La Neurologia italiana 3 15

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI - € 3,00

Anno XI - n. 3 - 2015

w Clinica

Gravidanza Emilio Portaccio, Maria Pia Amato, per il Gruppo di Studio Sclerosi Multipla della Società Italiana di Neurologia

w Ricerca

Intensa immunosoppressione seguita da trapianto autologo in forme gravi Daniela Currò, Gianluigi Mancardi

w Terapia

I nuovi trattamenti Folco Claudi

La terapia personalizzata:

intervista con Angelo Ghezzi

w Disturbi del comportamento

L’apatia Simona Raimo, Luigi Trojano, Daniele Spitaleri, Vittorio Petretta, Dario Grossi, Gabriella Santangelo

w Neuropsicologia

Attivazione e riabilitazione cognitiva Monica Falautano

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SEMPRE PIÙ DIFFICILE! La crisi economica e le difficoltà dell'editoria rendono sempre più difficile far arrivare la rivista sulla scrivania del Medico

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

MP

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CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

>s Domenico D’Amico

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64° AAN ANNUAL MEETING

Le novità dal Congresso dei neurologi americani

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I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

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Anno XI - n. 3 - 2015

Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

Anno XI - n. 3 - 2015

MP

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio

Sommario 6

clinica

Gravidanza e sclerosi multipla

Emilio Portaccio, Maria Pia Amato, per il Gruppo di Studio Sclerosi Multipla della Società Italiana di Neurologia

direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it

abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952

Intensa immunosoppressione seguita da trapianto autologo in forme gravi di SM

redazione Anastasia Zahova segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Maria Pia Amato, Folco Claudi, Daniela Currò, Monica Falautano, Angelo Ghezzi, Dario Grossi, Gianluigi Mancardi, Cesare Peccarisi, Vittorio Petretta, Emilio Portaccio, Simona Raimo, Gabriella Santangelo, Daniele Spitaleri, Luigi Trojano

progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza

Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina

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12 Ricerca

Daniela Currò, Gianluigi Mancardi

16 terapia

I nuovi trattamenti per la sclerosi multipla

Folco Claudi

21 terapia personalizzata

Intervista con Angelo Ghezzi

24 Disturbi del comportamento L’apatia nella sclerosi multipla

Simona Raimo, Luigi Trojano, Daniele Spitaleri, Vittorio Petretta, Dario Grossi, Gabriella Santangelo

31 Neuropsicologia

Attivazione e riabilitazione cognitiva nella SM

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Monica Falautano

rubrich e

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news dalla letteratura news farmaci news associazioni la neurologia italiana

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NEWS dalla letteratura R. Vuono, S. Winder-Rhodes, A. Barker et al.

E. Nobile-Orazio, D. Cocito, E. Beghi et al.

Il ruolo della proteina tau nel processo patogenetico e nell’espressione clinica della malattia di Huntington

Polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica: l’impatto a lungo termine della sospensione di due differenti regimi di trattamento sull’evoluzione della patologia

❱❱❱ Brain 2015; 138(7): 1907-18 La malattia di Huntington è una patologia neurodegenerativa rara, causata dall’espansione della ripetizione CAG all’interno dell’esone 1 del gene per l’huntingtina, HTT. Tuttora il meccanismo molecolare che innesca la cascata patogenetica e l’espressione clinica della malattia, in particolare la demenza, risulta poco compreso. Avere maggiori informazioni al riguardo permetterebbe di aprire gli orizzonti verso una terapia per questa patologia, che comunque allo stato attuale è incurabile. È stato suggerito un potenziale ruolo della proteina tau associata ai microtubuli (MAPT), che come noto è implicata in diverse altre patologie neurodegenerative. Il presente lavoro si colloca in questo ambito, ed è stato condotto per valutare le associazioni tra la proteina tau e il Huntington. Inizialmente i ricercatori hanno valutato la presenza di aggregati di tau iperfosforilati, la co-localizzazione di tau con mutanti HTT e di intermediari oligomerici in campioni di tessuto cerebrale post-mortem di pazienti con Huntington (16 pz.), che sono stati confrontati con casi di taupatie note e con controlli sani. Successivamente è stata condotta un’analisi genotipica-fenotipica in un’ampia coorte di pazienti con malattia di Huntington (960 pz.), focalizzata in particolare sul declino cognitivo. L’analisi ha portato all’osservazione della presenza di depositi patologici estesi di tau anomala fosforilata co-localizzati con mutanti HTT. E questo dato sembra essere collegato al processo patogenetico indipendentemente dall’età, visto che è stato riscontrato anche in due soggetti con esordio precoce della malattia (26 e 40 anni al decesso). E ancora, è stato dimostrato che gli oligomeri tau (la forma maggiormente neurotossica) sono presenti nei campioni encefalici dei pazienti con Huntington. Dal punto di vista clinico, è stato osservato che gli aplotipi MAPT hanno un impatto sulla velocità del declino cognitivo nella coorte dei malati. Come puntualizzano gli Autori della ricerca, questo studio fornisce interessanti indicazioni circa il ruolo della proteina tau a livello patogenetico e nell’ambito dell’espressione clinica; indicazioni che ci auspichiamo possano gettare le basi per la messa a punto in futuro di una terapia.

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❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2015; 86: 729-34 Attualmente tra i principali trattamenti per la polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica (CIDP) rientrano gli steroidi e le immunoglobuline e.v. (IVIg). Questo lavoro è stato condotto per approfondire gli effetti a lungo termine di questi due trattamenti -IVIg e metilprednisolone (IVMP)- sul corso della malattia. Lo stesso gruppo di ricerca in un precedente studio aveva confrontato l’efficacia e la tollerabilità della terapia di 6 mesi con IVIg rispetto a IVMP; da questo studio era emerso che il trattamento con IVIg era maggiormente tollerato e risultava più efficace rispetto a IVMP. Partendo da queste osservazioni gli Autori hanno voluto analizzare la quota di pazienti che dopo l’interruzione del trattamento sarebbe andata incontro a peggioramento clinico, e dopo quanto tempo. Sono stati analizzati i dati di 41 dei 45 pazienti che avevano preso parte al trial iniziale, con una mediana di follow up dopo interruzione pari a 42 mesi. In seguito alla terapia l’87,5 per cento dei pazienti trattati con IVIg ha mostrato un miglioramento clinico rispetto al 54,2 per cento di quelli trattati con IVMP. Dopo una mediana di 42 mesi, 85,7 per cento dei soggetti responsivi alle IVIg ha manifestato un peggioramento dopo l’interruzione. Un trend analogo è stato osservato per i pazienti responsivi a IVMP: il 76,9 per cento ha avuto un peggioramento clinico. Il peggioramento è stato osservato dopo una mediana di 4,5 mesi dall’interruzione delle IVIg e dopo una mediana di 14 mesi dopo interruzione di IVMP (p =0,0126). La quota di pazienti cha peggiora dopo sospensione è elevata e simile per i due regimi di trattamento. Tuttavia sembra che il peggioramento si manifesti dopo un intervallo di tempo più lungo per i pazienti trattati con IVMP rispetto a quanto osservato per quelli del gruppo IVIg. E tale differenza, sottolineano gli Autori, potrebbe aiutare a bilanciare la maggiore risposta alla terapia con IVIg osservata in precedenza.


NEWS R. Cilia, E. Cereda, G. Pezzoli et al.

Malattia di Parkinson: quali fattori ne determinano le manifestazioni a distanza di 20 anni dall’esordio ❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2015; 86: 849-55 Cosa succede dopo 20 anni di Parkinson (MP)? È la domanda a cui hanno cercato di dare risposta i ricercatori del Centro Parkinson degli ICP di Milano, in questo lavoro. Sono stati riportati i dati di 401 pazienti con MP ≥20 anni. I soggetti nel range 2022 anni (320) sono stati seguiti per un follow up mediano di 45 mesi. È emerso che l’età all’esordio e la durata di malattia sono due fattori che contribuiscono indipendentemente al decorso. In particolare, l’esordio

in età giovane è associato a malattia meno grave e a una maggiore tendenza ad avere movimenti involontari, mentre la durata di malattia è associata alla comparsa di sintomatologia che non risponde alla levodopa come l’instabilità posturale. Tutti i pazienti prima o poi sviluppano fluttuazioni motorie. Nello studio gli eventi più frequenti sono risultati il decesso, la costrizione su una sedia a rotelle o l’allettamento, e le fratture. La mortalità era associata al sesso maschile, all’avanzare dell’età, alla disfagia, all’ipotensione ortostatica, all’instabilità posturale, alle fratture e al ricovero in istituto. La dipendenza permanente da una sedia a rotelle e/o l’allettamento erano associati all’avanzata età, all’instabilità posturale e all’istituzionalizzazione. A 20 anni, la comorbidità con demenza non sembrava associata con alcuno degli outcome considerati. Gli Autori del lavoro sottolineano in conclusione che l’età all’esordio e la durata di malattia sono i determinanti più rilevanti delle caratteristiche cliniche del Parkinson a distanza di 20 anni; l’età d’esordio è anche quella che condiziona la presenza di sintomi non motori.

M. Guarino, F. Rondelli, F. Cirignotta et al.

Valutazione del rischio di stroke a breve e lungo termine in pazienti con TIA trattati in urgenza: i risultati del Bologna TIA Clinical Pathway ❱❱❱ European Neurology 2015; 74: 1-7 È ben consolidato il fatto che l’attacco ischemico transitorio (TIA) costituisca un’emergenza clinica per l’elevato rischio di recidiva di ictus maggiore. Le linee guida nazionali e internazionali ispirate alle migliori evidenze disponibili raccomandano per il TIA l’utilizzo di protocolli organizzativi assistenziali fondati sulla rapidità dell’approccio diagnostico-terapeutico, il cosiddetto “fast track”. Una procedura di gestione accelerata del TIA comporta una riduzione del rischio di stroke nel breve termine dell’ordine dell’80 per cento. Se i vantaggi offerti dal percorso di cura “fast track” sono ben evidenti nel breve periodo, resta da definire se tali vantaggi possano essere mantenuti anche sulla prevenzione di eventi nel lungo termine. In questo contesto si colloca il lavoro qui presentato, e condotto da un’équipe dell’ospedale S. Orsola Malpighi di Bologna, in cui sono stati valutati per 3 anni gli eventi vascolari in un gruppo di pazienti reduci da TIA e trattati in urgenza. I partecipanti erano pazienti consecutivi con diagnosi di TIA confermata da neurologi specialisti, e che erano stati indirizzati presso l’unità di emergenza, dell’ospedale bolognese; la diagnosi e la migliore strategia di prevenzione secondaria erano state effettuate nell’arco di 24 ore. Gli endpoint considerati nello studio sono stati l’incidenza di stroke a 90 giorni, e infarto miocardico, stroke e decesso per cause vascolari a 12, 24 e 36 mesi. Nel periodo agosto 2010-luglio 2013, sono stati valutati 686 pazienti con sospetto TIA; la diagnosi è stata confermata nel 63 per cento di questi (433 pz.). L’outcome composito di stroke, infarto miocardico e decesso per cause vascolari è risultato 3,5 (95 CI 1,7-5,1), 4,9 (95 CI 2,5-7,4) e 5,6 (95 CI 2,8-8,3) per cento, rispettivamente a 12, 24 e 36 mesi. Gli Autori concludono come la gestione appropriata e in emergenza da parte di neurologi specialisti correli con un significativamente ridotto rischio di ictus nel breve termine, come peraltro atteso, ma soprattutto tale vantaggio si mantiene nel tempo, con diminuzione del rischio di ictus come pure di altri eventi vascolari. la neurologia italiana

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clinica

Gravidanza e Sclerosi Multipla Il ruolo dei farmaci immunomodulanti nel post-partum La SM colpisce prevalentemente donne giovani in età fertile. Negli ultimi anni sono state rese disponibili terapie immunomodulanti, la cui efficacia è legata alla precoce introduzione. È necessario pertanto acquisire informazioni sui rischi per la gravidanza e il feto derivanti dall’esposizione a tali terapie

Emilio Portaccio1, Maria Pia Amato1, per il Gruppo di Studio Sclerosi Multipla della Società Italiana di Neurologia 1. Dipartimento di NEUROFARBA, Università degli Studi di Firenze

L

a sclerosi multipla (SM) è una malattia infiammatoria demielinizzante del sistema nervoso centrale che esordisce generalmente in età giovanile-adulta (con un picco intorno ai 20-40 anni di età), con una netta prevalenza nel sesso femminile e con un rapporto donna/ uomo di circa 2-3/1 [1]. Dal momento che la maggior parte dei pazienti è quindi costituita da giovani donne nel pieno dell’età riproduttiva, la valutazione delle possibili interazioni tra malattia e gravidanza e tra questa e le terapie in atto per la SM assume un ruolo di centrale importanza. Questo aspetto è reso ancora più rilevante dalla disponibilità negli ultimi anni di un numero sempre maggiore di farmaci per il trattamento della SM a decorso recidivante-remittente (RR). Tra questi, gli immunomodulanti vengono generalmente classificati come farmaci di prima linea: attualmente sono registrati per il trattamento della SMRR gli interferoni (IFNB) e il glatiramer acetato (GA). Numerose evidenze, apparse negli ultimi anni nella letteratura scientifica internazionale, hanno consistentemente dimostrato l’importanza di un trattamento precoce, al fine di aumentare l’efficacia dei farmaci e ridurre la progressione della malattia [2]. Per tale motivo si è accresciuto il numero di pazienti trattati nelle fasi precoci della malattia, anche dopo il primo episodio di SM, nelle cosiddette sindromi clinicamente isolate. Si tratta

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quindi per lo più di giovani donne, spesso con l’intenzione di affrontare una gravidanza nell’immediato futuro. È necessario quindi poter fornire a queste pazienti delle informazioni derivanti da solide evidenze scientifiche in risposta agli interrogativi relativi alla sicurezza e alla fattibilità di queste terapie in corso di gravidanza.

Effetti della gravidanza sul decorso della SM Lo studio di Confavreux et al., il Pregnancy in Multiple Sclerosis Study (PRIMS) [3], è stato il primo grande studio che ha affrontato il tema dell’impatto della gravidanza sul decorso della SM. In questo studio multicentrico europeo, che ha raccolto i dati relativi a 269 gravidanze verificatesi in 254 donne con diagnosi di SM, gli Autori hanno documentato una riduzione del relapse-rate durante i mesi di gestazione, in particolare nel terzo trimestre, a fronte di un aumento dello stesso, fino a valori superiori rispetto a quelli del periodo precedente la gravidanza, durante i 3 mesi successivi al parto. In un’analisi successiva [4], gli stessi Autori hanno indicato come possibili predittori di attività clinica di malattia dopo il parto un più alto tasso di ricadute prima e durante la gravi-


tabella 1

Classificazione Food and Drug Administration per l’uso dei farmaci in gravidanza [14]

Classe A

Studi metodologicamente validi e controllati sull’uomo non hanno dimostrato rischi per il feto nel primo trimestre di gravidanza (e non c’è evidenza di rischio nei trimestri successivi)

Classe B

Studi sugli animali non dimostrato rischi per il feto, ma non ci sono studi metodologicamente validi e controllati nelle donne in gravidanza OPPURE Gli studi sugli animali hanno rilevato una tossicità, che non è stata confermata da studi metodologicamente validi e controllati in donne al primo e ai trimestri successivi di gravidanza

Classe C

Studi sugli animali hanno rilevato una tossicità per il feto e non ci sono studi metodologicamente validi e controllati sull’uomo; tuttavia i potenziali benefici del farmaco potrebbero giustificarne l’utilizzo nella donna in gravidanza nonostante i potenziali rischi per il feto

Classe D

Studi sull’uomo e i dati di farmacovigilanza hanno evidenziato un rischio per il feto; tuttavia i potenziali benefici del farmaco potrebbero giustificarne l’utilizzo nella donna in gravidanza nonostante i potenziali rischi per il feto

Classe X

Studi sull’uomo o sugli animali hanno dimostrato l’insorgere di anomalie fetali e/o c’è evidenza di rischio per il feto dai dati di farmacovigilanza e i rischi associati all’utilizzo del farmaco in gravidanza sono chiaramente prevalenti rispetto a qualsiasi possibile beneficio

danza e una più lunga durata di malattia al momento del concepimento. Gli studi sui possibili effetti della malattia sulla gravidanza non hanno evidenziato particolari complicazioni o eventi avversi nel corso delle gravidanze nelle pazienti con SM rispetto alla popolazione generale. Sono stati segnalati un rischio maggiore di anemia materna, stipsi e infezioni urinarie, una maggior frequenza di induzione del parto e una più prolungata ospedalizzazione post-partum [5-10]. Un altro studio ha documentato una maggior percentuale di parti assistiti con forcipe o vacuum e parti cesarei, e una minore età gestazionale e un più basso peso alla nascita del feto nelle donne affette da SM rispetto ai controlli sani [11]. Infine, uno studio di popolazione statunitense ha documentato un aumento del 30 per cento del rischio di parto cesareo e del 70 per cento di ritardo di crescita intrauterino [12]. Nel complesso comunque, come sottolineato nell’editoriale che accompagna la pubblicazione dell’ultimo studio citato, queste alterazioni sono di scarsa rilevanza per la salute della madre e del bambino [13].

Farmaci immunomodulanti durante la gravidanza La FDA classifica i farmaci in base agli eventuali rischi per il feto dimostrati da studi condotti sia su animali che su uomini [14] (Tabella 1). Gli IFNB sono stati classificati nella categoria C, in seguito alla dimostrazione di un effetto proabortivo in studi condotti su animali. Il GA invece è risultato sicuro per il feto in studi su animali, ed è quindi classificato

tra i farmaci di categoria B. Nel corso degli ultimi anni sono stati condotti alcuni studi con l’obiettivo di valutare i rischi per la madre e per il feto in gravidanze esposte alle terapie immunomodulanti per la SM. Nel 2010 sono stati pubblicati su Neurology i risultati dello studio multicentrico italiano sui rischi per la gravidanza e per il feto legati all’esposizione all’IFNB [15]. Lo studio, a cui hanno partecipato i 21 Centri SM più grandi d’Italia, ha raccolto i dati relativi a 423 gravidanze in 415 donne, occorse tra il 2002 e il 2008. I risultati sono stati ottenuti attraverso l’applicazione di metodologie di analisi statistica avanzate, che permettono di ridurre il bias legato alla natura osservazionale dello studio (la Propensity Score Analysis). Sono stati inoltre confrontati con i dati relativi alla popolazione generale italiana, raccolti dall’ISTAT. La proporzione di abortività spontanea osservata nelle 88 gravidanze esposte all’IFNB (7,5 per cento) è risultata sovrapponibile a quella osservata nelle gravidanze non esposte (5,8 per cento). Il tasso di abortività spontanea è inoltre risultato nei limiti dei valori attesi sulla base dei dati ottenuti nella popolazione generale. L’esposizione all’IFNB è risultata invece essere associata a un più basso peso e a una minore lunghezza del bambino alla nascita. Le differenze (circa 100 g per il peso e circa 1 cm per la lunghezza) sono però verosimilmente di scarsa rilevanza per la salute del bambino. L’esposizione all’IFNB è associata anche a una maggiore frequenza di parto pretermine (32,8 per cento nelle esposte, 20,1 per cento nelle non esposte), con una differenza media in termini di durata della gestazione anche in questo caso verosimilmente di scarsa rilevanza (circa 0,6 settimane). Rila neurologia italiana

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clinica spetto alla popolazione generale, la frequenza di parto pre-termine è risultata più elevata Predittori delle ricadute nei 12 mesi tabella 2 in entrambi i gruppi di gravidanze (esposte e dopo il parto non esposte all’IFNB). Non sono infine state riportate complicazioni significative legate HR aggiustato HR grezzo (IC 95%; p) (IC 95%; p) nell’analisi all’esposizione della gravidanza all’IFNB, né tempo-dipendente anomalie dello sviluppo dei bambini, seguiti per un periodo di 2,1 anni dopo la nascita. EDSS al concepimento 1,7 (1,2-2,3; 0,003) 1,4 (1,1-2,0; 0,046) Ulteriori studi osservazionali su casistiche di ≥ 2,0 pazienti più piccole hanno riportato risultati Ricadute nell’anno generalmente in linea con quanto documenprecedente 1,6 (1,3-1,9; <0,001) 1,5 (1,2-1,8; <0,001) tato nello studio italiano [16]. la gravidanza Le informazioni relative alla sicurezza dell’esposizione della gravidanza al GA sono minoRicadute durante 2,5 (1,7-3,6; <0,001) 2,3 (1,6-3,4; <0,001) la gravidanza ri rispetto a quanto riportato per l’IFNB [16]. Lo studio multicentrico italiano ha raccolto Introduzione precoce 0,5 (0,3-0,8; 0,007) 0,7 (0,4-1,0; 0,079) i dati relativi a 17 gravidanze esposte al GA dei DMD [17]. L’esposizione al farmaco non è risultata Note: HR, hazard ratio; EDSS, Expanded Disability Status Scale; DMDs, Disease associata a un maggiore rischio di abortività Modifying Drugs; variabili incluse nel modello: età, durata di malattia, ed EDSS spontanea, né a un minor peso o lunghezza al concepimento (< 2,0 vs ≥ 2,0), DMD prima della gravidanza, numero di del bambino alla nascita. Inoltre non sono ricadute nell’anno precedente la gravidanza e durante la gravidanza, fumo, state riportate malformazioni, né complicaalcol, ed esposizione a tossici durante la gravidanza, allattamento, introduzione precoce dei DMD dopo il parto zioni materne o fetali. In un altro studio sono state incluse 13 gravidanze esposte al GA, 9 delle quali sono state esposte alla terapia immunomodulan- di donne con sclerosi multipla ha suggerito un possibile ruote per tutta la durata della gestazione [18]. Anche in questo lo protettivo dell’allattamento esclusivo sul rischio di ricastudio, l’esposizione al GA non era associata a un maggiore duta [19]. Questo dato è in contrasto con quanto osservato rischio di abortività spontanea, né a riduzione del peso e del- in passato già nello studio PRIMS [3], e con i risultati di un la lunghezza dei bambini alla nascita, né complicazioni della altro studio più recente [20]. gravidanza o malformazioni. L’esperienza dello studio multicentrico italiano ha fornito ulteriori evidenze che sono estremamente utili per il processo decisionale sul comportamento da seguire nel post-partum. Farmaci immunomodulanti Da un lato ha confermato l’assenza di un ruolo protettivo nel post-partum dell’allattamento [21]. La scelta di allattare sembra invece Le informazioni sull’uso dei farmaci immunomodulanti nel essere condizionata dall’andamento della malattia. Le donne post-partum attualmente disponibili sono esigue. I mesi dopo che allattano sono quelle con malattia meno attiva, cioè con il parto rappresentano un periodo critico per la sclerosi mul- un minor numero di ricadute nell’anno prima e durante la tipla. Come detto nei paragrafi precedenti, dopo il parto è at- gravidanza, e quindi a minor rischio di riacutizzazione nel tesa una recrudescenza dell’attività clinica della malattia, in post-partum. Infatti, nell’analisi multivariata sull’attività di particolare nei primi 3 mesi. Pertanto sarebbe indicata l’in- malattia nei 12 mesi dopo il parto, il rischio di ricaduta è più troduzione (o la ripresa) precoce della terapia immunomo- alto nelle donne con maggiore disabilità al momento del condulante al fine di ridurre il rischio di riacutizzazione. D’altra cepimento e maggior numero di ricadute prima e durante la parte, la terapia immunomodulante non è compatibile con gravidanza. L’effetto protettivo dell’allattamento che in efl’allattamento, visto che per la maggior parte dei farmaci fetti si osserva nell’analisi univariata, si perde quando l’ananon sono disponibili dati sulla sicurezza del loro impiego lisi tiene conto anche delle variabili cliniche della malattia. durante l’allattamento materno. In assenza della possibilità Il dato più nuovo derivante dall’esperienza italiana è queldi prevedere con buona approssimazione l’entità del rischio lo sul ruolo dei farmaci immunomodulanti nel post-partum. di ripresa di malattia nel singolo individuo, la scelta sul com- A oggi nessuno studio ha affrontato l’impatto dell’uso dei portamento da seguire dopo il parto deve essere condivisa farmaci disease modifying dopo il parto e mancano informadal neurologo e dalla paziente, tenendo conto delle informa- zioni sulla loro efficacia e sul timing ottimale per l’introduzioni scientifiche disponibili e della storia di malattia della zione. Nell’agosto 2014 sono stati pubblicati sul Journal of paziente. La decisione è resa ancora più complessa dal dub- Neurology, Neurosurgery and Psychiatry, prestigiosa rivista bio sull’impatto dell’allattamento al seno sul decorso della scientifica internazionale, i risultati dell’analisi sui predittori malattia. Recentemente, uno studio su un piccolo campione del rischio di ricaduta nel post-partum, sull’impatto delle ri-

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tabella 3

statistica), mentre non ha nessun impatto sul rischio di progressione della disabilità. Si conferma invece il ruolo del tutto neutrale dell’allattamento al seno.

Predittori di progressione della disabilità nei 12 mesi dopo il parto HR grezzo (IC 95%; p)

HR aggiustato (IC 95%; p) nell’analisi tempo-dipendente

Conclusioni

La SM colpisce prevalentemente giovani donne in età fertile. Negli ultimi anni la latenza tra l’esordio e la diagnosi della malattia si è notevolmente ridotta e sono state Ricadute nell’anno rese disponibili terapie immunomodulanti 3,1 (1,6-5,8; 0,001) 2,7 (1,4-5,2, 0,002) dopo il parto la cui efficacia è maggiore quando introdotte precocemente. È quindi di fondamentale Note: HR, hazard ratio; EDSS: Expanded Disability Status Scale; DMDs, Disease Modifying Drugs; variabili incluse nel modello: età, durata di malattia, ed EDSS al importanza per un corretto counseling delle concepimento (< 2,0 vs ≥ 2,0), DMD prima della gravidanza, numero di ricadute pazienti acquisire informazioni sui rischi per nell’anno precedente la gravidanza, durante la gravidanza e nell’anno dopo il la gravidanza e per il feto legati all’esposiparto, fumo, alcol, ed esposizione a tossici durante la gravidanza, allattamento, zione a farmaci immunomodulanti. Negli ulintroduzione precoce dei DMD dopo il parto timi anni sono stati pubblicati numerosi studi che hanno indagato l’impatto dei farmaci imcadute stesse sul decorso di malattia e sul ruolo dei farmaci munomodulanti sulla gravidanza nella SM. Le casistiche più immunomodulanti [22]. Per questo studio sono state valutate numerose riguardano l’esposizione della gravidanza alla te350 gravidanze in 345 pazienti con sclerosi multipla per le rapia con IFNB; in particolare, nello studio italiano l’esposiquali erano disponibili le informazioni di follow-up nell’an- zione della gravidanza all’IFNB non è associata a un aumenno dopo il parto. Lo studio ha valutato i possibili predittori to del rischio di abortività spontanea. È invece riportata una di ricaduta e di progressione della disabilità nel post-partum riduzione del peso e della lunghezza alla nascita e una più attraverso analisi multivariate che includevano le variabili alta frequenza di parto pre-termine, la cui entità è verosimildemografiche e cliniche come possibili confonditori (età alla mente irrilevante per la sicurezza del bambino. Per quanto gravidanza, scolarità, durata di malattia, disabilità, il tratta- riguarda il GA, i dati ottenuti in piccoli campioni di pazienti mento precedente, numero di ricadute nell’anno precedente documentano una relativa sicurezza in termini di abortività e la gravidanza, durante la gravidanza e dopo il parto, l’allatta- altri outcomes materni e fetali, anche a seguito di esposiziomento esclusivo, l’esposizione a fumo, alcol e tossici). In en- ne per tutta la durata della gestazione. Nel complesso, quetrambe le analisi è stata utilizzata una definizione arbitraria di sti risultati offrono un’importante guida per il neurologo nel introduzione precoce della terapia immunomodulante dopo counseling delle giovani pazienti con SM con un progetto di il parto. È stata considerata precoce la ripresa di una terapia maternità. Considerando la relativa sicurezza dell’esposizioimmunomodulante entro tre mesi dopo il parto (e comunque ne della gravidanza agli immunomodulanti, nei casi particoprima di eventuali ricadute). Questa definizione ha introdotto larmente attivi, con elevata frequenza di ricadute, è possibile inevitabilmente un errore di selezione, l’immortal-time bias, suggerire la prosecuzione della terapia fino al concepimento. che è stato aggirato utilizzando correzioni statistiche appro- Meno numerose sono le informazioni relative al ruolo degli priate (analisi tempo-dipendente). I risultati principali dello immunomodulanti nel post-partum. Tutti i farmaci non sono studio sono descritti nelle Tabelle 2 e 3. compatibili con l’allattamento, per cui la ripresa della terapia In primo luogo, le ricadute nel post-partum sono più frequen- coincide con la rinuncia o l’interruzione precoce dell’allattati nelle donne con una maggiore disabilità al concepimento, mento al seno. La scelta deve essere condivisa con la pazienun maggior numero di ricadute prima e durante la gravidan- te, tenendo conto della storia di malattia e dei dati disponibili za. Inoltre, il peggioramento della disabilità nel post-partum in letteratura. Lo studio multicentrico italiano ha evidenziato è più frequente nelle donne con maggior numero di ricadute che le ricadute dopo il parto sono associate a un maggior prima della gravidanza e dopo il parto. Pertanto, il verificarsi rischio di accumulo di disabilità residua, mentre l’introdudi ricadute dopo il parto è associato a un maggior rischio di zione precoce (entro 3 mesi dopo il parto) dei farmaci immuaccumulo di disabilità residua ed è importante porre in atto nomodulanti riduce significativamente il rischio di ricaduta tutte le misure disponibili per ridurre tale rischio. Nel nostro nei 12 mesi post-partum. Pertanto, nei casi a maggior rischio studio, l’introduzione precoce (entro 3 mesi dopo il parto) di ricaduta dopo il parto (con elevata frequenza di ricadute dei farmaci immunomodulanti riduce significativamente il prima e durante la gravidanza), è consigliabile una ripresa rischio di ricaduta nei 12 mesi post-partum (l’analisi multi- precoce del trattamento, rinunciando all’allattamento. variata time-dependent documenta un trend di significatività Oltre ai farmaci immunomodulanti, il trattamento della scleRicadute nell’anno precedente la gravidanza

1,6 (1,1-2,1; 0,006)

1,4 (1,1-1,9; 0,047)

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clinica rosi multipla recidivante-remittente prevede l’utilizzo di farmaci di “seconda linea” (natalizumab, fingolimod) e farmaci di recente approvazione (teriflunomide, dimetil-fumarato, alemtuzumab). Per queste molecole al momento ci sono pochi dati relativi alla loro sicurezza in gravidanza.

È quindi necessario condurre studi, anche basati sull’utilizzo di registri, al fine di acquisire informazioni sugli eventuali rischi per la madre e per il feto in seguito al loro utilizzo in corso di gravidanza.

Gruppo di Studio Sclerosi Multipla della Società Italiana di Neurologia: Università di Firenze: MP Amato, E Portaccio, B Hakiki, L Pastò, M Giannini, L Razzolini, E Piscolla, G Siracusa, A Sturchio. Ospedale di Gallarate: A Ghezzi, P Annovazzi, M Zaffaroni, Istituto San Raffaele, Università di Milano: V Martinelli, M Radaelli, L Moiola, G Comi. Ospedale Niguarda, Milano: A Protti, C Spreafico, R Marazzi. Università di Torino: P Cavalla, S Masera. Istituto Neurologico Mondino: R Bergamaschi. Università di Genova: G Mancardi, E Capello. Dipartimento di Neurologia, ASL3 Genovese, Genova: C Solaro. Università di Ferrara: MR Tola, L Caniatti. Università di Parma: F Granella, P Immovilli. Università di Siena: P Annunziata. Ospedale di Grosseto: K Plewnia. Ospedale di Empoli: L Guidi, ML Bartolozzi. Ospedale di Lucca: M. Mazzoni. Università di Roma: C Pozzilli, L De Giglio. Università di L’Aquila: R Totaro, A Carolei, M Rossi. Università di Chieti: A Lugaresi, G. De Luca, V Di Tommaso. Università di Bari: M Trojano, D Paolicelli, M D’Onghia. Università di Cagliari: MG Marrosu, L Musu. Università di Catania: F Patti, C Leone, S Lo Fermo.

Bibliografia 1. Compston A, Coles A. Multiple sclerosis. Lancet 2002 Apr 6; 359(9313): 1221-31. 2. Comi G. Early treatment. Neurol Sci 2006 Mar 27; Suppl 1: s8-s12. 3. Confavreux C, Hutchinson M, Hours MM, Cortinovis-Tourniaire P, Moreau T. Rate of pregnancy-related relapse in multiple sclerosis. Pregnancy in Multiple Sclerosis Group. N Engl J Med 1998 Jul 30; 339(5): 285-91. 4. Vukusic S, Hutchinson M, Hours M, Moreau T, Cortinovis-Tourniaire P, Adeleine P, Confavreux C, The Pregnancy In Multiple Sclerosis Group. Pregnancy and multiple sclerosis (the PRIMS study): clinical predictors of post-partum relapse. Brain 2004 Jun; 127 (Pt 6): 1353-60. 5. Mueller BA, Zhang J, Critchlow CW. Birth outcomes and need for hospitalization after delivery among women with multiple sclerosis. Am J Obstet Gynecol 2002 Mar; 186(3): 446-52. 6. Worthington J, Jones R, Crawford M, Forti A. Pregnancy and multiple sclerosis: a 3-year prospective study. J Neurol 1994 Feb; 241(4): 228-33. 7. Sadovnick AD, Eisen K, Hashimoto SA, Farquhar R, Yee IM, Hooge J, Kastrukoff L, Oger JJ, Paty DW. Pregnancy and multiple sclerosis. A prospective study. Arch Neurol 1994 Nov; 51(11): 1120-4. 8. Orvieto R, Achiron R, Rotstein Z, Noy S, Bar-Hava I, Achiron A. Pregnancy and multiple sclerosis: a 2-year experience. Eur J Obstet Gynecol Reprod Biol 1999 Feb; 82(2): 191-4. 9. Ferrero S, Pretta S, Ragni N. Multiple sclerosis: management issues during pregnancy. Eur J Obstet Gynecol Reprod Biol 2004 Jul 15; 115(1): 3-9. 10. Lu E, Zhu F, van der Kop M et al. Labor induction and augmentation in women with multiple sclerosis. Mult Scler 2013 Aug; 19(9): 1182-9. 11. Dahl J, Myhr KM, Daltveit AK, Hoff JM, Gilhus NE. Pregnancy, delivery, and birth outcome in women with multiple sclerosis. Neurology 2005 Dec 27; 65(12): 1961-3. 12. Chen YH, Lin HL, Lin HC. Does multiple sclerosis increase risk of adverse pregnancy outcomes? A population-based study. Mult Scler

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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

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ricerca

Intensa immunosoppressione seguita da trapianto autologo in forme gravi di SM I risultati dello studio ASTIMS Lo studio ASTIMS (Autologous hematopoietic Stem cell Transplantation trial in MS) è un trial multicentrico di fase II, che è stato disegnato nel 2004 con l’obiettivo di confrontare l’efficacia del trapianto autologo rispetto alla migliore terapia immunosoppressiva allora approvata, ovvero il mitoxantrone, nel controllo dell’attività e della progressione di malattia in pazienti affetti da forme aggressive di sclerosi multipla (SMRR o SMSP). Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Neurology nel marzo di quest’anno. In queste pagine, Daniela Currò e Gianluigi Mancardi, coautori del trial, ne illustrano le caratteristiche e i risultati, ponendo particolare attenzione agli aspetti legati alla sicurezza, alla necessità di un’attenta selezione dei pazienti, e ai costi della procedura

Daniela Currò, Gianluigi Mancardi Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica e Scienze Materno-Infantili; Università di Genova

L’

intensa immunosoppressione seguita da trapianto di cellule staminali ematopoietiche autologhe (AHSCT), tradizionalmente utilizzata per il trattamento delle neoplasie ematologiche e dei tumori solidi, a partire dagli anni Novanta è stata presa in considerazione quale opzione terapeutica anche per il trattamento di patologie autoimmuni. L’utilizzo di tale tipo di trattamento nel contesto dell’autoimmunità si fonda sulla possibilità di effettuare un’intensa immunosoppressione che sia in grado di distruggere i cloni autoreattivi responsabili del

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danno d’organo, con successiva ricostituzione del sistema immunitario a partire dalle cellule staminali ematopoietiche reinfuse. L’infusione di tali cellule permette pertanto di superare la fase di aplasia midollare indotta dai dosaggi sovramassimali di chemioterapici, necessari al fine di spegnere il processo infiammatorio ed eradicare il processo autoimmune in atto. Gli studi immunologici hanno però anche evidenziato come il sistema immunitario, ricostituito a partire dalle cellule staminali, seppure di origine autologa, sia sostanzialmente rinnovato e dotato di mag-


Tabella 1

Caratteristiche demografiche dei pazienti AHSCT n=9

MTX n=12

TOTALE n=21

36 (22-46)

35 (19-43)

35,5 (19-46)

5 (24)

9 (43)

14 (67)

6,5 (5,5-6,5)

6 (5,5-6,5)

6 (5,5-6,5)

EDSS mediano un anno prima (range)

5 (3-6)

4 (2-6)

4,5 (2-6)

Decorso clinico, n (%) RR SP SP con ricadute RP

2 (22) 3 (33) 4 (45) 0

5 (42) 3 (25) 3 (25) 1 (8)

7 (33) 6 (29) 7 (33) 1 (5)

10,5 (5-20)

9,8 (2-23)

10,2 (2-23)

Età media (range), anni Donne, n (%) EDSS mediano (range)

Durata di malattia (range), anni

giore tolleranza verso gli antigeni self, con possibilità di controllo del processo autoimmune anche a lungo termine.

Le esperienze sul trapianto nella SM I primi studi sul modello animale della sclerosi multipla (SM), l’encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE), hanno dato buoni risultati specie negli animali trattati precocemente, mentre scarsi sono stati gli effetti sui casi di malattia di lunga durata. Il trapianto allogenico è sicuramente la migliore opzione terapeutica con un tasso di ricadute del 5 per cento; questo successo è legato alla possibilità di sostituire il sistema immunitario difettivo dell’ospite con quello di un donatore sano e alla reazione del trapianto contro l’ospite (GVA, graft versus autoimmunity) che contribuisce all’eradicazione del sistema immunitario aberrante, ma anche il trapianto singenico e autologo hanno dimostrato una buona efficacia con un tasso di ricadute pari al 30 per cento, verosimilmente correlate alla presenza di cellule autoreattive sopravvissute al regime di condizionamento e alla possibile reinfusione di cloni autoreattivi con il trapianto. Sulla base dei dati incoraggianti sul modello animale sono quindi iniziati nel 1995 i primi tentativi terapeutici sull’uomo e a oggi la SM è la malattia autoimmune più frequentemente trattata con il trapianto autologo. L’esperienza ormai ventennale ha confermato la grande abilità del trapianto nello spegnere l’attività infiammatoria di malattia, anche e soprattutto nei casi in cui si presenta in maniera più ag-

gressiva e persistente. Le attuali conoscenze sul trapianto derivano da molteplici studi di fase I e II, che hanno però trattato differenti tipologie di pazienti, utilizzando diverse associazioni di chemioterapici per il regime di condizionamento e soprattutto in assenza di un braccio “attivo” di confronto, rendendo pertanto più difficile la conferma dei dati di efficacia della procedura in relazione alle tradizionali terapie approvate e di conseguenza l’attribuzione di un ruolo definito del trapianto nel trattamento della SM.

Lo studio ASTIMS Lo studio ASTIMS (Autologous hematopoietic Stem cell Transplantation trial in MS) è stato concepito nel 2004 come studio di fase II, proprio con l’obiettivo di confrontare l’efficacia del trapianto autologo rispetto alla migliore terapia immunosoppressiva allora approvata, mitoxantrone (MTX), nel controllo dell’attività e della progressione di malattia in pazienti affetti da forme aggressive di SM. Sono stati pertanto selezionati pazienti affetti da SM a ricadute e remissioni (RR) o secondariamente progressiva (SP) che avessero presentato un accumulo di disabilità nell’anno precedente e con evidenza di lesioni attive alla risonanza magnetica (RM) encefalica, nonostante l’utilizzo delle terapie approvate. Dopo due anni dall’inizio dello studio, in relazione a difficoltà nell’arruolamento, è stato necessario modificare l’endpoint primario dello studio: da un endpoint di tipo clinico come la progressione confermata della disabilità alla scala EDSS, a un endpoint surrogato di tipo neuroradiologico, quale il numero cumulativo di nuola neurologia italiana

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ricerca

Figura 1. Numero cumulativo di nuove lesioni T2 a 1, 2, 3 e 4 anni

20 Numero cumulativo di nuove lesioni in T2 (media, IC95%)

ve lesioni T2, consentendo di arruolare un minor numero di pazienti, ma mantenendo comunque un’adeguata potenza statistica. Dal 2004 al 2009 sono stati quindi arruolati 21 pazienti provenienti da 7 centri, italiani (Genova, Firenze, Chieti, Bergamo, Reggio Calabria, Modena) e dal centro di Barcellona. 12 pazienti sono stati randomizzati per essere trattati con infusioni mensili di MTX al dosaggio di 20 mg per sei mesi e 9 con intensa immunosoppressione seguita da AHSCT. Per la mobilizzazione è stata utilizzata ciclofosfamide 4 g/m2 e G-CSF, mentre per il regime di condizionamento è stato utilizzato lo schema BEAM (carmustina 300 mg/m2 al giorno -6, citosina-arabinoside 200 mg/m2 ed etoposide 200 mg/ m2 dal giorno -5 al giorno -2 e melphalan 140 mg/m2 al giorno -1) con successiva somministrazione di siero antilinfocitario (ATG 3,75 mg/kg al giorno +1 e +2). Il 33 per cento dei pazienti presentava una forma RR e il 67 per cento una forma SP, l’età media al trapianto era 35,5 anni (19-46) e l’EDSS mediano 6 (5,56,5) (Tabella 1).

1 anno

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3 anni 4 anni

10

5

0

w Risultati di efficacia e sicurezza Entrambe le procedure sono state complicate dalla comparsa di eventi avversi nell’80 per cento dei casi circa. Gli eventi avversi più comuni nei pazienti trattati con MTX sono stati, come atteso, anemia, leucopenia e alcuni casi di amenorrea; tra i pazienti trapiantati più frequentemente si è presentata febbre neutropenica, diarrea, anemia e leucopenia. Solo nel gruppo dei pazienti trattati con AHSCT si sono verificati eventi avversi gravi e in particolare un caso di sepsi, un caso di ritardato attecchimento, una reazione allergica al siero antilinfocitario e un fallimento dell’attecchimento con riattivazione di CMV e candidosi sistemica: in tutti i casi si è ottenuta risoluzione con terapia medica. La valutazione dell’endpoint primario è stata effettuata sulle RM disponibili per 17 pazienti. Il numero medio di nuove lesioni T2 nei pazienti trattati con AHSCT è risultato pari a 2,75 (0-8), rispetto a 12,75 (2-34) nei pazienti trattati con MTX, dimostrando una riduzione significativa già nel primo anno di follow-up, mantenuta fino al quarto anno (Figura 1). In particolare tutti i pazienti trattati con MTX hanno presentato la comparsa di almeno una nuova lesione T2 già nel primo anno dopo il trattamento, mentre il 50 per cento dei pazienti trapiantati si è mantenuto libero da nuove lesioni nel primo anno e uno di questi pazienti non ha sviluppato nessuna nuova lesione fino al termine

14

2 anni

15

1 anno, p=0.008 2 anni, p=0.011 3 anni, p=0.006 4 anni, p=0.008

MTX

AHSCT

del FU (Figura 2) . Inoltre in nessun paziente trattato con AHSCT è stata evidenziata la presenza di lesioni captanti contrasto alla RM encefalica, mentre il 56 per cento dei pazienti trattati con MTX ha presentato almeno una lesione attiva. Dal punto di vista clinico il trapianto ha consentito una riduzione statisticamente significativa del tasso annualizzato di ricadute (ARR 0,6 MTX vs 0,19 AHSCT); nessuna differenza statisticamente significativa è stata evidenziata in termini di progressione della disabilità, sebbene al termine del FU il 48 per cento dei pazienti trattati con MTX risultasse progredito rispetto al 57 per cento dei pazienti trapiantati.

Considerazioni conclusive Lo studio ASTIMS ha pertanto permesso di evidenziare la superiorità del trapianto autologo, anche rispetto a una delle più aggressive terapie immunosoppressive utilizzate per il trattamento della SM, nel controllare l’attività infiammatoria di malattia, rallentando peraltro anche l’accumulo del carico lesionale: è stata infatti dimostrata una riduzione pari al 79 per cento del numero di nuove lesioni T2 rispetto ai pazienti trattati con MTX. Questo risultato supporta


Sopravvivenza libera da nuove lesioni T2

l’appropriatezza del trapianto nel tratFigura 2. Sopravvivenza libera dalla comparsa di nuove lesioni T2 tamento di pazienti affetti da forme nei due gruppi di pazienti trattati (log-rank test, p=0,019) aggressive di SM e sottolinea la forte necessità di effettuare uno studio di fase III, di confronto con le più efficaci 100% terapie a oggi disponibili, per poterne definitivamente stabilire il ruolo nell’i80% ter terapeutico della SM. Lo studio ASTIMS sostiene inoltre la fattibilità della terapia anche in termini 60% di sicurezza, non essendovi stato nessun caso di mortalità correlata al trapianto. Occorre però evidenziare che 40% eventi avversi seri, seppure ben controllati dalla terapia medica, si sono 20% manifestati solo nel gruppo di pazienti trapiantati, ricordando la necessità di ricorrere a tale tipo di trattamento solo MTX AHSCT 0% dopo un’attenta selezione dei pazienti. Tale selezione deve tenere conto dell’i0 1 2 3 4 doneità del soggetto alla procedura, mediante attenta valutazione della conAnni dizione di salute generale del paziente con particolare riguardo all’aspetto infettivologico, e dell’idoneità in relazione alla condizione sia dagli studi clinici con lungo FU, sia dagli studi immuneurologica. Solo i pazienti giovani, con storia di malattia nologici, dimostrano che il trapianto non è solamente in di breve durata, che presentino intensa attività di malat- grado di spegnere efficacemente l’attività infiammatoria di tia con frequenti ricadute di malattia e che non abbiano malattia, per quanto intensamente essa possa presentarsi, raggiunto livelli elevati di disabilità, possono realmen- ma è probabilmente in grado di indurre una vera e propria te beneficiare di questo approccio terapeutico, imponen- rimodulazione del sistema immunitario con ripristino della do di utilizzare il trapianto solo dopo aver attentamente tolleranza verso gli antigeni self, garantendo un controllo analizzato tali caratteristiche che giustificano il ricorso a di malattia a lungo termine. L’elevato costo della proceuna procedura che permane, nonostante i progressi della dura risulta pertanto compensato dalla possibilità di conmedicina, molto impegnativa, con un rischio di mortalità trollare l’attività di malattia senza la necessità di terapie intorno al 2 per cento. Si tratta sicuramente di una terapia immunomodulanti o immunosoppressive anche fino a 5-10 con un importante costo sanitario, ma le evidenze emerse anni dopo l’AHSCT.

Riferimento bibliografico Mancardi GL, Sormani MP, Gualandi F, Saiz A, Carreras E, Merelli E, Donelli A, Lugaresi A, Di Bartolomeo P, Rottoli MR, Rambaldi A, Amato MP, Massacesi L, Di Gioia M, Vuolo L, Currò D, Roccatagliata L, Filippi M, Aguglia U, Iacopino P, Farge D, Saccardi R; ASTIMS Haemato-Neurological Collaborative Group, On behalf of the Autoimmune Disease Working Party (ADWP) of the European Group for Blood and Marrow Transplantation (EBMT); ASTIMS Haemato-Neurological Collaborative Group On behalf of the Autoimmune Disease Working Party ADWP of the European Group for Blood and Marrow Transplantation EBMT. Autologous hematopoietic stem cell transplantation in multiple sclerosis: a phase II trial. Neurology 2015 Mar 10; 84(10): 981-8. la neurologia italiana

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terapia

I nuovi trattamenti per la sclerosi multipla I farmaci sono sempre più mirati ed efficaci A partire da natalizumab, introdotto nel 2006, gli ultimi anni hanno visto moltiplicarsi le opzioni terapeutiche per la sclerosi multipla recidivante-remittente, anche nelle forme più aggressive, a tutto beneficio della salute e della qualità della vita dei pazienti

Folco Claudi

L’

armamentario terapeutico a disposizione dello specialista neurologo si è arricchito in anni recenti di nuove molecole per il trattamento della sclerosi multipla (SM) che hanno dimostrato di poter cambiare non solo il corso della malattia, grazie a innovativi meccanismi di azione, ma anche le modalità di somministrazione. Nel seguito passeremo in rassegna, evidenziandone il profilo di efficacia e sicurezza documentato dai trial clinici, le molecole attualmente approvate dall’AIFA – natalizumab, fingolimod, teriflunomide, dimetilfumarato e alemtuzumab – che si sono aggiunte alla terapia standard a base di interferone beta-1a e -1b e glatiramer acetato (Tabella 1).

Natalizumab Natalizumab può essere considerato il capostipite della nuova generazione di farmaci per la terapia disease-modifying nella sclerosi multipla, avendo

16

ricevuto l’approvazione dall’AIFA nel dicembre del 2006 con il nome commerciale di Tysabri®. Si tratta di un anticorpo monoclonale diretto contro l’integrina VLA-4 che agisce impedendo l’adesione e la migrazione linfocitaria dal letto vascolare alla sede di infiammazione. Il farmaco ha ricevuto l’indicazione per la monoterapia della sclerosi multipla recidivante-remittente a elevata attività nei pazienti adulti non responder alla terapia con interferone-beta somministrata per almeno un anno e nei pazienti adulti con sclerosi multipla recidivante-remittente grave a evoluzione rapida (Tabella 2). w Profilo di efficacia e sicurezza L’approvazione di natalizumab si deve a due grandi trial randomizzati, in doppio cieco, controllati contro placebo condotti nei primi anni Duemila: AFFIRM e SENTINEL. Lo studio AFFIRM ha coinvolto 942 pazienti con sclerosi multipla, randomizzati a ricevere natalizumab in monoterapia (300 mg ev ogni quattro settimane), oppure placebo per più di due anni. Natalizumab ha ridotto il rischio di progressione della disabilità del 42-

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54 per cento e il tasso annualizzato di recidive del 68 per cento in due anni. Inoltre, ha ridotto il numero di lesioni ipointense in T1 e lesioni iperintense in T2 captanti gadolinio alla risonanza magnetica [1]. Nello studio SENTINEL, la combinazione natalizumab più interferone beta1a è stata confrontata con la combinazione interferone più placebo in 1.171 pazienti di 124 centri di tutto il mondo, di cui sei italiani. I pazienti coinvolti erano non responder: Si trattava infatti di soggetti che avevano avuto una recidiva nell’anno precedente nonostante la terapia con interferone beta-1a. La combinazione dei due farmaci ha dimostrato di ridurre del 24 per cento la progressione della disabilità sostenuta. Natalizumab è risultato anche ben tollerato: gli eventi avversi più comuni, generalmente di lieve entità, consistono in cefalea, affaticamento, infezioni del tratto urinario e artralgia. Esiste però un raro, ma grave evento avverso associato al trattamento con natalizumab: la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) causata dal John Cunningham Virus (JCV), che infetta il sistema nervoso centrale. Al 4 febbraio 2014, i casi documentati di


Tabella 1

Farmaci approvati per il trattamento della sclerosi multipla

Denominazione

Caratteristiche e via di somministrazione

Indicazione terapeutica

Data di approvazione degli enti regolatori

Interferone prodotto da cellule di mammifero; sottocutanea o intramuscolare

SMRR

Interferone beta-1a

FDA: 1996 EMA: 3/1997 ITALIA: 1999

Interferone beta-1b

Interferone prodotto da cellule di E. coli; sottocutanea

SMRR; SM secondariamente progressiva

FDA: 7/1993 EMA: 11/1995 ITALIA: 3/1997

Interferone peghilato (peginterferone beta-1a)

Immunomodulatore; sottocutanea

SMRR

EMA: 7/2014 FDA: 8/2014

Immunomodulatore; sottocutanea

SMRR

Glatiramer acetato

FDA: 1996 EMA: 2000 ITALIA: 2002

Natalizumab

Anticorpo monoclonale diretto contro l’integrina VLA-4; endovenosa

SMRR a elevata attività

FDA: 11/2004 EMA: 6/2006 AIFA: 12/2006

Fingolimod

Modulatore dei recettori della sfingosina 1-fosfato (S1PR); orale

SMRR a elevata attività

FDA: 9/2010 EMA: 3/2011 AIFA: 11/2011

Estere metilico dell’acido fumarico; orale

SMRR

Dimetilfumarato

FDA: 4/2013 EMA: 2/2014 AIFA: 4/2014

SMRR

Teriflunomide

Immunosoppressore ad azione selettiva; inibisce in modo reversibile l’enzima mitocondriale DHO-DH; orale

FDA: 9/2012 EMA: 8/2013 AIFA: 8/2014

SMRR

Alemtuzumab

Anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro la proteina CD52; endovenosa

EMA: 9/2013 AIFA: 4/2014 FDA: 11/2014

Trattamenti standard

Farmaci di nuova generazione

PML sono stati 437 su più di 100.000 pazienti trattati con natalizumab [3]. La somministrazione del farmaco è ora accompagnata da un protocollo di stratificazione del rischio d’infezione basato sull’identificazione di anticorpi anti-JCV nel fluido cerebrospinale e scansioni di risonanza magnetica. Bibliografia 1. Polman CH, O’Connor PW, Havrdova E

et al. A randomized, placebo-controlled trial of natalizumab for relapsing multiple sclerosis. New Engl J Med 2006; 354: 899–910. 2. Rudick RA, Stuart WH, Calabresi PA et al. Natalizumab plus interferon beta-1 for relapsing multiple sclerosis. New Engl J Med 2006; 354: 911–23. 3. Richard A Rudick, Michael A Panzara. Natalizumab for the treatment of relapsing multiple sclerosis. Biologics 2008; 2(2): 189–199.

4. Wattjes MP, Vennegoor A, Steenwijk MD et al. MRI pattern in asymptomatic natalizumab-associated PML. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2015; 86(7): 793-8.

Fingolimod Fingolimod è stata la prima molecola a somministrazione orale a ricevere l’approvazione per il trattamento della sclerosi multipla. Appartiene alla cate-

la neurologia italiana

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terapia

Tabella 2

Categorie di pazienti candidabili alla terapia con natalizumab e fingolimod

Categorie di pazienti

Criteri di definizione

Non responder

Almeno una recidiva nell’anno precedente in corso di terapia con un interferone beta Almeno nove lesioni iperintense in T2 alla risonanza magnetica (RM) cerebrale oppure: Almeno una lesione captante gadolinio

Non responder

Tasso di recidive invariato o aumentato o che presenta recidive gravi

Evoluzione rapida di malattia

Due o più recidive disabilitanti in un anno Una o più lesioni captanti gadolinio alla RM cerebrale o un aumento significativo del carico lesionale in T2 rispetto a RM recente

goria dei modulatori dei recettori della sfingosina 1-fosfato (S1PR), e agisce sequestrando nei linfonodi i globuli bianchi, impedendone la migrazione verso il sistema nervoso. Inoltre, come emerso in uno studio pubblicato sul Multiple Sclerosis Journal, determina un riequilibrio del sistema dell’immunotolleranza attraverso la modulazione delle cellule che presentano l’antigene (APC) [1]. Il farmaco è stato approvato in Italia nel novembre del 2011 con il nome commerciale di Gylenia® per il trattamento della sclerosi multipla recidivante-remittente a elevata attività in due diversi gruppi di pazienti: i non responder alla terapia con interferone beta e quelli affetti da una malattia grave a rapida evoluzione (Tabella 2). w Profilo di efficacia e sicurezza Il profilo di efficacia di fingolimod è stato documentato dallo studio FREEDOMS e TRANSFORMS in termini di perdita di volume cerebrale, considerato attualmente uno dei migliori indicatori di progressione della disabilità a lungo termine nella sclerosi multipla. Nello studio TRANSFORMS [2], i pazienti trattati per un anno con fingolimod hanno mostrato una riduzione del tasso di perdita di volume cerebrale del 32 per cento rispetto a interferone beta1a. Rispetto al trattamento con placebo, a due anni fingolimod ha ridotto il tasso di perdita di volume cerebrale del 35 per cento.

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Nello studio FREEDOMS [3] e nella sua estensione [4], è stata valutata l’efficacia della terapia con fingolimod alla dose di 0,5 mg al giorno. Dopo quattro anni, nei pazienti trattati in modo continuato con fingolimod, la perdita di volume cerebrale è risultata inferiore di un terzo rispetto ai pazienti che avevano ricevuto il placebo per i primi due anni e che sono poi passati al farmaco per i successivi due. I risultati hanno anche mostrato che i pazienti rimasti liberi dalla malattia avevano subito una perdita di volume cerebrale in media inferiore rispetto ai pazienti con malattia attiva e progressiva. Inoltre, non sono risultate differenze in termini di efficacia con i diversi dosaggi del farmaco, e non sono emersi problemi di sicurezza o tollerabilità. Fingolimod è stato testato anche nella sclerosi multipla primariamente progressiva nell’ambito dello studio clinico di fase III denominato INFORMS, in cui sono stati arruolati 970 pazienti, provenienti da 18 paesi, affetti da questa forma di malattia. Lo scopo di questo studio era di valutare l’efficacia del farmaco, somministrato nel gruppo di trattamento alla dose di 1,25 mg al giorno, rispetto al placebo, sulla base di diversi endpoint: riduzione del rischio di sostenuta progressione della disabilità a tre mesi, miglioramento della funzione degli arti superiori e della velocità a piedi. Secondo i risultati preliminari dello studio, resi noti nel dicembre dello scorso anno, il farmaco

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non offre un vantaggio significativo rispetto al placebo. Bibliografia 1. Luessi F, Kraus S, Trinschek B et al. FTY720 (fingolimod) treatment tips the balance towards less immunogenic antigen-presenting cells in patients with multiple sclerosis. Mult Scler 2015 Mar 2; pii: 1352458515574895. [Epub ahead of print]. 2. Cohen JA, Barkhof F, Comi G et al for the TRANSFORMS Study Group. Oral Fingolimod or Intramuscular Interferon for Relapsing Multiple Sclerosis. New Engl J Med 2010; 362: 402-415. 3. Kappos L, Radue EW, O’Connor et al for the FREEDOMS Study Group. A Placebo-Controlled Trial of Oral Fingolimod in Relapsing Multiple Sclerosis. New Engl J Med 2010; 362: 387-4. 4. Kappos L, O’Connor P2, Radue EW, Polman C et al. Long-term effects of fingolimod in multiple sclerosis: The randomized FREEDOMS extension trial. Neurology 2015; 84(15): 1582-91.

Dimetilfumarato ll dimetilfumatato è l’estere metilico dell’acido fumarico. Approvato dall’AIFA nell’aprile del 2014 con il nome commerciale di Tecfidera® come terapia orale per la sclerosi multipla recidivante remittente (SMRR), il di-


metilfumarato ha un meccanismo d’azione ancora non del tutto compreso: la sua probabile attività immunomodulante, antinfiammatoria e neuroprotettiva si deve all’attivazione del fattore di trascrizione nucleare 2 eritroide 2-correlato (Nrf2), L’Nrf2 è noto per essere coinvolto nella modulazione dell’attività del sistema immunitario nel contrastare l’effetto citotossico dello stress ossidativo [1].

to la percentuale di pazienti con ricadute. Sebbene non abbia raggiunto la significatività statistica, dimetilfumarato ha mostrato una riduzione del 21 per cento della progressione della disabilità mantenuta a 12 settimane [3]. Le scansioni di risonanza magnetica hanno dimostrato che, in entrambi gli studi dimetilfumarato ha ridotto il carico lesionale cerebrale rispetto al placebo in modo significativo.

w Profilo di efficacia e sicurezza

Bibliografia

L’approvazione europea di dimetilfumarato è arrivata dopo i risultati di due grandi studi clinici denominati DEFINE e CONFIRM, che hanno coinvolto complessivamente oltre 2.600 pazienti con SMRR. Lo studio DEFINE, in doppio cieco, controllato contro placebo, ha coinvolto 1.237 pazienti con sclerosi multipla, randomizzati a ricevere dimetilfumarato alla dose di 240 mg BID, 240 mg TID oppure placebo. Nei due anni di studio, i tassi di recidiva registrati sono stati rispettivamente, del 27 per cento e del 26 per cento per i due gruppi di trattamento, e del 46 per cento per il gruppo placebo. I tassi annuali di ricadute sono stati rispettivamente di 0,17, 0,19 e 0,36. Per quanto riguarda la progressione confermata della disabilità, le percentuali di riscontro sono state rispettivamente del 16 per cento, del 18 per cento e del 27 per cento. L’incidenza complessiva di eventi avversi è risultata simile tra i tre gruppi (95-96 per cento) [2]. Lo studio CONFIRM ha coinvolto 1.417 pazienti con sclerosi multipla randomizzati a ricevere dimetilfumarato 240 mg BID, 240 mg TID, placebo oppure glatiramer acetato open label, per via stottocutanea alla dose di 20 mg/die. L’analisi statistica dei risultati trascorsi due anni di trattamento, ha evidenziato che rispetto al placebo, dimetilfumarato BID ha ridotto del 44 per cento il tasso annualizzato di ricadute (51 per cento nel gruppo trattato con tre dosi al giorno) e del 34 per cen-

1. Gilgun-Sherki Y, Melamed E, Offen D. The role of oxidative stress in the pathogenesis of multiple sclerosis: the need for effective antioxidant therapy. J Neurol 2004; 251: 261-8. 2. Gold R, Kappos L, Arnold DL, Bar-Or A, Giovannoni G, Selmaj K, Tornatore C, Sweetser MT, Yang M, Sheikh SI, Dawson KT; DEFINE Study Investigators. Placebocontrolled phase 3 study of oral BG-12 for relapsing multiple sclerosis. New Engl J Med. 2012 Sep 20; 367(12): 1098-107. 3. Fox RJ, Miller DH, Phillips JT et al. CONFIRM Study Investigators. Placebocontrolled phase 3 study of oral BG-12 or glatiramer in multiple sclerosis. New Engl J Med 2012; Sep 20; 367(12): 108797.

Teriflunomide Autorizzato per l’immissione in commercio nel nostro Paese nell’agosto 2014, teriflunomide è un immunosoppressore ad azione selettiva, che agisce inibendo in modo reversibile l’enzima mitocondriale diidroorotato deidrogenasi (DHO-DH), necessario per la sintesi “de novo” della pirimidina. Di conseguenza, teriflunomide riduce la proliferazione delle cellule, diminuendo il numero di linfociti. w Profilo di efficacia e sicurezza L’efficacia e la sicurezza di teriflunomide sono state documentate in tre trial clinici: TEMSO, TOWER e TENERE.

Lo studio TEMSO ha riguardato 1.088 pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente, randomizzati a ricevere teriflunomide al dosaggio di 7 mg o 14 mg, oppure placebo per due anni. Nel gruppo di trattamento, il tasso medio di ricadute è risultato inferiore del 31,5 per cento rispetto al placebo. Inoltre, per quanto riguarda la progressione della disabilità, la riduzione nel gruppo trattato con la dose di 14 mg è stata del 30 per cento rispetto al placebo. La somministrazione di teriflunomide ha determinato una riduzione di circa il 30 per cento del numero di ricadute rispetto al placebo. Anche nello studio TOWER sono stati confrontati con placebo due diverse dosi di teriflunomide (7 o 14 mg), somministrate per 48 settimane in un campione di 1.169 pazienti. Nel gruppo trattato con il dosaggio maggiore si sono registrate, rispetto al placebo, riduzioni del 36,3 per cento nel rischio di ricadute e del 31,5 per cento nel rischio di progressione della disabilità. Nello studio TENERE, a differenza dei precedenti, i due diversi dosaggi di teriflunomide, 7 o 14 mg, sono stati confrontati con interferone beta-1a alla dose di 44 mcg. Nello studio sono stati coinvolti 324 soggetti affetti da sclerosi multipla recidivante-remittente per almeno 48 settimane. Per quanto riguarda l’endpoint primario, costituito dall’intervallo di tempo all’insuccesso terapeutico dovuto a ricaduta o a interruzione permanente del trattamento per qualsiasi causa, non sono emerse differenze statisticamente significative tra i due farmaci. Teriflunomide ha dimostrato tuttavia un vantaggio nella scala di valutazione della soddisfazione del trattamento. Bibliografia 1. O’Connor P, Wolinsky JS, Confavreux C et al. for the TEMSO Trial Group. Randomized trial of oral teriflunomide for relapsing multiple sclerosis. New Engl J Med 2011 Oct 6; 365(14): 1293-303. 2. Confavreux C, O’Connor P, Comi G. et

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terapia

al. Oral teriflunomide for patients with relapsing multiple sclerosis (TOWER): a randomised, double-blind, placebocontrolled, phase 3 trial. Lancet Neurol 2014 Mar; 13(3): 247-56. 3. Vermersch P, Czlonkowska A, Grimaldi LM for the TENERE Trial Group. Teriflunomide versus subcutaneous interferon beta-1a in patients with relapsing multiple sclerosis: a randomised, controlled phase 3 trial. Mult Scler 2014 May; 20(6): 705-16.

Alemtuzumab Un altro farmaco disponibile da poco tempo è alemtuzumab, approvato dall’AIFA nell’aprile di quest’anno, con l’indicazione al trattamento della SMRR, con malattia attiva definita da caratteristiche cliniche o attraverso le immagini di risonanza magnetica. Si tratta di un anticorpo monoclonale umanizzato, che agisce legandosi in modo selettivo alla proteina CD52 dei linfociti B e T, implicate nel processo infiammatorio tipico della malattia, determinandone la deplezione. L’impatto sulle altre cellule immunitarie è invece minimo, il che garantisce la conservazione dell’immunità innata. La somministrazione avviene per infusione, con uno schema di somministrazione inedito: si tratta infatti di una dose raccomandata di 12 mg/die, in due cicli di trattamento. Il primo ciclo prevede 12 mg/die per 5 giorni consecutivi; il secondo ciclo, somministrato a distanza di 12 mesi dal primo, prevede 12 mg/die per 3 giorni consecutivi. w Profilo di efficacia e sicurezza Sono tre gli studi che hanno determinato l’approvazione di alemtuzumab da parte degli enti regolatori statunitensi ed europei: CAMMS223, CARE-MS I e CARE-MS II. Nello studio di fase II CAMMS223, in 334 soggetti con sclerosi multipla recidivante-remittente sono stati confrontati due diversi dosaggi del farmaco rispetto a interferone beta-1a, sommi-

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nistrato tre volte alla settimana per tre anni. I risultati preliminari sono stati pubblicati nell’ottobre del 2008 sulla rivista New England Journal of Medicine [1]: rispetto al gruppo trattato con interferone, nel gruppo di trattamento con alemtuzumab 12 mg/die si è registrata una diminuzione del 69 per cento del rischio di ricadute e una riduzione del 76 per cento dell’accumulo di disabilità sostenuta. Da un’ulteriore analisi dei dati, presentata nel 2009 al congresso dell’American Academy of Neurology, è emersa nel gruppo trattato con alemtuzumab per tre mesi una riduzione della disabilità doppia rispetto a quella del gruppo trattato con interferone beta-1a. I dati a tre anni, pubblicati su Lancet Neurology nel 2011 [2] e quelli dell’estensione a 5 anni del follow-up [3] hanno poi confermato sostanzialmente questi risultati. Lo studio CARE-MS I ha valutato il profilo di efficacia e di sicurezza di alemtuzumab nel trattamento della sclerosi multipla recidivante remittente, in confronto con interferone beta-1a, somministrato al dosaggio di 12 mg/die tre volte la settimana. I soggetti coinvolti avevano le stesse caratteristiche del campione dello studio CAMMS 223, ma avevano una storia di malattia più lunga. Nei due anni dello studio principale, la frequenza delle ricadute del gruppo trattato con alemtuzumab è risultata diminuita di circa il 55 per cento rispetto a coloro che assumevano interferone. Alemtuzumab ha dimostrato un vantaggio rispetto a interferone anche in termini di assenza di ricadute, registrata nel 78 per cento e nel 59 per cento, rispettivamente, nei due gruppi di trattamento. Per quanto riguarda invece la progressione della disabilità, è stata registrata nell’8 per cento dei soggetti trattati con alemtuzumab e nell’11 per cento di quelli trattati con interferone, con una differenza percentuale, quindi, non significativa. CARE-MS I ha avuto anche un’estensione, in cui sono stati coinvolti 349 pazienti dello studio principale trattati al bisogno con alemtuzumab. Dopo

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quattro anni, somministrazioni ulteriori hanno riguardato solo il 26 per cento dei soggetti (21 per cento un solo ciclo, 5 per cento due cicli). L’efficacia del farmaco è stata confermata da un tasso di ricadute stabile e da un miglioramento negli indici di disabilità rispetto al basale. Nello studio CARE-MS II infine due diversi dosaggi di alemtuzumab sono stati messi a confronto con interferone beta-1a nel trattamento della sclerosi multipla recidivante-remittente in 667 pazienti con ricadute continue in corso di terapia con interferone beta [4]. Nel gruppo trattato con alemtuzumab, l’analisi dei dati ha mostrato una riduzione del 49 per cento nella frequenza di ricadute rispetto al gruppo trattato con interferone e del 42 per cento nell’accumulo di disabilità sostenuta; inoltre, nei due anni di durata dello studio, non si sono registrate ricadute nel 65 per cento dei pazienti trattati con alemtuzumab e nel 47 per cento di quelli trattati con interferone. Bibliografia 1. The CAMMS223 Trial Investigators. Alemtuzumab vs. Interferon Beta-1a in Early Multiple Sclerosis. New Engl J Med 2008; 359: 1786-1801. 2. Coles AJ, Fox E, Vladic A et al. Alemtuzumab versus interferon β-1a in early relapsing-remitting multiple sclerosis: post-hoc and subset analyses of clinical efficacy outcomes. Lancet Neurol 2011; 10: 338-48. 3. Cohen JA, Coles AJ, Arnold DL et al; CARE-MS II investigators. Alemtuzumab versus interferon beta 1a as first-line treatment for patients with relapsingremitting multiple sclerosis: a randomised controlled phase 3 trial. Lancet 2012 Nov 24; 380(9856): 181928. 4. Coles AJ, Twyman CL, Arnold DL et al. CARE-MS II investigators. Alemtuzumab for patients with relapsing multiple sclerosis after disease-modifying therapy: a randomised controlled phase 3 trial. Lancet 2012; 24; 380: 1829-39.


Terapia personalizzata L’obiettivo è sempre più vicino Lo scenario delle terapie per la sclerosi multipla è in continua evoluzione, grazie a un numero sempre maggiore di nuove molecole. Ma come si orienta lo specialista tra le diverse opzioni, tenendo conto non solo dei risultati di efficacia dei grandi trial ma anche dell’esperienza clinica quotidiana? Lo abbiamo chiesto ad Angelo Ghezzi, direttore dell’Unità operativa di Neurologia 2-Sclerosi Multipla dell’Ospedale di Gallarate (VA)

Dott. Ghezzi, negli ultimi 20 anni le prospettive di cura della sclerosi multipla sono drasticamente cambiate: quali sono state le tappe più significative di questo processo?

❱❱ Prima degli anni Novanta i trattamenti per la malattia erano sostanzialmente empirici e limitati alla somministrazione di cortisone, nelle fasi acute di malattia, e d’immunosoppressori, principalmente azatiopirina e ciclofosfamide, che in alcune esperienze avevano fornito risultati discreti. Ma è con gli anni Novanta che si apre l’era del trattamento disease modifying con i grandi trial clinici randomizzati in doppio cieco con placebo, quindi condotti con metodologie rigorose, e che hanno reso disponibili nella pratica clinica gli interferoni beta-1a e -1b e, a breve distanza di tempo, il glatiramer acetato: con questi farmaci si è fatta largo l’idea che fosse possibile ridurre le ricadute e la progressione, quindi far sì che la malattia potesse avere un’evoluzione più favorevole. Un’altra delle idee che ha radicalmente cambiato l’approccio terapeutico è quella del trattamento precoce e del precoce shift per i soggetti che non rispondono in modo ottimale ai farmaci, in modo da prevenire il deficit neurologico irreversibile. Questa idea si è poi rafforzata con l’avvento dei farmaci di nuova generazione...

❱❱ Certo. Con natalizumab, approvato in Italia nel 2006, si apre una nuova era per i trattamenti della sclerosi multipla. Si tratta di un anticorpo monoclonale con un meccanismo di azione molto

preciso e mirato, poiché interviene in un processo patogenetico cruciale per la malattia, ovvero la migrazione nel sistema nervoso centrale delle cellule che guidano l’infiammazione. Natalizumab ha dimostrato che con farmaci più selettivi era possibile ottenere un ulteriore guadagno nel controllo della malattia rispetto ai trattamenti precedenti: se i precedenti farmaci erano in grado di ridurre la frequenza di ricadute del 30-50 per cento, con natalizumab la riduzione poteva arrivare fino al 70 per cento. Poi è arrivato fingolimod, che ha rappresentato un’importante innovazione per 2 motivi fondamentali: per il suo peculiare meccanismo d’azione che consiste nel bloccare la “chiave” di cui sono dotati i linfociti per uscire dai linfonodi e migrare nei tessuti e quindi nel sistema nervoso, e per la via di somministrazione, quella orale: il farmaco ha dimostrato la sua efficacia negli studi clinici sia contro placebo sia contro l’interferone beta-1a monosettimanale. Si arriva così ai trattamenti più recenti: teriflunomide e dimetilfumarato. Quali vantaggi hanno portato nella pratica clinica?

❱❱ Con queste due molecole si è ampliata ulteriormente le gamma delle opzioni per il trattamento della malattia, con l’arrivo, nelle mani del clinico, di due farmaci orali; abbiamo ora a portata di mano uno degli obiettivi più importanti della medicina contemporanea: il trattamento personalizzato. I dati di efficacia di questi due nuovi farmaci sono a favore di dimetilfumarato, mentre teriflunomide può essere utile

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terapia per forme di malattia meno aggressive. Hanno entrambi una buona tollerabilità e un’elevata maneggevolezza nell’utilizzo clinico, rappresentano quindi una possibilità terapeutica interessante. Ma come si orienta il clinico nell’utilizzo di questo ampio armamentario terapeutico, per esempio quando si ha di fronte un nuovo paziente?

❱❱ Per i pazienti naïve, gli interferoni e il glatiramer acetato possono avere ancora un ruolo importante, anche se si tratta di farmaci iniettivi, quindi con una modalità di somministrazione più impegnativa. Si tratta infatti di farmaci che hanno alle spalle 20 anni di uso clinico, e quindi ne conosciamo molto bene il profilo di sicurezza: non sono mai stati segnalati finora eventi di particolare gravità o complessità. Considerato che la malattia colpisce prevalentemente le donne, e in un’età che coincide con vita procreativa, questi farmaci non creano particolari problemi in relazione allo sviluppo di una gravidanza. Rimane aperta in ogni caso l’opzione di somministrare teriflunomide e dimetilfumarato, che sono farmaci orali, con gli evidenti vantaggi di questo tipo di somministrazione. Nel futuro è prevedibile che questi nuovi farmaci orali prevarranno nella scelta rispetto agli iniettivi. Nei casi di fallimento terapeutico con questi farmaci o nelle forme particolarmente aggressive, si possono utilizzare i farmaci di seconda linea quali natalizumab e fingolimod. Quali sono vantaggi e svantaggi di natalizumab e fingolimod?

❱❱ Per le forme più aggressive o non rispondenti, natalizumab ha una notevole efficacia, unita a un buon profilo di tolleranza e di sicurezza a lungo termine, gravato solo dal rischio di leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML). Si tratta però di un evento avverso che ora possiamo prevenire,

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grazie a un algoritmo di stratificazione del rischio che tiene conto sia della durata del trattamento sia dei trattamenti precedenti sia infine della presenza nel paziente di anticorpi contro il virus che causa la malattia, valutabile grazie a uno specifico test. Fingolimod, a somministrazione orale, ha un profilo di azione ben documentato dagli studi clinici, con una notevole efficacia nel ridurre l’attività di malattia e le ricadute rispetto all’interferone beta 1-a, ed è da preferire rispetto a natalizumab nei soggetti a rischio di PML. Non dimentichiamo poi alemtuzumab, approvato di recente...

❱❱ Infatti, la terza possibilità è di utilizzare alemtuzumab, farmaco di straordinaria efficacia da poco introdotto nell’uso clinico: alemtuzumab è un anticorpo monoclonale con un target molto specifico e molto preciso, antiCD52, con l’effetto di produrre la deplezione di B e T linfociti. Nei due studi registrativi CARE-1 e CARE-MS II ha dimostrato di possedere un’elevata attività nel ridurre le ricadute e la progressione, maggiore rispetto all’interferone beta 1-a, che è considerato uno dei gold standard per il trattamento della sclerosi multipla. Molto interessante è anche la semplificazione dello schema di somministrazione: il primo ciclo prevede un’infusione per cinque giorni successivi, il secondo ciclo, dopo un anno, tre sole infusioni. In questo modo si ottiene una stabilizzazione anche protratta della malattia, ma rimane aperta la possibilità di ulteriori cicli nel follow-up in caso di riattivazione della malattia. L’elevata efficacia però si paga con il rischio di eventi avversi che devono accuratamente essere sorvegliati nel tempo. Quali dati sono disponibili sul profilo di sicurezza di alemtuzumab?

❱❱ Gli studi hanno evidenziato la possibile insorgenza di diversi effetti collaterali: tireopatie, con iper o ipofunzionalità tiroidea nel 30 per cento circa dei

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casi, ma anche citopenie, in particolare a carico delle piastrine, in circa il 2% dei casi e, in casi per il vero rari, nefropatie (in tutto 3 casi, negli studi registrativi). Si tratta in ogni caso di eventi avversi che possono essere diagnosticati e quindi trattati precocemente. In pratica, a fronte della notevole semplificazione della somministrazione, con questo farmaco bisogna monitorare periodicamente e in modo molto accurato emocromo completo con creatinina ed esame urine mensilmente, oltre a funzionalità tiroidea, ogni 3 mesi, con controlli che devono essere protratti per 4 anni dopo l’ultima somministrazione. Nonostante la disponibilità degli anticorpi monoclonali di nuova generazione, per i farmaci meno recenti non sembra ancora arrivata l’ora della pensione... è così?

❱❱ Come ho già avuto modo di sottolineare, interferoni e glatiramer acetato potranno avere ancora un certo spazio, grazie anche alle nuove formulazioni che saranno presto disponibili. L’interferone peghilato verrà somministrato a intervalli di 15 giorni rendendo quindi decisamente più agevole la via di assunzione e liberando il paziente dalla necessità di iniezioni frequenti: scelta ottimale per il soggetto che risponde clinicamente al farmaco, ma incontra problemi nelle modalità di somministrazione. Per quanto riguarda invece glatiramer acetato, è imminente la disponibilità del dosaggio 40 mg in luogo dei 20 mg, che potrà essere somministrato tre volte alla settimana, con un guadagno anche in questo caso in termini di frequenza di somministrazione e accettazione della terapia. Tutti i nuovi farmaci hanno ricevuto l’indicazione per la forma di malattia recidivante-remittente. E per le altre forme come ci si comporta?

❱❱ Dunque, la risposta in questo caso dev’essere un po’ più articolata. Le indicazioni per tutti i farmaci immu-


nomodulanti riguardano in effetti la forma recidivante-remittente, con una loro modulazione nell’utilizzo che viene fatta in ragione dell’attività di malattia: come già detto, per forme molto attive si preferiscono farmaci più incisivi come natalizumab, fingolimod e alemtuzumab, mentre per le forme meno attive si utilizzano teriflunomide e dimetilfumarato, oltre a interferonebeta e glatiramer acetato. In pratica solo l’interferone beta 1-b ha l’indicazione per la forma progressiva con ricadute. Ciò è dovuto al fatto che questo farmaco era stato testato con risultati positivi nella forma secondariamente progressiva in uno studio europeo. I risultati non erano invece stati confermati nello studio parallelo nordamericano, e le ragioni di questa differenza sono da ricercare nei criteri d’inclusione dello studio europeo, in cui erano stati inclusi casi secondariamente progressivi

nel momento di transizione dalla forma a ricadute, e quindi con residua attività infiammatoria. Lo studio europeo appena citato anticipava in qualche modo i nuovi criteri diagnostici di classificazione del decorso, che ora prevedono la distinzione in forme “attive/non attive”, all’interno delle forme primariamente e secondariamente progressive. In altri termini, anche in queste forme a carattere tendenzialmente progressivo è possibile identificare un sottotipo con attività di malattia e che potrebbe avvantaggiarsi dall’utilizzo dei farmaci di nuova e vecchia generazione. Nel passato questa classificazione non era utilizzata, ma diversi studi, in forme progressive, pur con risultati deludenti nella globalità della casistica, avevano evidenziato una risposta favorevole nei casi con attività di malattia. E questa, poc’anzi descritta, può essere una tappa importante per contrastare la

progressione, intervenendo sui meccanismi dell’infiammazione che ne sono alla base. Vi è tuttavia un’altra componente, all’interno dei meccanismi di progressione, in parte disgiunta dall’infiammazione e che, da questa innescata, procede tuttavia in modo autonomo e inesorabile. Gli sviluppi terapeutici più interessanti in questa direzione riguardano i provvedimenti “neuroprotettivi” e quelli capaci di promuovere i meccanismi riparativi: penso agli anticorpi anti-lingo, ai recenti studi con la biotina, e anche ai possibili sviluppi di laquinimod, molecola cha ha dato risultati discreti nella riduzione delle ricadute, nella forma RR di malattia, ma che ha dimostrato un inaspettato effetto sulla progressione, maggiore di quanto atteso sulla base del solo effetto di prevenzione delle ricadute. La strada è lunga, ma già ci sono studi promettenti anche in quest’ambito.

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disturbi del comportamento

L’apatia nella sclerosi multipla Uno studio sulle proprietà psicometriche dell’Apathy Evaluation Scale in un campione di pazienti con SM L’apatia è un disturbo comportamentale caratterizzato da perdita di motivazione e mancanza di iniziativa. Recentemente diversi studi hanno indagato la presenza di apatia nella sclerosi multipla (SM) riportando una prevalenza che oscilla dal 19 al 35 per cento. Tale divergenza è dovuta in parte alle diverse caratteristiche cliniche dei campioni esaminati e in parte ai diversi strumenti utilizzati per indagare l’apatia (specifici o non specifici, auto- o etero-somministrati). Si è dunque ritenuto opportuno verificare le proprietà psicometriche della versione italiana dell’Apathy Evaluation Scale in un campione di pazienti con SM, in modo da fornire ai clinici uno strumento di valutazione attendibile e valido per rilevare l’apatia in questo tipo di popolazione neurologica

Simona Raimoa, Luigi Trojanoa,b, Daniele Spitaleric, Vittorio Petrettac, Dario Grossia, Gabriella Santangeloa,d a. Dipartimento di Psicologia, Seconda Università degli Studi di Napoli, Caserta b. Fondazione Salvatore Maugeri, Istituto Scientifico di Telese Terme c. Unità Operativa Complessa di Neurologia e Stroke Unit, Ospedale San Giuseppe Moscati, Avellino d. Istituto di Diagnosi e Cura Hermitage, Capodimonte, Napoli

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L’

apatia è un disturbo comportamentale caratterizzato da perdita di motivazione e mancanza di iniziativa, non attribuibile a stress emotivo, deficit cognitivi o ridotti livelli di consapevolezza (1) e può esprimersi con la riduzione degli aspetti comportamentali (apatia comportamentale), cognitivi (apatia cognitiva), ed emozionali (apatia emotiva) correlati al comportamento finalizzato. L’apatia comportamentale si manifesta con una riduzione quantitativa dei comportamenti finalizzati, volontari, autogenerati, in contrasto con la normale produzione di comportamenti stimolati dall’ambiente esterno. L’apatia cognitiva consiste nell’indifferenza nei riguardi dei problemi personali e sociali e nella perdita di interesse verso novità, persone e oggetti del proprio ambiente, e sembra essere correlata all’alterazione delle funzioni cognitive (esecutive) necessarie per elaborare i piani d’azione. L’apatia emotiva si manifesta come un appiattimento emotivo, con ridotta spontaneità emozionale e reattività emotiva agli stimoli positivi o negativi o diminuita capacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni, e probabilmente è associata a un’incapacità di associare i segnali affettivi ed emotivi al comportamento che si sta realizzando o che si realizzerà (2).

Apatia e depressione: come distinguerle Marin (1) fornì la prima definizione del costrutto “apatia”, e in seguito sono stati sviluppati diversi criteri clinici per porre la diagnosi specificamente


Tabella 1

Definizione e criteri diagnostici per l’apatia

Autori

Definizione/Criteri diagnostici

Marin, 19911

L’apatia è un disturbo comportamentale caratterizzato da mancanza di motivazione non attribuibile a stress emotivo, deficit cognitivi o diminuiti livelli di consapevolezza

Starkstein, 200039

Per la diagnosi di apatia devono essere pienamente soddisfatti i seguenti criteri diagnostici: A. Perdita di motivazione rispetto al precedente livello di funzionamento, all’età e alla cultura del paziente, sia come riferito dal paziente che dall’osservazione degli altri B. Presenza per almeno 4 settimane e per la maggior parte del giorno di almeno un sintomo appartenente a ognuno dei tre domini: Diminuzione dei comportamenti finalizzati (“goal-directed”) 1. Mancanza di impegno ed energia nelle attività quotidiane 2. Necessità di sollecitazioni esterne per portare avanti le attività quotidiane Diminuzione delle funzioni cognitive dirette a uno scopo (“goal-directed”) 3. Mancanza di interesse nell’imparare nuove cose e nel fare nuove esperienze 4. Mancanza di preoccupazione verso i problemi personali Diminuzione delle concomitanti emotive dei comportamenti finalizzati 5. Appiattimento affettivo 6. Mancanza di risposta emotiva a eventi positivi o negativi C. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o disturbi nell’area sociale o occupazionale o in altre aree importanti del funzionamento D. I sintomi non sono dovuti a diminuzione del livello di coscienza o a diretti effetti fisiologici di sostanze

Levy e Dubois, 200640

L’apatia è una sindrome osservabile a livello comportamentale consistente in una diminuzione quantitativa delle azioni rispetto al comportamento precedente anche quando gli stimoli fisici o situazionali non mutano

Robert et al., 200933

Per la diagnosi di apatia devono essere soddisfatti pienamente i seguenti criteri: A. Perdita o diminuzione di motivazione rispetto al precedente livello del funzionamento del paziente e non adeguata all’età e alla cultura del paziente. Questo cambiamento nella motivazione può essere riportato dal paziente stesso o dall’osservazione degli altri B. Presenza di almeno un sintomo appartenente ad almeno due dei tre domini per un periodo di almeno 4 settimane e per la maggior parte del giorno Dominio B1—Comportamento: Perdita di, o diminuzione del comportamento finalizzato (“goal-directed”) come evidenziato da almeno uno dei seguenti: - Mancanza di comportamenti finalizzati auto-generati (ad esempio: iniziare una conversazione, ricercare attività sociali, comunicare scelte) - Mancanza di comportamenti finalizzati stimolati dall’ambiente (ad esempio: rispondere alle conversazioni, partecipare alle attività sociali) Dominio B2—Cognizione: Perdita di, o diminuzione, di attività cognitive “goal-directed” come evidenziato da almeno uno dei seguenti: - Mancanza di attività cognitive auto-generate e mancanza di curiosità per eventi abituali e nuovi (ad esempio: compiti impegnativi, notizie recenti, opportunità sociali) - Mancanza di attività cognitive stimolate dall’ambiente e mancanza di curiosità per eventi abituali e nuovi Dominio B3— Emozione: Perdita, o diminuzione nel provare emozioni come evidenziato da almeno uno dei seguenti: - Mancanza di emozioni spontanee, come osservato o riferito dal paziente (ad esempio: sensazione soggettiva di assenza di emozioni) - Mancanza di risposta emotiva agli eventi/stimoli positivi o negativi (ad esempio: affettività appiattita e costante) C. Questi sintomi (A - B) causano compromissione clinicamente significativa nell’area personale, sociale, occupazionale e in altre aree del funzionamento importanti D. Questi sintomi (A - B) non sono esclusivamente spiegati o dovuti a disabilità fisica, diminuiti livelli di consapevolezza o a effetti fisiologici diretti di una sostanza la neurologia italiana

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disturbi del comportamento

Tabella 2

Sintomi comuni e distintivi di apatia e depressione Apatia

Sintomi distintivi

Sintomi comuni

Sintomi distintivi

Perdita di motivazione Perdita di iniziativa Indifferenza

Perdita di interessi Perdita di energia Rallentamento psicomotorio

Umore depresso Mancanza di speranza Autocritica e senso di colpa Idee suicidarie Sintomi vegetativi

(Tabella 1), evitando di confondere i sintomi caratteristici dell’apatia con le manifestazioni cliniche di altre sindromi che con l’apatia condividono alcuni aspetti (ad esempio, sindrome acinetica, depressione, abulia). In particolare, apatia e depressione possono manifestarsi in maniera indipendente, ma la diagnosi differenziale tra le due sindromi può risultare difficoltosa sia perché l’apatia è un sintomo centrale per la diagnosi di depressione maggiore, secondo i criteri diagnostici del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali IV-Testo Revisionato (DSM-IV TR) (3), e sia perché alcuni sintomi sono comuni alle due sindromi (Tabella 2). È bene sottolineare che l’apatia si deve intendere come un disordine della motivazione che si manifesta con appiattimento emotivo e indifferenza, mentre la depressione consiste in una deflessione del tono dell’umore accompagnata da sintomi affettivi e neurovegetativi. Un paziente affetto da apatia appare indifferente al proprio stato di salute, meno attento agli altri, poco disponibile a impegnarsi in attività sociali e ricreative, fino al punto dal dipendere da altri per organizzare le varie attività della vita quotidiana; la mimica facciale è inespressiva. Il paziente con depressione si mostra, invece, triste, afflitto da pensieri opprimenti e concentrato su esperienze negative, ma attivo nei comportamenti di evitamento; la mimica facciale è improntata alla tristezza e allo sconforto. Inoltre, le due sindromi sembrano mostrare diversi correlati neurobiologici. L’apatia sembra correlata prevalentemente a una disfunzione del circuito

26

Depressione

fronto-sottocorticale del cingolato anteriore; detto anche circuito motivazionale mediato dal punto di vista neurochimico dal sistema dopaminergico; la depressione, invece, sembra correlata a una disfunzione dei circuiti fronto-sottocorticali dorsolaterale e orbitofrontale (2). La distinzione tra le due sindromi è importante anche per le implicazioni terapeutiche, in quanto l’apatia risponde al trattamento con agonisti dopaminergici e inibitori della colinesterasi, ma non al trattamento con antidepressivi (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, SSRI) che possono peggiorare lo stato di apatia (4). L’apatia si presenta con variabile frequenza in diverse patologie neurodegenerative, come demenza di Alzheimer (DA), con una prevalenza stimata tra 25 e 88 per cento (5), o malattia di Parkinson (MP), con una frequenza stimata tra 20 e 70 per cento (6-8), ed è stata più recentemente descritta nella sclerosi multipla (SM), con una prevalenza stimata tra 19 e 35 per cento (9, 10). Nelle diverse patologie l’apatia è significativamente associata con deficit cognitivi, in particolare disfunzioni esecutive, ridotta qualità di vita, sia del paziente che dei suoi familiari, scarsa aderenza al trattamento e disabilità funzionale (5, 11-13). Inoltre, nel Disturbo Cognitivo Lieve l’apatia sembra essere un fattore di rischio per il successivo svilupparsi di demenza (14). Più recentemente gli studi si sono focalizzati sulla prevalenza e sugli specifici correlati cognitivi dell’apatia in assenza di depressione, la cosiddetta apatia “pura”. In particolare, due studi (5, 15) hanno dimostrato come la presenza di

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apatia “pura” sia associata a un rilevante deficit esecutivo, in particolare ai test che valutano il controllo inibitorio. È stata pertanto ipotizzata l’esistenza di una “sindrome apatica” con specifici sintomi cognitivi e psicologici, sottesi da un comune substrato neurale, una probabile disfunzione dei circuiti prefrontali cortico-sottocorticali (16).

Strumenti di valutazione dell’apatia Per identificare e valutare l’apatia in maniera precoce e affidabile nelle diverse malattie neurologiche, in vista anche di possibili interventi riabilitativi finalizzati a ridurre l’impatto sulla qualità di vita del paziente e della famiglia, sono state costruite e validate alcune scale specifiche. Tra queste, le più ampiamente diffuse sono: l’Apathy Evaluation Scale (AES, 17), l’Apathy Scale (18), l’Apathy Inventory (19) e la Lille Apathy Rating Scale (20). L’Apathy Evaluation Scale (AES, 17) è l’unico strumento specifico a essere stato tradotto e validato in italiano (21); le sue buone proprietà discriminative in diverse malattie neurologiche, come DA e altre demenze, MP, stroke e trauma cranico (17, 22-24), e la sua rapida e facile somministrazione rendono l’AES una buona candidata per la valutazione clinica dell’apatia anche nei pazienti con SM. L’AES fornisce una valutazione quantitativa dell’apatia generale e dei suoi aspetti comportamentali, cognitivi ed emotivi. È composta da 18 domande, cui rispondere su una scala a 4 punti


(1-4); il punteggio varia da 18 a 72, e punteggi più alti indicano maggiore gravità del disturbo. L’AES esiste in tre diverse versioni: auto-somministrata (AES-S), maggiormente utilizzata per pazienti non dementi o senza grave compromissione cognitiva e con buone capacità introspettive; etero-somministrata per la compilazione da parte dei familiari, maggiormente utilizzata per valutare i pazienti con demenza, grave compromissione cognitiva, o scarsa introspezione; etero-somministrata per la compilazione da parte del clinico, per quest’ultimo tipo di pazienti, in caso di scarsa disponibilità dei familiari.

Lo studio Validare la versione italiana dell’AESS in un campione di pazienti affetti da SM significa fornire ai clinici uno strumento affidabile per l’identificazione precoce del disturbo anche in questo tipo di popolazione neurologica. Abbiamo dunque intrapreso uno studio (25) con i seguenti specifici scopi: 1) valutare l’applicabilità, le proprietà psicometriche e la struttura fattoriale (consistenza interna, validità convergente e divergente, analisi delle componenti principali) dell’AES-S in un campione di pazienti con SM; 2) identificare un valore soglia (cut-off) per rilevare la presenza di apatia clinicamente significativa; 3) identificare i correlati cognitivi dell’apatia nella SM. w Caratteristiche dei pazienti e metodi Il campione dello studio era costituito da 103 pazienti consecutivi con diagnosi di SM seguiti presso il Centro Sclerosi Multipla dell’Ospedale San Giuseppe Moscati di Avellino. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: • diagnosi di demenza sulla base dei criteri clinici del DSM-IV TR (3); • deterioramento cognitivo globale, rilevato attraverso il punteggio ottenuto al Mini Mental State Examination (MMSE, 26), corretto per età e scolarità, più basso di 23,8 (27);

• grave disabilità, come indicato da un punteggio più alto di 7 all’Expanded Disability Status Scale (EDSS, 28); • storia o presenza di abuso di alcol o farmaci; • storia di precedenti malattie psichiatriche, trauma cranico o altri disturbi neurologici; • analfabetismo; • madrelingua non italiana. I pazienti selezionati sono stati sottoposti a un esame clinico e neuropsicologico comprendente: • raccolta di informazioni sugli aspetti demografici (età, sesso, scolarità) e clinici (storia medica, trattamento farmacologico, disabilità neurologica); • test cognitivi per il rilevamento dello stato cognitivo globale (MMSE, 26), delle funzioni esecutive (Frontal Assessment Battery; FAB, 29) e delle funzioni visuospaziali (Test dell’Orologio; 30); • scale comportamentali per la valutazione dell’apatia (AES-S, 17; scala per l’apatia del Neuropsychiatric Inventory, NPI, 31) e della depressione (Hamilton Depression Rating Scale; HDRS, 32); • intervista clinica basata sui criteri clinici per la diagnosi di apatia (33). w Analisi dei risultati Sulla base dei criteri di esclusione, il campione finale era costituito da 70 pazienti (56 femmine e 14 maschi) affetti da SM con un età media di 42 (±9,5) anni, una scolarità media di 12 (±3,3) anni e un basso-moderato livello di disabilità neurologica (EDSS =3,3±1,4). La maggior parte del campione (88,5 per cento) era costituito da pazienti affetti da SM recidivante-remittente, il restante 11,5 per cento aveva una SM progressiva primaria o secondaria. I pazienti hanno risposto a tutti i quesiti dell’AES-S, senza alcun effetto tetto e con effetto pavimento trascurabile (1,42 per cento). La consistenza interna è risultata buona (alpha di Cronbach, α =0,87). Le correlazioni item-totale erano alte e positive (r ≥0,40) per tutti i quesiti, a eccezione del quesito 7 (“Sente di

preoccuparsi dei suoi problemi meno di quanto dovrebbe?”, r =0,13); la rimozione del quesito 7 dalla scala ne aumentava la consistenza interna (α =0,89). L’analisi delle Componenti Principali, con rotazione obliqua Promax, ha dimostrato una struttura a tre fattori: il primo, definito “apatia cognitiva”, spiegava la maggior parte della varianza (35,7 per cento) e includeva i quesiti riguardanti prevalentemente gli aspetti cognitivi dell’apatia; il secondo fattore, definito “apatia generale”, era composto da quesiti che valutano in maniera generica la mancanza di motivazione e la perdita di iniziativa; infine, il terzo fattore, definito “apatia comportamentale-emotiva”, includeva i quesiti relativi ai comportamenti intenzionali, autogenerati, e all’appiattimento affettivo. Le caratteristiche della struttura trifattoriale sono mostrate in Tabella 3. La validità di costrutto è stata valutata calcolando la correlazione non parametrica (rho di Spearman) dell’AES-S con la scala che valuta lo stesso costrutto (scala apatia del NPI) per una stima della validità convergente, e con le scale che valutano costrutti diversi (MMSE, HDRS, EDSS) per una stima della validità divergente. Queste analisi hanno dimostrato che l’AES-S mostrava correlazioni moderate (r =0,30-0,50; 34) con la scala apatia del NPI (rrho=0,38), con la HDRS (rrho=0,37) e con l’EDSS (rrho=0,38), e una bassa correlazione con il MMSE (rrho=-0,17). Utilizzando come riferimento diagnostico i criteri clinici per l’apatia (32), la Receiver Operating Characteristic Curve (ROC) ha evidenziato che un punteggio totale della AES-S di 35,5 rappresentava il valore soglia (cut-off) con più alta sensibilità (88 per cento) e specificità (72 per cento) per rilevare la presenza di apatia clinicamente significativa. Inoltre, l’AES-S mostrava una significativa correlazione con la FAB (r =-0,36; p =0,002) e una non significativa correlazione con il Test dell’Orologio (r =-0,07; p =0,51).

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disturbi del comportamento Discussione I risultati del nostro studio hanno mostrato che l’AES-S è uno strumento attendibile e valido per valutare l’apatia nei pazienti affetti da SM. L’analisi Tabella 3

dell’AES-S su soggetti sani (17), su pazienti con MP (24) e su pazienti con DA (23), nei quali il fattore che spiegava la maggior parte della varianza raggruppava i quesiti che valutano gli aspetti generali dell’apatia (mancanza di mo-

fattoriale ha evidenziato una struttura a tre fattori (fattore 1: apatia cognitiva; fattore 2: apatia generale; fattore 3: apatia comportamentale-emotiva). Tale struttura fattoriale è diversa da quella proposta in altri studi di validazione

Struttura fattoriale dell’Apathy Evaluation Scale auto-somministrata (AES-S) Fattore 1 Apatia Cognitiva

Fattore 2 Apatia Generale

Fattore 3 Apatia Comportamentale-Emotiva

13. Sente che per lei è importante ritrovarsi con gli amici?

0,877

-0,204

-

12. Sente il bisogno di avere amici?

0,834

-

-

5. Ha voglia di imparare cose nuove?

0,728

0,311

-

4. Si sente interessato a fare nuove esperienze?

0,646

0,376

-0,128

9. Sente che per lei è importante seguire un lavoro fino alla fine?

0,631

-

0,161

3. Sente che per lei è importante cominciare le cose personalmente?

0,59

-

0,382

11. Mette scarso impegno nel fare le cose?

0,47

-

0,248

7. Sente di preoccuparsi dei suoi problemi meno di quanto dovrebbe?

0,178

-0,126

0,151

17. Ha iniziativa?

-0,175

0,950

-

18. È motivato?

-0,180

0,927

0,137

-

0,721

-

10. Ha voglia di passare il suo tempo a fare cose che le interessano?

0,247

0,706

-0,106

15. Sente di riuscire a capire bene i suoi problemi?

-0,300

0,105

0,809

16. Sente che per lei è importante concludere qualcosa ogni giorno?

-

-

0,689

2. Ha voglia di portare a termine quello che fa durante la giornata?

-

0,140

0,669

1. È interessata alle cose?

0,201

-

0,644

14. Quando succede qualcosa di positivo, si sente su di giri?

0,132

-0,107

0,528

6. Sente che è meglio che qualcuno le dica cosa fare ogni giorno?

0,179

-

0,381

Autovalore

6,43

1,97

1,55

Varianza Spiegata

35,74

10,99

8,65

Quesito

8. Affronta la vita con passione?

Note: Saturazioni >0,40 sono riportate in grassetto; le saturazioni < 0,10 non sono riportate

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tivazione e iniziativa, appiattimento affettivo). La discrepanza tra il nostro e i precedenti studi potrebbe essere dovuta alla centralità degli aspetti cognitivi dell’apatia nei pazienti affetti da SM (riduzione di motivazione e iniziativa associata a deficit esecutivi) che sarebbero maggiormente discriminativi per l’identificazione dell’apatia in questo tipo di popolazione neurologica. Pertanto, per un’identificazione precoce dell’apatia nella SM nella pratica clinica potrebbe essere utile indagare le alterazioni cognitive sottostanti a una riduzione dei comportamenti autogenerati e finalizzati, come deficit di programmazione e pianificazione, ridotta flessibilità cognitiva, mancanza di progettualità, difficoltà nel generare nuove strategie. Dall’analisi di attendibilità tutti i quesiti della scala mostravano buone caratteristiche psicometriche (correlazione item-totale, saturazione fattoriale) a eccezione del quesito 7 (preoccupazione per i problemi personali). Tale quesito potrebbe essere rimosso dalla scala per la valutazione dell’apatia in pazienti con SM, così come proposto da Pedersen e coll. (35) in uno studio sulle proprietà clinico-metriche di una versione abbreviata dell’AES-S in pazienti con MP. Le analisi non parametriche per valutare la validità di costrutto hanno mostrato una discreta validità convergente (rrho>0,50) e divergente (rrho<0,50). Inoltre, l’alta e

significativa correlazione tra la gravità dell’apatia (AES-S) e i deficit cognitivi di tipo esecutivo, valutati attraverso la FAB, potrebbe far supporre la presenza di un comune substrato neurale rappresentato da circuiti prefrontali corticosottocorticali (36), come dimostrato in altre patologie neurologiche (37, 38). Il valore di 35,5 sembra rappresentare la soglia ottimale per identificare i pazienti con apatia clinicamente significativa, che rappresentavano il 35,7 per cento del campione studiato. Tale valore soglia è diverso da quello riportato in altri studi su soggetti sani (cut-off =34) e su pazienti affetti da demenza (cut-off =36,5), probabilmente proprio a causa delle diverse caratteristiche cliniche dei diversi campioni, che quindi rendono necessario individuare valori soglia specifici su una stessa scala a seconda del tipo di popolazione in cui l’apatia è indagata. w Limiti dello studio Lo studio descritto ha permesso di valutare la validità dell’AES-S in un campione di pazienti affetti da SM in età giovane adulta, con un basso o moderato livello di disabilità e senza declino cognitivo globale. Tuttavia, la specifica composizione del campione può rappresentare un limite alla generalizzazione dei dati ottenuti a tutta la popolazione di pazienti affetti da SM: bisogna ricordare che l’AES-S è una scala auto-

somministrata che richiede uno stato cognitivo globale non alterato e buone capacità introspettive. Ulteriori studi potrebbero considerare di validare le proprietà psicometriche dell’AES nella versione etero-somministrata (compilata dal clinico o dal familiare) per un campione di pazienti affetti da SM con presenza di deterioramento cognitivo globale e grave disabilità neurologica. Un secondo limite dello studio è stato quello di non aver valutato l’affidabilità test-retest. Tuttavia, il nostro intento era quello di valutare le proprietà clinico-metriche di questa scala in una specifica patologia, in quanto la sua applicabilità e affidabilità (come l’affidabilità test-retest) sono già state ampiamente dimostrate in precedenti ricerche (17, 22), sebbene su popolazioni diverse.

Considerazioni conclusive In conclusione, i risultati qui descritti hanno dimostrato che l’AES-S è uno strumento affidabile e valido per valutare l’apatia in pazienti con sclerosi multipla e sembra essere particolarmente adatto per individuare gli aspetti cognitivi dell’apatia, che nella valutazione clinica possono essere spesso sottovalutati dai medici e dai familiari.

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Un strumento in pi첫 per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo


neuropsicologia

Attivazione e riabilitazione cognitiva nella SM I percorsi di trattamento area-specifici Lo sviluppo di terapie non farmacologiche costituisce un aspetto di primaria importanza nelle persone affette da sclerosi multipla che presentano difficoltà cognitive

Monica Falautano Servizio di Psicologia e Neuropsicologia, Dipartimento di Neurologia, Ospedale San Raffaele, Milano

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ome noto le persone affette da sclerosi multipla possono presentare, in maniera variabile, dipendente dalla forma di malattia, dalla durata, dall’interessamento lesionale dell’encefalo e dalla riserva cognitiva, alterazione del funzionamento delle abilità attentive, mnemoniche e rallentamento della velocità d’elaborazione delle informazioni. In considerazione del fatto che un’adeguata funzionalità dei processi cognitivi permette l’espressione di una maggiore comprensione e consapevolezza e di conseguenza anche una più efficace gestione delle relazioni e dell’integrazione nella vita sociale e lavorativa, è fondamentale che nel processo diagnostico e di cura si prenda in considerazione questo fattore e lo si gestisca al meglio sia qualora vi siano delle alterazioni, sia per prevenire l’eventuale insorgenza e aggravamento dei disordini cognitivi. Gli approcci farmacologici oggi disponibili, sebbene innovativi rispetto al passato, non possono avere un azione

globale proprio in relazione alla complessità della espressione della malattia e della persona stessa. Lo sviluppo di trattamenti non farmacologici assume, pertanto, una fondamentale rilevanza per le persone che presentino difficoltà cognitive. Come la terapia fisica, o l’attività fisica riveste un ruolo fondamentale rispettivamente nel recupero di un danno funzionale, o nel mantenimento e implemento della forma fisica, allo stesso modo la terapia e l’attivazione cognitiva sono necessarie a una ripristino o mantenimento e arricchimento mentale. L’abbandono della falsa credenza riguardo all’immutabilità del sistema nervoso centrale e le crescenti evidenze a favore dell’esistenza di neuroplasticità anche nel cervello maturo hanno dato accesso allo sviluppo della riabilitazione cognitiva come specifico campo di ricerca ed applicazione clinica (Berlucchi, 2011). Diverse ricerche e recenti revisioni della letteratura circa l’efficacia della riabilitazione cognitiva nella scle-

rosi multipla (Rosti-Otajärvi, 2011, O’Brian et al. 2008) hanno dimostrato come, soprattutto, training specifici di recupero delle funzioni mnemoniche e attentive abbiano dato risultati positivi. Inoltre, attraverso studi di fMRI, si è messo in luce come l’attività di riabilitazione cognitiva sia in grado di produrre modificazioni a livello di attivazione di aree cerebrali (Penner, 2006a; 2007, Mattioli, 2010, Sastre-Garriga J et al., 2011).

Il processo riabilitativo È condiviso nell’area clinica, ma anche in tutte le altre aree d’intervento, come alla fase terapeutica debba precedere la fase diagnostica e alla fase terapeutica debba seguire quella di verifica dei risultati. È in questa dimensione che si realizza il processo di riabilitazione\ attivazione cognitiva (Figura 1). Fondamentale appare pertanto, procedere già nella fase post-diagnosi a un inquadramento del funzionamento cognitivo, proprio per avere un profilo di base e per tener monitorato, attraverso controlli neuropsicologici periodici, le eventuali modificazioni funzionali. La valutazione neuropsicologica formale, condotta dallo psicologo esperto in neuropsicologia, fornisce dati quantitativi e

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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!

Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.

www.medicoepaziente.it

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neuropsicologia obiettivi circa la funzionalità cognitiva della persona in esame che, insieme alla percezione soggettiva di efficienza o alterazione funzionale, permette di considerare l’utilità di un intervento di attivazione\riabilitazione cognitiva. In tale contesto, come in qualsiasi processo di cura, fondamentale risulta la comprensione e la motivazione della persona in esame, una terapia funziona tanto meglio quanto più chi la opera, sia in qualità di terapeuta che di paziente, ne ha comprensione, consapevolezza e motivazione. Alla fine del percorso fondamentale sarà la verifica dell’efficacia da operare attraverso una valutazione neuropsicologica formale parallela a breve e a lungo termine e attraverso rilevazione soggettiva dei cambiamenti. Gli effetti dello stesso trattamento dovrebbero inoltre considerare non solo l’outcome cognitivo specifico, ma anche gli eventuali effetti sull’umore, sulla percezione della fatica, sul comportamento sociale e sulla generale gestione quotidiana. Vi sono diverse metodiche e strumenti che possono essere utilizzati nel processo di trattamento cognitivo: training individuali o di gruppo, training funzionali specifici per la memoria, per l’attenzione e per le abilità esecutive; possono essere utilizzati strumenti carta matita o software ad hoc. L’importante è che ci si basi sulle evidenze scientifiche fino a oggi maturate, che si lavori con adeguata consapevolezza clinica e avendo conoscenza delle basi teoriche neuropsicologiche di riferimento. Le evidenze scientifiche hanno messo in luce come risultino essere maggiormente efficaci i trattamenti riabilitativi cognitivi area specifici, e di come sia necessario personalizzare il trattamento, proprio in considerazione del fatto che ogni individuo è unico e irripetibile con caratteristiche peculiari non assimilabili al denominatore comune di sclerosi multipla.

La riabilitazione dell’attenzione L’attenzione è una funzione cognitiva coinvolta in qualunque attività che non

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Figura 1. Il processo di riabilitazione cognitiva

La riabilitazione cognitiva è intesa come un processo costituito da diverse azioni e fasi sequenziali e interdipendenti ASSESSMENT (OSSERVAZIONE/VALUTAZIONE) PIANIFICAZIONE LAVORO INTERVENTO VERIFICA

si svolga in modo completamente automatico ed è multicomponenziale, non unitaria; ciò implica che essa moduli l’attività degli altri processi cognitivi e sia in grado di ottimizzare l’elaborazione delle informazioni. Nella percezione o memorizzazione degli stimoli il sistema cognitivo non è più o meno efficiente a seconda delle caratteristiche dello stimolo, ma in base al livello di attenzione che accompagna i processi cognitivi. Tale funzione può essere compromessa, nelle persone con SM, proprio a causa del possibile rallentamento della trasmissione degli impulsi nervosi legati alla fisiopatologia, ma anche in relazione ad altre variabili quali la presenza di deflessione del tono dell’umore, di fatica o di alcuni effetti collaterali della terapia farmacologica. Per tale motivo non si può prescindere in qualsiasi trattamento riabilitativo di tenere in considerazione la funzionalità attentiva e, se necessario, lavorare per garantire una migliore attivazione e mantenimento della stessa. Per valutare la funzionalità attentiva vi sono differenti strumenti neuropsicologici che permettono al neuropsicologo di considerare come la persona sia in grado di orientarsi ai compiti, di focalizzare le risorse attentive di concentrarsi e di attivare la funzione di attenzione selettiva e divisa. Vi sono alcuni

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strumenti che hanno una loro storicità e tradizione in ambito di SM quali per esempio il PASAT e il SDMT. Molto spesso nei training attentivi vengono proposte attività attraverso l’uso di software associati a riflessioni preliminari e successive di ordine metacognitivo, ovvero relative alla percezione e consapevolezza del limite della potenzialità e alla considerazione dell’eventuale cambiamento nella messa in atto di strategie. Due studi di Plohmann (1994, 1998) hanno messo in evidenza un’efficacia nel trattamento delle diverse componenti dell’attenzione in un campione di persone affette da SM. Recenti studi hanno considerato l’associazione di neuromodulazione, mediante tDCS con le tecniche di riabilitazione neuropsicologica usuali, e si è evidenziata una maggiore efficacia rispetto alla riabilitazione tradizionale in persone con SM per ciò che riguarda l’attivazione attentiva (Mattioli et al., 2013).

La riabilitazione della memoria Anche la memoria è una funzione composita; possiamo considerarla come un processo che non può prescindere da una preliminare fase di sufficiente capacità di attivazione percettiva e attentiva e che consta poi di una fase di or-


ganizzazione degli stimoli in ingresso, memoria di lavoro, una fase di consolidamento e di recupero. Possiamo inoltre, distinguere tra memoria verbale e memoria visiva. Studi scientifici hanno dimostrato come nelle persone con SM risulti essere maggiormente intaccato il processo di apprendimento, forse anche in relazione a quanto sopradetto relativamente al processo di attenzione. Vi sono diversi strumenti psicometrici atti a rilevare il funzionamento della memoria e i relativi deficit; sono strumenti carta matita che indagano la memoria verbale nella sua componente di apprendimento e di rievocazione differita (Selective Remainding Test – Rao Battery, Rievocazione Parole di Rey Rey, Breve Racconto – Spinnler ecc.) e la memoria visiva a breve e a lungo termine (Span di cifre – Monaco, 10/30 – Rao, Figura di Rey – Rey ecc.). Risultati di recenti studi di J. De Luca et al. hanno evidenziato come un lavoro specificamente orientato al recupero di strategie volte all’apprendimento abbia garantito risultati ottimali sulla funzionalità mnemonica verbale. Attenzione va posta all’effetto della memoria implicita; ciò è dimostrato ad esempio dall’effetto ripetizione (repetition priming), che consiste nel fornire al soggetto informazioni che, sebbene non ricordi di averle già ricevute in precedenza, si dimostreranno ancora presenti e operanti a livelli subconsci favorendo il successivo più rapido apprendimento di informazioni analoghe o correlate concettualmente, nonchè la successiva tendenza a ricordare più facilmente le informazioni precedentemente fornite. Chiaravalloti N.D. e De Luca J. (2003) hanno valutato l’effetto di questa tecnica in un compito di memoria verbale confrontando un campione di pazienti affetti da SM con un campione di controlli sani. L’effetto sui livelli di memorizzazione è stato valutato a 30 minuti, 90 minuti e una settimana dalla prima acquisizione. I risultati hanno evidenziato che i pazienti sottoposti a un maggior numero di ripetizioni per apprendere la lista di

parole avevano punteggi peggiori al richiamo differito. Una variazione del repetition effect è il generation effect, una strategia secondo la quale un’informazione è ricordata meglio qualora sia generata e non semplicemente letta, come ad esempio quando dopo aver letto qualcosa cerchiamo di rispondere a domande relative a ciò che abbiamo letto. Questa metodologia sembra essere efficace in pazienti affetti da sclerosi multipla, come evidenziato negli studi di Chiaravalloti (2002) e di Basso (2006). L’ausilio di programmi computerizzati per il training della memoria è in progressiva crescita, anche se va considerata con attenzione la loro validità, soprattutto, in relazione ai presupposti teorici determinanti la loro creazione.

La riabilitazione delle funzioni esecutive Le funzioni esecutive sono correlabili anatomicamente ai network frontali; in relazione alla presenza di lesioni che possono interessare le suddette aree o che possono creare dei rallentamenti o dei blocchi nell’attivazione di tali network, si potranno presentare alterazioni funzionali. Le funzioni esecutive sono importanti nelle attività non routinarie e che richiedono la generazione di strategie, la creazione di nuovi schemi e la verifica dei piani d’azione. Un esempio può essere quando dobbiamo fronteggiare compiti complessi o che sono in conflitto tra loro o, ancora, quando ci si trova di fronte a situazioni nuove e insolite. Tali funzioni hanno inoltre, molto a che fare con i comportamenti e con aspetti di ordine personologico. Ancor più che la memoria e l’attenzione un buon funzionamento delle abilità esecutive non può prescindere da un’adeguata operatività di altri domini cognitivi. La riabilitazione neuropsicologica delle funzioni esecutive deve pertanto tenere in considerazione contemporaneamente molteplici aspetti, spesso integrati tra loro, che vanno

dall’analisi del problema e pianificazione di un compito alla generazione di piani alternativi e osservazione di regole, dall’inibizione di risposte non richieste o interferenti alla verifica dei risultati e al monitoraggio e correzione degli errori. Anche in questo caso vi sono strumenti neuropsicologici atti a valutare l’integrità e/o la compromissione funzionale; alcuni test che valutano la funzione attentiva come il PASAT, per esempio, ci danno delle informazioni anche sulla funzionalità esecutiva; vi sono altri strumenti quali lo Stroop Test che analizza la capacità di compiere operazioni cognitive complesse inibendo automatismi comportamentali e il Wisconsin Card Sorting Test che valuta invece, la capacità di compiere delle operazioni categoriali. Altri strumenti si basano sull’analisi della capacità di presa di decisioni finalistiche e sulla comprensione di concetti condivisi e logicamente rilevanti. Vi sono pochi lavori scientifici che analizzino l’efficacia di trattamenti delle funzioni esecutive; Vogt (2009), Fink (2010), Mattioli (2010) nelle loro ricerche hanno utilizzato soprattutto alcuni software computerizzati: BrainStim per la riabilitazione neuropsicologica della working memory e il training computerizzato RehaCom per l’attenzione e le funzioni esecutive, oltre a una versione modificata del PASAT per la riabilitazione dell’information processing. Tutti i tre studi evidenziavano miglioramenti dei gruppi trattati rispetto ai controlli nelle funzioni esecutive.

Riabilitazione basata sulla metacognizione La “metacognizione” consiste nell’insieme delle attività psichiche che presiedono al funzionamento cognitivo. I processi metacognitivi sono comprensivi sia delle strategie che dei processi di controllo: le prime, composte da operazioni esecutive e operazioni

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neuropsicologia

Altri approcci complementari Studi recenti (Briken et al., 2014) si sono orientati anche a valutare se e in che misura la pratica di attività fisica aerobica fosse correlata a un miglioramento delle funzioni cognitive, oltre

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Figura 2. Riserva cognitiva e interazione con i processi cognitivi Efficienza cognitiva (Z - score)

di controllo, si riferiscono al percorso che il soggetto decide di eseguire per affrontare un compito cognitivo; i secondi sono le operazioni che sovrintendono all’effettuazione del compito cognitivo. Si distingue inoltre tra conoscenza metacognitiva e processi metacognitivi di controllo. La conoscenza metacognitiva è costituita dalle conoscenze potenzialmente verbalizzabili relativamente ai processi metacognitivi, non necessariamente consapevoli. I processi metacognitivi di controllo sono invece volti a rendersi conto dell’esistenza di un problema, essere in grado di predire le proprie prestazioni, pianificare l’attività cognitiva conoscendo l’efficacia delle azioni programmate, registrare e guidare l’attività cognitiva rispetto all’obiettivo posto. Meno strutturati e diffusi gli strumenti atti a rilevare l’integrità e/o la disfunzionalità dei processi metacognitivi; spesso le considerazioni relative vengono fatte in relazione all’osservazione qualitativa, ovvero attraverso prove che mettono in evidenza aspetti legati alla cognizione sociale, e alla consapevolezza personale. Alcuni studi su persone affette da SM hanno proposto un tipo di approccio riabilitativo basato proprio sull’implementazione della metacognizione (Hämäläinen 1999, Benedict 2000, Birnboim 2004). I lavori sopra riportati che descrivono, quale risultato del programma di riabilitazione metacognitiva, una generale migliore gestione nel quotidiano delle abilità cognitive, prevedevano incontri finalizzati a implementare la consapevolezza, le strategie di autocontrollo, la gestione comportamentale oltre all’integrazione di valide strategie di compenso.

riserva normale

0,5

alta riserva

0,0

bassa riserva

-0,5 -1,0 -1,5 -2,0 -2,5 -3,0

3,0

3,5

4,0

4,5

5,0

5,5

6,0

6,5

7,0

Atrofia cerebrale (TVW mm)

che al recupero delle abilità motorie in persone con SM progressiva e con disabilità moderata/avanzata (EDSS 4-6). Anche in questo caso, come per il training delle funzioni cognitive le sessioni di training fisico sono state costruite sul paziente, considerando i limiti, le necessità e le potenzialità della persona. In seguito a un ciclo di 20 sedute sono state valutate e confrontate con i dati basali, non solo le attività motorie, quali il cammino, ma anche le funzioni cognitive, i sintomi depressivi e la percezione di fatica. I risultati, seppure preliminari, mettono in luce un effetto positivo sulle abilità cognitive e sulla percezione di fatica e di depressione. Un’altra evidenza si può considerare facendo seguito a quanto pubblicato dal gruppo di Sumowski quale descrizione di caso singolo/controllo. Il caso riporta, attraverso studio di risonanza funzionale, come l’attività fisica aerobica (cycling) induca un aumento del volume dell’ippocampo e di conseguenza sia funzionale a una migliore capacità mnemonica. Recenti studi stanno considerando se e in che misura attività quali il rilassamento e, soprattutto, la mindfulness abbiano un effetto sulla qualità di vita, sulla fatica, sulla depressione, di persone affette da SM (Grossman et al.,

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2010) e come di riflesso ciò possa avere un beneficio sulle abilità cognitive, la cui funzionale espressione è correlata con aspetti quali la percezione, l’attenzione e la riduzione di pensieri disfunzionali e giudicanti. Va inoltre, sottolineato come l’approccio psicoterapeutico soprattutto a impostazione cognitiva sia di estrema utilità per persone con SM che manifestano difficoltà nell’accettazione/integrazione dei cambiamenti legati alla presenza e alla gravità dei sintomi della malattia. Questo approccio che si basa, in estrema sintesi, sulla presa di coscienza o sulla migliore comprensione del proprio stile personale, sul proprio modo di pensare a sè e al mondo e sulla conseguente comprensione e gestione dei comportamenti, può avere di conseguenza, un effetto positivo sulla funzionalità cognitiva.

Riserva cognitiva e arricchimento funzionale È noto come una buona riserva cognitiva, intesa come il bagaglio delle conoscenze e delle esperienze acquisite nel corso della vita sia correlata con una migliore funzionalità cognitiva e soprattutto, con un minor rischio di alterazione funzionale (Figura 2).


In persone con malattie dementigene e alta riserva cognitiva il decadimento funzionale appariva in ritardo rispetto a persone con bassa riserva (Stern 2002). Sumowski ha evidenziato lo stesso ef-

fetto in persone con sclerosi multipla, mettendo in luce come siano importanti, nella costruzione della riserva cognitiva, le attività di svago, gli interessi praticati in giovane età, ma anche da

adulti, elaborando l’ipotesi di una possibile costruzione o arricchimento della riserva cognitiva, quale protezione verso il decadimento funzionale.

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NEWS farmaci Nathura

Acufeni e disturbi del sonno un aiuto dalla melatonina

L’

acufene viene definito dall’American National Standards Institute come “la percezione di un suono in assenza di una stimolazione sonora”. È un sintomo comune che colpisce circa il 10-15 per cento della popolazione. Nel 2 per cento dei casi può costituire un disturbo invalidante che coinvolge l’assetto psicologico ed emozionale del paziente, la sua vita di relazione, il ritmo sonno-veglia, le attitudini lavorative, il livello di attenzione e concentrazione, inducendo o molto più spesso potenziando stati ansiosodepressivi preesistenti, interferendo pertanto sulla qualità di vita. È indiscusso il ruolo dello stress nell’aggravare la percezione dell’acufene. Lo stress causato dall’acufene può compromettere la qualità del sonno e i disturbi che ne derivano sono un fattore di rischio per altri disordini mentali; infatti, l’acufene è spesso associato ad ansia e depressione1. Nathura ha sviluppato Armonia, la

linea di integratori alimentari a base di melatonina che contribuisce a regolarizzare il ritmo del sonno. Armonia è disponibile in tre diverse formulazioni. Armonia Retard, a rilascio controllato, utile in caso di sonno disturbato e risvegli notturni. Armonia Fast, a rilascio immediato, contribuisce alla riduzione del tempo richiesto per prendere sonno e ad alleviare gli effetti del jet lag. Disponibile in compresse e nel formato in gocce pratico e comodo per anziani e bambini, e personalizzabile nel dosaggio. E, infine, Armonia Oro, la formulazione oromucosale ad assorbimento rapido, in compresse sublinguali, per favorire l’addormentamento e il riaddormentamento. Armonia è a base di melatonina certificata: un’esclusiva certificazione di prodotto ne garantisce un grado di purezza non inferiore al 99,9 per cento (Certiquality - Documento Tecnico n° 60 - certificato n° P1390). È

disponibile in farmacia. La letteratura scientifica rivela l’impiego della melatonina nella pratica clinica del trattamento dell’acufene2 in primis per il suo ruolo di regolatore del ritmo circadiano. Non mancano, tuttavia, altre proposte di meccanismo d’azione, tra cui emerge il suo ruolo come scavenger contro i radicali liberi e come antiossidante3,4. BIBLIOGRAFIA 1. Fioretti. Nuovi orientamenti nel trattamento degli acufeni. Specialista in Otorinolaringoiatria. Specialista in Audiologia e Foniatria. 2. Miroddi et al., 2015. Clinical pharmacology of melatonin in treatment of tinnitus: a review. Eur J Pharmacol 71:263-270. Springer. 3. Pirodda et al., 2010. Exploring the reasons why melatonin can improve tinnitus. Medical Hypothesis; 75, 190-191. 4. Reiter et al., 2011. Drug-mediated ototoxicity and tinnitus: alleviation with melatonin. Journal of Physiology and Pharmacology; 62, 2, 151-157.

Il ruolo della neuroinfiammazione nella progressione della sclerosi multipla

S

tudi sperimentali e immunologici più recenti sottolineano che il coinvolgimento del sistema immunitario nella patogenesi della sclerosi multipla (SM) cambia durante il decorso della malattia. Mentre la risposta immunitaria periferica verso antigeni del CNS è responsabile della malattia nella prima fase, le reazioni del sistema immunitario innato all’interno del CNS, responsabili dell’instaurarsi e del mantenimento della neuroinfiammazione, hanno un ruolo predominante nel determinare la progressione della malattia. Le cellule microgliali e i mastociti sono le principali rappresentanti dell’immunità innata nel CNS: queste cellule intervengono già nella fase di insorgenza della malattia. I mastociti hanno un ruolo chiave nello sviluppo delle alterazioni della permeabilità della barriera emato-encefalica e nella promozione dell’ingresso di cellule immunitarie periferiche nel CNS. Successivamen-

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te, i mastociti interagiscono direttamente con la microglia per coordinare i processi neuroinfiammatori. L’attivazione persistente della microglia è prominente nella fase cronica della malattia e, a livello sperimentale, è direttamente correlata alla perdita delle sinapsi neuronali. Anche nei pazienti con SM la microglia è presente nel fenotipo attivato, la sua densità è elevata nelle forme progressive della malattia rispetto alla recidivante-remittente. È l’attivazione persistente e disfunzionale dei mastociti e della microglia a provocare uno sbilanciamento nella produzione di fattori pro- e antinfiammatori, a favore dei primi, determinando perdita dell’integrità mielinica e danno neuronale. Per questo, lo sviluppo di prodotti in grado di controllare la reattività di queste cellule non neuronali rappresenta una strategia innovativa per arrestare la progressione della malattia.


NEWS dalle associazioni Formazione

Malattia di Parkinson Focus sulla terapia riabilitativa La malattia di Parkinson (MP) è una delle più comuni patologie neurodegenerative e interessa non solo le funzioni motorie, ma determina anche un’importante compromissione di alcuni domini cognitivi. L’analisi della più recente letteratura scientifica evidenzia come il trattamento dei pazienti affetti da MP non possa essere limitato alla sola terapia farmacologica, ma debba essere di tipo interdisciplinare. Si tratta pertanto di un approccio complessivo e strutturato, che prevede indagini neuropsicologiche e neurofisiologiche che permettano per esempio di valutare il grado di compromissione delle funzioni esecutive, dell’attenzione visiva, degli stati di freezing e delle abilità motorie.

nali a 360° nella sfera di vita del paziente. In particolare si analizzeranno le evidenze della compromissione delle funzioni esecutive connesse alla corteccia prefrontale: attenzione, flessibilità (shifting), pianificazione/strategia (problem solving), controllo inibitorio, memoria di lavoro e le diverse modalità di ricerca visiva tipiche del paziente parkinsoniano, e si valuteranno i diversi modelli per la riabilitazione cognitiva. Uno spazio sarà dedicato alla presentazione del modello MIRT (Multidisciplinary Intensive Rehabilitation Treatment): si tratta di un trattamento riabilitativo di tipo goal-based, aerobico, intensivo e multidisciplinare che si è dimostrato efficace nel migliorare le performance motorie e l’autonomia personale dei malati, a fronte di più bassi dosaggi farmacologici. Verranno inoltre proposti gli interventi per affrontare le difficoltà di deglutizione, la possibilità di alimentarsi mantenendo

adeguati livelli nutrizionali e di assumere correttamente la terapia orale. Allo stesso modo verranno presi in esame i disturbi della voce e dell’articolazione del linguaggio. Il corso di aggiornamento è destinato oltre ai Neurologi e ai Medici di Medicina generale, a tutte le altre figure professionali coinvolte nell’approccio multidiscipilinare alla malattia di Parkinson (logopedisti, fisioterapisti, psicologi, infermieri, nutrizionisti ecc.), e ha una durata di 22 ore. I posti disponibili sono 70, e il costo è di 300 euro comprensivo di IVA. Le persone che all’atto dell’iscrizione citeranno la rivista “Medico e paziente” o “La neurologia italiana” otterranno uno sconto di 50,00 euro. Tutte le informazioni dettagliate e le modalità di iscrizione si possono trovare sul sito www.sef-societaeuropeaformazione. it.

Su queste tematiche è centrato un corso di formazione e di aggiornamento dal titolo “Metodiche riabilitative nella malattia di Parkinson” che si terrà a Brescia i prossimi 13 e 14 novembre. Durante il corso che è organizzato dalla S.E.F. – Società Europea Formazione, si analizzeranno e descriveranno i diversi aspetti legati alle indagini funzionali e le diverse necessità di intervento (motorie e cognitivo-comportamentali) applicando i possibili modelli funziola neurologia italiana

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NEWS associazioni Associazione italiana giovani parkinsoniani

La malattia di Parkinson invisibile anche ai medici

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uando, aprendo il convegno Disabilità Invisibili, Focus sul Parkinson Giovanile organizzato lo scorso 11 giugno dall’A.I.G.P. (Associazione Italiana Giovani Parkinsoniani) a Milano, i relatori hanno chiesto al pubblico di guardarsi intorno per vedere se qualcuno riusciva a capire chi fra loro soffriva di Parkinson, nessuno è stato in grado di farlo. La malattia di Parkinson ha ormai da tempo preso i connotati di morbo, termine sinonimo di malattia misteriosa e senza cure. Anche se ancora si riesce solo a gestirla, ma non a guarirla completamente, non è più solo una malattia da vecchi, età in cui da sempre la colloca l’immaginario collettivo; e anche, e lo è sempre di più, una patologia che colpisce i giovani e in questa fascia d’età diventa invisibile. Ed è proprio la condizione di Parkinson giovanile quella che s’infrange con l’idea di destrutturazione della vita in cui ci sono figli ancora da crescere, una famiglia, un lavoro, innumerevoli contesti psico-sociali grandi e piccoli in cui, anche grazie alle moderne terapie, spesso, finché può, chi è colpito dalla malattia lo nasconde agli altri e soprattutto a sé stesso. Ma vedersi, per esempio, pensionare per malattia a poco più di quarant’anni diventa per molti uno stigma psicologicamente insuperabile. Così anche la negazione della patente può apparire un ulteriore marchio di perdita d’indipendenza che va a sommarsi a tutti gli altri, a partire da quello più elementare di non riuscire più nemmeno a spostarsi per le stanze di casa propria. Queste persone sono spesso colpite da depressione e uno studio su 140.688 pazienti appena pubblicato su Neurology dall’Università svedese di Umeå si chiede quale delle due patologie infleunzi l’altra, se cioè la depressione grave predisponga allo sviluppo di malattia di Parkinson, come molti studi sostengono, o viceversa. La depressione potrebbe essere un precoce marker, dicono gli svedesi, quanto un fattore causale di rischio, ma spesso il medico non si accorge

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della depressione in chi soffre di Parkinson. Allo stesso modo, abituato com’è a trattare con pazienti che l’auto l’avevano già abbandonata da tempo nel box, può non comprendere questo aspetto della psiche di chi è stato invece costretto ad abbandonarla dalla malattia del tremore. Fra i vari aspetti che si correlano a una malattia che ormai non è più da vecchi, quello sessuale, soprattutto per i maschi, si carica di valenze che per ragioni fisiologiche investono poco il paziente anziano e ancor meno chi lo cura. A un medico non avvezzo a farsene carico possono sfuggire se l’età del paziente non è quella a cui è più abituato, essendosi sempre dovuto occupare tutt’al più dei noti aspetti di ipersessualità del parkinsoniano, sulla cui genesi ancora si discute circa una possibile induzione farmacologica collaterale. Per capire come uscire dall’invisibilità della malattia l’A.I.G.P. Onlus ha condotto in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale sulle Disabilità Invisibili un’indagine online anonima con cui ha dato voce a chi soffre di Parkinson giovanile. L’indagine ha guardato la malattia nell’ottica del malato e non del medico cercando di aiutare a comprendere come il dolore di malattia viene vissuto, percepito e condiviso da chi ne soffre. “Abbiamo voluto portare all’attenzione della società cosa significa avere il Parkinson giovanile –dice Claudia Milani, presidente di AIGP- al fine di stimolare un’empatia collettiva che vada a beneficio di tutti consentendo ai giovani parkinsoniani di sentirsi capiti e accettati”. Dall’indagine, l’invisibilità si concretizza principalmente in tre aspetti: incomprensione da parte della società, omertà e scudo della famiglia attorno al malato o da parte dello stesso malato che si nasconde e mancato riconoscimento da parte dei medici della persona nascosta dietro la malattia. Cesare Peccarisi

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