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Patologie neuromuscolari

Distrofie muscolari dei cingoli Avanzamenti in ambito diagnostico

> Corrado Angelini, Paola Cudia, Elisabetta Tasca, Elena Pinzan •

cefalee

Emicrania senza aura Prima esperienza italiana sulla neurostimolazione transcutanea sovraorbitaria in pazienti “de novo” Russo, Alessandro Tessitore, Francesca Conte, Marcello Silvestro, > Antonio Laura Marcuccio, Gioacchino Tedeschi •

Patologie neurodegenerative

La malattia di Parkinson in fase avanzata: oltre i sintomi motori •> Commento di Francesca Morgante

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6

DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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Anno XII - n. 3 - 2016

Anno XII - n. 3 - 2016

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 redazione Anastasia Zahova segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero Corrado Angelini, Francesca Conte, Paola Cudia, Laura Marcuccio, Francesca Morgante, Elena Pinzan, Antonio Russo, Marcello Silvestro, Elisabetta Tasca, Gioacchino Tedeschi, Alessandro Tessitore

progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza

Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina

Sommario 6

Patologie neuromuscolari

Distrofie muscolari dei cingoli

Avanzamenti in ambito diagnostico

3

Le distrofie muscolari dei cingoli sono patologie estremamente eterogenee dal punto di vista clinico. Un importante contributo nella diagnosi è offerto da tecniche di biologia molecolare quali Next Generation Sequencing e Whole Exosome Sequencing

Corrado Angelini, Paola Cudia, Elisabetta Tasca, Elena Pinzan

12 cefalee

Emicrania senza aura Prima esperienza italiana sulla neurostimolazione transcutanea sovraorbitaria in pazienti “de novo” Lo studio dimostra l’efficacia di un trattamento preventivo della durata di 60 giorni con t-SNS in pazienti affetti da emicrania senza aura, con bassa frequenza di attacchi e che non abbiano precedentemente praticato terapie farmacologiche di prevenzione Antonio Russo, Alessandro Tessitore, Francesca Conte,

Marcello Silvestro, Laura Marcuccio, Gioacchino Tedeschi

17 Patologie neurodegenerative La malattia di Parkinson in fase avanzata: oltre i sintomi motori

Commento di Francesca Morgante, del Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Messina

ru brich e

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news dalla letteratura news farmaci news dalle associazioni la neurologia italiana

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NEWS dalla letteratura M.P. Sormani, C. Gasperini, N. De Stefano et al. on behalf of the MAGNIMS study group

L’attività di malattia alla RMN in associazione con le variabili cliniche si rivelano buoni predittori della risposta a breve termine alla terapia con IFN-beta in pazienti SMRR ❱❱❱ Neurology 2016; 87 (2): 134-40 Nell’ottica della personalizzazione del trattamento nel paziente con sclerosi multipla (SM), individuare dei marker predittivi della risposta all’interferone riveste un ruolo centrale. Il network MAGNIMS che accoglie ricercatori di diversi Centri europei, tra cui molti italiani, opera in questo ambito da diverso tempo. I risultati qui presentati derivano da uno studio che si era focalizzato sui parametri radiologici (lesioni alla RMN) in associazione con le variabili cliniche di malattia quali predittori di risposta al trattamento con interferone beta. I dati sono relativi a un’ampia coorte di pazienti con SMRR (sclerosi multipla recidivante remittente) in terapia con interferone beta, di cui erano disponibili le valutazioni RMN e cliniche durante il primo anno di terapia e un follow up di almeno 2 anni. Per valutare l’associazione tra i dati RMN a 1 anno o i dati clinici di relapse con il rischio di fallimento del trattamento (definito come peggioramento all’EDSS o switch per inefficacia) o di peggioramento dell’EDSS è stato utilizzato un modello multivariato di Cox. Nel complesso sono stati analizzati 1.280 pazienti SMRR, provenienti da 9 Centri MAGNIMS. Il rischio di fallimento aumentava sensibilmente in caso di un episodio di relapse (HR 1,84, CI 95 per cento 1,39-2,44; p <0,001) e ≥3 nuove lesioni in T2 (HR 1,55 95 CI 0,92-2,60; p =0,09). Nei pazienti senza relapse e con meno di 3 lesioni in T2, il rischio a 3 anni di fallimento e di peggioramento del punteggio EDSS è stato rispettivamente del 17 e del 15 per cento; in quelli con un relapse o ≥3 nuove lesioni in T2, il rischio era del 27 e del 22 per cento; infine nei pazienti che presentavano entrambi, oppure in quelli con più di un relapse, i valori di rischio diventavano del 48 per cento (p <0,001) e 29 per cento (p <0,001). I ricercatori dunque sottolineano come l’attività alla RMN, soprattutto in combinazione con gli episodi clinici di relapse rilevati durante il primo anno di trattamento con interferone beta, sono indicativi del rischio di fallimento terapeutico e peggioramento della disabilità (definita all’EDSS) nel breve periodo.

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numero 3 · 2016 la neurologia italiana

E. Cassani, R. Cilia, G. Pezzoli et al.

Malattia di Parkinson: da una leguminosa tropicale potrebbe arrivare la levodopa a basso costo ❱❱❱ Journal of the Neurological Sciences 2016; 365: 175-80 I ricercatori del Centro Parkinson del CTO Gaetano Pini, di Milano da tempo lavorano a diversi progetti che hanno come finalità quella di trovare soluzioni terapeutiche accessibili per i malati di Parkinson che vivono nei Paesi a basso reddito. Tra questi, vi sono anche gli studi su una leguminosa, Mucuna pruriens, che cresce nelle aree tropicali, e che viene impiegata come fertilizzante e che contiene naturalmente la levodopa. Qui presentiamo i dati preliminari di un lavoro che mostrano come questa pianta sia un’ottima candidata a diventare una potenziale terapia per la MP nei Paesi a basso reddito. I suoi effetti sembrano essere sovrapponibili a quelli della levodopa di sintesi, con evidente diminuzione del tremore nei pazienti che l’hanno assunta. I ricercatori hanno testato 25 campioni di Mucuna pruriens provenienti dall’Africa, America latina e Asia. Il quantitativo di levodopa è stato misurato a seguito di diverse lavorazioni della pianta (essiccata, bollita, cotta in padella). La farmacocinetica della levodopa e la risposta motoria osservata in 4 pazienti sono state confrontate con formulazioni “classiche” a base di levodopa e inibitori della dopa-decarbossilasi (DDCI). La concentrazione media di levodopa nei semi essiccati della M. pruriens è risultata essere del 5,29 per cento; valori simili sono stati ottenuti anche da campioni tostati in padella, con rimozione dei tegumenti e poi macinati (5,3 per cento). La bollitura invece non sembrerebbe essere un metodo di preparazione adatto, dal momento che comporta una riduzione del quantitativo di levodopa dell’ordine del 70 per cento. Dal confronto con levodopa+DDCI, l’estratto di M. pruriens con un quantitativo di levodopa simile a quello delle formulazioni di sintesi, risulta meno “potente”, con un’AUC media di 3,5 volte più bassa (Area sotto la curva: misura la quantità di farmaco immodificato che raggiunge la circolazione sistemica dopo somministrazione di una determinata dose, ed è direttamente proporzionale alla quantità di farmaco assorbito). I ricercatori hanno avviato ulteriori studi clinici in un numero superiore di pazienti per confermare la sicurezza e l’efficacia della polvere dei semi di Mucuna al fine di mettere a disposizione una terapia anti-Parkinson per i pazienti che non possono permettersi il costo della levodopa farmaceutica.


NEWS D. Cazzato, M. Castori, G. Lauria et al.

La neuropatia delle piccole fibre sembra essere una caratteristica che accomuna le sindromi di Ehlers-Danlos, indipendentemente dal fenotipo clinico di malattia ❱❱❱ Neurology 2016; 87 (2): 155-9 Le sindromi di Ehlers-Danlos (EDS) sono disordini ereditari rari del tessuto connettivo, eterogenei sul piano clinico, e in cui la diagnosi differenziale può essere com-

plessa. L’obiettivo di questo studio era indagare il coinvolgimento delle piccole fibre nervose nelle EDS. Sono stati arruolati pazienti adulti con diagnosi di EDS che sono stati sottoposti a valutazione clinica, neurofisiologica e biopsia cutanea della gamba; la densità intraepidermica delle fibre nervose ottenuta è stata rapportata ai valori di riferimento per sesso ed età. Il fenotipo dell’EDS era: 20 pazienti con EDS ipermobile, 3 con EDS vascolare, e 1 con EDS classica. A eccezione di uno, tutti presentavano dolore neuropatico e riportavano 7 o più sintomi al Small Fiber Neuropathy Symptoms Inventory Questionnaire. Il dato più significativo è che in tutti i casi è stata osservata una riduzione della densità intraepidermica delle fibre nervose, un dato quest’ultimo consistente con la diagnosi di neuropatia delle piccole fibre. Secondo gli Autori, la biopsia cutanea potrebbe essere uno strumento aggiuntivo, utile per indagare le manifestazioni dolorose in questo spettro di sindromi, così complesse.

G. Disanto, R. Adiutori, J. Kuhle et al. on behalf of the International Cis Study Group

Anche i livelli sierici (e non solo quelli nel liquor) di proteina dei filamenti leggeri sembrano essere predittivi di danno neuronale, e si delineano come potenziali marcatori precoci nei pazienti con CIS e sclerosi multipla ❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2016; 87: 126-9 La diagnosi precoce è una sfida nella gestione della sclerosi multipla. Individuare precocemente la malattia, fin dalle forme non clinicamente manifeste come la CIS (sindrome clinicamente isolata), significa avere la possibilità di mettere in atto un trattamento volto a rallentare la progressione e l’accumulo irreversibile di disabilità. In questa direzione la ricerca sta facendo passi da gigante, e allo studio ci sono diversi marcatori, non solo radiologici, che potrebbero aprire la strada verso una diagnosi sempre più anticipata. E anche il lavoro qui presentato si muove in tal senso. Si tratta di uno studio preliminare condotto allo scopo di valutare le potenzialità della proteina dei neurofilamenti leggeri (Nfl) nel siero come marcatore precoce in pazienti con CIS in confronto a controlli sani. Sulla base dei dati presenti in letteratura, i livelli di Nfl nel liquor correlano con il grado di danno neuronale nei pazienti con SM. Non è al momento noto se anche i livelli di Nfl nel siero possano in qualche misura essere predittivi di danno assonale e correlare con i dati radiologici. La popolazione dello studio comprendeva 100 pazienti CIS a rapida conversione (FC) verso la forma clinicamente manifesta ovvero la SM, con una mediana di conversione di 110 giorni (79-139), 98 pazienti in cui la conversione non si è verificata (NC) in un follow up di 6,5 anni (5,3-7,9), e 92 controlli sani. I valori di Nfl sono risultati più alti nel gruppo FC (24,1 pg/ml) e NC (19,3 pg/ml) rispetto al gruppo controllo (7,9 pg/ml) (OR 5,85 CI al 95 per cento 2,63-13,02, e OR 7,03 CI 95 2,85-17,34, rispettivamente). Raggruppando i soggetti FC e NC, è stato riscontrato che un aumento della concentrazione di Nfl correlava con alcuni parametri radiologici, in particolare con un aumento nel numero di lesioni RMN iperintense in T2 (OR 2,36 CI 95 1,21-4,59; p =0,011) e di lesioni captanti gadolinio (OR 2,69, CI 95 1,13-6,41; p =0,026), e inoltre livelli più elevati di Nfl si associavano a un più alto score di disabilità alla diagnosi della CIS (OR 2,54 95 CI 1,21-5,31, p =0,013). Gli Autori del lavoro sottolineano il fatto che se questi promettenti risultati dovessero essere confermati da ulteriori studi, il dosaggio della Nfl sierica potrebbe delinearsi come un marcatore precoce, affidabile e di semplice esecuzione del danno assonale sia nella SM che nelle forme CIS. la neurologia italiana

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Patologie neuromuscolari

DISTROFIE MUSCOLARI dei CINGOLI Avanzamenti in ambito diagnostico Le distrofie muscolari dei cingoli sono patologie estremamente eterogenee dal punto di vista clinico. Un importante contributo nella diagnosi è offerto da tecniche di biologia molecolare quali Next Generation Sequencing e Whole Exosome Sequencing Corrado Angelini, Paola Cudia, Elisabetta Tasca, Elena Pinzan Fondazione Ospedale San Camillo IRCCS, Lido Venezia

L

e distrofie muscolari dei cingoli (LGMD) risultano in numerosi fenotipi clinici che includono molte forme severe a esordio infantile, miopatie prossimo-distali e miopatie-pseudo-metaboliche. Mentre fino a qualche anno fa il numero di queste malattie era limitato, il recente apporto della biologia molecolare ha permesso di identificare un gene causativo in oltre 25 forme recessive (LGMD2) o dominanti (LGMD1) (Angelini e Fanin, 2013) (Tabella 1). Le LGMD costituiscono un gruppo eterogeneo di malattie geneticamente determinate, caratterizzate da debolezza muscolare con diversa severità clinica, coinvolgenti la muscolatura dei cingoli, sia pelvico (inferiore) che scapolare (superiore) (Angelini 2016). Esse vanno poste in diagnosi differenziale con le distrofie facio-scapolo-omerali, le miopatie miofibrillari, le distrofie muscolari congenite e la distrofia muscolare di Becker. Il decorso clinico è estremamente variabile, con forme gravi a insorgenza precoce e rapida progressione, e forme di minore severità che permettono agli individui che ne sono affetti una quasi normale aspettativa di vita e di autonomia motoria (Nigro et al., 2014). L’evoluzione può essere più o meno rapida e può complicarsi con la comparsa di deformità della colonna vertebrale, di scoliosi o di iperlordosi e retrazioni tendinee, specie del tendine di Achille. In alcuni casi si può associare un interessamento cardiaco e respiratorio. I sintomi correlati alla debolezza musco-

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lare degli arti superiori possono essere presenti sin dall’inizio (scapole alate), o comparire in fase più tardiva. A essi si associa un aumento dei valori della creatin-kinasi (CK), di entità variabile da 3-5 fino a 100 volte il valore massimo normale, a seconda delle varie forme. La progressione della malattia è variabile; alcune forme più frequentemente portano alla perdita della deambulazione autonoma (gamma e delta-sarcoglicanopatie), con conseguente comparsa di retrazioni a livello degli arti inferiori e scoliosi. Altre vanno incontro a precoce coinvolgimento cardiaco (sarcoglicanopatie, laminopatie, LGMD2I) e/o respiratorio (sarcoglicanopatie, LGMD2I).

PATOGENESI E DIFETTI GENETICI Le LGMD sono causate da anomalie genetiche che non permettono la corretta sintesi di proteine essenziali per la contrazione muscolare situate nel sarcomero, nella stria Z o nella membrana del muscolo scheletrico (sarcolemma), per esempio il complesso dei sarcoglicani. L’elemento caratteristico che definisce questo gruppo di malattie è una progressiva riduzione della forza muscolare, con prevalente interessamento della muscolatura del bacino e delle spalle (cingolo pelvico e scapolare). Questo comporta principalmente una difficoltà a salire le scale, ad alzarsi da terra, a sollevare gli oggetti e a correre speditamente.


Tabella 1

Classificazione molecolare delle distrofie dei cingoli

Malattia

Locus cromosomico

Simbolo gene

Proteina

LGMD 1A

5q31

MYOT

miotilina

LGMD 1B

1q11-21.7

LMNA

lamina A/C

LGMD 1C

3p25

CAV3

caveolina-3

LGMD1D/1E

7q36

DNAJB6

DNAJ/HSP40

LGMD 1F

7q32.1

TPNO3

transportina-3

LGMD 1G

4p21

HNRPDL

LGMD 1H

3p23-p25

?

LGMD 2A

15q15.1

CAPN3

calpaina-3

LGMD 2B

2p13

DYSF

disferlina

LGMD 2C

13q12

SGCG

gamma-sarcoglicano

LGMD 2D

17q12-21.3

SGCA

alfa-sarcoglicano

LGMD 2E

4q12

SGCB

beta-sarcoglicano

LGMD 2F

5q33

SGCD

delta-sarcoglicano

LGMD 2G

17q12

TCAP

teletonina

LGMD 2H

9q31-34

TRIM32

LGMD 2I

19q13.3

FKRP

fukutin-related-protein

LGMD 2J

2q31

TTN

titina

LGMD 2K

9q34.1

POMT1

LGMD 2L

11p14.3

ANO5

anoctamina-5

LGMD 2M

9q31

FKTN

fukutina

LGMD 2N

14q24.3

POMT2

LGMD 2O

1p34

POMGnT1

LGMD 2P

3p21.31

DAG1

dystrophin-associated-glycoprotein

LGMD 2Q

8q24.3

PLEC1

plectina-1

LGMD 2R

2q35

DES

LGMD 2S

4q35.1

TRAPPC11

transport-protein-particle-complex-11

LGMD 2T

3p21.31

GMPPB

GDP-mannose-pyro-phosphorylase-B

LGMD 2U

7p21

ISPD

isoprenoid synthase domain containing

LGMD 2V

17q25.3

GAA

alfa-1,4-glucosidasi acida

LGMD 2W

2q14

LIMS2

heterogeneous nuclear ribonuclear protein D-like ?

tripartite-motif-32

protein-mannosyl-transferase-1

protein-mannosyl-transferase-2 protein-mannose-acetylglucosminyl-transferase-1

desmina

Lim senescent cell antigen-like domain-2 la neurologia italiana

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Patologie neuromuscolari In alcune forme di distrofia dei cingoli, il difetto molecolare primitivo riguarda proteine della membrana del muscolo scheletrico come i sarcoglicani, che fanno parte del complesso transmembrana che lega la distrofina; in altre forme, il difetto riguarda proteine del sarcomero (miotilina, disferlina, teletonina), oppure un enzima citoplasmatico (calpaina-3), oppure una proteina dell’involucro nucleare (lamina A/C). Tra le distrofie dei cingoli, vi sono sia forme a eredità autosomica dominante, denominate LGMD di tipo 1, sia forme a eredità autosomica recessiva, chiamate LGMD di tipo 2 (Tabella 1).

Le forme dominanti (LGMD1A-LGMD1G) sono di solito più benigne e relativamente rare, rappresentando meno del 10 per cento di tutte le distrofie dei cingoli. Le forme recessive (LGMD2A-LGMD2W) sono molto più frequenti e presentano una prevalenza di 1 persona affetta su 15.000. Le forme recessive sono più frequenti in caso di consanguineità o nel caso di popolazioni provenienti da regioni geograficamente isolate (isolati genetici). In popolazioni isolate di origine germanica nelle Alpi trentine (Valle dei Mocheni) e nella città di Chioggia (Venezia) sono frequenti gli incroci tra consangui-

Figura 1. RMN muscolare in un paziente con sarcoglicanopatia (LGMD2C)

A Si osserva un’estesa sostituzione connettivale a livello della coscia (A) e relativo risparmio dei muscoli della gamba (B) e delle braccia a livello dell’omero (C)

B

C 8

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Figura 2. Algoritmo diagnostico nelle distrofie dei cingoli

nei e ciò favorisce la ricorrenza di mutazioni recessive del gene calpaina-3 (CAPN3) che determinano un’alta frequenza della LGMD tipo 2A (Fanin et al., 2013). La classificazione delle LGMD è basata sul tipo di proteina coinvolta e sull’alterazione genica che ne causa il difetto.

IMAGING MUSCOLARE L’imaging muscolare sia con RMN (Mercuri et al., 2005; Peterle et al., 2013) (Figura 1), che con TAC (Vlak et al., 2000) permette di definire i cambiamenti morfologici muscolari e il mioedema; inoltre, gli aspetti di coinvolgimento muscolare possono caratterizzare uno specifico tipo di LGMD (Peterle et al., 2013). L’esame delle sequenze STIR, che permette di visualizzare il mioedema nei muscoli (che possono invece apparire scarsamente alterati nelle sequenze T1) può indirizzare al tipo di difetto molecolare (Tabella 1) e all’evoluzione della malat-

tia, permettendo un follow-up nel corso della storia naturale e durante i trials terapeutici.

DIAGNOSTICA PROTEICA E GENETICA La diagnosi precisa può essere difficile data la grande variabilità con cui queste patologie possono presentarsi, e richiede un approfondito esame clinico e di laboratorio (immunoistochimica, immunoblot, analisi di mutazione), e i dati clinici (Fanin e Angelini, 2015). Un ruolo fondamentale è svolto dalla biopsia di muscolo che può evidenziare la presenza di degenerazione delle fibre muscolari e rivelare il difetto della proteina responsabile. La diagnosi genetica rappresenta la fase finale del processo diagnostico e permette di identificare la mutazione responsabile del quadro clinico (Figura 2). Un importante avanzamento clinico e di laboratorio è quello la neurologia italiana

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Patologie neuromuscolari dell’uso delle tecniche di Next Generation Sequencing e Whole Exosome Sequencing, che permette la diagnosi di forme sporadiche di LGMD (Savarese et al., 2016) identificando le forme distali dovute a mutazione del gene che codifica per la anoctamina-5 e la disferlina. Questa tecnica usata in Australia da Ghaoui et al. (2015) ha permesso di identificare pazienti con LGMD in cui gli studi convenzionali di western blot proteico e di sequenza del DNA non avevano fornito una diagnosi molecolare.

TERAPIE Le prospettive terapeutiche riguardano trial che impiegano vettori virali AAV nelle LGMD per trasfettare il gene umano codificante il beta e l’alfa-sarcoglicano. Il vettore virale AAV non ha mostrato tossicità conseguente al trattamento secondo i dati di Mendell et al. (2010). Tali risultati supportano la possibilità dell’impiego della terapia genica per le LGMD. Gli effetti del trattamento riabilitativo motorio nelle LGMD

sono ancora in fase di studio. I trials clinici finora effettuati sono pochi e condotti su un numero non elevato di pazienti con grande eterogeneità genetica (Siciliano et al., 2015). L’effettuazione quotidiana di stretching è utile anche nelle fasi precoci di malattia per evitare l’insorgenza e/o limitare contratture e retrazioni (Skalsky et al., 2012). Nei pazienti che hanno perso la deambulazione autonoma e sono costretti in carrozzina è importante la verticalizzazione quotidiana e l’utilizzo di assetti posturali per la prevenzione e/o limitazione delle retrazioni e della scoliosi. Diversi Autori (Sveen et al., 2007; Vissing et al., 2014; Andersen et al., 2013) evidenziano che l’attività aerobica possa essere considerata sicura ed efficace nel migliorare la capacità ossidativa delle fibre muscolari e le prove di funzionalità muscolare nei pazienti con LGMD2A, LGMD2B, LGMD2I e LGMD2L. Gli esercizi di rinforzo, specialmente quelli a bassa intensità, condotti sotto stretta supervisione, possono essere considerati parte del programma riabilitativo, come evidenziato da Sveen et al. (2013) in un gruppo di pazienti affetti da LGMD2A e LGMD2I.

Bibliografia 1. Andersen SP et al. Creatine kinase response to high intensity aerobic exercise in adult onset muscular dystrophy. Muscle & Nerve 2013; 48: 897-901. 2. Angelini C, Fanin M. Limb Girdle Muscular Dystrophies. In: Muscular Dystrophy. Causes and Management. Ed. Angelini C. NovaScience Publisher, New York, 2013. p. 145-200. 3. Angelini C. Neuromuscular disease: Diagnosis and discovery in limb-girdle muscular dystrophy. Nat Rev Neurol 2016; 12(1): 6-8. 4. Fanin M et al. An intronic mutation causes severe LGMD2A in a large inbred family belonging to a genetic isolate in the Alps. Clin Genet 2012; 82: 601-602. 5. Fanin M, Angelini C. Protein and genetic diagnosis of limb girdle muscular dystrophy type 2A: The yield and the pitfalls. Muscle & Nerve 2015; 52(2): 163-173. 6. Ghaoui R et al. Use of Whole-Exome Sequencing for diagnosis of Limb-Girdle Muscular Dystrophy: outcomes and lessons learned. JAMA Neurol 2015; 72(12): 1424-1432. 7. Mendell JR et al. Sustained alpha-sarcoglycan gene expression after gene transfer in LGMD type 2D. Ann Neurol 2010; 68: 629638. 8. Mercuri E et al. Muscle MRI findings in patients with limb girdle muscular dystrophy with calpain 3 deficiency (LGMD2A) and early contractures. Neuromusc Disord 2005; 15: 164-171. 9. Nigro V, Savarese M. Genetic basis of limb-girdle muscular dystrophies: the 2014 update. Acta Myol 2014; 33(1): 1-12. 10. Peterle E, Angelini C. MRI imaging in muscular dystrophies. In: Muscular Dystrophy. Causes and Management. Ed. Angelini C. NovaScience Publisher, New York, 2013. p. 43-53 11. Savarese M, Di Fruscio G, Torella A et al. The genetic basis of undiagnosed muscular dystrophies and myopathies: results from 504 patients. Neurology 2016, in press. 12. Siciliano G et al. Muscle exercise in limb girdle muscular dystrophies: pitfall and advantages. Acta Myol 2015; 34: 3-8. 13. Skalsky AJ et al. Prevention and management of limb contractures in neuromuscular diseases. Phys Med Rehabil Clin N Am 2012; 23(3): 675-687. 14. Sveen ML et al. Endurance training: an effective and safe treatment for patients with LGMD2I. Neurology 2007; 68: 59-61. 15. Sveen ML et al. Resistance training in patients with limb girdle and Becker muscular dystrophies. Muscle & Nerve 2013; 47: 163-69. 16. Vissing CR et al. Aerobic training in patients with anoctamin 5 myopathy and hyperckemia. Muscle & Nerve 2014; 50: 119-123. 17. Vlak M et al. Correlation of clinical function and muscle CT scan in limb-girdle muscular dystrophy. Neurol Sci 2000; 21: S975S977.

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cefalee

Emicrania senza aura Prima esperienza italiana sulla neurostimolazione transcutanea sovraorbitaria in pazienti “de novo” Lo studio dimostra l’efficacia di un trattamento preventivo della durata di 60 giorni con t-SNS in pazienti affetti da emicrania senza aura, con bassa frequenza di attacchi e che non abbiano precedentemente praticato terapie farmacologiche di prevenzione Antonio Russo1,2, Alessandro Tessitore1,2, Francesca Conte1,2, Marcello Silvestro1, Laura Marcuccio1,2, Gioacchino Tedeschi1,2 1. Centro Cefalee, Dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche, neurologiche, metaboliche e dell’invecchiamento, Seconda Università degli Studi di Napoli, Napoli 2. Centro di Ricerca SUN-FISM di Alti Studi in Risonanza Magnetica, Seconda Università degli Studi di Napoli, Napoli

L’

emicrania, una delle più frequenti patologie neurologiche, è una cefalea primaria caratterizzata da dolore pulsante unilaterale, di durata variabile dalle 4 alle 72 ore, associato a sintomi da ipersensibilità neurosensoriale quali fotofobia, fonofobia e osmofobia, e sintomi neurovegetativi quali nausea e vomito. È noto come alla base della condizione emicranica vi sia una tendenza del circuito trigemino-vascolare ad attivazioni episodiche con progressiva sensibilizzazione. D’altra parte, negli ultimi anni sempre più evidenze supportano l’ipotesi secondo la quale gli interventi che agiscono sul sistema nervoso periferico siano in grado di indurre una rimodulazione dei circuiti del dolore centrali tali da determinare benefici

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clinici evidenti (1). Recentemente, uno studio randomizzato su una vasta popolazione di pazienti emicranici ha messo in evidenza la maggiore efficacia della neurostimolazione sopraorbitaria delle branche superiori del trigemino (t-SNS) nella profilassi dell’emicrania episodica rispetto alla stimolazione profonda (2). Inoltre, la t-SNS sarebbe caratterizzata da una serie di vantaggi quali la non invasività, la sicurezza e l’assenza di effetti collaterali (3) tali da renderla una valida opzione per il trattamento di profilassi dell’emicrania in pazienti nei quali per la bassa frequenza e intensità degli attacchi non è strettamente indicata una terapia farmacologica di profilassi oppure che non possono assumere farmaci quotidianamente. L’obiettivo del nostro studio (4) è stato quello di

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valutare l’efficacia e la tollerabilità della t-SNS in tale popolazione di pazienti. A tale scopo è stato utilizzato un dispositivo medico chiamato Cefaly® (CEFALY Technology, Herstal, Belgium), approvato per la profilassi dell’emicrania dalla Food and Drug Administration (FDA) e adesso disponibile anche in Europa. Attualmente questo studio rappresenta la prima esperienza italiana di utilizzo della t-SNS nella terapia di prevenzione dell’emicrania.

Obiettivi Obiettivi primari dello studio erano: a) la riduzione significativa della frequenza degli attacchi al mese e b) la riduzione significativa dei giorni di emicrania al mese. In tale modo è stato possibile


valutare anche la percentuale di pazienti che mostrava una riduzione di almeno il 50 per cento di attacchi e/o di giorni di emicrania al mese. Obiettivi secondari erano: a) la riduzione significativa della intensità media degli attacchi; b) la riduzione del punteggio al questionario HIT-6 e c) riduzione significativa del numero di farmaci sintomatici assunti in un mese. Infine è stata valutata la percentuale di pazienti che: a) mostravano soddisfazione per il trattamento; b) erano stati aderenti al trattamento e c) avevano sperimentato eventi avversi.

Metodi Popolazione dello studio In accordo con i criteri dell’International Classification of Headache Disorders della International Headache Society (IHS) (5) e con i più recenti criteri ICHD-3 beta version per la diagnosi di emicrania senz’aura (MwoA) (6), sono stati reclutati prospetticamente dalla popolazione di pazienti emicranici afferenti presso il Centro Cefalee della I Clinica Neurologica della Seconda Università degli Studi di Napoli, 24 pazienti affetti da MwoA con una frequenza di attacchi inferiore a 5 episodi/mese. La presenza di altri tipi di cefalea o altri disturbi neurologici, sistemici o psichiatrici, e l’assunzione quotidiana di terapie farmacologiche erano considerati criteri di esclusione. Nello specifico, nessun paziente aveva mai praticato terapie farmacologiche di prevenzione per l’emicrania nel corso della vita. Venivano registrati i dati demografici, l’età d’esordio dell’emicrania, la durata della malattia, la frequenza dell’emicrania (giorni/mese), la durata e l’intensità media del dolore degli attacchi emicranici. A tutti i pazienti veniva chiesto di compilare i questionari per la valutazione della disabilità legata all’emicrania (MIDAS) e dell’impatto della cefalea sulla vita quotidiana (HIT-6) (Tabella 1). La popolazione di pazienti in esame utilizzava per il trattamento dell’attacco emicranico triptani e FANS (incluso

Tabella 1

Parametri clinici dei pazienti affetti da MwoA

Parametri

Timing

Media ±SE

Sesso

15 F/5 M

Età (anni)

32,9 ±2,3

Durata di malattia (anni) Frequenza (giorni/mese) Assunzione di FANS (incluso paracetamolo) Assunzione di triptani Assunzione totale di farmaci sintomatici HIT-6 VAS dell’intensità dell’attacco

p value

8,3 ±1,7 Baseline

4,5 ±0,24

Follow-up

2,06 ±0,28

Baseline

3,2 ±0,6

Follow-up

1,3 ±0,4

Baseline

2,4 ±0,7

Follow-up

0,9 ±0,3

Baseline

5,6 ±0,4

Follow-up

2,2 ±0,3

Baseline

62,3 ±1,4

Follow-up

53,1 ±1,4

Baseline

8,0 ±0,1

Follow-up

6,7 ±0,2

<0,001

0,02

0,04

<0,001

<0,001

0,002

Note: F, femmina; M, maschio; FANS, farmaci antinfiammatori non steroidei; HIT-6, Headache Impact Test; VAS, Visual Analogue Scale

paracetamolo), mentre nessun paziente assumeva analgesici in combinazione. Tutti i pazienti hanno eseguito uno studio di risonanza magnetica volta a escludere qualsiasi rilevante alterazione strutturale che sottendesse la patologia emicranica. Lo studio risultava conforme ai principi della Dichiarazione di Helsinki ed è stato approvato dal comitato etico della Seconda Università di Napoli. Protocollo di neurostimolazione In accordo con precedenti studi (2,3) la t-SNS veniva applicata attraverso elettrodi adesivi di dimensioni 30 mm x94 mm posizionati in regione frontale in modo tale da coprire bilateralmente le terminazioni sopratrocleari e sopraorbitali del trigemino. Il dispositivo generava impulsi bifasici rettangolari con le seguenti caratteristiche: frequenza: 60 Hz, ampiezza: 250 μs e intensità: 16

mA. La t-SNS veniva praticata quotidianamente per 20 minuti. Study design Lo studio è stato condotto da gennaio 2013 a ottobre 2014. I parametri clinici dei pazienti al baseline sono stati determinati utilizzando un diario relativo agli ultimi 28 giorni. In seguito i pazienti sono stati sottoposti a t-SNS per un periodo di 60 giorni, senza followup intermedi, con una visita finale al termine di tale periodo. Nel corso del trattamento con t-SNS ai pazienti veniva chiesto di compilare un diario su cui venivano annotati gli attacchi emicranici, l’intensità della sintomatologia algica nel corso degli attacchi attraverso una scala di 10 punti (0: assenza di dolore, 10: dolore che impedisce di svolgere le attività quotidiane) e l’eventuale assunzione di farmaci sintomatici. Alla fine dei 60 giorni di trattamento

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cefalee

Figura 1. Differenza significativa della frequenza degli attacchi (p <0,001) e dei giorni di emicrania (p <0,001) tra pazienti con emicrania prima e dopo il trattamento con t-SNS Basale Follow-up

Analisi statistica L’analisi statistica è stata effettuata con la versione 13 del software STATA (STATA Corp., Texas, USA). I dati continui erano espressi come media ±errore standard (SE) e confrontati utilizzando il t-test e il Wilcoxon test. Cambiamenti nei parametri clinici erano espressi con variazioni percentuali. Per tutte le analisi veniva considerata la significatività statistica per p <0,05.

Risultati

Attacchi di emicrania

Giorni con emicrania

Figura 2. Percentuale di pazienti che ha sperimentato una riduzione di almeno il 50 per cento della frequenza degli attacchi e dei giorni di emicrania dopo il trattamento con t-SNS % di pazienti responder % di pazienti non responder

Attacchi di emicrania

con t-SNS, i pazienti compilavano il questionario HIT-6 e venivano valutate l’aderenza al trattamento, la soddisfazione del paziente e le eventuali reazioni avverse. Nello specifico, l’aderenza al trattamento veniva valutata con l’ausilio di un sistema elettronico in grado di registrare l’utilizzo del device da parte di ciascun paziente. Si consideravano aderenti al trattamento e inclusi nell’analisi i pazienti che avessero

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Giorni con emicrania

utilizzato il Cefaly® per almeno 800 minuti nell’arco dei 60 giorni (>2/3 del tempo atteso). Per tale motivo 4 pazienti sono stati esclusi dall’analisi statistica finale. Si consideravano soddisfatti i pazienti che esprimevano il desiderio di continuare il trattamento. Infine i pazienti sono stati intervistati sull’eventuale comparsa degli effetti collaterali correlati al trattamento con Cefaly® (3).

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I dati del nostro studio hanno evidenziato una riduzione statisticamente significativa sia della frequenza degli attacchi (p <0,001) che dei giorni di emicrania al mese (p <0,001) (Figura 1), con una riduzione di almeno il 50 per cento della frequenza degli attacchi e dei giorni di emicrania al mese dopo 60 giorni di trattamento, rispettivamente nel 75 e 81 per cento dei pazienti (Figura 2). Inoltre si evidenziava una riduzione statisticamente significativa dell’intensità media degli attacchi (p =0,002) (Figura 3A), del punteggio al questionario HIT6 (p <0,001) (Figura 3B), e dell’assunzione di farmaci sintomatici (p <0,001) sia per quanto concerne i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) (p =0,02) che i triptani (p =0,04) (Figura 3C). Nessun paziente ha riferito l’insorgenza di effetti collaterali durate il trattamento con t-SNS. Tutti i pazienti hanno manifestato la volontà di continuare il trattamento con t-SNS, anche dopo la fine del protocollo.

Discussione Il nostro studio dimostra l’efficacia di un trattamento preventivo della durata di 60 giorni con la t-SNS nei pazienti affetti da MwoA con bassa frequenza di attacchi e che non abbiano precedentemente praticato terapie farmacologiche di prevenzione. Tale approccio terapeutico sembrerebbe essere scevro da effetti collaterali e ben tollerato dai pazienti come testimoniato dall’aderenza al trattamento e dalla soddisfazione espressa dai pazienti stessi.


Figura 3. Riduzione significativa di intensità media del dolore durante gli attacchi emicranici ( p =0,002; A); punteggio al questionario HIT-6 (p <0,001; B) e assunzione totale di farmaci sintomatici (p <0,001), FANS (p =0,02), e triptani (p =0,04) (C).

Basale

Basale

Follow-up

A

Follow-up

Punteggio VAS

B

Punteggio HIT-6 Basale Follow-up

C

assunzione totale di farmaci sintomatici

Le terapie farmacologiche di prevenzione dell’emicrania hanno l’obiettivo di ridurre la frequenza, l’intensità e la durata degli attacchi, e la disabilità a esse correlata migliorando in tal modo la qualità di vita dei pazienti e riducendo l’overuse di farmaci sintomatici (7). Tuttavia, i pazienti emicranici possono ragionevolmente decidere di non praticare terapie farmacologiche di prevenzione per una scarsa attitudine ad assumere farmaci in generale o più semplicemente per il timore di incorrere in effetti collaterali (8,9). In questo difficile contesto, la neurostimolazione ha inaugurato una nuova era nel trattamento dell’emicrania offrendo una valida alternativa alle terapie farmacologiche. La neurostimolazione è stata inizialmente sperimentata come “ultima spiaggia” in pazienti affetti da cefalee refrattarie o intrattabili, qualora le più comuni terapie si fossero dimostra-

assunzione di FANS (compreso paracetamolo)

assunzione di triptani

te insoddisfacenti o gravate da inaccettabili effetti collaterali, per la necessità di una procedura chirurgica invasiva per l’impianto degli elettrodi e dell’elettrostimolatore (10,11,12). Tuttavia, un recente studio ha evidenziato la superiorità di un trattamento di tre mesi con la t-SNS rispetto alla stimolazione sham nella prevenzione dell’emicrania in un’estesa popolazione di pazienti emicranici (2). Il nostro studio (4) ha dimostrato che il trattamento con t-SNS è particolarmente efficace in una popolazione di pazienti emicranici con bassa frequenza di attacchi: l’ipotesi è che tali pazienti possano essere più predisposti a una risposta positiva al trattamento con t-SNS per il minore impatto sui circuiti del dolore da parte della condizione emicranica. A tal proposito, numerose evidenze suggeriscono che ripetuti attacchi emicranici siano correlati ad al-

terazioni strutturali e microstrutturali indotte dalla continua stimolazione delle terminazioni nocicettive durali (13). Infatti, una frequenza elevata di attacchi emicranici potrebbe essere correlata alla sensibilizzazione trigemino-spinale e all’alterazione dei sistemi discendenti di controllo del dolore (14). Tale meccanismo fisiopatologico sembrerebbe essere associato a un’anomala attivazione delle regioni tronco-encefaliche, subcorticali e corticali coinvolte nella processazione degli stimoli sensoriali sia durante gli attacchi che nel periodo interictale (14). Inoltre, la t-SNS potrebbe risultare più efficace in quei pazienti il cui circuito della processazione del dolore sia scevro dall’influenza di precedenti terapie farmacologiche di prevenzione (15). Inoltre, i nostri dati dimostrano una riduzione di almeno il 50 per cento rispettivamente della frequenza degli

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cefalee attacchi e dei giorni di emicrania rispettivamente nel 75 e 81 per cento dei pazienti, dopo due mesi di trattamento. Inoltre gli attacchi residui mostravano una significativa riduzione dell’intensità del dolore, con conseguente ridotta assunzione di farmaci sintomatici, sia FANS che triptani, con un significativo miglioramento sull’impatto dell’emicrania sulla qualità di vita. Infine, i nostri dati possono considerarsi perfettamente in linea con precedenti osservazioni anche per quanto concerne l’elevata aderenza da parte dei pazienti, la sicurezza e la soddisfazione associate al trattamento con t-SNS (2,3).

Il nostro studio non è esente da limiti. Innanzitutto non abbiamo adoperato apparecchiature sham per cui non possiamo escludere un possibile effetto placebo sugli obiettivi primari e secondari del nostro lavoro: nello specifico, fattori come una modalità innovativa di trattamento, il fatto che i pazienti non avessero mai praticato terapie di prevenzione e la breve durata del periodo di osservazione (due mesi) potrebbero aver influito sui benefici osservati nei nostri pazienti. Tuttavia si ritiene che l’effetto placebo sia maggiormente ravvisabile nelle terapie in acuto piuttosto che nelle terapie di prevenzione

(16). D’altra parte, la superiorità del trattamento con t-SNS rispetto alla stimolazione sham è stata ampiamente dimostrata in un precedente studio randomizzato su un’estesa popolazione di pazienti emicranici (2). Infine, lo studio non è stato condotto secondo un disegno “doppio cieco”. Tuttavia riteniamo che il nostro studio, in associazione alle precedenti evidenze su efficacia e sicurezza del trattamento con t-SNS, fornisca ulteriori interessanti informazioni utili per la pratica clinica, sebbene studi futuri siano necessari per confermare ed eventualmente estendere i risultati delle nostre osservazioni.

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Patologie neurodegenerative

La malattia di Parkinson in fase avanzata: oltre i sintomi motori Commento di Francesca Morgante, del Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Messina. La professoressa Morgante ha presentato una relazione sulla malattia di Parkinson avanzata all’ultimo congresso nazionale dell’Accademia Limpe-Dismov

L

a malattia di Parkinson (MP) ha un’evoluzione complessa, all’interno della quale classicamente si possono identificare differenti fasi (fase stabile, fase complicata, fase avanzata, fase terminale). Lo studio della progressione della malattia e la transizione alla fase avanzata sono fondamentali per poter indirizzare il paziente verso le terapie della fase avanzata nel momento più opportuno (Figura 1). Molti pazienti spesso infatti, giungono in ritardo a trattamenti complessi, quali quelli chirurgici (stimolazione cerebrale profonda, DBS) o infusionali (apomorfina, Duodopa). Tali opzioni terapeutiche infatti, non dovrebbero essere ritenute come “ultima spiaggia”, quanto piuttosto strumenti tesi a migliorare la qualità di vita del paziente, procrastinando il passaggio alla fase terminale di malattia. Con questi presupposti diventa cruciale la valutazione complessiva del singolo paziente, che dovrebbe contemplare sia lo studio delle complicanze motorie che dei sintomi non

motori e in particolar modo di quelli psichiatrici. È ormai consolidato che la MP non è solo bradicinesia, tremore, rigidità, ma è una costellazione infinita di sintomi non motori, che progrediscono di pari passo con l’avanzare della malattia, e alcuni dei quali possono precedere anche di molti anni la comparsa dei sintomi motori “tipici”; tra questi rientrano per esempio i disturbi psichiatrici (ansia, depressione, disturbi comportamentali) e i disturbi del sonno che hanno un notevole impatto sulla qualità di vita sin dalle fase iniziali della malattia. La conoscenza e la maggiore sensibilità diagnostica per tali disturbi ha modificato anche la concezione di fase avanzata nel corso degli anni. Se inizialmente, nell’era della “finestra terapeutica”, l’attenzione era puntata prevalentemente sull’andamento/ controllo dei sintomi motori, nell’ultimo decennio è maturata sempre più la consapevolezza che i disturbi non motori della MP siano importanti determinanti nella fase di aggiustamento

terapeutico. L’interesse scientifico si è, quindi, focalizzato sullo studio dei disturbi cognitivi, comportamentali, psichiatrici, autonomici e del sonno, che sono aspetti determinanti per la qualità della vita del paziente e dei suoi familiari, rendendo necessari interventi diagnostico-terapeutici multidisciplinari e personalizzati. Il mondo della MP complicata va ben oltre le fluttuazioni motorie e le discinesie, includendo un ampio ed eterogeneo spettro di sintomi motori assiali (freezing della marcia, instabilità posturale e cadute, disturbi dell’eloquio, disfagia, anomalie posturali del tronco) e di manifestazioni non motorie, quali psicosi, disturbi del controllo degli impulsi, sindrome da disregolazione dopaminergica, depressione, ansia, incontinenza urinaria, disturbi gastrointestinali, disturbi cognitivi. Quando inizia la fase avanzata ed è arrivato il momento per le terapie complesse? La decisione deve innanzitutto basarsi sul rispetto dei criteri di selezione che sono stati formulati per

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Patologie neurodegenerative

Figura 1. trattamento della Malattia di parkinson e terapie complesse

le tre terapie complesse (DBS, l’infusione s.c. di apomorfina e infusione continua intradigiunale di Duodopa). In linea generale possiamo dire che un paziente diventa candidato ai trattamenti della fase avanzata, quando la qualità di vita si deteriora con impatto sulla funzione sociale e familiare del paziente, per la presenza di disabilità motoria +/- psichiatrica/comportamentale (dovuta a eccessivo carico dopaminergico totale) +/- non motoria (causata spesso dai disturbi del sonno e dal dolore). Inoltre, ognuna delle tre terapie complesse presenta delle peculiarità che ne rendono l’uso più appropriato in base al sottotipo di malattia di Parkinson. La scelta tra le diverse opzioni si basa sulle caratteristiche cliniche del paziente avanzato, sulla compliance del paziente e del caregiver. È altresì importante valutare da parte del paziente la possibilità di afferire a un centro specializzato per la gestione della neurostimolazione piuttosto che a un centro di neurologia del territorio dove le terapie infusio-

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nali possono essere gestite dal neurologo senza necessità di un team multispecialistico. Per quel che riguarda le caratteristiche cliniche del paziente, vanno considerati l’età e la durata di malattia, lo status cognitivo e neuropsichiatrico, la presenza di comorbilità, i sintomi non motori, la disartria, i disturbi della marcia e di equilibrio. La presenza di Mild Cognitive Impairment o di disturbi dell’equilibrio e della deambulazione anche in fase ON rendono il paziente un miglior candidato per la terapia infusionale con Levodopa; invece, la presenza di una grande disabilità motoria con fluttuazioni e discinesie in un paziente giovane senza disturbi cognitivi e con disturbi comportamentali consecutivi a un elevato carico dopaminergico quotidiano rendono il paziente un candidato promettente per la DBS, poiché tale trattamento permette di ridurre la terapia dopaminergica. Oggi sembra sempre più delinearsi la consapevolezza che procrastinare nel tempo, ovvero attendere troppi anni

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dall’esordio della malattia, il passaggio alle terapie complesse, potrebbe risultare troppo tardi. Infatti, la comparsa di cadute e di deterioramento cognitivo che caratterizza la fase “terminale” pregiudica il successo di tali terapie; inoltre, se vi è un’indicazione data dall’incapacità della terapia orale di gestire il quadro motorio, non-motorio e psichiatrico della MP, procrastinarle determina solo un peggioramento della qualità vita. In conclusione, la qualità di vita dei pazienti parkinsoniani è influenzata da numerose variabili cliniche, oltre alle fluttuazioni motorie e alle discinesie. Le terapie complesse oggi disponibili rappresentano uno strumento che permette di ottimizzare le complicanze causate da un’eccessiva terapia orale, alleviando la disabilità delle fasi complicata e avanzata. Sulla base di un’accurata selezione è possibile destinare le tre procedure complesse a diverse categorie di pazienti al fine di garantire la gestione e la presa in carico del paziente a 360 gradi.


farmaci NEWS Malattia di Alzheimer

Nuove speranze da un anticorpo monoclonale

S

i avvicina l’orizzonte della cura per la malattia di Alzheimer? Sembrerebbe di sì, almeno secondo quanto ottenuto in sperimentazioni preliminari con un anticorpo monoclonale umano, aducanumab (Biogen). Seppure con le dovute cautele, la molecola è in grado di ridurre l’accumulo di proteina beta-amiloide nel cervello e i pazienti “trattati” avrebbero mostrato segni di rallentamento del declino cognitivo. I risultati di questo studio di fase 1b sono stati pubblicati su Nature. Aducanumab insegna al sistema immunitario a riconoscere le placche di beta-amiloide. Nello specifico, l’anticorpo umano è stato isolato in persone sane che avevano mostrato una particolare resistenza al declino cognitivo, mentre negli anziani colpiti da Alzheimer i livelli di questa sostanza risultavano molto bassi. Il test clinico è stato condotto su 165 persone affette da Alzheimer in stadio precoce, metà delle quali ha

ricevuto un’infusione settimanale, mentre ai restanti è stato somministrato un placebo. I pazienti trattati con il principio attivo hanno mostrato una progressiva riduzione delle placche, mentre per il gruppo trattato con il placebo la situazione è rimasta invariata. Dopo un anno le placche sono quasi completamente regredite, e inoltre i pazienti che hanno ricevuto dosi più alte del farmaco hanno avuto maggiore riduzione delle placche, misurate mediante PET. I risultati di questa prima fase di studi sono dunque incoraggianti, e la sperimentazione proseguirà. È ora prevista la fase III che consiste in un trial su 2.700 pazienti affetti da forme lievi o moderate di Alzheimer che si concluderà entro la fine del decennio. Certo è che restano da chiarire diversi aspetti, primo fra tutti capire se l’efficacia di aducanumab nel ridurre gli accumuli di proteina beta-amiloide si traduca anche in una riduzione dei sintomi.

Sclerosi multipla Il trapianto di staminali arresta la malattia per anni

I

I risultati di una metanalisi che è stata presentata all’ultimo congresso ECTRIMS di Londra, ed è stata condotta da Maria Pia Sormani e coll., dell’Università degli Studi di Genova, mostrano l’efficacia sul lungo periodo del trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche. Il trapianto si sta sperimentando da oltre 20 anni nei pazienti con sclerosi multipla in forma grave o refrattaria ai trattamenti disponibili. Lo studio dimostra che dopo 5 anni dal trapianto, il 67 per cento dei pazienti trattati in 15 trial clinici ha raggiunto lo stato di NEDA, ovvero nessuna attività di malattia. Inoltre, l’83 per cento dei 764 soggetti inclusi nella metanalisi e sottoposti a trapianto autologo di cellule staminali ha mantenuto lo stato di NEDA per un periodo di due anni. La revisione è stata condotta sui dati pubblicati in letteratura dal 1995 al 2016 sul trapianto autologo di cellule staminali per il trattamento della sclerosi multipla. I pazienti erano affetti da una forma aggressiva della malattia e non avevano risposto ai farmaci. Sono stati inclusi dati riguardanti la mortalità, il tasso di progressione della malattia e lo stato di NEDA. La progressione della malattia era definita come un aumento di un punto sulla scala EDSS o un aumento di 0,5 punti se lo score EDSS era pari o superiore a 5,5. La stima della mortalità combinata associata al trattamento era pari a 1,9 per cento, il tasso di mortalità a un anno era pari al 2,3 per cento e la mortalità generale durante il secondo anno dopo il trapianto era pari allo 0,9 per cento. Nessun caso di decesso è stato osservato tra i pazienti trapiantati dopo il 2008 rispetto al 3,0 per cento (P <0,001) dei pazienti arruolati negli studi precedenti. Al riguardo, la prof. Sormani durante la sua presentazione ha sottolineato come “tutti i decessi si erano verificati nel primo decennio di studi indicando l’esistenza di un miglioramento nelle tecniche di trapianto”. E in conclusione “Nel trapianto di cellule staminali, l’ablazione del sistema immunitario fornisce un campo fertile per la formazione di un nuovo sistema immune libero dalle molecole infiammatorie associate ai sintomi della malattia. L’idea è che questo trattamento sia in grado di sopprimere l’attività infiammatoria e ripristinare il sistema immunitario. In pratica, il sistema immunitario riparte da zero e si ricostruisce senza la malattia”.

Il progetto TechCare per l’innovazione nella SM Per la prima volta in Italia, malati di sclerosi multipla, medici, infermieri, caregiver e startupper si sono incontrati nel segno dell’innovazione, in un bootcamp lo scorso 22 settembre a Genova. Con questa giornata di lavoro ha preso ufficialmente il via il progetto “TechCare: dalla cura al prendersi cura”, promosso da Sanofi Genzyme insieme alla rete di co-working Talent Garden e all’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. L’obiettivo è individuare idee da inserire nella campagna europea “The World Vs MS”, per fare incontrare le esigenze quotidiane dei pazienti con le proposte degli innovatori.

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NEWS farmaci Epilessia

Una giornata dedicata alla ricerca

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adova ospiterà il prossimo 11 febbraio 2017 un workshop promosso da Epitech, interamente dedicato alle epilessie e ai progressi della ricerca compiuti in questo ambito. L’epilessia colpisce oltre 65 milioni di persone in tutto il mondo ed è un’importante causa di disabilità, morbilità, mortalità, stigma e costi sociali. Ancora oggi circa un terzo dei pazienti risulta farmaco-resistente e solo un piccolo sottogruppo di pazienti resistenti ai farmaci antiepilettici si giova del beneficio delle procedure chirurgiche. Negli ultimi dieci anni però, importanti progressi nella comprensione dei meccanismi fisiopatologici di questa malattia sono stati fatti e il loro trasferimento in ambito clinico assistenziale potrebbe in futuro tradursi in un miglioramento delle possibilità diagnostiche e terapeutiche, e di conseguenza della qualità della vita dei pazienti affetti da epilessia.

Grazie anche al contributo investigativo dell’optogenetica, vanno accumulandosi evidenze di un ruolo diretto degli astrociti nella generazione delle crisi epilettiche che dunque si candidano quali nuovi potenziali bersagli terapeutici per l’epilessia. D’altra parte l’individuazione di meccanismi infiammatori e immunologici implicati a vari livelli nell’epilettogenesi suggerisce la possibilità di impiego di farmaci attivi sulla neuroinfiammazione, per lo meno in alcuni contesti o fasi della malattia. Indubbiamente poi l’individuazione di nuove strategie terapeutiche così come il consolidamento e l’implementazione di quelle tradizionali, come la chirurgia dell’epilessia, traggono giovamento dal sorprendente e tumultuoso avanzamento delle tecniche diagnostiche, in particolare nel campo della genetica, dell’epigenetica e del neuroimaging integrato e multimodale, strutturale e funzionale.

La sfida è quella di traslare in modo tempestivo ed efficace in un setting clinico-assistenziale gli avanzamenti in ambito epilettologico della ricerca di base anche attraverso una condivisione continua tra ricercatori e clinici.

Patologie rare

Malattia di Fabry: svolta nella terapia

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a Commissione europea ha approvato il primo farmaco orale per il trattamento a lungo termine della malattia di Fabry. Migalastat (Galafold™, Amicus Therapeutics) è una molecola chaperonica indicata per adulti e adolescenti di 16 anni o più, con una diagnosi confermata di malattia di Fabry e portatori di una mutazione suscettibile. Nel Riassunto delle caratteristiche del prodotto (RCP) sono elencate le 269 mutazioni che rappresentano il 35-50 per cento dei pazienti con malattia di Fabry. L’RCP riporta anche il sito www.galafoldamenabilitytable.com dove i medici che esercitano nell’Unione europea possono verificare quali siano tali mutazioni. La malattia di Fabry è una rara patologia ereditaria. I pazienti che ne sono affetti presentano una carenza dell’enzima denominato a-galattosidasi A. Tale enzima normalmente scompone il lipide denominato globotriaosilceramide (GL-3 o Gb3). Se tale enzima è carente, il GL-3 non può essere scomposto e si accumula nelle cellule del corpo, per esempio in quelle renali. I pazienti affetti da questa malattia presentano un’ampia sintomatologia, che include disturbi gravi, come insufficienza renale, problemi cardiaci e ictus. L’azione di migalastat è quella di stabilizzare l’enzima endogeno così che possa eliminare l’accumulo dannoso del substrato in quei pazienti che presentano mutazioni suscettibili. La decisione della Commissione europea è stata presa sulla base dei dati derivanti da due studi di fase III, che hanno coinvolto sia pazienti naïve (studio 011 o FACETS) sia pazienti che dalla terapia enzimatica sostitutiva passavano a migalastat (studio 012 o ATTRACT), sia sulla base dei dati provenienti dagli studi di estensione a lungo termine ancora in corso. L’approvazione della Commissione europea si applica a tutti i 28 stati membri dell’Unione e Liechtenstein, in attesa delle autorizzazioni definitive di Islanda e Norvegia.

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NEWS associazioni Giornata mondiale Alzheimer

Ad Abbiategrasso prende forma la prima dementia friendly community

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o scorso 21 settembre come da tradizione si è celebrata in tutto il mondo la Giornata mondiale Alzheimer, giunta quest’anno alla sua XXIII edizione. L’iniziativa che nel nostro Paese è promossa da Alzheimer Italia è un’occasione di sensibilizzazione su una malattia che sta assumendo sempre più i tratti di un’epidemia: quasi 47 milioni sono i malati di Alzheimer nel mondo! Una malattia che è anche sinonimo di solitudine e di emarginazione, e questo sia per il malato che per i familiari e caregiver. La patologia impone uno stile di comportamento che limita fortemente i contatti sociali, e anche la comunità tende ad assumere atteggiamenti di lontananza, non sempre dovuti a disinteresse, ma a imbarazzo, ritrosia, incertezza. Di questo si è parlato in maniera esaustiva nell’ambito di un convegno che si è tenuto a Milano, lo scorso 13 settembre dal titolo “Ricordati di me: dalla ricerca medico-scientifica alle comunità amiche delle persone con demenza”. Nell’ambito dell’incontro è stato presentato il primo progetto in Italia di dementia friendly community, ideato dalla Federazione Alzheimer in collaborazione con la Fondazione di ricerca Golgi Cenci, l’ASP Golgi Radaelli, l’Associazione italiana di Psicogeriatria (AIP), il Comune di Abbiategrasso e la ASST Ovest Milanese. Comunità amica delle persone con demenza significa rendere partecipi la popolazione, le associazioni, le categorie professionali al fine di creare una rete di cittadini consapevoli che sappiano come rapportarsi alla persona con demenza per farla sentire a proprio agio nella comunità in cui vive. È di fatto un cambiamento sociale che possa rendere la città, con i suoi spazi, le sue iniziative, le sue relazioni sociali pienamente fruibile senza escludere e isolare le persone con demenza. La città di Abbiategrasso alle porte di Milano è stata individuata come “pilota” per questo progetto in quanto accogliente e con un forte senso della solidarietà, dove è concretamente possibile l’integrazione dei malati e dei loro familiari. Il sindaco Pierluigi Arrara così ha commentato “La mia speranza è una comunità in cui i deboli e i forti si sostengano, in cui ciascuno trovi il suo posto, in cui ci si aiuti a superare i momenti difficili”. Le azioni del progetto si sviluppano secondo due linee parallele: da un lato ci sono le iniziative di ascolto e sostegno ai malati e alle famiglie, dall’altro la promozione della conoscenza dei problemi di questa patologia e di che cosa si può fare per contribuire a

migliorare la vita dei malati da parte dei molti soggetti presenti e delle molte situazioni da loro fruibili (dalla polizia locale, alla biblioteca, ai commercianti), il tutto con il sostegno delle numerose associazioni di volontariato presenti in città. Due esempi sono le iniziative già attuate: un questionario per i malati e le famiglie che ha indagato la percezione di ciò che c’è e che manca nel territorio, e un corso per la polizia locale. Antonio Guaita direttore della Fondazione Golgi Cenci ha sottolineato che “la scommessa non è di creare nuovi spazi per i malati, ma è trasformare alcuni aspetti cruciali della vita normale di una comunità cittadina. Il programma è quindi realizzare un’esperienza sperimentale, ma riproducibile che sia in grado di misurare i risultati dell’intervento”. A conclusione, Gabriella Salvini Porro presidente della Federazione Alzheimer Italia ha sottolineato che “Abbiategrasso con i suoi 32mila abitanti, di cui 600 con problemi cognitivi, non può essere definita come una semplice periferia di una grande città. Chi vive ad Abbiategrasso partecipa e condivide la vita dell’intera comunità”. L’auspicio è che questo “piccolo comune” possa dare la spinta per una crescita socialmente costruttiva e diventare un modello per altre realtà su tutto il territorio nazionale allo scopo di far uscire dall’isolamento e dare dignità ai malati e alle loro famiglie. la neurologia italiana

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NEWS associazioni Associazione italiana malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer in Italia Gli “scatti” nel Rapporto AIMA-Censis “L’impatto economico-sociale del‑­­ la malattia di Alzheimer: rifare il punto dopo 16 anni” è il titolo dell’ultimo volume che l’Associazione italiana malattia di Alzheimer (AIMA) ha redatto in collaborazione con Censis, e con il contributo di Lilly, per fotografare la realtà dei malati nel nostro Paese e valutare l’evoluzione dell’impatto sociale ed economico della patologia nel corso degli anni. Vediamo in sintesi che cosa emerge dal rapporto. Sono 600.000 i malati di Alzheimer in Italia, con un’età media di 78,8 anni; di questi il 72 per cento è rappresentato da pensionati, accuditi da caregiver (mediamente hanno 59,2 anni). Pur essendo in età lavorativa, il 40 per cento delle persone che supportano il malato non lavora, e nel corso degli anni è addirittura triplicata la percentuale di disoccupati (3,2 per cento nel 2006 e 10 per cento nel 2015). Il tempo trascorso accanto al malato assorbe infatti la maggior parte della giornata: mediamente 4,4 ore al

Registrazione del Tribunale di Milano n. 781 del 12/10/2005 - Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura.

giorno di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza. Il 59,1 per cento dei caregiver occupati segnala invece cambiamenti nella vita lavorativa, soprattutto le assenze ripetute (37,2 per cento) e la richiesta del parttime. L’impegno del caregiver determina conseguenze anche sul suo stato di salute, in particolare tra le donne l’80,3 per cento accusa stanchezza, il 63,2 non dorme a sufficienza, il 45,3 soffre di depressione, il 26,1 per cento infine, si ammala spesso. Pur essendo sempre i figli dei malati a prevalere tra i caregiver, in particolare per le donne, negli ultimi anni, nell’assistenza sono aumentati i partner (25,2 per cento del totale nel 2006, 37 per cento nel 2015), soprattutto nel caso di malati maschi. La badante rimane in ogni caso una figura centrale dell’assistenza: a essa fa ricorso complessivamente il 38 per cento delle famiglie. E la presenza di una badante ha un impatto significativo sulla disponibilità di tempo libero del caregiver. Ma vediamo l’iter per ar-

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rivare alla diagnosi. Su questo fronte ci sono miglioramenti, nel senso che tra familiari e caregiver vi è una maggiore sensibilità sulla patologia che porta a “reagire” alla comparsa dei primi sintomi. Di solito il primo a essere interpellato è il Medico di famiglia (47,2 per cento dei casi), seguito dal Neurologo di una struttura pubblica (33,1 per cento) o da uno specialista privato (13,6 per cento). Solo il 6,1 per cento si è rivolto immediatamente a un’Unità di valutazione Alzheimer (UVA). Ma a identificare l’Alzheimer, non è mai il primo clinico consultato. Comunque è il Neurologo di una struttura pubblica a porre la diagnosi definitiva, nel 35,6 per cento dei casi. Resta da migliorare la tempistica: per arrivare alla certezza diagnostica in media ci vogliono 1,8 anni. Un arco troppo lungo, anche se diminuito rispetto ai 2,5 anni del 1999. E infine l’impatto economico: i costi diretti dell’assistenza ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73 per cento a carico delle famiglie. Il costo medio annuo per paziente è pari a 70.587 euro, comprensivo dei costi a carico del SSN, di quelli che ricadono direttamente sulle famiglie e dei costi indiretti (gli oneri di assistenza che pesano sui caregiver, i mancati redditi da lavoro dei pazienti ecc.).

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