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cefalee
Emicrania cronica refrattaria Il ruolo della pressione intracranica Roberto De Simone, Angelo Ranieri, Silvana Montella, Paolo Cappabianca, > Mario Quarantelli, Felice Esposito, Giuseppe Cardillo, Vincenzo Bonavita
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scienze cognitive
La neuroestetica Il cervello visivo tra arte e percezione
> Enrico Grassi, Pasquale Palumbo, Marco Aguggia
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Congresso SIN 2014
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La diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative
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Anno X - n. 4 - 2014
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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Anno IX - n. 4 - 2014
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Anno X - n. 4 - 2014
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Sommario 8
cefalee
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info@medicoepaziente.it Direttore Responsabile Antonio Scarfoglio
Il ruolo della pressione intracranica nell’emicrania cronica refrattaria
direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it
Uno studio sull’efficacia di una singola puntura lombare in una serie di casi non responsivi ai trattamenti di profilassi
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Lo studio presentato in queste pagine dimostra che una singola puntura lombare con sottrazione liquorale determina la remissione del dolore in una significativa quota dei partecipanti. L’IIHWOP andrebbe esclusa in tutti i pazienti con emicrania cronica refrattaria ai trattamenti, con anomalie del flusso venoso cerebrale alla MRV
redazione Anastasia Zahova segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Marco Aguggia, Vincenzo Bonavita, Paolo Cappabianca, Giuseppe Cardillo, Roberto De Simone, Felice Esposito, Valentina Franco, Enrico Grassi, Silvana Montella, Pasquale Palumbo, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi, Mario Quarantelli, Angelo Ranieri, Emilio Russo
progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza
Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina
Roberto De Simone, Angelo Ranieri, Silvana Montella, Paolo Cappabianca, Mario Quarantelli, Felice Esposito, Giuseppe Cardillo, Vincenzo Bonavita
16 scienze cognitive La neuroestetica
Il cervello visivo tra arte e percezione Gli artisti sono in un certo senso dei neurologi che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari. L’arte è quindi un’estensione della funzione del cervello. E l’artista è un neuroscienziato che esplora le potenzialità e le capacità del cervello con tecniche del tutto personali
Enrico Grassi, Pasquale Palumbo, Marco Aguggia
21 speciale
epilessia Glutammato ed epilessia
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A cura di Valentina Franco ed Emilio Russo
rubrich e
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news dalla letteratura news congressi news farmaci news dalle associazioni la neurologia italiana
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NEWS dalla letteratura E.D. Toffanello, A. Coin, G. Sergi et al.
L’ipovitaminosi D come fattore di rischio nel declino cognitivo senile: i risultati del Progetto Veneto Anziani ❱❱❱ Neurology 2014; published online Nov 5; doi: 10.1212/WNL.0000000000001080 Negli anziani, la carenza di vitamina D potrebbe essere legata a un incremento del rischio di declino cognitivo. È quanto emerge da questo studio, che è stato condotto da ricercatori di diversi centri a Padova. Gli anziani sono gli individui maggioramente soggetti a ipovitaminosi D in ragione della ridotta assunzione alimentare e della scarsa esposizione solare. Questo ampio studio prospettico di coorte aveva il duplice obiettivo di valutare se una condizione basale di deficit di vitamina D fosse associata con un declino più marcato della funzione cognitiva rispetto alle persone con livelli vitaminici nella norma (25OHD >75 nmol/l) e se la condizione di deficit franco (<50 nmol/l) o di semplice insufficienza vitaminica (50-75 nmol/l) fossero in grado di predire un deficit cognitivo dopo un followup medio di 4,4 anni in un sottogruppo di pazienti anziani senza problemi cognitivi all’inizio dello studio. Sono stati esaminati i dati relativi a 1.927 soggetti anziani. Questi pazienti sono stati sottoposti all’inizio e alla fine dello studio al dosaggio della 25OHD. Per quanto riguarda la valutazione cognitiva globale, è stato usato il MMSE (Mini-Mental State Examination): punteggi <24 erano prognostici di disfunzione cognitiva, mentre una riduzione del punteggio MMSE >3 nel corso del followup era considerata clinicamente significativa. I risultati hanno evidenziato una maggiore probabilità di andare incontro a deficit cognitivo per i soggetti con carenza vitaminica (<50 nmol/l e 50-75 nmol/l) rispetto ai soggetti con livelli di vitamina D nella norma (>75 nmol/l). L’analisi multivariata corretta per fattori confondenti ha mostrato che, tra i soggetti con funzione cognitiva intatta al basale (MMSE pari almeno a 24), la carenza di vitamina D si associava in modo forte e indipendente con un rischio più elevato di insorgenza di declino cognitivo a 4,4 anni rispetto a quanto osservato nei soggetti con livelli di vitamina D nella norma. Nello specifico, il rischio relativo di insorgenza di deficit cognitivo a 4,4 anni era superiore del 36 per cento (RR=1,36; CI al 95 per cento 1,04-1,80; p=0,02) nei
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soggetti con deficit franco di vitamina D e del 29 per cento (RR=1,29; CI 95 1,00-1,76; p=0,05) in quelli con insufficienza vitaminica rispetto ai soggetti con livelli di 25OHD nella norma. In conclusione, gli Autori sottolineano il ruolo dell’ipovitaminosi D nello sviluppo del declino cognitivo. Il prossimo passo sarà quello di valutare in studi randomizzati e controllati le potenzialità preventive di una supplementazione con la vitamina. S. Zanigni, G. Giannini, P.P. Pramstaller et al.
Uno studio condotto su una popolazione in Alto Adige, conferma l’associazione tra emicrania e sindrome delle gambe senza riposo ❱❱❱ European Journal of Neurology 2014; 21(9): 1205-10 Esistono alcune indicazioni in letteratura, derivanti da serie cliniche e da due studi clinici su larga scala, che documentano una maggiore prevalenza della sindrome delle gambe senza riposo (RLS) tra gli emicranici. Al momento non vi sono però indicazioni circa tale associazione nella popolazione generale. Scopo del presente lavoro, condotto da équipe di ricercatori di Bolzano e di Bologna, era quello di stabilire una correlazione tra emicrania e RLS in una popolazione rurale di persone adulte. La presenza di emicrania e RLS è stata accertata attraverso interviste al computer e autosomministrazione di questionari, secondo i criteri diagnostici attualmente in vigore, in una popolazione di 1.567 pazienti. I partecipanti rientravano nella fase preliminare di uno studio di popolazione, in corso in Alto Adige. L’analisi dei risultati ha mostrato come gli emicranici avevano un rischio più elevato di presentare RLS rispetto ai non emicranici, anche dopo aggiustamento per potenziali fattori confondenti quali per esempio, età, sesso, diagnosi di depressione maggiore, ansia e qualità del sonno (odds ratio 1,79, CI 1,00-3,19; P =0,049). Tale associazione non veniva inoltre modificata dalla presenza di aura e da possibili cause di RLS secondaria. La correlazione non è risultata significativa tra RLS e cefalea di tipo tensivo. Secondo gli Autori, la sindrome delle gambe senza riposo si presenta spesso in comorbidità con l’emicrania nella popolazione studiata. Alla base di tale associazione ci potrebbe essere un meccanismo patogenetico comune, di cui varrebbe la pena tenere conto nella pianificazione terapeutica, e che potrebbe aprire nuove strategie di trattamento per queste due patologie.
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NEWS dalla letteratura A. Chiò, A. Calvo, G. Mora et al.
SLA: la creatinina e l’albumina sieriche si delineano come fattori predittivi di evoluzione della malattia ❱❱❱ Jama Neurology 2014; 71(9): 1134-42 L’evoluzione della SLA è soggettiva e la sopravvivenza può variare da mesi a molti anni. Diventa fondamentale pertanto avere a disposizione marcatori precoci, che siano in grado di prevederne il decorso, per impostare un’assistenza su misura. Segnaliamo al riguardo, questa ricerca che è stata condotta su una popolazione di 638 pazienti con SLA selezionati dal registro Piemonte e Valle d’Aosta. Lo studio prevedeva la valutazione di diversi marcatori ematologici di progressione della malattia, individuati al momento della diagnosi; successivamente i risultati ottenuti in questa prima coorte sono stati
replicati su una coorte di validazione indipendente, di 122 pazienti seguiti presso un centro di terzo livello per la cura della SLA. Al momento della diagnosi, i fattori studiati e correlati con l’andamento della malattia erano: leucociti totali, neutrofili, linfociti, monociti, glucosio, creatinina, acido urico, albumina, bilirubina, colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo LDL e HDL, CK, TSH, e VES. Solo l’albumina (per valori > o <4,3 mg/dl), la creatinina (per valori > o <0,82 mg/dl negli uomini e di 0,65 mg/ dl nelle donne) e la conta dei linfociti (per valori > o < di 1.700/µl) sono risultati significativamente associati con il decorso in entrambi i sessi, con un effetto doserisposta, ovvero migliore sopravvivenza con livelli più alti dei parametri nel sangue. I risultati sono stati confermati anche nella coorte di validazione. L’albumina sierica è un indicatore di stato infiammatorio mentre la creatinina sierica è associata alla massa magra. Sia l’albumina che la creatinina costituiscono fattori predittivi indipendenti di evoluzione della malattia nelle donne e negli uomini, e pertanto potrebbero essere utilizzati per definire la prognosi al momento della diagnosi.
M. Maltese, G. Martella, A. Pisani et al.
I farmaci anticolinergici ripristinano la plasticità sinaptica in modelli murini di distonia DYT1: il ruolo dei recettori muscarinici M1 ❱❱❱ Movement Disorders 2014; 29(13): 1655-65 Gli antagonisti per i recettori muscarinici ad ampio spettro hanno rappresentato la prima opzione disponibile nella terapia di differenti disordini del movimento, tra i quali la distonia. Il meccanismo d’azione di questi farmaci e la loro specificità al momento però risultano poco chiari. I ricercatori afferenti a diversi centri a Roma, Bordeaux (Francia) e Nashville (USA) in questo studio si sono posti l’obiettivo di analizzare gli effetti dei farmaci anticolinergici sulla plasticità a breve e lungo termine a livello dei neuroni “medium spiny” dello striato, in modelli murini di distonia, ovvero topi knock-in etrozigoti per la ∆E-torsinaA (Tor1a+/∆gag), e in animali controllo (Tor 1a+/+). Gli antagonisti sono stati scelti tra quelli proposti come selettivi per i differenti sottotipi di recettori muscarinici, e comprendevano pirenzepina, trihexyphenidil, biperiden, orfenadrina e un nuovo antagonista selettivo M1 (VU0255035). I topi mutati mostravano una significativa compromissione della plasticità sinaptica cortico-striatale. I farmaci anticolinergici non mostravano alcun effetto sulle proprietà intrinseche di membrana o sulla plasticità a breve termine dei neuroni striatali; tuttavia, mostravano una capacità differenziata nel ripristino dei deficit della plasticità cortico-striatale. Un recupero completo della depressione a lungo termine e del depotenziamento sinaptico si otteneva mediante applicazione degli antagonisti preferenziali M1 come pirenzepina, trihexyphenidil e VU0255035. L’antagonista non selettivo orfenadrina agiva solo parzialmente sulla plasticità sinaptica, mentre biperiden ed etopropazina hanno fallito nel riprsitino della plasticità sinaptica. La selettività per i recettori M1 è stata ulteriormente dimostrata dalla loro capacità di controbilanciare il potenziamento M1-dipendente, indotto da correnti NMDA registrate nei neuroni striatali. Questo lavoro in conclusione dimostra come l’antagonismo selettivo per i recettori muscarinici selettivi M1 compensi i deficit della plasticità sinaptica a livello dello striato in modelli murini di distonia DYT1, fornendo così un razionale per lo sviluppo di terapie antimuscariniche per questo disordine del movimento.
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cefalee
Il ruolo della pressione intracranica nell’emicrania cronica refrattaria Uno studio sull’efficacia di una singola puntura lombare in una serie di casi non responsivi ai trattamenti di profilassi Lo studio presentato in queste pagine dimostra che una singola puntura lombare con sottrazione liquorale determina la remissione del dolore in una significativa quota dei partecipanti. L’IIHWOP andrebbe esclusa in tutti i pazienti con emicrania cronica refrattaria ai trattamenti, con anomalie del flusso venoso cerebrale alla MRV
Roberto De Simone*, Angelo Ranieri*, Silvana Montella*, Paolo Cappabianca**, Mario Quarantelli***, Felice Esposito**, Giuseppe Cardillo****, Vincenzo Bonavita***** *Dipartimento di Neuroscienze, Scienze Riproduttive e Odontostomatologiche, Centro cefalee, Università Federico II di Napoli, Napoli; ** Divisione di Neurochirurgia, Dipartimento di Neuroscienze, Scienze Riproduttive e Odontostomatologiche, Università Federico II di Napoli, Napoli; ***Istituto di Biostruttura e Bioimmagine, CNR, Napoli; ****Merigen S.r.l, Napoli; Istituto di Diagnosi e Cura Hermitage, Capodimonte, Napoli
L’
ipertensione intracranica idiopatica senza papilledema (IIHWOP) e l’emicrania cronica (CM) sono spesso indistinguibili sul piano clinico (1-3), mostrano entrambe un’elevata prevalenza di sintomi allodinici (4), hanno un simile profilo di fattori di rischio e condividono la risposta al trattamento con topiramato (5). Data l’assenza di papilledema, la prevalenza
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dell’IIHWOP potrebbe essere alquanto sottostimata sia nella popolazione generale (6) che in quella di soggetti con cefalea cronica. A oggi, l’IIHWOP è stata individuata nel 10-14 per cento dei soggetti affetti da emicrania cronica in due serie cliniche (2,3). La prevalenza di stenosi dei seni venosi durali, osservata mediante Angio-RM del sistema venoso intracranico
(MRV), è risultata essere molto più elevata rispetto a quanto atteso sia nei soggetti con IIHWOP che in quelli con CM (7,8). Un’elevata prevalenza di stenosi è stata recentemente riportata anche in altre forme di cefalea primaria (9-11). Le stenosi venose sono considerate un attendibile marcatore diagnostico di ipertensione intracranica idiopatica (IIH) con un valore di sensibilità e specificità pari al 93 per cento (12). Per queste ragioni, nonostante le correnti incertezze sulla loro definizione e sul loro significato fisiopatologico (8) esse sono state incluse tra i criteri radiologici suggestivi di IIH nei casi senza papilledema nè diplopia (13). Recentemente il nostro gruppo ha proposto un modello patogenetico per l’IIH associata a stenosi venose secondo cui un meccanismo di parziale collassabilità dei seni venosi (self-limiting venous collapse feedback-loop – SVC) porterebbe al simultaneo aumento, autosostenuto nel tempo, sia della pressione venosa che di quella liquorale (14). Questo modello può spiegare la prolungata remissione sintomatologica documentata in questi pazienti sia dopo stenting venoso (15), sia dopo punture lombari con sottrazione liquorale, ripetute o singole (16,17). L’obiettivo di questo lavoro è stabilire, in un contesto clinico naturalistico e facilmente riproducibile, la prevalenza e il possibile ruolo patogenetico di un innalzamento della pressione intracranica (ICP) nei soggetti con emicrania cronica refrattaria ai trattamenti di profilassi. A questo scopo, abbiamo valutato la pressione di apertura (OP) e l’efficacia clinica di una singola sottrazione di liquor mediante puntura lombare in una serie consecutiva di pazienti con diagnosi di emicrania cronica/trasformata (CM/TM), con documentata refrattarietà alla terapia farmacologica e che mostravano alterazioni del flusso venoso alla MRV.
Caratteristiche dei pazienti e metodi La popolazione dello studio era costituita da pazienti consecutivi affetti da CM seguiti nel nostro Centro Cefalee tra il 2004 e il 2011 che avevano dato il consenso per puntura lombare con sottrazione liquorale. I criteri di inclusione erano i seguenti: • Diagnosi di emicrania trasformata (TM) con o senza abuso di farmaci sulla base dei criteri per Chronic Daily Headache di Silberstein e Lipton (18) utilizzati fino al 2006, e successivamente, diagnosi di emicrania cronica (CM) sulla base dei criteri ICHD-II R2 del 2006 (19); • Evidenza diretta di non responsività (intesa come il mancato ritorno a un profilo episodico degli attacchi) allo svezzamento dall’eventuale eccessivo uso di analgesici e/o ad almeno due trattamenti preventivi consecutivi a dosi standard e della durata di almeno due mesi ciascuno. I farmaci venivano scelti sulla base delle co-
morbilità del paziente, nell’ambito di un gruppo di sette molecole con documentata efficacia preventiva (amitriptilina, propranololo, flunarizina, pizotifene, acido valproico, zonisamide e topiramato); • Reperti RMN nella norma e disponibilità di MRV cerebrale; • Alterazioni del flusso venoso cerebrale (stenosi o ipoplasia bilaterale dei seni trasversi ovvero gap completo di flusso o aplasia unilaterale); • Disponibilità di un diario della cefalea completo, con compilazione antecedente di almeno un mese la puntura lombare e fino ad almeno 4 mesi dopo, o con la possibilità di raccolta dei dati mancanti mediante interviste dirette o telefoniche. Come criteri di esclusione dallo studio sono stati scelti l’evidenza di ipertensione intracranica secondaria (incluso trombosi venosa cerebrale e/o anomalie biochimiche o della cellularità liquorale), la presenza di papilledema e infine, un’età <18 anni. I pazienti che rientravano nei criteri di inclusione sono stati sottoposti a esame obiettivo generale e neurologico. L’assenza di papilledema è stata confermata mediante visita specialistica oftalmologica con esame del fundus. Gli esami radiologici strumentali (RMN e MRV) sono stati eseguiti presso centri esterni e ciò ha inevitabilmente comportato una disomogeneità nelle tecniche utilizzate per la MRV. I reperti MRV sono stati quindi sottoposti a rivalutazione da parte di uno specialista radiologo. Per minimizzare il peso dei fattori confondenti l’outcome clinico, a tutti i pazienti è stato chiesto di proseguire la terapia abituale per almeno 4 mesi dopo la puntura lombare, così come di annotare l’attività della cefalea sul diario. I valori pressori liquorali sono stati misurati in mmHg mediante un manometro spinale standard, e successivamente convertiti in mmH2O. Sono stati usati aghi con calibro 20G dal momento che la scelta di un calibro minore avrebbe aumentato inaccettabilmente sia la durata della procedura di deliquorazione che i rischi e il disagio del paziente. Nei pazienti con OP ≤200 mmH2O, la sottrazione di liquor è stata interrotta dopo un prelievo di 6 ml, richiesto per gli esami di routine. Nei soggetti con OP >200 mmH2O, la pressione intracranica è stata misurata ogni 2 ml di liquor estratto fino al raggiungimento di una pressione di 100 mmH2O o fino al prelievo di complessivi 30 ml. Il limite superiore del range di normalità per la pressione intracranica è tuttora dibattuto (13, 20-26). Nello studio abbiamo deciso di utilizzare il valore di 200 mmH2O dal momento che i pazienti con IIHWOP potrebbero avere valori di pressione inferiori rispetto ai quelli con IIH (23). Inoltre, in un’ampia comunità di soggetti senza segni o sintomi di auentata pressione intracranica (21) valori di OP superiori a 200 mmH2O erano strettamente associati con il riscontro di stenosi dei seni venosi. la neurologia italiana
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cefalee Tutti i dati sono stati raccolti mediante AIDA Cefalee, un software validato (28), utilizzato per la gestione di dati clinici di pazienti affetti da cefalea e basato sui criteri ICHD-II (26). Tutti i pazienti sono stati valutati in modo prospettico per la frequenza della cefalea e l’intensità degli attacchi in due visite programmate di follow-up, dopo 2 e 4 mesi dall’esecuzione della puntura lombare. La distribuzione dei valori di OP nei pazienti reclutati è stata confrontata con quella di 2 gruppi di controllo. Il primo costituito da una serie di 217 pazienti neurologici che avevano preso parte a un precedente studio, selezionati per assenza di cefalea cronica o di altri segni o sintomi compatibili con una aumentata pressione intracranica (25); il secondo costituito da una gruppo di 13 pazienti che avevano ricevuto diagnosi di IIH con papilledema presso il nostro centro.
Endpoint dello studio Gli endpoints primari dello studio erano rappresentati da: 1. Prevalenza di OP >200 mmH2O; 2. Percentuale di pazienti classificabili come responder (ovvero ritornati a meno di 15 giorni/mese di mal di testa) alla fine del secondo, terzo e quarto mese dalla sottrazione di liquor; 3. Riduzione media del numero complessivo di giorni/ mese con cefalea e del numero di giorni/mese con dolore invalidante durante il secondo, il terzo e il quarto mese dalla sottrazione di liquor, rispetto al basale. Come endpoints secondari sono stati considerati eventuali differenze nel gruppo che assumeva una terapia preventiva al momento della puntura lombare rispetto a quello senza trattamento, l’esistenza di fattori predittivi di risposta a lungo termine e il confronto dei valori di OP tra il gruppo attivo e i 2 gruppi di controllo.
Analisi dei risultati Di 278 pazienti diagnosticati con TM/CM tra il 2004 e il 2011 e che avevano completato il percorso diagnostico e terapeutico, 56 (20,1 per cento) sono stati classificati come non responsivi dopo fallimento dello svezzamento dagli analgesici e/o di due trattamenti preventivi consecutivi. Anomalie del flusso venoso erano presenti nel 92,8 per cento (52/56) dei casi. Di questi, 44 hanno dato il proprio consenso all’esecuzione della puntura lombare e costituiscono il campione dello studio. Le caratteristiche cliniche e demografiche sono illustrate in Tabella 1. Alla prima osservazione, nel 59,1 per cento dei pazienti è stato riscontrato un eccessivo uso di farmaci sintomatici, dimostratosi non responsivo allo svezzamento. Il 27,3 per cento dei pazienti aveva interrotto spontaneamente la
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numero 4 · 2014 la neurologia italiana
tabella 1
Caratteristiche cliniche e demografiche dei pazienti
Soggetti, n (%)
44 (100)
Donne, n (%)
39 (88,63)
Uomini, n (%)
5 (11,36)
Età, mediana (95% CI)
37,5 (33-40)
IMC, mediana (95% CI)
26,17 (24,46-28,69)
Peso normale (BMI 20-25), n (%)
19 (43,2)
Sovrappeso (BMI 25-30), n (%)
14 (31,8)
Obesità (BMI >30), n (%)
11 (25,0)
Abuso di farmaci alla prima visita, n (%)
26 (59,1)
Abuso di farmaci alla LP, n (%)
7 (15,9)
Note: BMI, indice di massa corporea; LP, puntura lombare
terapia di profilassi almeno un mese prima della puntura lombare, per inefficacia o intolleranza; nel restante 72,7 per cento un trattamento preventivo era in atto in media da 12,2 settimane (range 8,3-23,8 settimane). L’esame obiettivo generale e neurologico risultava nella norma in tutto il campione e nessun caso presentava diplopia o papilledema. La MRV ha mostrato la presenza di stenosi/gap di flusso bilaterali dei seni trasversi nel 34,1 per cento dei casi, un gap unilaterale isolato nel 38,6, la stenosi unilaterale di un trasverso associata a gap a livello del segmento posteriore del seno sagittale superiore nel 4,5, e una stenosi/ gap di flusso unilaterale associata a una separazione del circolo venoso superficiale e profondo al torculare nel 22,7 per cento dei casi (Figura 1). Baseline. Nei 30 giorni precedenti la puntura lombare, la maggioranza dei pazienti lamentava dolore quotidiano o quasi: la mediana dei giorni/mese con cefalea era 29,5 (CI 95 per cento 27-30; range 20-30), e la mediana dei giorni/mese con dolore invalidante 12 (CI 95 9-17; range 5-25). Pressione di apertura. Il valore medio di pressione di apertura è risultato 244 mmH2O (CI 95 224-265; range 81-403). Una OP maggiore di 200 e maggiore di 250 mmH2O era presente rispettivamente nell’86,4 e nel 43,2 per cento dei casi. Questi valori sono risultati significativamente superiori a quelli del gruppo di controllo senza segni o sintomi di ipertensione intracranica (media OP =149,3), ma significativamente inferiori a quelli del gruppo di IIH con papilledema (media OP = 310,4).
Outcome clinico dopo 1 mese dalla puntura lombare. In seguito alla puntura lombare (da poche ore fino a 3 giorni dopo), il 68,2 per cento dei pazienti ha sviluppato una cefalea post-puntura lombare (PLPH) che riscontrava i criteri ICHD-II. Questa si è risolta spontaneamente in tutti i casi dopo pochi giorni o settimane con sola terapia conservativa. Tra i 14 pazienti che non avevano sviluppato PLPH, 11 (78,5 per cento) hanno riportato una drammatica riduzione del dolore appena dopo la procedura, e in qualche caso già durante la sottrazione liquorale. In 23 dei restanti 30 casi con PLPH (76,6 per cento) la riduzione del dolore era riportata alla risoluzione (o nella fase terminale) della PLPH. Nel complesso, una significativa riduzione del dolore mantenuta per almeno alcuni giorni o settimane dopo la puntura lombare (o dopo risoluzione della PLPH) si è potuta osservare nel 77,3 per cento dei casi. Sulla base di questi dati, 31 soggetti (70,4 per cento dell’intero campione) rientravano nei criteri ICHD-II per “Cefalea da ipertensione intracranica idiopatica” (26) pur in assenza di papilledema. Endpoint primari. Gli outcome clinici osservati dopo sottrazione di liquor sono presentati in Tabella 2. Un pattern episodico di cefalea era ancora presente: a 2 mesi dalla puntura lombare nel 54,6 per cento dei pazien-
ti; a 3 mesi nel 45,4 per cento e a 4 mesi nel 38,6 per cento del campione. Due di 6 pazienti con OP minore di 200 mmH2O sono stati classificati come responder a 2 mesi dalla puntura lombare. Di questi, uno mostrava un andamento ancora episodico della cefalea al follow up a 4 mesi. Nel complesso, la mediana dei giorni/mese con cefalea è calata in maniera statisticamente significativa (p <0,0001), da 29,5 al baseline a 12 nel secondo mese, 19 nel terzo e 26 nel quarto. Un trend analogo e significativo è stato osservato per la mediana del numero di giorni/ mese con dolore invalidante, ridotti da 12 al basale a 5,5 nel secondo mese, 5 nel terzo e 6,5 nel quarto. Endpoint secondari. Sono state analizzate le differenze tra il gruppo con terapia profilattica (72,7 per cento) al momento della puntura lombare e il gruppo senza trattamento in atto (27,3 per cento). Al baseline si sono osservate differenze significative nel numero di giorni/mese con cefalea invalidante, risultati inferiori tra i pazienti in terapia (9,5; CI 95 7-15 vs 16,0; CI 95 8-20; p =0,02), ma non nel numero complessivo di giorni/mese con mal di testa. Inoltre i due gruppi non mostravano differenze nei valori di OP o nel tasso di responders alle visite di follow-up. L’analisi di regressione lineare, condotta sui parametri
Figura 1. Esempi dei principali pattern di anomalie venose riscontrate alla MRV A
B
A. Stenosi bilaterale dei seni trasversi; B. Stenosi unilaterale di un seno trasverso; C. Stenosi unilaterale di un seno trasverso associata a stenosi del seno sagittale superiore; D. Stenosi unilaterale di un seno trasverso associata a separazione del circolo superficale e profondo al torculare.
C
D
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cefalee
tabella 2 Risultati dopo il prelievo di liquor Basale
Numero di giorni/mese con dolore invalidante*
Follow up 2
Mese 2
Mese 3
Mese 4
24 (54,5)
20 (45,4)
17 (38,6)
29,5 (27-30; 20-30)
12 (6-28; 2-30)a,b
19 (6-29; 1-30)a,b
26 (7-28; 3-30)a,b
12 (9-17; 5-25)
5,5 (4-8; 0-25)a
5 (3-11; 0-23)a
6,5 (5-12; 1-25)a,c
Responders (pattern episodico di cefalea) n (%) Numero complessivo giorni/mese con cefalea*
Follow up 1
Note: *mediana (95 %CI; range); ap <0,0001 rispetto al basale; bnon significativo rispetto ai valori negli altri follow up; c p <0,01 rispetto al follow up a 2 e a 3 mesi
BMI, OP, volume di liquor sottratto e presenza/assenza di terapia in atto, ha escluso per ognuno di questi un’influenza indipendente sulla risposta a lungo termine osservata.
Ulteriori follow up clinici Dei 17 (38,6 per cento) pazienti ancora con cefalea episodica dopo 4 mesi dalla puntura, 13 (29,5 per cento) e 9 (20,5 per cento) mantenevano un ritmo episodico di attacchi rispettivamente a 6 e a 12 mesi. Sette soggetti erano ancora episodici a dicembre 2012 dopo un’osservazione media di 25 mesi (range 12–60 mesi). La procedura è stata ripetuta 16 volte in 13 pazienti: 9 responders al follow up a 2 mesi e 4 non responders che avevano tuttavia mostrato un netto beneficio dopo la prima puntura lombare, sebbene perso precocemente. Una OP >200 è stata trovata in 13 procedure ripetute su 16. Un beneficio prolungato è stato nuovamente osservato in 7 dei 9 casi che avevano risposto alla prima puntura e in nessuno dei 4 non responders.
Discussione In questa serie di pazienti selezionati per CM/TM refrattaria, il dolore si manifestava in tutti i casi con frequenza quotidiana o quasi quotidiana. La prevalenza di stenosi dei seni venosi intracranici (52/56 pz.; 92,8 per cento) era ancora più elevata rispetto a quanto riscontrato in pazienti non selezionati con cefalea cronica (7,8), e di fatto sovrapponibile ai valori osservati nei pazienti affetti da IIH (93,0 per cento) (12). La maggior parte dei soggetti studiati (86,4 per cento) aveva una OP superiore a 200 mmH2O, con una media significativamente più alta rispetto ai soggetti di controllo asintomatici ma, come atteso (27), inferiore a quella dei soggetti con diagnosi confermata di IIH con papilledema.
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In base ai criteri ICHD-II (26), il 70,4 per cento dei nostri pazienti poteva essere classificato come affetto da “Cefalea attribuita a IIH”, nonostante l’assenza di papilledema. Questi risultati indicano che nei soggetti con CM la refrattarietà alle terapie di profilassi predice strettamente la presenza sia di stenosi venose che di un’aumentata pressione intracranica. La normalizzazione della pressione intracranica mediante una singola sottrazione di liquor ha comportato il ritorno verso un pattern episodico degli attacchi della durata di almeno 2 mesi in oltre la metà dei pazienti (54,6 per cento) e di almeno 4 mesi in più di un terzo dei casi (38,6 per cento). Sia il numero complessivo di giorni/mese con mal di testa, sia il numero di giorni/mese con dolore invalidante, sono risultati significativamente inferiori ai follow up in confronto al baseline. Un drastico miglioramento del dolore subito dopo la puntura lombare o alla remissione della PLPH, sebbene perso precocemente in una parte dei casi, è stato osservato complessivamente nel 77,3 per cento del campione. Infine dopo recidiva, la maggior parte (7 su 9) dei responders a 2 mesi ha replicato il beneficio alla ripetizione della procedura. Queste osservazioni suggeriscono la presenza di uno stretto legame causale tra la sottrazione di liquor mediante puntura lombare e l’effetto clinico osservato. Il fatto che non vi siano state differenze tra il gruppo con terapia in atto e quello senza, indica che il trattamento di profilassi non influenza l’outcome clinico della procedura. Nessuno dei parametri valutati al basale (BMI, OP, volume di liquor sottratto, terapia di profilassi in atto) sembra predire l’efficacia a lungo termine della procedura. Il risultato di maggior rilievo di questo lavoro è che la stragrande maggioranza di soggetti con diagnosi specialistica di emicrania cronica refrattaria potrebbe essere affetto in realtà da una forma secondaria a IIHWOP. Questo implica che una IIHWOP clinicamente indistinguibile da una CM:
a. è una condizione molto più frequente rispetto a quanto finora ritenuto; b. è spesso erroneamente diagnosticata come emicrania cronica, in base ai criteri ICHD-2R; c. è strettamente associata a refrattarietà ai trattamenti preventivi. Inoltre questi dati indicano che la normalizzazione della pressione intracranica ottenuta mediante puntura lombare potrebbe rappresentare un’opzione efficace nei pazienti con emicrania cronica refrattaria di lunga durata, che rappresentano circa 1/5 del campione originario screenato. Tutti i soggetti da noi studiati presentavano una storia di emicrania episodica che era peggiorata nel tempo. In uno studio recente (25) un aumento dell’ICP associata a stenosi dei seni venosi era presente in oltre l’11per cento dei pazienti senza segni o sintomi di IIH. Dunque l’aumento dell’ICP non è una condizione sufficiente per lo sviluppo di cefalea cronica. Per contro, vi è evidenza che in circa la metà dei casi di emicrania cronica non sono identificabili stenosi venose nè aumento della pressione liquorale (7). Ciò indica che l’aumento dell’ICP non è una condizione necessaria per lo sviluppo di cefalea cronica. Infine, è stato osservato che la presentazione clinica dell’IIH con cefalea cronica potrebbe richiedere una predisposizione all’emicrania (29). Prese insieme, queste considerazioni supportano l’ipotesi alternativa (30) secondo cui una IIHWOP associata a stenosi venose, sebbene molto diffusa in soggetti asintomatici, rappresenta nei soggetti con predisposizione all’emicrania un importante fattore di rischio modificabile per la cronicizzazione e la refrattarietà del dolore. Prima che la procedura proposta possa essere trasferita nella pratica clinica è necessario che questi risultati siano confermati da uno studio randomizzato e controllato. Tuttavia noi proponiamo che una IIHWOP associata a
stenosi venose vada esclusa con indagini appropriate in tutti i casi con diagnosi specialistica di Emicrania Cronica refrattaria ed evidenza di stenosi venose all’MRV.
Limiti dello studio Il principale limite di questo lavoro è l’assenza di un gruppo di controllo per gli effetti clinici della puntura lombare. Questo aspetto, tuttavia, è almeno in parte bilanciato dall’elevata prevalenza (86,4per cento) di ipertensione intracranica riscontrata nel campione selezionato, dall’immediato miglioramento quasi sempre osservato subito dopo la puntura lombare (o alla risoluzione della PLPH) in soggetti caratterizzati da lunghe storie di cefalea invalidante su base quotidiana e infine, dalla riproducibilità dei benefici clinici ottenuti nei responders alla ripetizione della procedura dopo recidiva.
Considerazioni conclusive La maggioranza dei pazienti che ricevono una diagnosi di emicrania cronica refrattaria presso un centro specialistico potrebbe presentare un innalzamento della pressione intracranica, coinvolto nella cronicizzazione e nella refrattarietà del dolore. Una singola puntura lombare con sottrazione liquorale determina la remissione del dolore cronico sostenuta nel tempo in una significativa quota di questi pazienti. Ulteriori studi sono necessari prima che questa procedura possa essere trasferita nella pratica clinica. Tuttavia riteniamo che una IIHWOP andrebbe esclusa in tutti i pazienti con emicrania cronica refrattaria ai trattamenti con anomalie del flusso venoso cerebrale alla MRV.
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Scienze cognitive
LA NEUROESTETICA Il cervello visivo tra arte e percezione Gli artisti sono in un certo senso dei neurologi che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari. L’arte è quindi un’estensione della funzione del cervello. E l’artista è un neuroscienziato che esplora le potenzialità e le capacità del cervello con tecniche del tutto personali
I
l termine Aesthetica, dal greco aisthesis (sensazione) venne coniato dal filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten nel 1735, significando che “l’estetica è la scienza della conoscenza sensibile”. Per August Schmarsow (1853-1936) storico dell’arte tedesco e fondatore del Kunsthistorisches Institut di Firenze: “questo è appunto l’aisthesis, quella ricettività del nostro sistema nervoso, tenuta così in grande considerazione dai pensatori greci, nei confronti di stimoli ai quali dobbiamo tutte le nostre sensazioni e quindi le nostre esperienze vissute”. Da questo significato “antico” dell’estetica (ma così moderno e consonante per i neurologi di oggi), si muovono le riflessioni e i lavori del fondatore della neuroestetica, termine introdotto nel 2001 dal professor Semir Zeki, uno dei maggiori scienziati del cervello visivo dell’ultimo secolo. Nell’opera di Zeki la neuroestetica muove da tre premesse generali:
1) Le arti visive devono obbedire alle leggi del cervello visivo, sia nella fruizione sia nella creazione. 2) Le arti visive sono un’estensione del cervello visivo che ha la funzione di acquisire nuove conoscenze. 3) Gli artisti sono in un certo senso dei neurologi che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari. L’arte è quindi un’estensione della funzione del cervello. E l’artista è come un neuroscienziato che esplora le potenzialità e le capacità del cervello, con tecniche del tutto personali, coadiuvandolo nella comprensione del mondo. Come ha dichiarato Zeki: “La ragione per cui è stato fondato un Istituto di Neuroestetica non è stata quella di avere una disciplina neuroscientifica dedicata esclusivamente all’arte. La ragione è stata, piuttosto, quella di incoraggiare i ricercatori che volevano utilizzare l’arte per comprendere meglio come funziona il cervello e di offrire loro un luogo adeguato per potere svolgere questo lavoro”.
Enrico Grassi*, Pasquale Palumbo* Marco Aguggia** * *U.O. Neurologia, Ospedale di Prato; **U.O. Neurologia e Unità Ictus, Ospedale Cardinal Massaia, Asti
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La neurofisiologia della linea Il sensore visivo è molto importante per la sopravvivenza perché dà un’informazione rapida, molto più istantanea rispetto al messaggio verbale. Il cervello umano ha nella via sensoriale visiva una via privilegiata e più del 50 per cento dei neuroni della corteccia cerebrale risponde all’informazione proveniente degli occhi. Già nel Cambriano, più di 500 milioni di anni fa, si trovano nei trilobiti esempi di occhi molto sviluppati. Il linguaggio nasce molto dopo il sensore visivo, solo 30.000-40.000 anni fa, e solo recentemente, 5.000 anni fa, è nata la scrittura che non è un prodotto della natura dipendente da strutture innate come il linguaggio, bensì un prodotto culturale del cervello dell’uomo attraverso meccanismi di plasticità neurale che permettono l’apprendimento. Nel corso dei secoli molti artisti si sono chiesti se esistano degli universali delle forme, ossia degli elementi che costituiscono la parte essenziale di tutte le forme. Proprio questa ricerca ha portato all’emergere delle linee come forma predominante in molte opere d’arte moderna. Questa attenzione particolare alle linee non deriva da conoscenze geometriche profonde o da concettualizzazioni intellettuali degli artisti, ma semplicemente dagli esperimenti fatti da questi per ridurre l’insieme delle forme all’essenziale o, posto in termini neurologici, per cercare e trovare che cosa può essere l’essenza di una forma così come è rappresentata nel cervello. La linea ha un ruolo dominante nell’arte da molto tempo, prima della scoperta da
parte di Hubel e Wiesel (premi Nobel nel 1981) dei neuroni dedicati alla selettività dell’orientazione nel 1959. L’unica preoccupazione di queste cellule è che lo stimolo visivo sia orientato verticalmente, a prescindere da che cosa esso rappresenti (matita, righello, confine bianco/nero). La cellula si limita ad astrarre la proprietà della verticalità. Recenti scoperte della neurofisiologia hanno mostrato che nella corteccia visiva predominano cellule che reagiscono selettivamente alle linee con un’orientazione specifica: cellule selettive all’orientazione. Le cellule con preferenze comuni tendono a raggrupparsi insieme e a separarsi da quelle con altre preferenze. In particolare è stato visto che un gran numero di cellule nell’area V1 sono selettive all’orientazione, ma tali cellule costituiscono la maggioranza anche in altre aree visive come V2 o V3. Mondrian era molto meticoloso riguardo all’orientazione delle linee nelle sue opere. La sua avversione per la linea curva era nulla rispetto all’odio che provava verso la diagonale. Irritato dal fatto che Theo Van Doesburg (fondatore del gruppo de Stijl del Neoplasticismo) usasse diagonali, così gli scrisse: “Per il modo arrogante in cui hai usato la diagonale, ogni ulteriore collaborazione tra di noi è diventata impossibile. Quanto al resto, sans rancune”. In questo contesto assume una nuova luce l’osservazione di Joseph Jastrow che nel 1892 descrisse il fenomeno noto come effetto obliquo: osservatori con una vista normale sono più bravi nel percepire, discriminare e manipolare linee orizzontali e verticali, piuttosto che oblique. Senza un base neurobiologica come questa è difficile pensare all’esistenza dell’arte di Mondrian e a tanta arte contemporanea dove una composizione a “griglia” è fondamentale. Tali sistemi neurobiologici innati
1. Mondrian Rhythm of Black Lines (1935/42). Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf 2. Marcel Duchamp. Nudo che scende le scale, N. 2., 1912. Philadelphia Museum of Art
condizionano inevitabilmente il nostro mondo visivo e la nostra produzione artistica: ad esempio se noi non avessimo una visione tricromatica ma anche recettori per la luce U.V., come hanno taluni pipistrelli, forse avremmo sviluppato una U.V. art. Come ebbe a dire lo stesso Mondrian: “L’arte ci dimostra che esistono anche delle verità permanenti riguardo alle forme” (Quadro 1). Un altro esempio di come l’arte possa essere modellata sulla fisiologia dell’area cerebrale visiva si può trovare nella relazione tra arte cinetica - un’arte in cui il movimento reale è una componente dell’opera- e la fisiologia dell’area V5, specializzata per il movimento visivo. Alcune cellule di V5 reagiscono al movimento multidirezionale, ma un maggior numero è selettivo per una direzione orientata, cioè risponde al movimento in un verso, ma non a quello nel verso opposto o a nessun movimento. Tutte sono indifferenti al colore dello stimolo e molte sono indifferenti anche alla forma. Nello sforzo di privilegiare il movimento, l’opera degli artisti cinetici si sviluppò nella stessa direzione: accentuando il movimento e depotenziando la forma e il colore, adattando (senza saperlo) le loro creazioni cinetiche alla fisiologia dell’area V5 (Quadro 2). Come spiegò lo stesso Duchamp “Il nudo anatomico non esiste, o perlomeno non lo si può vedere, dal momento che ho scartato l’immagine naturalistica realizzando una ventina di rappresentazioni astratte di esso nei movimenti successivi della discesa”. In Rotating Snakes dello psicologo della percezione Akiyoshi Kitaoka (Quadro 3), la maggior parte degli osservatori nota un movimento rotatorio delle strutture circolari. Questo movimento non è oggettivamente
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Scienze cognitive parte dell’opera, in quanto in essa non vi è moto reale. Il movimento è, in verità, una produzione del nostro cervello. Come ha fatto notare Zeki, è come se “l’attività di V5 stesse imponendo certe proprietà fenomeniche” all’opera d’arte osservata, “proprietà che oggettivamente non esistono”. Recentemente un grande critico d’arte come John Onians ha coniato la parola Neuroarthistory per descrivere come si è passati dallo scrivere la storia dell’opera allo scrivere la storia della risposta all’opera, portando un attacco all’alterità dell’immagine artistica: “Neuroarthistory can be used both to better understand the nature of familiar artistic phenomena such as style, and to crack so far intractable problems such as “what is the origin of art”? Secondo Onians solo un approccio come quello fornito dalla Neuroarthistory può permettere di spiegare un secolare dibattito come quello di perché i pittori rinascimentali fiorentini anteponessero il ruolo del disegno e i veneziani quello del colore nelle loro creazioni. Concetti come “plasticità neurale” e “neuroni a specchio” permettono di comprendere la formazione di preferenze stilistiche visuali negli artisti antichi e moderni. Tali concetti ormai sono entrati a far parte dell’armamentario culturale sia del neuroscienziato che del critico e del filosofo d’arte. Tuttavia ancor prima delle tesi di Zeki la neuroestetica trova il proprio significato in una valenza ontologica. Ogni giorno apriamo gli
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3. Akiyoshi Kitaoka. Rotating Snakes (2003) 4. Gustav Klimt. Morte e vita (1911). Leopold Museum, Vienna
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occhi e creiamo il mondo; qualcosa là fuori, quelli che per convenzione vengono chiamati come oggetti, eccita i nostri organi di senso, e tale percetto viene elaborato dal nostro cervello, per vie in gran parte sconosciute, a configurare il dato fenomenico, la nostra realtà. Senza il nostro cervello visivo il colore non esisterebbe, così come non esisterebbe il suono senza i nostri organi di senso acustici. Noi creiamo quotidianamente il mondo esterno come il pittore crea la sua opera d’arte sulla tela o lo scrittore sulla pagina bianca. La percezione finale non sono i dati grezzi che arrivano ai miei sensi dal mondo esterno, ma è un’immagine che combina tutti questi segnali grezzi con la mia memoria millenaria del mondo. La mia percezione diventa una predizione di ciò che dovrebbe esserci là fuori, e tale predizione viene costantemente controllata dall’azione. Per questo la neuroestetica, ovvero lo studio delle basi neurobiologiche della creazione e della fruizione dell’opera d’arte rappresenta un modello sperimentale ideale per studiare tale fenomeno di smontaggio, elaborazione e riconfigurazione dei dati fenomenici che si chiama realtà. Ma le regole e i principi attraverso cui vengono configurati, strutturati e organizzati gli oggetti dell’esperienza percettiva variano sempre da specie a specie a configurare tante diverse realtà, oppure esistono alcuni principi-base inter-specie che ci permettono di focalizzare la luce per
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Scienze cognitive formare immagini? Forse a dispetto delle grandi diversità tra le varie specie (e le varie culture) ci sono probabilmente solo pochi modi per costruire sistemi percettivi efficienti, perché probabilmente le regole di funzionamento generali del cervello si assomigliano. A favore di questa seconda ipotesi c’è il dato che scimmie, pulcini e barbagianni sono capaci di percepire il triangolo di Kanizsa e completano amodalmente gli oggetti parzialmente occlusi (completamento amodale). Questo permette a tali specie di non vivere in un mondo visivo costituito da frammenti, ma di costituire immagini caratterizzate dalla presenza di figure segregate e ben distinte rispetto a uno sfondo grazie alla percezione di margini o bordi laddove la stimolazione fisica rileva delle differenze. Nel suo recente saggio “The Age of Insight”, Erik Kandel, un altro premio Nobel che si occupa dei rapporti tra arte e cervello, ha notato come in questo quadro di Klimt, Morte e vita, del 1911 (Quadro 4) i corpi delle figure scompaiono in una distesa di ornamenti, ma le nostre aspettative dei contorni corporei ci permettono di distinguere facilmente la figura dallo sfondo. Si determina cioè, quali segmenti di linea appartengono a un unico oggetto (o corpo) e quali siano componenti di altri oggetti nel contesto di una scena visiva complessa, composta da centinaia o addirittura migliaia di segmenti di linea. Questo ovviamente, richiede anche di avere una rappresentazione mentale molto nitida delle varie parti del corpo nello spazio. Come dice Richard Gregory “I nostri cervelli creano molto di ciò che vediamo, aggiungendo quello che dovrebbe
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are il contorno mancante. In questo caso i neuroni di V2 e V3 rispondono più a una linea virtuale che a una linea reale.
Considerazioni conclusive In conclusione, le ricerche sulle basi neurobiologiche della creatività artistica, pur essendo soltanto all’inizio promettono molte scoperte eccitanti. Le neuroscienze, oltre che con lo studio delle funzioni cerebrali attraverso le tecniche di neuroimaging e quelle di neurofisiologia, si potranno avvalere anche dello studio delle opere d’arte nelle loro varie espressioni, esse stesse manifestazioni della potenza creatrice del cervello.
Bibliografia
5. Gustav Klimt. Giuditta I (1901) Osterreichische Galerie Belvedere, Vienna
essere lì ...infatti… La percezione è un processo di attiva attribuzione di significato ai sensi, funzionale al comportamento immediato e alla pianificazione del futuro”. In questo altro quadro di Klimt, Giuditta I del 1901 (Quadro 5) siamo naturalmente portati a immaginare il profilo del collo anche se non c’è nulla nell’immagine, perché il nostro cervello utilizza il principio gestaltico di chiusura per cre-
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S p e c i a l e e p i l e ss i a
Glutammato ed epilessia
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Dal razionale fisiopatologico allo sviluppo di nuovi farmaci attraverso il meccanismo d’azione A cura di Valentina Franco1 ed Emilio Russo2 1. Unità di Farmacologia Clinica e Sperimentale, Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Università di Pavia 2. Cattedra di Farmacologia, Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Catanzaro
Il
glutammato può essere considerato il neurotrasmettitore più abbondante del sistema nervoso centrale (SNC); è stato, infatti, stimato come il 40% delle sinapsi cerebrali rilascino tale molecola. A tal proposito, si può asserire come un neurone che non risponda al glutammato non sia un neurone o sia morto. Il glutammato è un neurotrasmettitore eccitatorio e la sua interazione con recettori specifici è alla base della componente eccitatoria a livello sinaptico (Madden D.R., Nat Rev Neurosci 2002). Questa ampia distribuzione di target farmacologici potrebbe suggerire una bassa capacità selettiva dei modulatori glutammatergici, mentre è oggi più chiaro come la molteplicità dei suoi recettori e la loro variegata distribuzione/localizzazione diano ampi spazi di sviluppo. La liberazione sinaptica di questo importante neurotrasmettitore media risposte legate a funzioni quali memoria, controllo della funzione motoria e apprendimento. Un’alterata trasmissione glutammatergica sembrerebbe essere alla base di malattie degenerative (Alzheimer, Parkinson, Huntington) e svariate condizioni patologiche quali psicosi o crisi epiletti-
che. Un aumento delle concentrazioni extracellulari di glutammato può infatti, generare tossicità neuronale con conseguente formazione di lesioni eccitotossiche. Poiché le crisi epilettiche si presentano quando l’eccitabilità dei circuiti cerebrali eccede il controllo realizzato dai meccanismi inibitori, è comprensibile come un aumento nelle concentrazioni extracellulari di glutammato svolga un’azione facilitatoria sull’attività epilettica critica.
RECETTORI IONOTROPICI PER IL GLUTAMMATO A oggi sono stati identificati 24 geni responsabili della sintesi dei recettori per il glutammato che vengono classicamente suddivisi in due classi: i recettori ionotropi (recettori canale) e i recettori metabotropi a 7 domini trans-membrana (accoppiati a proteina G). I recettori ionotropi sono responsabili delle risposte sinaptiche rapide e sono rappresentati da complessi polimerici formati da 4 subunità che concorrono a formare un canale ionico la cui apertura è legata all’interazione con il glutammato. I recettori ionotropi per il glutammato
sono classificati in tre famiglie: 1) recettori per l’acido α-amino3-idrossi-5¬metil-4-isoxazolpropionico (AMPA); 2) recettori per il kainato 3) recettori per l’N-metil-D-aspartato (NMDA). Queste tre categorie di recettori per il glutammato differiscono in termini di cinetica di attivazione/inattivazione o desensitizzazione, permeabilità e conduttanza ionica. I recettori AMPA sono i principali recettori ionotropi per il glutammato localizzati a livello postsinaptico, espressi principalmente nella corteccia e nell’ippocampo e responsabili della componente rapida del potenziale postsinaptico eccitatorio. Sono composti dalle 4 subunità GluA1, GluA2, GluA3, GluA4 e sono generalmente altamente permeabili al Na+ e permeabili in maniera limitata al Ca2+ (Citraro R et al., Expert Opin Ther Targ 2014) (Figura 1). Dati di letteratura suggeriscono un ruolo chiave dei recettori AMPA nel danno cerebrale indotto da crisi prolungate ed evidenziano come i recettori AMPA che concorrono al danno eccitotossico siano quelli che non esprimono la subunità GluA2.
Figura 1. Rappresentazione schematica della subunità del recettore AMPA
possono produrre necrosi neuronale. La localizzazione dei recettori per il kainato segue uno specifico pattern nel SNC che corrisponde alla vulnerabilità di specifiche aree neuronali alle patologie neurodegenerative (striato, nuclei reticolari del talamo, corteccia cerebrale, nel giro dentato dell’ippocampo). I recettori per il kainato sembrano svolgere un ruolo importante nello sviluppo e nella plasticità del SNC in quanto alla nascita variano nel numero e nell’espressione delle diverse subunità; a ogni modo, a oggi le loro funzioni fisiologiche non sono completamente note.
GLUTAMMATO ED EPILESSIA: FOCUS SUI RECETTORI AMPA La maggior parte dei recettori AMPA nel SNC dei mammiferi contiene la subunità GluA2, caratterizzata dalla presenza di arginina a livello del dominio M2 e che conferisce ai recettori AMPA l’impermeabilità agli ioni Ca2+. L’attivazione dei recettori AMPA che esprimono la subunità GluA2 consente pertanto l’ingresso di ioni Na+ e K+, ma non di Ca2+. Il processo eccitotossico si realizza a livello dei recettori che non esprimendo tale subunità sono caratterizzati da aumentata permeabilità al Ca2+. In condizioni fisiologiche i recettori AMPA permeabili al Ca2+ sono espressi solo in specifiche aree (es. cellule della glia di Bergmann); a seguito di eventi patologici la composizione in subunità può cambiare e anche in altre aree i recettori AMPA possono diventare permeabili agli ioni Ca2+. A differenza dei recettori AMPA, i recettori NMDA mostrano una lenta cinetica di attivazione e sono responsabili della componente lenta del potenziale postsinaptico eccitatorio.
La loro apertura genera l’ingresso di ioni Na+, Ca2+ e K+ e richiede la simultanea azione di glutammato e glicina. L’attivazione dei recettori NMDA è inoltre condizionata dalla parziale depolarizzazione della membrana necessaria affinché lo ione Mg2+ che blocca il canale sia allontanato dal canale stesso. L’ingresso di Ca2+ mediato dal recettore NMDA ha effetti biologici importanti sul neurone: (1) attivazione della fosfolipasi A2 che determina un potenziamento del rilascio presinaptico e un inibizione dell’uptake gliale del glutammato; (2) attivazione della ossido nitrico (NO) sintasi; (3) attivazione dell’ornitina decarbossilasi che porta alla sintesi di poliamine con il risultato finale di potenziare l’influsso di Ca2+; (4) attivazione di una proteina chinasi C (PKC) che fosforila il recettore e regola il blocco del Mg2+. Più in generale gli effetti finali sono di tipo trofico (sinaptogenesi), di tipo regolatorio della trasmissione sinaptica (apprendimento e memoria) e infine effetti di tipo tossico che
Considerando la funzione sinaptica dei recettori AMPA nel SNC, risulta chiaro come questi recettori abbiano un ruolo prominente nella generazione e nel mantenimento delle crisi epilettiche (Citraro R et al., Expert Opin Ther Targ 2014). Il loro coinvolgimento è stato dimostrato in diversi modelli animali così come l’efficacia dei vari antagonisti di questi recettori. Molto rilevante per l’ambito clinico e preclinico è la correlazione patofisiologica fra i recettori AMPA e le crisi epilettiche in alcune sindromi come l’epilessia del lobo temporale; è stato, infatti, dimostrato come tali recettori siano sovraespressi nel cervello di pazienti con epilessia del lobo temporale farmacoresistente (Mathern et al. Brain 1997). Nel tessuto cerebrale di pazienti con epilessia sono state descritte variazioni nei meccanismi regolati dal glutammato e nelle proprietà delle sinapsi glutammatergiche. Tra le variazioni osservate nei pazienti con epilessia, si annoverano aumentati livelli di glutammato, ridotta espressione/attività
S p e c i a l e e p i l e ss i a della glutamina sintetasi e up-regulation dell’espressione/funzionalità dei recettori AMPA. Durante una crisi epilettica i livelli extracellulari di glutammato nell’ippocampo risultano essere aumentati di 6 volte rispetto ai livelli intercritici (30 volte i valori normali) persistendo marcatamente elevati per almeno 20 minuti dopo la risoluzione della crisi. Vollmar et al. (Neurobiol Dis 2004) hanno dimostrato un’alterazione nell’espressione di subunità GluA2 (recettori AMPA permeabili al Ca2+) sia nell’ippocampo che nella corteccia di pazienti epilettici indicando un’alterata trasmissione sinaptica e capacità eccitotossica che potrebbe stare alla base sia delle crisi epilettiche che delle alterazioni neurologiche correlate (es. declino cognitivo).
FARMACOLOGIA DEI RECETTORI AMPA Molecole in grado di antagonizzare i recettori AMPA, NMDA e kainato sono state proposte nel trattamento di numerose patologie psichiatriche o neurologiche. Lo sviluppo clinico di
antagonisti dei recettori NMDA ha dimostrato l’efficacia della memantina (antagonista non-competitivo) nella riduzione della sintomatologia nella malattia di Alzheimer, ma non ha portato a oggi all’approvazione di nuovi farmaci per il trattamento dell’epilessia principalmente a causa di uno sfavorevole rapporto rischio/beneficio (Memantine Study Group. N Eng J Med 2003; 384: 1333-1341). Farmacologicamente, si possono distinguere due tipi di antagonisti del recettore AMPA: 1) gli antagonisti che si legano in modo competitivo al sito di legame per il glutammato; 2) gli antagonisti non competitivi che si legano a un sito di legame allosterico diverso da quello di riconoscimento per il glutammato (Figura 2). La differenza principale fra i due tipi di antagonisti risiede nella possibilità che il blocco da parte degli antagonisti competitivi possa essere rimosso dalla presenza, a livello sinaptico, di concentrazioni molto elevate di glutammato; questo è possibile considerando la competizione per lo stesso sito di legame. Al contrario, gli antagonisti non competitivi,
legandosi a un sito di legame diverso da quello del glutammato non possono essere rimossi dal loro sito di legame e quindi continueranno a bloccare il recettore anche in presenza di alte concentrazioni di glutammato (Citraro R et al., Expert Opin Ther Targ 2014). Entrambi i tipi di antagonisti dei recettori AMPA hanno dimostrato di possedere un ampio spettro di attività anticonvulsivante in modelli animali di epilessia sia di tipo focale che di tipo generalizzato. Molti sforzi sono stati messi in campo per lo sviluppo di molecole con potenziale attività nell’uomo considerato l’elevato potenziale in sviluppo preclinico. Di questi, soprattutto gli antagonisti non competitivi hanno attratto l’attenzione dei ricercatori e delle aziende.
EFFICACIA CLINICA DEGLI AMPA ANTAGONISTI Recentemente sono stati pubblicati i risultati degli studi clinici sui primi farmaci antagonisti dei recettori AMPA in grado di inibire l’attività critica, riducendo la sovrastimolazione dei
Figura 2. Rappresentazione schematica delle differenze fra antagonisti competitivi e non competitivi
S p e c i a l e e p i l e ss i a recettori AMPA espressi in eccesso nel tessuto cerebrale di pazienti con epilessia. Alcuni dei farmaci antiepilettici attualmente utilizzati, tra i loro molteplici meccanismi di azione, possono anche essere considerati antagonisti dei recettori AMPA (es. fenobarbital, valproato, lamotrigina). Del numeroso gruppo di antagonisti del recettore AMPA sintetizzati e testati in preclinica, il primo studiato con maggiore interesse è stato il talampanel. L’efficacia e la tollerabilità di quest’ultimo negli studi clinici è stata ampiamente descritta. Nonostante la provata efficacia, il suo uso è stato complicato dall’insorgenza di eventi avversi (principalmente atassia), dalla breve emivita e dalle interazioni con altri farmaci antiepilettici. Lo sviluppo clinico di talampanel nel trattamento dell’epilessia sembra essere a oggi bloccato, ed è attualmente in fase di sperimentazione in studi clinici per il trattamento del glioblastoma e della sclerosi laterale amiotrofica (Russo et al., Expert Opin Invest Drugs 2012). Perampanel è a oggi l’unico antagonista non competitivo dei recettori AMPA ad aver completato con successo il programma di studi clinici di fase III, ed è dunque il primo antagonista dei recettori AMPA a essere stato approvato dalla European Medicine Agency e dalla Food and Drug Administration per il trattamento aggiuntivo delle crisi epilettiche parziali a partire dai 12 anni di età. Le prove sull’efficacia di perampanel nei pazienti con crisi a esordio parziale a partire dai 12 anni di età è derivato principalmente da tre studi di fase III, randomizzati, in doppio cieco, con placebo (studi 306, 304 e 305) (Franco V et al., Expert Opin Pharmacother 2014). Tutti gli studi avevano un disegno simile ed era prevista la monosom-
ministrazione giornaliera di perampanel (2-12 mg/die) con una fase di titolazione in cui la dose target è stata raggiunta con incrementi settimanali di 2 mg/die. I pazienti inclusi erano in trattamento con 1-3 farmaci antiepilettici. Secondo un’analisi dei dati dei tre studi randomizzati (n =1.478), le percentuali di responder (tutte le crisi parziali) a 4 mg/die (28,5%, n =172), a 8 mg/die (35,3%, n =431) e a 12 mg/ die (35,0%, n =254) erano significativamente maggiori rispetto al placebo (19,3%, n =441). L’analisi combinata ha anche dimostrato un significativo aumento del tasso di responder nei soggetti con crisi parziali con generalizzazione secondaria randomizzati a perampanel 8-12 mg/die. I dati a lungo termine derivanti dalla fase di estensione in aperto dei tre studi di fase III dimostrano che l’efficacia di perampanel si mantiene nel tempo. Safety di perampanel In generale, il perampanel è stato ben tollerato durante gli studi di fase III. La maggior parte degli eventi avversi era riferibile al SNC e di moderata intensità. Gli eventi avversi più comuni sono stati: sonnolenza, vertigini e cefalea. L’analisi cumulativa dei dati ottenuti dagli studi di fase III ha dimostrato che gli eventi avversi psichiatrici come aggressività e irritabilità sono stati più frequenti nel gruppo di trattamento con perampanel che con placebo. Effetti collaterali psichiatrici gravi come ideazione suicidaria e/o aggressività hanno avuto una frequenza di 0,9% nel gruppo placebo e 1,2% nel gruppo trattato con perampanel. Considerando gli eventi avversi responsabili dell’abbandono della terapia i più frequenti sono stati: vertigini, sonnolenza e convulsioni (Steinhoff et al., Epilepsia 2013).
CONCLUSIONI Il ruolo fisiologico e patologico dei recettori AMPA nel SNC e lo sviluppo di antagonisti dei recettori AMPA sono stati recentemente rivalutati sulla base del coinvolgimento di tali recettori nello status epilepticus e della recente autorizzazione all’immissione in commercio di perampaanel (Franco V et al., Expert Opin Pharmacother 2014). Una maggiore attenzione per tali recettori è inoltre supportata dal loro potenziale ruolo in diverse patologie neurologiche come la sclerosi laterale amiotrofica, la malattia di Parkinson, il glioblastoma multiforme e i gliomi. La necessità di nuovi farmaci antiepilettici rappresenta una grande sfida nel campo dell’epilessia. Tale necessità si basa sul bisogno di avere farmaci efficaci contro le crisi epilettiche refrattarie e farmaci in grado di influire sull’epilettogenesi. I recettori AMPA sono ampiamente distribuiti nel cervello e il loro potenziale come target terapeutico è stato suggerito molti anni fa. La possibilità di modulare tali recettori in modo sia competitivo che non competitivo rappresenta un grande vantaggio per la ricerca e la dimostrata efficacia in modelli preclinici ha supportato il loro sviluppo. La recente introduzione sul mercato di perampanel per il trattamento dell’epilessia offrirà la possibilità di ampliare le evidenze sulla reale potenzialità dell’antagonismo dei recettori AMPA in un contesto di pratica clinica. Fondamentale sarà la valutazione post-marketing di perampanel non solo in termini di efficacia (già evidente negli studi clinici), ma anche di tollerabilità.
la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!
Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.
www.medicoepaziente.it
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NEWS congressi XLV Congresso nazionale SIN, 11-14 ottobre - Cagliari
La diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative Una sfida per i Neurologi italiani Si è da poco conclusa la XLV edizione del Congresso della Società italiana di Neurologia, che per la prima volta quest’anno si è tenuto a Cagliari, presso la Fiera internazionale della Sardegna. È l’occasione dunque per fare un bilancio e di presentare una sintesi delle novità emerse nell’ambito del Meeting. I “numeri” anche quest’anno sono positivi, con oltre 2mila partecipanti che hanno affollato le numerose sessioni di aggiornamento, i workshop, i simposi. Da segnalare gli oltre 730 contributi presentati come poster, a testimonianza concreta della vivacità e del dinamismo della ricerca neurologica nel nostro Paese. Una ricerca che anche quest’anno si conferma a un alto livello di eccellenza, in ambito non solo nazionale.
“Le malattie neurologiche sono in costante aumento, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione ”, ha sottolineato il presidente della Società Aldo Quattrone. Si sta consolidando sempre più, e in questo i progressi diagnostici sono di grande aiuto, l’idea di trattare la malattia neurologica in una fase preclinica, con terapie il più possibile mirate, al fine di rallentare l’evoluzione e la progressione delle disabilità fisiche e cognitive che accomunano le patologie neurodegenerative, dal Parkinson, all’ictus, alla demenza,
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alla sclerosi multipla. Di seguito sintetizziamo le tematiche di maggiore rilievo emerse al Congresso. In tema di ictus, sono state presentate le linee guida ISO-SPREAD, che hanno come novità l’estensione della trombolisi agli ultra80enni, senza limiti di gravità. Sale così il numero di soggetti aventi diritto al trattamento, passando da 10mila a 14mila/anno. Attualmente la trombolisi è ancora poco praticata, o comunque i casi in cui viene effettuata sono ben al di sotto di quelli “aventi diritto”. Tale lacuna dipende in parte dal fatto che manca una distribuzione capillare delle Stroke unit, che dovrebbero essere 300, ma ce ne sono 170 e soprattutto al Centro e al Nord. Il divario potrebbe essere superato con la telemedicina, che dà l’opportunità ai PS periferici di avere un consulto “in diretta” con uno specialista vascolare di una Stroke unit, di un ospedale di riferimento, per la gestione di un paziente che si presenta con ictus. Per la prevenzione secondaria dell’ictus, sono state presentate ulteriori conferme sull’efficacia e sicurezza dei nuovi anticoagulanti orali, che nei pazienti con fibrillazione atriale hanno dimostrato un’effetto pari o superiore allo standard warfarin. In tema di epilessia, nuove prospettive si stanno aprendo grazie allo studio genetico, per l’individuazione di marcatori di farmacoresistenza e di suscettibilità per le “epilessie complesse”. In Italia ci sono circa 500mila epilettici, e di questi l’80-85 per cento risponde bene ai farmaci, ma rimane comunque
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esclusa una quota non indifferente. Da qui la necessità di individuare fattori in grado di orientare l’approccio terapeutico sulla base del “profilo genetico” della malattia. Le tecniche avanzate di analisi integrata dei segnali neurofisiologici e di imaging hanno aperto nuovi orizzonti nella comprensione dei circuiti cerebrali alla base delle crisi, permettendo anche lo sviluppo di “dispositivi” intracranici in grado di riconoscere precocemente le crisi e di bloccarle. Questi sistemi si rivelano di particolare utilità nei pazienti con epilessia parziale farmacoresistente.
La diagnosi pre-motoria nella malattia di Parkinson Certamente avere la possibilità di individuare precocemente la MP, rappresenterebbe una svolta nella terapia. Per prevenire la MP bisognerebbe effettuare una diagnosi precocissima, o per meglio dire pre-motoria, ancora prima cioè dell’esordio dei sintomi motori. In questa fase infatti potrebbero essere utilizzati farmaci neuroprotettivi in grado di modificare la storia naturale della malattia. Ma come fare? Va posta attenzione a disturbi non tipici della MP, come per esempio il deficit olfattivo, l’agitazione durante il sonno, la depressione, dolori a livello delle grandi articolazioni, l’ipotensione ortostatica. Tra questi, il più significativo è il disturbo comportamentale in sonno REM (con anomalie come urlare, scalciare, tirare pugni), che rientra tra i marcatori più affidabili di malattia. Tanto che
circa il 60 per cento dei pazienti con disturbo comportamentale in sonno REM (RBD) sviluppa la MP entro 10-12 anni. La diagnosi di RBD deve essere confermata da una registrazione poligrafica, che a oggi va eseguita in un centro ad alta specializzazione e richiede il ricovero del paziente almeno per una notte. In presenza di RBD, pur in assenza di sintomi specifici, il paziente dovrebbe essere sottoposto a una scintigrafia cerebrale (DAT-scan) per avere conferma della diagnosi. Queste indagini al momento sono altamente costose, e ciò rappresenta un ostacolo alla diagnosi precoce. Al Congresso è stato presentato un nuovo strumento portatile, una specie di Holter del sonno, di basso costo e di facile impiego che potrà permettere di effettuare una registrazione poligrafica a domicilio. L’enorme vantaggio di questo strumento è proprio legato alla possibilità di effettuare una diagnosi precoce a un costo sostenibile e senza disagio per il paziente; tanto più la MP viene individuata precocemente e correttamente, tanto maggiori sono i vantaggi offerti dalla terapia con farmaci neuroprotettivi in grado di controllarne l’evoluzione.
Malattia di Alzheimer: verso l’individuazione di una fase prodromica Ampio spazio è stato dedicato anche alle opportunità di diagnosi precoce nell’Alzheimer, addirittura in una fase preclinica, offerte dai marcatori biologici dei processi di neurodegenerazione. È stato presentato un documento congiunto elaborato da specialisti SINDEM e AIP, attualmente in fase di pubblicazione, che suggerisce le raccomandazioni per una diagnosi precoce. L’individuazione precoce si basa sulle neuroimmagini strutturali (RMN), funzionali (PET con studio del metabolismo cerebrale) e sull’analisi delle proteine coinvolte nella neurodegenerazione mediante PET con traccian-
ti per la beta-amiloide o mediante un dosaggio della stessa e della proteina Tau nel liquor. Le nuove possibilità diagnostiche date dal profilo liquorale e dalla PET metabolica e con traccianti permettono di anticipare la diagnosi di anni, portando al costrutto ancora in fase di validazione di malattia di Alzheimer prodromica, cioè una condizione di deterioramento cognitivo lieve con biomarcatori positivi, ma in assenza di demenza conclamata. Questo concetto ha insita una problematica non indifferente, di natura etica, relativa alle modalità di comunicazione con il paziente. Come per il Parkinson, anche nella MA la diagnosi precoce potrebbe essere di aiuto per organizzare l’assistenza e il piano di trattamento dei malati. Esistono alcune strategie terapeutiche in fase avanzata di sperimentazione, che se attuate in fase precoce potrebbero modificare il decorso della malattia. Queste terapie sperimentali hanno come bersaglio la beta-amiloide e ne bloccano l’accumulo o inibendone la produzione o rimuovendola con anticorpi. Va sottolineato che poter individuare con largo anticipo i soggetti che possono essere colpiti da Alzheimer significa poter
prendere in carico il paziente fin dalle primissime fasi di malattia e garantire un migliore e adeguato livello di assistenza. Concludendo possiamo dire che il messaggio finale che deriva da queste tematiche affrontate nell’ambito del Meeting di Cagliari è abbastanza nitido e ottimistico: si intravede ora la possibilità di intervenire per modificare il decorso di patologie un tempo ritenute incurabili, ma solo con diagnosi sempre più precoci e con interventi terapeutici mirati altrettanto precoci o preventivi. Senza dimenticare che questo tipo di strada porta con sé un carico etico tutt’altro che trascurabile.
Sclerosi multipla l’era della terapia personalizzata
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e evidenze solide dell’importanza di un trattamento nelle fasi più precoci di malattia e la disponibilità di farmaci sempre più innovativi stanno rivoluzionando l’approccio al paziente con sclerosi multipla (SM). Questi temi hanno fatto da filo conduttore a due simposi promossi da Genzyme, Società del Gruppo Sanofi, nell’ambito del Meeting SIN di Cagliari. L’importanza del trattamento precoce è stata ben illustrata da Maria Trojano, dell’Università degli Studi di Bari, che
ha sottolineato l’esistenza di una relazione tra infiammazione-ricadute e danno assonale-neurodegenerazione. Un trattamento specifico delle ricadute nelle primissime fasi di malattia ha un impatto sulla disabilità a lungo termine. Il danno assonale è il substrato principale della disabilità permanente, ed è collegato all’infiammazione. Oggi, accanto ai farmaci di “vecchia data”, disponiamo di molecole innovative e molto potenti che bene si adattano ad impostare un trattamento su misura,
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NEWS congressi XLV Congresso nazionale SIN, 11-14 ottobre – Cagliari
basato su una valutazione complessiva dei fattori prognostici che permette di individuare i soggetti con maggiore probabilità di un esito negativo, e che dunque sarebbero i più adatti ad affrontare un trattamento più aggressivo. In questo ambito è stato introdotto il concetto dell’induzione selettiva. Ne ha parlato il professore londinese Gavin Giovannoni. In una fase iniziale, è opportuno selezionare attentamente gli obiettivi sensibili e colpirli con i mezzi più efficaci allo scopo di ottenere il miglior beneficio, in tempi rapidi. L’induzione selettiva consente una remissione di lunga durata perché ha come target le cellule linfocitarie divenute autoreattive. Ne è un esempio alemtuzumab (ALM), un anticorpo monoclonale che colpisce in modo selettivo CD52, proteina abbondantemente presente sulla superficie delle cellule T e B. Il trattamento determina la deplezione delle cellule T e B circolanti, ritenute responsabili del dannoso processo infiammatorio tipico della SM, e allo stesso tempo ha un impatto minimo sulle altre cellule immunitarie. L’acuto effetto antinfiammatorio di ALM è seguito immediatamente dal ripopolamento delle linee cellulari con tempistiche diverse e distintive che si protrae nel tempo, come dimostrato negli studi fino a cinque anni. Questa particolarità del meccanismo d’azione di ALM potrebbe spiegare, senza esaurire, i dati di efficacia mantenuti nel lungo termine, pur in assenza di trattamento. Il farmaco infatti, presenta un innovativo schema posologico, che consiste in 5 somministrazioni ev consecutive e dopo 12 mesi, 3 somministrazioni ev consecutive; successivamente la maggior parte dei pazienti (70 per cento) non ha bisogno di ulteriori trattamenti, ma di rimanere complianti al monitoraggio previsto per la sicurezza del paziente. ALM ha evidenziato in pazienti naive una significativa diminuzione del tasso
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annuale di ricadute (ARR), dell’ordine del 56 per cento, rispetto a IFNB-1a, e un impatto positivo sull’accumulo di disabilità sostenuta (riduzione del 50 per cento). Altro aspetto di rilievo è l’efficacia sulla disabilità preesistente. Al momento è il primo e unico farmaco ad aver dimostrato un miglioramento del punteggio EDSS, scala che misura la disabilità raggiunta dal paziente nel corso della malattia, rispetto al comparatore attivo, in 2 studi clinici su 3. I pazienti in ALM hanno maggiore probabilità di essere liberi da attività di malattia sia clinica che radiologica. ALM ha effetti positivi anche sull’atrofia cerebrale: negli studi CARE-MS I e CARE-MS II verso IFNB-1a ad alto dosaggio, nei pazienti in ALM è stata osservata una riduzione del 42 e del 23 per cento rispettivamente, a 2 anni del BPF (brain parenchymal fraction). Nell’ottica del trattamento precoce, cioè fin dalle primissime manifestazioni di malattia, si collocano gli interventi di Diego Centonze, dell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma, e di Giancarlo Comi, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. I relatori hanno presentato i dati di sicurezza ed efficacia di teriflunomide (TERI), farmaco orale di recentissima introduzione, indicato per le forme recidivanti di SM, in singola somministrazione orale giornaliera, al dosaggio di 14 mg. La molecola agisce inibendo un enzima mitocondriale (DHODH) coinvolto nella sintesi delle pirimidine. I trial TEMSO e TOWER hanno evidenziato la superiorità di TERI vs placebo nel ridurre l’ARR del 32 e del 36 per cento rispettivamente. L’efficacia è emersa anche sul rischio di progressione della disabilità all’EDSS. Merita di essere segnalato il trial TOPIC, in cui il farmaco (al momento l’unico orale peraltro) è stato testato in pazienti CIS: al dosaggio di 14 mg, corrispondeva una riduzione del 43 per cento del rischio di conversione verso la forma clinicamente definita. Nello
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studio TENERE, TERI è risultato sovrapponibile per efficacia al gold standard (IFNB-1a), ma superiore in termini di preferenza da parte dei pazienti, data la semplicità nello schema di somministrazione. L’effetto del trattamento inoltre si mantiene nel tempo, come dimostrano gli studi di estensione fino a 9 anni. I dati sulla safety sono solidi, con una frequenza di eventi avversi per TERI che è risultata sovrapponibile a quella del placebo negli studi clinici registrativi: esiste un effetto di sofferenza sul fegato che spesso regredisce in corso di trattamento, ma comunque meritevole di monitoraggio. Se dobbiamo fare un bilancio dei trattamenti disponibili, ogni farmaco possiede vantaggi e svantaggi, ha sottolineato il prof. Comi. Ci sono gli iniettabili, farmaci ben conosciuti da anni, e poi ci sono i nuovi arrivati. Dal TOPIC emerge una conclusione importantissima: TERI ha un profilo che lo colloca come candidato per un uso nelle fasi molto precoci di malattia, con effetto sovrapponibile a quello di IFNB-1a. Il vantaggio di TERI è che va a inserirsi esattamente sul meccanismo patogenetico della malattia, e questo è fondamentale nelle fasi iniziali. Similmente ALM il cui meccanismo d’azione ha un target ben preciso su cellule da sempre chiamate in causa nella patogenesi della malattia e che per i risultati che ha dimostrato nei confronti di un comparatore attivo sia nel breve che nel lungo periodo, si colloca a pieno titolo nell’armamentario terapeutico futuro. In conclusione, la terapia della SM si arricchisce di farmaci dal meccanismo d’azione innovativo, che vanno impiegati in maniera adeguata. La strategia dovrebbe essere quella di “trattare immediatamente, a diagnosi certa, e in maniera adeguata” con tutte le risorse disponibili, informando e condividendo sempre la scelta terapeutica con il paziente e responsabilizzandolo sulla scelta stessa.
Il ruolo dei cannabinoidi nella spasticità da sclerosi multipla Esperienze cliniche con THC-CBD spray oromucosale e valutazioni elastosonografiche, neurofisiologiche e della deambulazione
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i è svolto nell’ambito del XLV Congresso SIN il simposio organizzato da Almirall sulle nuove evidenze cliniche nell’uso dello spray oromucosale a base di THC (9-tetraidrocannabinolo) e CBD (cannabidiolo). L’incontro è stata un’occasione per ripercorrere i meccanismi patofisiologici della spasticità e sintomatologia a essa correlata nella sclerosi multipla (SM), e il ruolo dei cannabinoidi nell’alleviare questo corredo sintomatologico che interessa l’85 per cento dei pazienti. Come ha ricordato Diego Centonze, direttore dell’UOSD Centro per la Sclerosi Multipla dell’Università Tor Vergata di Roma, la spasticità associata alla SM è da ricondurre a un’ipereccitabilità dell’arco neurale del riflesso da stiramento, secondaria a una lesione del tratto corticospinale. In risposta a tale lesione si verificano due tipi di alterazioni: un aumento della densità degli input eccitatori glutammatergici da parte delle fibre 1A afferenti ai motoneuroni alfa, e un’attivazione microgliale che comporta il rilascio di mediatori infiammatori, in particolare TNF-alfa, a cui consegue un incremento della trasmissione glutammatergica. Il sistema endocannabinoide, che regola gli input glutammatergici verso i motoneuroni, subisce una down-regulation nei disordini neuroinfiammatori come la SM. Il coinvolgimento di questo sistema nei meccanismi patofi-
siologici della spasticità è stato dimostrato in modelli sperimentali di SM. La stimolazione dei recettori cannabinoidi CB1 è in grado di ridurre la trasmissione glutammatergica da parte delle fibre 1A afferenti ai motoneuroni, e di bloccare gli effetti della microglia attivata e dei mediatori infiammatori sulla trasmissione glutammatergica. Un altro meccanismo per il controllo della spasticità vede implicata la modulazione della plasticità sinaptica a livello della corteccia motoria. Come illustrato dal Dr. Centonze, alcune evidenze indicano che gli effetti antispastici dello spray oromucosale THC:CBD sono associati a un aumento della long-term potentiation a livello corticale, una forma di plasticità sinaptica che richiede la stimolazione dei recettori CB1. Ma la spasticità nella SM è accompagnata da un corteo sintomatologico più ampio. Ne fanno parte la rigidità, gli spasmi, il dolore, i problemi urinari, i disturbi del sonno e una ridotta autonomia alla deambulazione che è uno dei principali fattori di disabilità e di compromissione della qualità di vita. L’effetto sulla deambulazione del trattamento con spray oromucosale THC:CBD è stato studiato in alcuni pazienti con l’ausilio di un modello biomeccanico per l’analisi del movimento. In alcuni casi clinici presentati da Giancarlo Coghe, del Centro Sclerosi Multi-
pla ASL 8 e Università di Cagliari, è stato evidenziato il miglioramento alla deambulazione ottenuto in alcuni pazienti, testimoniato per esempio dall’aumento della cadenza (numero di passi al minuto) e della velocità del cammino. I soggetti nei quali non è stato registrato un miglioramento funzionale della deambulazione, hanno manifestato comunque una soddisfazione soggettiva per il trattamento, verosimilmente da ascrivere alla riduzione degli spasmi, del dolore e degli altri sintomi che caratterizzano la spasticità da SM. Una metodica per valutare in modo oggettivo l’effetto del trattamento con spray THC:CBD sulla spasticità è stata presentata da Giovanni Illomei di Cagliari (Studio Radiologico del Corso). Si tratta dell’elastosonografia (real time elastosonography), tecnica ecografica avanzata che consente di studiare l’elasticità dei tessuti. A differenza delle scale soggettive (tipo scala di Ashworth) di solito usate per valutare la spasticità, questa metodica di imaging consente una valutazione oggettiva, che risulta utile per esempio nel follow-up dei pazienti e nella valutazione dei “non responder”. Utilizzata su un gruppo di 48 soggetti per un controllo dopo 4 settimane di trattamento con lo spray THC:CBD, l’elastosonografia (eseguita sul muscolo retto femorale) ha evidenziato nella totalità dei trattati un miglioramento dell’elasticità muscolare con riduzione del grado di spasticità. Un’altra misurazione oggettiva strumentale della spasticità è quella effettuata attraverso la valutazione neurofisiologica del riflesso da stiramento (stretch reflex). Secondo Lucio Marinelli, ricercatore presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Genova, la registrazione dello stretch reflex permette una valutazione quantitativa dello specifico meccanismo neurofisiologico alla base della spasticità. Senza fare ricorso a strumentazione ingegnerizzata, ma utilizzando solo un elettro-
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NEWS congressi XLV Congresso nazionale SIN, 11-14 ottobre – Cagliari miografo e un metronomo, è possibile valutare la sola spasticità ottenendo misure quantitative riproducibili del riflesso da stiramento. La bassa variabilità e precisione della metodica permette confronti pre e post trattamento anche se si dispone di un numero ridotto di
pazienti. La sensibilità di questa misurazione è spesso superiore e comunque mai inferiore alla valutazione clinica. Si tratta di una metodica rapida (meno di 30 minuti), indolore, economica, scevra da errori interpretativi, da effetto placebo o da valutazioni soggettive. (p.p.)
Neuroinfiammazione e malattie neurologiche: le nuove frontiere della terapia
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a neuroinfiammazione è alla base di numerose patologie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer e autoimmunitarie come la sclerosi multipla. Processi attivi di neuroinfiammazione sono anche associati a condizioni di dolore cronico e/o neuropatico e si evidenziano nelle fasi successive a eventi traumatici o ischemici (per esempio ictus) e in condizioni patologiche di natura psichica (disturbi dell’umore, autismo). Alla comprensione dei meccanismi biologici e molecolari alla base della neuroinfiammazione, nell’ambito del Congresso SIN di Cagliari, è stato dedicato un simposio promosso da Epitech Group. Il professor Sabatino Maione, dell’Università di Napoli ha illustrato in maniera esaustiva le recenti acquisizioni in questo ambito soffermandosi sulle opportunità offerte da alcuni agenti terapeutici emergenti per contrastare la neuroinfiammazione che sono inclusi nella categoria degli “Alimenti a Fini Medici Speciali”. È importante ricordare, sottolinea il prof. Maione, che in ambito neurologico e psichiatrico vi è una crescente richiesta di soluzioni terapeutiche alla quale l’industria non riesce ancora a dare una risposta adeguata. Per molti principi attivi la sperimentazione viene bloccata già nelle primissime fasi della ricerca e, spesso, le molecole che giungono a stadi
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avanzati di sperimentazione hanno più effetti avversi rispetto a quelle tradizionalmente impiegate. Per questo, la comprensione dei meccanismi neurobiologici di base è indispensabile per individuare nuovi target terapeutici e dare risposte concrete ai bisogni non ancora soddisfatti. Una svolta nella ricerca sui meccanismi della neurodegenerazione è rappresentata dall’intuizione che non solo i neuroni, ma anche cellule immunitarie quali microglia e mastociti, e altre cellule non neuronali come gli astrociti, siano coinvolte nei processi di morte neuronale. Il tessuto nervoso ha un’organizzazione molto complessa, con diversi citotipi, residenti e non nel SNC, che interagiscono in maniera continua per garantire l’omeostasi tissutale. Il neurone, dunque, non è “protagonista assoluto” di ciò che avviene nel sistema nervoso, né unico potenziale target farmacologico. Il neurone è al centro di un network funzionale dinamico, la sua attività e il suo stato dipendono dalla continua comunicazione con le cellule non neuronali. La disregolazione delle cellule non neuronali ha, pertanto, un ruolo cruciale nello sviluppo e nell’evoluzione di molteplici condizioni patologiche del SNC. In seguito a stimoli nocivi, il mancato controllo dell’attivazione microgliale porta a neuroinfiammazione persistente che danneggia i
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neuroni. Le connessioni della microglia con i mastociti, residenti e non nel sistema nervoso centrale, amplificano i processi di neuroinfiammazione pilotati dalla microglia. Il determinante, dunque, sembra proprio essere l’asse microglia-mastociti e la possibilità di regolarlo si sta rivelando un’importante opportunità per limitare lo sviluppo della neuroinfiammazione che sottende numerose patologie del SNC. Un approccio terapeutico emergente che si sta rivelando particolarmente promettente nel controllo della neuroinfiammazione è l’impiego della Palmitoiletanolamina (PEA), una molecola lipidica la cui biodisponibilità è favorita da opportune tecniche di micronizzazione. Si tratta di una aciletanolamide endogena in grado di esercitare un controllo sui processi neuroinfiammatori pilotati dalle cellule non neuronali. La PEA viene sintetizzata “su richiesta” principalmente da cellule non neuronali al fine di garantire la neuroprotezione del tessuto nervoso, e i suoi livelli possono, pertanto, subire variazioni significative in caso di danno del tessuto nervoso. Ciò avviene, ad esempio, in seguito a episodi ischemici cerebrali oppure di perdita della connessione delle vie neuronali. Alterazioni delle concentrazioni di PEA sono state osservate anche nella sclerosi multipla e nella malattia di Hungtington. La PEA endogena favorisce la risoluzione della neuroinfiammazione attraverso il controllo di mastociti, microglia e astrociti, attivati in seguito a stimoli di diversa natura. L’efficacia della PEA esogena è stata dimostrata in molti studi sperimentali e in diverse condizioni cliniche. Gli studi clinici hanno anche evidenziato l’ottimo profilo di tollerabilità di questa molecola. È stato, infine, riportato che la PEA, nella forma di ultramicrocomposito ottenuto dalla ultramicronizzazione simultanea della PEA insieme alla Luteolina (un flavone con elevato potere antiossidante), ha una maggiore potenza. È stato,
infatti, osservato che in questa forma le due molecole agiscono in sinergia, unendo l’attività antinfiammatoria e neuroprotettiva della PEA alle proprietà antiossidanti della Luteolina. Nel complesso, i risultati ottenuti con l’ultramicrocomposito PEA-luteolina (PE-
ALut®) suggeriscono l’identificazione di un’importante e innovativa strategia per contrastare la neuroinfiammazione pilotata dal cross-talk glia-mastociti e aprono una nuova prospettiva per prevenire il danno neuronale e la sintomatologia correlata.
Il bilanciamento del rapporto efficacia/sicurezza nella terapia della sclerosi multipla Il rischio terapeutico e la responsabilità professionale del medico
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a valutazione del rapporto rischio/ beneficio di un trattamento è un momento cruciale non solo nel processo di scelta terapeutica, ma anche nel capitolo che riguarda la responsabilità professionale del curante. A questo tema, più che mai attuale, era dedicato un simposio, organizzato da Merck Serono nell’ambito del congresso SIN. Come ha notato Diego Centonze, dell’Università Tor Vergata di Roma, molti sono i fattori di cui il neurologo deve tenere conto nella valutazione del rapporto efficacia/sicurezza: i goal terapeutici a breve e lungo termine, la severità della malattia e della prognosi, la qualità della vita del paziente, la sostenibilità dei costi a lungo termine, l’accettazione della diagnosi e della necessità delle cure da parte del malato, le ultime evidenze cliniche pubblicate in letteratura, lo stato cognitivo del paziente e la sua attitudine verso il rischio, la disponibilità reale dei farmaci sul mercato locale, i profili rischio/ beneficio dei diversi principi attivi. Negli ultimi anni si è aperta una nuova era della sclerosi multipla (SM): gli attuali criteri diagnostici permettono di effettuare una diagnosi sempre più
precoce e quindi di ottenere maggiori benefici dai trattamenti, rispetto al passato. Come osserva Centonze, gli attuali pazienti sembrerebbero essere più sensibili delle popolazioni precedenti al trattamento con IFN beta-1a, e la tollerabilità e il profilo di rischio di questo farmaco sono oggi ben conosciuti. È evidente come negli studi clinici con IFN beta-1a (44 µg sc 3 volte alla settimana) nella SMRR, ci sia stata una riduzione notevole del tasso di ricadute, se si considerano i trial eseguiti negli anni ‘90, PRISMS (1994) ed EVIDENCE (1999), rispetto a quelli più recenti, con pazienti diagnosticati secondo i nuovi criteri di McDonald: CAMMS (2002), REGARD (2004) e TENERE (2009). Vecchi e nuovi farmaci presentano pro e contro. Tra i vantaggi dei nuovi agenti, la somministrazione orale; e tra gli svantaggi il monitoraggio più complesso degli effetti collaterali, la sicurezza a lungo termine non provata, lo spettro di tossicità e le possibili interazioni farmacologiche da conoscere più a fondo. Gli effetti collaterali dei farmaci sono tanti e noti, ed è essenziale che siano comunicati tempestivamente alla comunità scientifica e ai pazienti. Un con-
cetto ben chiaro anche nel diritto, ha spiegato Mirella Gherardi, medico legale, è che il rischio di un trattamento si gestisca bilanciandolo con i benefici in gioco, sulla base di evidenze validate. La valutazione e il bilanciamento devono essere condivisi con il paziente, per portare alla costruzione di un’alleanza terapeutica e quindi alla condivisione del rischio. L’atteggiamento corretto da parte del neurologo dovrebbe evitare sia il paternalismo, sia l’eccessiva autonomia del paziente di fronte alla scelta. L’esperta ha presentato un caso di non corretta gestione e condivisione con il paziente della scelta terapeutica, che ha dato luogo a un procedimento giudiziario, nel quale proprio la mancata comunicazione di un evento avverso noto, relativo a un farmaco per la SM, costituiva uno dei capi di accusa. In breve, ecco una sorta di “vademecum” sulla base delle osservazioni della dottoressa Gherardi: la scelta terapeutica deve essere ponderata, alla luce del bilanciamento efficacia/sicurezza e delle evidenze accreditate dalla comunità scientifica; l’informazione fornita al paziente deve essere la più esaustiva possibile, nella prospettiva della costruzione di un’alleanza terapeutica, che oltre a favorire l’aderenza al trattamento rappresenta la base per un processo di rischio condiviso; tutti i nuovi rischi emersi dalla sperimentazione clinica su un determinato trattamento devono essere comunicati al paziente (l’omissione di qualche informazione può essere oggetto di successive contestazioni); è necessario fermarsi quando il paziente è contrario; l’iter informativo effettuato e la volontà del paziente di non proseguire la terapia devono essere documentati, di fronte a testimoni (un collega, un parente dell’interessato) con testo scritto e firmato anche dal paziente. Eventuali valutazioni in sede giuridica verranno effettuate a distanza di anni dagli accadimenti, pertanto è necessario disporre di documentazione scritta. (p.p.)
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NEWS farmaci Disturbi del sonno La melatonina, un valido aiuto per equilibrare il ritmo del sonno
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a melatonina è una piccola molecola prodotta dalla ghiandola pineale, che ha diverse funzioni fisiologiche. La principale riguarda la regolazione del sonno e dei ritmi circadiani, funzione che esplica legandosi a recettori presenti in vari tessuti dell’organismo. La sua produzione viene stimolata dall’assenza della luce, quindi alla sera, per poi avere un picco massimo durante la notte e tornare a livelli più bassi al mattino. La sintesi di melatonina può, però, subire un calo a causa di invecchiamento, stress, esposizione a campi elettromagnetici o assunzione di farmaci (FANS, beta-bloccanti ecc.). Può capitare anche, che la produzione di melatonina subisca uno sfasamento rispetto al fisiologico picco nelle ore centrali della notte. Questo può avvenire a causa di una scarsa igiene del sonno, turni di lavoro notturni, jet lag. Il risultato è una difficoltà nell’addormentamento o il susseguirsi di risvegli indesiderati durante la notte. Le conseguenze sono un peggioramento della qualità di vita, difficoltà a concentrarsi e cali della memoria, nonché aumento dei disturbi metabolici e indebolimento delle difese immunitarie. Per questo Nathura ha sviluppato Armonia®, la linea di integratori alimentari a base di melatonina che contribuisce a regolarizzare il ritmo del sonno. Armonia® è disponibile in tre diverse formulazioni. Armonia® Retard, a rilascio controllato, utile in caso di sonno disturbato e risvegli notturni. Armonia® Fast, a rilascio immediato, contribuisce alla riduzione del tempo richiesto per prendere sonno e ad alleviare gli effetti del jet lag. Disponibile in compresse e nel nuovo formato in gocce pratico e comodo per anziani e bambini, e personalizzabile nel dosaggio. E, infine, Armonia® Oro, la nuova formulazione oromucosale ad assorbimento rapido, in compresse sublinguali, per favorire l’addormentamento e il riaddormentamento. Inoltre Armonia® è melatonina certificata: un’esclusiva certificazione di prodotto ne garantisce un grado di purezza non inferiore al 99,9 per cento (Certiquality - Documento Tecnico n° 60 - certificato n° P1390).
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Sclerosi multipla Un progetto per favorire il dialogo tra neurologo e paziente
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a comunicazione ha un ruolo fondamentale nella gestione del paziente affetto da sclerosi multipla (SM). Su questo presupposto è stato sviluppato un progetto, da parte di Merck Serono, volto a migliorare lo scambio di informazioni e il dialogo tra lo specialista neurologo e il malato di SM. MSdialogTM è una via di comunicazione digitale e interattiva che accompagna l’evoluzione della qualità di vita dei malati. Si tratta di un innovativo dispositivo medico web-based che consente alle persone con SM, che utilizzano RebiSmart® 2.0, di rispondere a questionari basati su scale validate a livello internazionale sul proprio stato di salute psicofisico, e ai neurologi di verificarli, confrontandoli poi con l’aderenza alla terapia. Una volta che il paziente avrà inserito le risposte via web o sulla app il sistema le renderà visibili in forma di grafico e il neurologo potrà accedervi con un semplice “click” entrando nel sito di MSdialog. RebiSmart® 2.0 è la nuova versione del dispositivo lanciato nel 2009 per l’autosomministrazione di interferone beta-1a sc. Il dispositivo è in grado di personalizzare l’iniezione sc e di registrare lo storico delle somministrazioni. Con RebiSmart® 2.0, il paziente può trasmettere al medico, direttamente dal proprio domicilio, i dati relativi alla terapia utilizzando una SIM card che gli viene fornita quando aderisce al sistema. MSdialogTM e RebiSmart® 2.0 possono quindi aggiungere maggior valore al dialogo nel trattamento della SM.
Parkinson: nuovo strumento per la diagnosi precoce
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el Parkinson, l’ecografia del parenchima mesencefalico evidenzia alcune anomalie della substantia nigra (SN), prima ancora che i segni tipici della malattia si manifestino. Tali aree iperecogene sono rilevabili nel 90 per cento dei pazienti e consentono una corretta diagnosi differenziale in fase precoce, con elevate sensibilità e specificità. Questa ricerca italiana (Sanzaro E et al. J Ultrasound Med 2014; 33: 1635-40), su 60 pazienti, mette a fuoco alcune caratteristiche salienti finora mai osservate, che confermano quanto già evidenziato con studi funzionali. Infatti, le aree di alterata ecogenicità della SN, riferibili a depositi di ferro e ferritina, tendono a estendersi nel corso della malattia e indicano che il processo degenerativo conduce alla costante perdita di cellule nigrali. Il carico lesionale nigrale, ottenuto dalla somma di 4 distinte misurazioni a livello dei collicoli mesencefalici superiori e inferiori, ha un valore nettamente inferiore nei pazienti nello stadio 1 Hoehn e Yahr, rispetto ai pazienti in stadio 2 e 3. Lo studio del parenchima mesencefalico consente non solo di disporre di un valido biomarker (iperecogenicità della SN), ma anche di acquisire una reale stima del danno (carico lesionale nigrale), sovrapponibile alla disfunzione nigro-striatale evidenziata con DaTScan.
o ic d e M il r e p iĂš p in to n e m Un stru Il supplemento te, di Medico e Pazien destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo
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NEWS farmaci osservatorio aiipa
Secondo uno studio il resveratrolo avrebbe effetti positivi sulla memoria
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l resveratrolo è una molecola contenuta principalmente nella buccia degli acini dell’uva e in misura minore nel vino rosso ed è da molti anni studiata, inizialmente soprattutto per le sue proprietà antiossidanti. Secondo un nuovo studio pubblicato sul Journal of Neuroscience (Witte AV et al. Journal of Neuroscience 2014; 34 (23): 786270) e segnalato dall’Osservatorio AIIPA (Associazione Italiana Industrie Prodotti Alimentari – Area Integratori Alimentari) il resveratrolo sarebbe in grado di incrementare le performance della memoria negli adulti. Lo studio ha valutato un campione di 46 uomini e donne di età compresa tra i 50 e i 75 anni ai quali sono stati somministrati random 200 mg di resveratrolo
al giorno o placebo per 26 settimane. I dati emersi dai test sulla memoria e di neuroimaging hanno dimostrato che i soggetti ai quali sono stati somministrati gli integratori a base di resveratrolo hanno riportato significativi miglioramenti nel ricordare le parole (30 minuti superiore rispetto al placebo). Lo studio sottolinea che, oltre ai benefici per la memoria, si sono ottenuti miglioramenti a livello della circolazione sanguigna. Secondo gli Autori, l’integrazione di resveratrolo contribuisce alla riduzione dei livelli di emoglobina glicosilata, e a significativi miglioramenti della connettività funzionale dell’ippocampo. Anche un precedente lavoro pubblicato nel 2010 sull’American Journal of Clinical Nutrition aveva messo in evidenza le
Còrea di Huntington Un passo in più nella comprensione del meccanismo patogenetico
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i sono voluti 4 anni di ricerche per capire di più su come si formano i neuroni dello striato, la regione del cervello che degenera nella Còrea di Huntington, malattia ereditaria attualmente senza cura. Il risultato, ottenuto dal gruppo coordinato da Elena Cattaneo dell’Università degli Studi di Milano, è stato pubblicato su Nature Neuroscience. Lo studio mirava a identificare la mappa molecolare e funzionale che caratterizza la maturazione dei neuroni striatali nel cervello umano, i neuroni che degenerano nella Còrea di Huntington. Nelle fasi precoci dello sviluppo del cervello, le cellule staminali sono localizzate in una zona che circonda i ventricoli. Si è scoperto che, da subito, quelle che genereranno i neuroni striatali umani presentano un codice molecolare identificativo che poi transita verso un secondo codice molecolare acquisito dalle cellule mentre si allontanano dalla zona proliferativa per popolare lo striato. Un terzo codice identificativo viene acquisito nel momento in cui le cellule raggiungono la zona dello striato dove risiederanno. I ricercatori hanno potuto seguire per la prima volta queste tre fasi del percorso partendo da embrioni umani di 2 settimane fino a 22 settimane di vita fetale. Ora queste nuove informazioni potranno essere aggiunte alle cellule staminali in vitro al fine di indurle a generare neuroni striatali il più possibile simili a quelli che abbiamo nel nostro cervello. La strada delle staminali è una delle tante seguite nell’Huntington, e auspichiamo che questi nuovi risultati possano davvero essere preziosi per la comprensione della malattia nella speranza di trovare una cura.
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proprietà di una piccola dose di resveratrolo nell’aumentare il flusso di sangue al cervello. I nuovi risultati ottenuti offrono ulteriori stimoli alla ricerca sulla salute del cervello e sul ruolo dei polifenoli. A questo proposito, il professor Giovanni Scapagnini, dell’Università del Molise, commenta: “I polifenoli, tra cui il resveratrolo, risulterebbero in grado di stimolare i sistemi di riparazione cellulare, di amplificare le difese antiossidanti endogene, di inibire in maniera specifica l’azione delle molecole infiammatorie. Sarebbero in grado di attivare un fattore fondamentale per la sopravvivenza cellulare allo stress, l’Nrf2, molecola chiave per la terapia e la prevenzione di numerosi disturbi cronici età-correlati”.
Identificato un nuovo gene della SLA
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a causa genetica rimane sconosciuta in circa un terzo dei casi di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) familiare. È importante segnalare quindi la scoperta di nuove mutazioni nel gene TUBA4A, che codifica per la proteina tubulina alfa 4a, in un lavoro realizzato con il contributo di ricercatori italiani afferenti a diverse strutture, tra cui l’Istituto Auxologico Italiano. La scoperta delle mutazioni in TUBA4A suggerisce che alterazioni del citoscheletro e nel trasporto nervoso degli assoni possano essere determinanti nel causare la SLA. Sarà quindi di estremo interesse definire ulteriormente questo nuovo meccanismo patogenetico con l’obiettivo di sviluppare terapie neuroprotettive efficaci.
NEWS dalle associazioni iniziative
Giornata nazionale della malattia di Parkinson
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ndetta da LIMPE e DISMOV-SIN, si è svolta la Giornata Nazionale Parkinson che ha visto coinvolte il 29 novembre le strutture italiane (sito web www.giornataparkinson.it) che si occupano di questa patologia. Il tema portante era l’identificazione precoce per evitare che alla comparsa dei primi sintomi il danno sia ormai fatto, con il 70 per cento dei neuroni dopaminergici già compromessi, una percentuale che, usando prima i trattamenti già disponibili, potrebbe essere molto ridotta.
La Michael J. Fox Foundation for Parkinson’s Research, la Fondazione creata dall’attore di Ritorno al Futuro colpito da Parkinson giovanile, ha investito 90 miliardi di dollari per il programma PPMI specificamente dedicato all’identificazione di biomarkers precoci. È uno studio osservazionale internazionale volto a identificare biomarker clinici, biologici e di imaging con l’aiuto dei migliori
ricercatori di tutto il mondo: l’unico centro italiano chiamato a farne parte è quello di Paolo Barone, dell’Università di Salerno dove si è appena svolto il III Congresso congiunto LIMPE/DISMOVSIN. Stanno emergendo forti indizi a carico delle alterazioni olfattive precoci: lo studio PARS presentato al XVIII Congresso internazionale sul Parkinson ha dimostrato che il 46 per cento dei pazienti con iposmia svilupperà entro 4 anni la malattia se presenta anche alterazioni al DaTSCAN, la scintigrafia cerebrale che rileva la perdita di terminazioni dopaminergiche nello striato e nella nigra. Un altro marker importante è l’RBD, acronimo di REM sleep behavior disorder: l’80 per cento dei pazienti che lo presentano svilupperà malattia di Parkinson e, secondo un’ampia review del gruppo dell’ospedale
Morgagni-Pierantoni di Forlì, questo disturbo del sonno precederebbe di oltre 10 anni ogni altra manifestazione clinica. In occasione della Giornata anche una buona notizia per i pazienti, concreta e di rapida realizzazione: il progetto pilota Lombardia e Lazio Home Delivery che, grazie all’attivazione del Numero Verde 800 131 749, consente di ottenere presso il proprio domicilio ricette e farmaci. È prevista la distribuzione di 100 tessere per la consegna da parte dei centri Parkinson delle regioni con città scelte per il loro grosso bacino d’utenza, che saranno depositarie dell’iniziativa nell’anno di prova: i costi dell’intera operazione sono sostenuti dall’azienda Boehringer Ingelheim. Cesare Peccarisi
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