’accumulo di alfa-sinucleina nei neuroni dopaminergici della sostanza nera ed è questa proteina a caratterizzarsi sia come primum movens neurodegenerativo, sia come biomarker precoce. Sul versante clinico sono da segnalare i risultati del PACOs Study (Parkinson’s disease COgnitive impairment Study) condotto dai ricercatori dell’Università di Catania e Palermo che indicano come la frequenza di PD-MCI aumenti con l’aumentare dell’età e della compromissione motoria. Un test per pazienti di madrelingua italiana messo a punto sotto la direzione di Michele Tinazzi, dai ricercatori delle Università di Padova e Verona e dell’Ospedale Pederzoli di Peschiera del Garda ha evidenziato una sensibilità del 73 per cento e una specificità del 100 per cento per la diagnosi di PD-MCI e ne consentirà un precoce riconoscimento potendo diventare un potenziale marker di previsione di Parkinson-demenza a lungo
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termine, nonché un utile parametro longitudinale per la valutazione oggettiva del peggioramento clinico della malattia. L’interesse per la PD-MCI non è strano: la popolazione italiana continua a invecchiare con ritmi vertiginosi e gli over 65 sono ormai quasi un quarto della popolazione, con 727mila italiani oltre i 90 anni. A destare le maggiori preoccupazioni sono proprio le patologie neurodegenerative come demenza e malattia di Parkinson (almeno 230mila italiani) che stanno per ricadere come uno tsumani sulle spalle dei neurologi che al convegno veronese hanno indicato in una tavola rotonda dal titolo “Parkinson: aspetti organizzativo-gestionali” come l’unica possibilità di fronteggiarlo sia l’operatività condivisa fra i vari centri. Anche perché i neurologi non basteranno: secondo uno studio pubblicato 2 anni fa su Neurology per contrastare in tutto il mondo questa valanga di pazienti entro il 2025 sarebbero dovuti aumentare almeno del 19 per cento. La presa in carico del paziente con Parkinson richiede inoltre un approccio multidisciplinare con il coinvolgimento di varie figure professionali: dal medico di medicina generale al neurologo, dal fisiatra agli specialisti di supporto (cardiologi, gastroenterologi, nutrizionisti ecc.) nonché assistenti sociali e associazioni di volontariato. La messa a punto di percorsi integrati di diagnosi e cura per una continuità ospedale-territorio con una rete di servizi in grado di gestire l’evoluzione della patologia si è concretizzata nella proposta di Roberto Eleopra, Direttore SOC di Neurologia dell’Azienda Sanitaria Universitaria di Udine di un Percorso Parkinson. Prevede una prima valutazione del medico di base che, dopo accertamenti strumentali minimi, invia il paziente agli specialisti del Centro per Disordini del Movimento di II° livello che confermeranno la diagnosi con indagini strumentali più mirate definendo la gestione dei casi più complessi. Così il Centro per i Disordini del Movimento di I livello potrà meglio occuparsi dei pazienti cronici. Per gli interventi di tipo sociosanitario Eleopra pensa invece a una rete socio-assistenziale con Unità di valutazione multidisciplinari. Un modello di “rete Parkinson” regionale è quello indicato da Claudio Pacchetti, direttore del Centro Parkinson della Fondazione IRCCS Mondino di Pavia, che riprende il modello “Hub and Spoke”, con centri di riferimento di II° livello dotati di posti letto e personale dedicati e un’offerta diagnostico-terapeutica estesa dalla genetica alla DBS e con centri territoriali provinciali dotati di ambulatori di primo livello (SPOKE).
NEWS La riabilitazione nella malattia di Parkinson Un workshop di aggiornamento
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metà settembre si riuniranno nella splendida cornice del lago di Como, presso l’ospedale Moriggia Pelascini, di Gravedona ed Uniti, i maggiori specialisti nazionali e internazionali che si occupano di riabilitazione nella malattia di Parkinson. Abbiamo chiesto al professor Giuseppe Frazzitta, direttore del Dipartimento di riabilitazione Malattia di Parkinson e gravi cerebrolesioni, dell’ospedale Moriggia Pelascini, di presentarci gli obiettivi dell’workshop.
Professore, ci può illustrare brevemente quali sono le finalità dell’incontro? Gli obiettivi sono quelli di fare il punto sugli aspetti riabilitativi della malattia di Parkinson (MP) e sulle sue componenti cognitive, sia dal punto di vista clinico che riabilitativo. Sulla tematica si confronteranno i maggiori esperti del settore a livello mondiale che abbiamo invitato a partecipare all’incontro, che dunque si delinea come il più importante appuntamento in Italia nel 2017 sulla MP. Obiettivo primario è quello di sensibilizzare i colleghi neurologi sull’importanza della riabilitazione, peraltro scientificamente dimostrata nella MP, ma ancora poco conosciuta dai neurologi italiani. Quindi questo workshop è molto importante per creare nuove conoscenze e permettere un trattamento della malattia più appropriato e una migliore qualità di vita del paziente. Al riguardo è importante sottolineare che ogni singolo relatore presenterà dati inediti. Il convegno sarà sponsorizzato dalla National Parkinson Foundation, la più importante fondazione privata americana che si occupa di finanziare gli studi sulla malattia di Parkinson, e dalla Fresco Foundation per la malattia di Parkinson, un network italiano e americano che ha scelto nel nostro Paese alcune strutture al fine di creare una rete di eccellenza. Gravedona è uno dei cinque centri scelti per questo tipo di network.
Quali sono i sintomi per i quali ci sono evidenze di efficacia della riabilitazione? Noi sappiamo che la MP in realtà non è legata soltanto a una disfunzione dopaminergica, ma anche tutti gli
altri sistemi neurotrasmettitoriali sono coinvolti in misura maggiore o minore. Questo vuol dire che alcuni sintomi come disturbi del cammino, disturbi dell’equilibrio disturbi della postura hanno una prevalenza e interessamento di altri sistemi neurotrasmettitoriali, rispondono molto poco alla terapia farmacologica e sono responsabili della bassa qualità di vita dei pazienti. In questi anni la riabilitazione si è proposta proprio come strumento utile sia nel prevenire lo sviluppo di alcuni di questi sintomi sia nel trattamento degli stessi, come parte fondamentale insieme alla terapia farmacologica.
Quali sono gli aspetti salienti della riabilitazione cognitiva nel paziente con Parkinson? Tutta la riabilitazione neurologica è di fatto una riabilitazione cognitiva; nel caso della MP si tratta di una riabilitazione cognitiva del movimento. Il paziente affetto da Parkinson ha perso gli automatismi, ovvero tutta la parte dei movimenti automatici è andata perduta in conseguenza della malattia. La riabilitazione che si fa nella MP è proprio una riabilitazione di tipo cognitivo, allo scopo di aiutare e permettere l’apprendimento motorio. Quindi si utilizzano strategie di tipo riabilitativo (robotica, posturale, idroterapia), ma anche il trattamento front to front con il fisioterapista che ha come caratteristica l’utilizzo di alcuni strumenti tipo cues, feedback, cognitive engagement ossia tutti quei “trucchi del mestiere” che permettono di mantenere viva la funzione per riprendere il movimento.
…quindi sarà un simposio rivolto a più specialisti? Esattamente. Il convegno è aperto oltre ai neurologi, ai geriatri e ai fisiatri, ai fisioterapisti ai terapisti occupazionali, ai terapisti del linguaggio, agli infermieri: in pratica a tutte quelle figure che lavorano in maniera multidisciplinare per la cura del paziente con malattia di Parkinson, in quanto è assodato ormai che l’approccio multidisciplinare è l’unico in grado di modificare la qualità di vita del paziente.
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NEWS farmaci Disturbi del sonno
Un integratore fitoterapico si rivela promettente nell’insonnia primaria L’insonnia primaria è uno tra i disturbi del sonno di più frequente riscontro nella popolazione generale, e comprende tutte quelle forme che non presentano alcuna associazione con patologie di natura organica o psichiatrica. Il corteo sintomatologico che accompagna l’insonnia primaria è ampio: difficoltà di addormentamento, frequenti risvegli notturni, sonno non ristoratore ai quali si susseguono difficoltà di concentrazione diurna, stanchezza e sonnolenza, irritabilità. L’insieme determina uno scadimento della qualità di vita del paziente che ne soffre, con limitazioni nello svolgimento delle attività quotidiane, lavorative e sociali. Una corretta igiene del sonno è il primo approccio da consigliare, anche se spesso si rivela non sufficiente e dunque va coadiuvato da un’opportuna terapia farmacologica. Gli ipnoinducenti sono un caposaldo del trattamento, tuttavia il loro impiego presenta alcune limitazioni. In particolare, le persone anziane, per la presenza di comorbidità, sono la categoria maggiormente sensibile agli effetti collaterali di questi farmaci, e spesso i rischi superano i benefici del trattamento. Per questo se ne raccomanda l’impiego alla minima dose efficace e per il minor tempo possibile. Lo studio di preparati fitoterapici i cosiddetti “botanicals” sta
aprendo una nuova strada nel trattamento. A questo riguardo, segnaliamo uno studio italiano (Palmieri G et al. Nature and Science of Sleep 2017) che è stato condotto da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda, di Milano, e membri dell’Associazione Anardi, che aveva lo scopo di valutare l’efficacia e tollerabilità di un integratore fitoterapico contenente estratti di valeriana, luppolo e giuggiolo (Vagonotte®, Cristalfarma) dalle note proprietà ansiolitiche e rilassanti, in soggetti affetti da insonnia primaria. Nel trial, 120 pazienti sono stati randomizzati a ricevere l’integrazione (60 pz.) o placebo (60 pz.), in
SMPP: ok dell’FDA per ocrelizumab Ai primi di aprile l’Ente regolatorio USA ha dato l’approvazione per ocrelizumab (Ocrevus, Roche) nel trattamento dei pazienti adulti affetti da sclerosi multipla primaria progressiva (SMPP) e da SMRR. Negli studi clinici di fase 3 che hanno portato all’approvazione del farmaco, ocrelizumab oltre alla sua efficacia vs interferone nelle forme SMRR, ha raggiunto risultati del tutto nuovi, e che nessun’altra molecola aveva finora dimostrato: nello specifico il trattamento comportava una riduzione significativa di progressione della forma SMPP. Ocrelizumab è un anticorpo monoclonale iniettabile che colpisce selettivamente le cellule B CD20+, tra le principali responsabili del danno alla mielina e all’assone che si osserva nella SM e che determina disabilità. Ora è atteso l’ok da parte dell’Ema.
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2 compresse/die da assumere 30 minuti prima di andare a dormire. Qualità del sonno e attività quotidiane sono state valutate al basale, e a 10 e 20 giorni di trattamento. Per quel che riguarda il tempo di addormentamento, il numero di risvegli notturni e la durata complessiva del sonno sono state osservate significative differenze tra i due gruppi (p <0,001); dopo 20 giorni, il tempo di addormentamento nel gruppo che aveva ricevuto l’integratore era diminuito (di 60 minuti) rispetto a quanto riscontrato nel gruppo placebo (diminuzione di 15 minuti), e la durata del sonno risultava aumentata (398 minuti vs 360). Una migliore qualità del sonno si rifletteva in modo positivo sulle attività diurne: dopo 20 giorni di assunzione molti pazienti riferivano un calo della tensione e dell’irritabilità. Quasi la totalità (98 per cento) ha giudicato il trattamento, in termini di efficacia, da buono a eccellente; sul fronte della tollerabilità non sono state segnalate reazioni avverse. Lo studio dunque apre nuove prospettive nella gestione dell’insonnia primaria, e sono auspicabili ulteriori ricerche per approfondire il ruolo dei fitoterapici in questo ambito.
Premio Merck
Al via la seconda edizione
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o scorso 15 maggio si è ufficialmente aperta la seconda edizione del premio Merck in Neurologia, patrocinato dalla Sin. Il bando dal titolo “Interazione tra ospedale e territorio attraverso strumenti di digital health per migliorare la qualità di vita del paziente con sclerosi multipla” è rivolto a Enti universitari e ospedalieri, Irccs, Associazioni di pazienti. I partecipanti hanno tempo fino al 31 luglio per presentare le proprie proposte volte a migliorare la qualità di vita delle persone affette da sclerosi multipla. Il Premio, che quest’anno ammonta a 80mila euro, finanzierà i due progetti che sapranno coniugare al meglio innovazione e relazione tra i centri, attraverso soluzioni tecnologiche avanzate. Tutte le informazioni e il bando sono disponibili sul sito www.premiomerckneurologia.it.
farmaci NEWS Sesta edizione del meeting BEMS Focus su genitorialità e sclerosi multipla
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e fino a 20 anni fa affrontare il tema della genitorialità nei pazienti affetti da sclerosi multipla (SM) era quasi un tabù, i progressi della ricerca sono stati tali da rendere concreta la possibilità di pianificare una gravidanza. Se ne è parlato in occasione di una conferenza stampa, lo scorso 10 maggio a Milano, che ha inaugurato la sesta edizione del congresso BEMS. L’evento come ormai noto è interamente dedicato alla SM e rappresenta un momento di confronto tra istituzioni, specialisti e pazienti, su temi legati al complesso mondo della SM. Il desiderio dei pazienti con SM di diventare genitori è un tema che non può non essere affrontato per una patologia che vede una diagnosi ogni 3 ore circa, per un totale di 3.400 nuovi pazienti all’anno. I 2/3 sono donne di età compresa tra i 20 e i 40 anni e il 43 per cento desidera una famiglia dopo essere venute a conoscenza di avere la patologia. Da una ricerca Doxa Pharma, commissionata da Teva Italia e presentata alla conferenza, emerge come in un anno in media 4,7 pazienti affrontano una gravidanza in un centro SM, programmata nel 70 per cento dei casi.
Sia i neurologi, sia i ginecologi si dichiarano favorevoli a supportare il desiderio di maternità delle donne, e proprio questo tema in più della metà dei casi viene affrontato già al momento della diagnosi. “Per poter offrire alla paziente l’assistenza migliore occorre da un lato possedere un’adeguata formazione, oltre a saper comunicare tutto questo nel modo migliore per poter permettere alla donna di fare la scelta più consapevole, e dall’altro che vi sia un approccio interdisciplinare alla patologia”, ha spiegato il prof. Giancarlo Comi, di Milano. Proprio in questo senso va il progetto PRIMUS che ha gettato le basi per una Consensus che sarà pubblicata sul Neurological Science Journal. Il documento è il risultato di diversi expert panel meeting a cui hanno partecipato neurologi, ginecologi e psicologi, che hanno definito percorsi gestionali interdisciplinari dei pazienti prima, durante e dopo la gravidanza. La gravidanza e il desiderio di maternità sono tematiche alle quali Teva si è sempre mostrata particolarmente sensibile. Sul fronte della terapia, è importante sottolineare che la sicurezza e la tollerabilità di glatiramer
acetato (Copaxone®) sono state accertate da anni di pratica clinica e basate sull’esperienza di migliaia di pazienti trattati, tanto che la controindicazione dell’uso del farmaco in gravidanza era già stata sospesa per la formulazione da 20 mg e ora è arrivata a livello europeo anche per quella da 40 mg. Questo consente oggi ai pazienti, di concerto con i loro medici, di non sospendere la terapia qualora sia necessario per la loro salute.
Una nuova azienda dedicata al Parkinson Ralpharma è una nuova azienda nel panorama italiano che si dedicherà esclusivamente al paziente con Parkinson. Significativamente è stata presentata in occasione del meeting dell’Accademia Limpe-Dismov di Verona, nell’ambito del quale il fondatore Ralph Fassey ha illustrato la mission dell’azienda, ovvero aiutare i pazienti affinché possano accedere ai migliori trattamenti disponibili, sostenere i medici nell’identificazione della terapia ottimale, adatta a ogni singolo caso clinico, e affiancare le istituzioni sanitarie per avere un modello di cura efficace e sostenibile.
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