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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE
Trattamento della malattia di Parkinson complicata Confronto a lungo termine fra terapia medica e stimolazione cerebrale profonda Merola, Laura Rizzi, Maurizio Zibetti, Alberto Romagnolo, > Aristide Carlo Alberto Artusi, Mario Giorgio Rizzone, Michele Lanotte, •
Leonardo Lopiano
DISTURBI DEL SONNO
Possibili soluzioni farmacologiche per l’eccessiva sonnolenza diurna nei pazienti con malattia di Parkinson
> Maria Laura Ester Bianchi, Giulio Riboldazzi •
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La neurologia italiana Un’eccellenza sostenibile
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Anno XI - n. 4 - 2015
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SEMPRE PIÙ DIFFICILE! La crisi economica e le difficoltà dell'editoria rendono sempre più difficile far arrivare la rivista sulla scrivania del Medico
Assicurarsi tutti i numeri di Medico e Paziente è facile
Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XXXVIII n. 6 - 2012
6
DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it DIRETTORE RESPONSABILE Antonio Scarfoglio DIRETTORE COMMERCIALE Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it ABBONAMENTI Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 REDAZIONE Anastasia Zahova
SOMMARIO 8
Trattamento della malattia di Parkinson complicata
Confronto a lungo termine fra terapia medica e stimolazione cerebrale profonda
In questo articolo gli Autori presentano i risultati dello studio di confronto tra NST-DBS e terapia medica, che è stato condotto in pazienti con malattia complicata e ha avuto un follow up di 6 anni Aristide Merola, Laura Rizzi, Maurizio Zibetti, Alberto Romagnolo, Carlo Alberto Artusi, Mario Giorgio Rizzone, Michele Lanotte, Leonardo Lopiano
SEGRETERIA DI REDAZIONE Concetta Accarrino HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Carlo Alberto Artusi, Maria Laura Ester Bianchi, Michele Lanotte, Leonardo Lopiano, Aristide Merola, Cesare Peccarisi, Giulio Riboldazzi, Laura Rizzi, Mario Giorgio Rizzone, Alberto Romagnolo, Maurizio Zibetti
PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Elda Di Nanno STAMPA Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) COMITATO SCIENTIFICO Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza
COMITATO DI REDAZIONE Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina
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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE
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DISTURBI DEL SONNO
Possibili soluzioni farmacologiche al problema dell’eccessiva sonnolenza diurna nei pazienti affetti da malattia di Parkinson in terapia con dopamino-agonisti I disturbi del sonno e della veglia sono tra i più frequenti e invalidanti sintomi non-motori nei soggetti con malattia di Parkinson, interessando circa il 90 per cento dei pazienti. Le alterazioni del ciclo sonno-veglia non solo riducono la qualità della vita del soggetto malato, ma lo espongono al rischio di incidenti, con conseguente aumento della morbidità e della mortalità
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Maria Laura Ester Bianchi, Giulio Riboldazzi
RUBRICHE
4 22 34
NEWS DALLA LETTERATURA NEWS CONGRESSI NEWS ASSOCIAZIONI la NEUROLOGIA italiana
NUMERO 4 · 2015
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NEWS dalla letteratura P. IAFFALDANO, G. LUCISANO, M. TROJANO ET AL.
Uno studio multicentrico osservazionale valuta gli effetti dello switch verso fingolimod o IFN-beta/GA in pazienti con SMRR non responder o intolleranti a natalizumab ❱❱❱ Brain 2015; 138 (11): 3275-86 La disponibilità di farmaci con meccanismo d’azione differente nella terapia della sclerosi multipla (SM) ha aperto nuove prospettive di cura. Tuttavia si pone il problema della valutazione del profilo di efficacia e tollerabilità nel tempo e soprattutto in un contesto di real life, che come noto può comprendere pazienti con caratteristiche e storia clinica differenti rispetto a quelli selezionati nell’ambito dei trial randomizzati e controllati. Non solo. Spesso ci si trova di fronte a pazienti che possono essere non responder a un determinato trattamento, e dunque nell’ottica della personalizzazione della terapia si pone la necessità di uno switch terapeutico. In questo contesto si colloca lo studio che è stato condotto da ricercatori di diversi Centri italiani per la sclerosi multipla, e che aveva lo scopo di confrontare fingolimod e interferone-beta (IFN-beta)/glatiramer acetato (GA) in pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) che avevano interrotto il trattamento con natalizumab. La coorte comprendeva 613 soggetti del registro italiano iMedWeb. Dopo la sospensione del natalizumab il rischio di relapse durante il periodo di wash out e nel corso dello switch è stato calcolato mediante analisi di regressione (distribuzione di Poisson) in modelli separati. Nel periodo di wash out, un aumentato rischio di relapse è stato osservato nei pazienti che avevano un maggiore numero di recidive prima dell’inizio del natalizumab (incidence rate ratio -IRR1,31, P =0,0014) e nei pazienti che avevano interrotto il trattamento con natalizumab per mancanza di efficacia (IRR 2,33, P =0,0288), per scelta del paziente stesso (IRR 2,18, P =0,0064) o per effetti collaterali (IRR 2,09, P =0,0084). I principali fattori indipendenti che avevano influenza sul rischio di relapse dopo lo switch verso fingolimod o IFN-beta/GA sono risultati un periodo di wash out superiore a 3 mesi (IRR 1,78, P <0,0001), il numero di episodi di relapse durante
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NUMERO 4 · 2015 la NEUROLOGIA italiana
e prima del trattamento con natalizumab (IRR 1,61, P <0,0001 e IRR 1,13, P =0,0118, rispettivamente) e la presenza di comorbidità (IRR 1,4, P =0,0097). Ma vediamo i risultati dopo lo switch terapeutico: il passaggio a fingolimod comportava una riduzione del 64 per cento del rischio (aggiustato) di relapse rispetto al passaggio a IFN-beta/GA (IRR 0,36, P <0,0001). Successivamente sui pazienti in cui è stato effettuato il cambiamento della terapia è stata eseguita un’analisi di propensity score (con matching 1 a 1) alla data dello switch. L’analisi dei dati così ottenuti ha dimostrato un’incidenza di relapse significativamente più bassa nei pazienti che erano in terapia con fingolimod rispetto a quanto osservato per quelli in trattamento con IFN-beta/GA durante un periodo di osservazione di 12 mesi (IRR 0,52, P =0,0003). Inoltre la probabilità cumulativa di una prima ricaduta dopo lo switch è risultata significativamente più bassa tra i soggetti in fingolimod (P =0,028). La “robustezza” dei dati è stata anche confermata da un’analisi in sottogruppi di pazienti con diversa durata di wash out (più o meno di 3 mesi). Non sono state osservate differenze tra i due gruppi per quanto riguarda il tempo alla progressione della disabilità confermata a 3 mesi (HR 0,58 P =0,1931). I risultati ottenuti da queste analisi nel complesso, indicano la superiorità di fingolimod rispetto a IFN-beta/GA nel controllo della riattivazione della malattia. Come sottolineano gli Autori, trattandosi di un setting in real life, essi forniscono indicazioni preziose nel caso in cui ci si trovi di fronte a pazienti in trattamento con natalizumab per i quali si pone la necessità di uno switch per inefficacia o tollerabilità. I. TRAMACERE, E. DALLA BELLA, G. LAURIA ET AL. ON BEHALF OF THE EPOS TRIAL STUDY GROUP
Il sistema MITOS si rivela strumento predittivo efficace per la sopravvivenza a lungo termine nei pazienti con sclerosi laterale amiotrofica ❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2015; 86: 1180-5 Il sistema di stadiazione clinica abitualmente usato per valutare gli outcome negli studi randomizzati e controllati sulla sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è
NEWS dalla letteratura basato sulla ALSFRS-R (ALS Functional Rating ScaleRevised). Si tratta di una scala validata per valutare la disabilità dei pazienti, di rapida applicazione, che comprende 12 domini con punteggi che variano da 0 (disabilità grave) a 4 (assenza di disabilità). I domini riguardano il “linguaggio” (1 dominio), la “deglutizione” e la “salivazione” (2 domini), i “movimenti degli arti superiori” (4 domini), i “movimenti agli arti inferiori” (2 domini), e la “funzione respiratoria” (3 domini). Questa scala tuttavia presenta alcuni limiti. Tra questi per esempio, possiamo citare la non linearità, la multidimensionalità e un possibile “effetto tetto”. Al fine di superare questi gap e misurare la progressione della SLA è stato proposto un nuovo strumento, il sistema ALS-MITOS (ALS Milano-Torino staging). Lo studio qui presentato è stato condotto da ricercatori dell’IRCCS Carlo Besta e Salvatore Maugeri di Milano e dell’Università di Torino, allo scopo di validare il sistema ALS-MITOS in 200 pazienti seguiti per 18 mesi. Il sistema è costituito da 4 domini chiave inclusi nella ALSFRS-R (camminare/cura di sé, deglutizione, comunicazione e respirazione), ognuno dei quali riflette la perdita di funzionalità in uno specifico subscore
dell’ALSFRS-R. La sensibilità e la specificità di ALSMITOS e il declino a 6 mesi alla ALSFRS-R sono stati calcolati e sono stati poi confrontati con l’outcome primario (sopravvivenza, tracheotomia, ventilazione non invasiva per più di 23 ore) a 12 e 18 mesi. Sono stati utilizzati modelli di regressione per calcolare le probabilità predittive del sistema ALS-MITOS a 6 mesi per eventi di qualsiasi natura a 12 e 18 mesi. L’evoluzione della malattia dal basale a 6 mesi, come definita da ALS-MITOS aveva un potere predittivo sul decesso, sulla tracheotomia e sulla ventilazione non invasiva per più di 23 ore a 12 mesi con una sensibilità dell’82 per cento e specificità del 63 per cento, mentre a 18 mesi i valori erano 71 per cento e 68 per cento, rispettivamente. Le analisi con ALSMITOS e ALSFRS-R in termini di progressione a 6 mesi mostrano che i valori di cut off maggiormente predittivi di sopravvivenza a 12 e 18 mesi erano 1 per ALS-MITOS (per esempio perdita di una funzione) e un declino di 6-9 punti nella ALSFRS-R. Sulla base di questi risultati gli Autori propongono l’ALS-MITOS come valido sistema predittivo per l’evoluzione della SLA a 18 mesi, che potrebbe essere utilizzato anche negli studi randomizzati e controllati per la misura degli outcome.
L. LA MANTIA, C. DI PIETRANTONJ, A. VAONA ET AL.
Una revisione degli studi “head to head” per confrontare il profilo di efficacia e tollerabilità di interferone-beta e glatiramer acetato nella SMRR ❱❱❱ Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry 2015; 86: 1016-20 Glatiramer acetato (GA) e interferone-beta (IFN-beta) sono ampiamente usati in prima linea nei pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR), e per i quali disponiamo di numerosi dati di efficacia e sicurezza, anche sul lungo periodo. Quello che rimane poco chiaro è se queste due molecole differiscano sotto il profilo di efficacia e sicurezza. Al riguardo è stata condotta questa review, da ricercatori di diversi centri italiani (Milano, Alessandria, Verona, Legnano) in collaborazione con l’Università statunitense di Buffalo (New York). Utilizzando la metodologia della Cochrane Collaboration sono stati selezionati 5 studi randomizzati e controllati (RCT) del tipo “head to head” ovvero di confronto diretto tra i due trattamenti. I partecipanti erano 2.858 soggetti con SMRR. Considerando i parametri clinici (numero di soggetti con relapse o in progressione) e quelli radiologici di attività di malattia (lesioni captanti alla RMN), i due trattamenti hanno mostrano un’efficacia sovrapponibile a 24 mesi. In un solo studio è stato osservato che a 3 anni il tasso di relapse era più elevato nei pazienti in IFNbeta rispetto a quanto osservato per il GA (risk ratio 1,40, CI 95 1,13-1,74, p =0,002). Tuttavia la riduzione media nel volume delle lesioni alla RMN risultava più evidente nel gruppo IFN-beta rispetto al gruppo GA (per le lesioni in T2 differenza media -0,58 95 CI -0,99 -0,18, p =0,004; per le lesioni in T1 -0,20 CI 95 -0,33-0,07, p =0,003). Sul fronte della tollerabilità, i due trattamenti sono risultati pressoché simili, dal momento che il numero di partecipanti che aveva abbandonato la terapia per eventi avversi risultava sovrapponibile per IFN-beta e GA. In conclusione, questa revisione supporta l’uso dei due trattamenti nei pazienti con SMRR, dato che hanno un’efficacia sovrapponibile nel prevenire la riattivazione della malattia. L’effetto delle due molecole sui parametri RMN ed eventualmente la tollerabilità individuale sono i fattori che più potrebbero condizionare la scelta terapeutica.
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NUMERO 4 · 2015 la NEUROLOGIA italiana
PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE
TRATTAMENTO della MALATTIA di PARKINSON COMPLICATA Confronto a lungo termine fra terapia medica e stimolazione cerebrale profonda In questo articolo gli Autori presentano i risultati dello studio di confronto tra NST-DBS e terapia medica, che è stato condotto in pazienti con malattia complicata e ha avuto un follow up di 6 anni Aristide Merola, Laura Rizzi, Maurizio Zibetti, Alberto Romagnolo, Carlo Alberto Artusi, Mario Giorgio Rizzone, Michele Lanotte, Leonardo Lopiano Dipartimento di Neuroscienze, Università degli Studi di Torino, Torino
L’
efficacia a lungo termine della stimolazione cerebrale profonda del nucleo subtalamico (NST-DBS) nel controllo dei sintomi cardinali della malattia di Parkinson (MP) è stata dimostrata in diversi studi clinici (Fasano 2010, Moro 2010, Zibetti 2011). Tuttavia, solo pochi dati di confronto fra terapia medica e approccio chirurgico sono riportati in letteratura; i trial clinici che hanno confrontato l’efficacia della NST-DBS con la terapia medica presentano un follow-up breve, compreso fra 6 e 18 mesi (Williams 2010, Deuschl 2006, Weaver 2009, Schupbach 2007), mentre studi a lungo termine non sono ancora disponibili. Confrontare i dati a lungo termine dei pazienti trattati chirurgicamente con quelli non operati (storia naturale di malattia) (Hely 2005 e 2008) sarebbe peraltro un procedimento non corretto, dal momento che i soggetti candidati alla procedura di stimolazione cerebrale profonda rappresentano una popolazione selezionata, con età d’esordio solitamente più precoce (Lopiano del 2001, Okun 2010), assenza di deficit cognitivi ed
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NUMERO 4 · 2015 la NEUROLOGIA italiana
eccellente risposta alle terapie dopaminergiche (Defer 1999). Nonostante i confronti a lungo termine tra NST-DBS e terapie mediche convenzionali possano essere solo speculativi, alcuni Autori (Harnack 2010, Charles 2008) hanno ipotizzato che la stimolazione cerebrale profonda possa avere un effetto “neuroprotettivo” a lungo termine. Il nostro studio si pone l’obiettivo di confrontare retrospettivamente gli outcome a lungo termine di NST-DBS e terapia medica, utilizzando come gruppo di controllo una serie di pazienti parkinsoniani candidati alla procedura chirurgica, ma non sottoposti all’intervento per controindicazioni non strettamente legate alla MP. I due gruppi sono stati selezionati per l’intervento di NSTDBS con i medesimi criteri clinici (CAPSIT-PD) (Defer 1999), risultando sovrapponibili in tutte le principali caratteristiche cliniche e demografiche alla valutazione basale. Sono quindi stati confrontati gli outcome clinici e neuropsicologici dopo un periodo di osservazione medio di circa 6 anni, al fine
di poter valutare eventuali differenze di evoluzione clinica a medio-lungo termine.
Figura 1. Flow-chart dello studio
MATERIALI E METODI Sono stati considerati tutti i pazienti che hanno eseguito il protocollo di selezione per trattamento chirurgico con NST-DBS presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino negli anni compresi fra il 1998 e il 2008. Come mostrato nella flow-chart (Figura 1), 180 pazienti hanno ricevuto l’indicazione al trattamento con NST-DBS. Sono stati operati 157/180 pazienti, mentre 23/180, nonostante l’indicazione, non hanno eseguito l’intervento per le seguenti cause: scarsa motivazione (15/23), orientamento personale verso trattamento con Duodopa® (4/23), claustrofobia (2/23), portatori di pace-maker (1/23), circonferenza cranica non compatibile con casco stereotassico (1/23). A tali soggetti è stato chiesto di ripetere una valutazione clinica e neuropsicologica completa dopo un follow-up medio di circa 6 anni, durante i quali era stata proseguita la terapia medica convenzionale: 16 soggetti hanno acconsentito, mentre la valutazione non è stata eseguita in 7 pazienti (2 per rifiuto, 2 per irreperibilità, 3 per decesso). È stato quindi selezionato un gruppo di soggetti consecutivi trattati con NST-DBS con un follow-up minimo di 4 anni, i cui valori basali (pre-chirurgici) di Unified Parkinson’s disease rating scale (UPDRS) sezione-I, -II (ON e OFF), -III (ON e OFF), -IV, -V, -VI (ON e OFF) risultavano compresi nel range interquartile (IQR) dei valori del gruppo trattato con terapia medica al momento della selezione chirurgica. Questi criteri sono stati soddisfatti in 24/157 soggetti, di cui solamente 19 disponevano di dati di follow-up ad almeno 4 anni.
180 Pazienti selezionati per DBS (1998-2008)
NON SOTTOPOSTI A DBS (23 pazienti): mancanza di motivazione (15), orientamento verso Duodopa® (4), claustrofobia (2), portatore di pace-maker (1), circonferenza cranica non compatibile con il casco (1)
SOTTOPOSTI A DBS (157 pazienti)
Gruppo di controllo confrontabile con quello dei pazienti non sottoposti a DBS 24/157 pazienti
FOLLOW-UP
FOLLOW-UP
6,03 ±1,67 anni
6,22 ±2,21 anni Rivalutazione
(Protocollo CAPSIT-PD)
16/23 PAZIENTI RIVALUTATI 3/23 sono deceduti 2/23 hanno rifiutato 2/23 non rintracciabili
19/24 PAZIENTI RIVALUTATI 2/24 sono deceduti 3/23 dati non completi
Note: 23/180 pazienti con malattia di Parkinson selezionati per STN-DBS tra il 1998 e il 2008 non hanno eseguito l’intervento neurochirurgico per motivi non strettamente correlati alla malattia e sono stati inclusi in uno studio di confronto di follow-up a lungo termine con i pazienti operati
w Valutazione clinica e neuropsicologica basale Tutti i soggetti sono stati valutati al basale secondo il protocollo CAPSIT per l’indicazione all’intervento chirurgico (Defer 1999): è stata effettuata una valutazione completa con la scala UPDRS, sia in condizione “OFF” (“MED-OFF”, almeno 12 ore dopo l’ultima dose di levodopa), sia in condizione “ON” (“MED-ON”, 40 minuti dopo la somministrazione di un dosaggio di levodopa 1,5 volte la normale dose mattutina). Inoltre, è stata eseguita una valutazione neuropsicologica con somministrazione di una batteria standard di test cognitivi per la valutazione di ragionamento, memoria e funzioni esecutive frontali (Tabella 1A, 1B).
w Procedura chirurgica L’intervento di DBS bilaterale nel nucleo subtalamico è stato eseguito in anestesia locale, secondo la procedura chirurgica precedentemente descritta (Lanotte 2002), calcolando il target anatomico prima dell’intervento tramite un software di fusione tra immagini di risonanza magnetica e tomografia assiale computerizzata; il corretto posizionamento degli elettrodi è stato verificato con registrazione elettrofisiologica intraoperatoria; gli effetti clinici sono stati infine valutati nel corso di intervento con micro- e macrostimolazione. w Valutazioni al follow-up La valutazione di follow-up del gruppo trattato con terapia la NEUROLOGIA italiana
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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE
TABELLA 1. A
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Confronto di variabili cliniche, demografiche (A) e neuropsicologiche (B) tra i due gruppi al basale GRUPPO TERAPIA MEDICA
GRUPPO DBS
Numero pazienti
16
19
Età alla selezione (anni)
60,87 ±5,81 (47-68)
60,11 ±5,62 (49-68)
0,578
Durata di malattia alla selezione (anni)
11,06 ±2,93 (8-19)
12,94 ±2,15 (9-16)
0,217
Durata delle fluttuazioni motorie alla selezione (anni)
3,09 ±1,54 (2-6)
4,09 ±1,28 (1-7)
0,243
Durata del follow-up (anni)
6,03 ±1,67 (4-11)
6,22 ±2,21 (4-10)
0,364
LEDD alla selezione (mg)
1.252,73 ±430,02 (670-2.160)
1.120 ± 328,79 (425-1.500)
0,314
UPDRS-I
2,28 ±1,29 (0-4)
1,55 ±0,88 (0-6)
0,128
UPDRS-II “ON”
7,50 ±5,72 (1-19)
6,00 ±4,61 (1-22)
0,728
UPDRS-II “OFF”
17,09 ±7,02 (6,5-26)
21,00 ±5,35 (10-29)
0,186
UPDRS-III “ON”
19,31 ±8,12 (10-35)
14,79 ±4,40 (5-21,5)
0,208
UPDRS-III “OFF”
40,16 ±10,92 (20-62)
44,37 ±8,09 (34,5-64)
0,236
UPDRS-IV
6,78 ±3,84 (2-13)
8,30 ±2,51 (3-13)
0,212
UPDRS-V “ON”
2,34 ±0,40 (2-3)
2,17 ±0,38 (1,5-2,5)
0,343
UPDRS-V “OFF”
3,41 ±0,49 (3-4)
3,26 ±0,77 (2,5-5)
0,323
UPDRS-VI “ON”
90,94 ±8,60% (70-100%)
92,37 ±8,72% (70-100%)
0,554
UPDRS-VI “OFF”
63,75 ±15,00% (30-80%)
53,89 ±15,21% (20-80%)
0,234
ITEM 32 (Durata discinesie)
1,41 ±0,99 (0-3)
1,80 ±0,89 (0,5-3)
0,258
ITEM 33 (Gravità discinesie)
0,91 ±1,00 (0-3)
1,42 ±0,93 (0-2,5)
0,114
ITEM 39 (% della giornata trascora in “OFF”)
1,62 ±0,87 (0,5-3)
1,25 ±0,49 (0,5-2)
0,247
NUMERO 4 · 2015 la NEUROLOGIA italiana
P-VALUE
TABELLA 1. B
Confronto di variabili cliniche, demografiche (A) e neuropsicologiche (B) tra i due gruppi al basale GRUPPO TERAPIA MEDICA
GRUPPO DBS
26,5±4,3 (16-33,4)
28,8±3,1 (22-34)
0,109
Bi-sillabic Words Rep. test – BWT
4,3 ±0,8 (3-6)
4,3,±0,7 (3-5)
0,691
Corsi's Block Tapping test – CBT
4,6,±1,0 (3-7)
4,3 ±0,8 (2-5)
0,885
Paired Associate Learning– PAL
9,4 ±3,3 (3-17)
11,3 ±3,6 (4,5-18)
0,344
281,6 ±191,8 (101-605)
239,9 ±98,3 (100-475)
0,769
Nelson MCST Categorie
4,9 ±1,3 (2-6)
5,5 ±1,1 (2-6)
0,101
Nelson MCST Perseverazione
2,1 ±2,4 (0-9)
1,4 ±2,3 (0-8)
0,211
Phonemic verbal fluency
34,7 ±17,1 (4-67)
44,3 ±17,7 (11-75)
0,082
Category verbal fluency
18,2 ±4,3 (8,5-27,5)
18,4 ±4,6 (12-26,25)
0,987
17,2 ±11,9 (0-47)
13 ±6,8 (4-26)
0,254
State Trait Anxiety Inventory – STAI-X1
46,4 ±11,2 (20-60)
44,5 ±9,7 (32-65)
0,345
Trait Anxiety Inventory – STAI-X2
45,4 ±11,6 (23-61)
45,3 ±8,1 (28-59)
0,666
P-VALUE
RAGIONAMENTO Raven Colour Matrices - PM47 MEMORIA
FUNZIONI ESECUTIVE FRONTALI-ATTENZIONE Trail Making B – TMB
UMORE Beck Depression Inventory – BDI ANSIA
medica comprendeva l’esecuzione della scala UPDRS completa in “MED-OFF” e in “MED-ON” e la ripetizione della stessa batteria di test neuropsicologici eseguita al basale. La valutazione di follow-up del gruppo NST-DBS comprendeva una scala UPDRS misurata in 4 diverse condizioni: “Stim-ON/ MED-OFF”, dopo almeno 12 ore di washout farmacologico; “StimOFF/MED-OFF”, dopo almeno 60 minuti dallo spegnimento dello stimolatore; “StimOFF/MED-ON”, 60 minuti dopo la somministrazione di una dose sovramassimale di levodopa, corrispondente a 1,5 volte la dose mattutina pre-in-
tervento; “Stim-ON/MED-ON”, 60 minuti dopo l’accensione dello stimolatore. La batteria di test neuropsicologici è stata somministrata nella migliore condizione clinica (“Stim-ON/ MED-ON”). w Analisi statistica Per le variabili continue sono state utilizzate statistiche descrittive (media, deviazione standard, mediana e range). I test non-parametrici di Wilcoxon e di Mann-Withney sono stati usati per i confronti intra- e intergruppi. Quando indicato, un la NEUROLOGIA italiana
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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE
TABELLA 2
Comparazione degli outcome neuropsicologici tra i due gruppi Confronto intragruppo pazienti in terapia medica
Confronto intragruppo pazienti trattati con DBS
PRE
POST
p-Value
PRE
POST
p-Value
Comparazione intergruppo degli outcome
26,5 ±4,3 (16-33,4)
22,3 ±11,0 (0-34)
0,05*
28,8 ±3,1 (22-34)
22,6 ±9,2 (0-35)
0,007*
P: 0,604
Bi-sillabic Words Rep. test – BWT
4,3 ±0,8 (3-6)
3,9 ±0,9 (2-6)
0,083
4,3 ±0,7 (3-5)
3,8 ±0,5 (3-5)
0,033*
P: 0,955
Corsi’s Block Tapping test – CBT
4,6 ±1,0 (3-7)
4,2 ±1,0 (2-6)
0,157
4,3 ±0,8 (2-5)
3,9 ±1,1 (0-5)
0,376
P: 0,862
Paired Associate Learning– PAL
9,4 ±3,3 (3-17)
9,1 ±3,9 (0-16)
0,346
11,3 ±3,6 (4,5-18)
10,7 ±3,2 (5,5-17)
0,568
P: 0,244
RAGIONAMENTO Raven Colour Matrices - PM47
MEMORIA
FUNZIONI ESECUTIVE FRONTALI-ATTENZIONE 281,6 ±191,8 (101-605)
308,1 ±219,7 (85-600)
0,075
239,9 ±98,3 (100-475)
413,6 ±179,5 (116-600)
0,006*
P: 0,258
Nelson MCST Categorie
4,9 ±1,3 (2-6)
4,1 ±2,3 (0-6)
0,114
5,5 ±1,1 (2-6)
4,4 ±1,9 (0-6)
0,03*
P: 0,906
Nelson MCST Perseverazioni
2,1 ±2,4 (0-9)
4,4 ±4,6 (0-11)
0,035*
1,4 ±2,3 (0-8)
5,1 ±4,2 (0-12)
0,05*
P: 0,570
Phonemic verbal fluency
34,7 ±17,1 (4-67)
25,7 ±17,9 (0-56)
0,131
44,3 ±17,7 (11-75)
24,5 ±13,8 (7-59)
0,001*
P: 0,023*
Category verbal fluency
18,2 ±4,3 (8,5-27,5)
16,3 ±7,7 (0-26,75)
0,306
18,4 ±4,6 (12-26,25)
15,2 ±5,5 (7-26)
0,031*
P: 0,544
17,2 ±11,9 (0-47)
12,9 ±8,4 (0-26)
0,959
13±6,8 (4-26)
15,1 ±9,1 (4-33)
0,232
P: 0,432
State Trait Anxiety Inventory – STAI-X1
46,4 ±11,2 (20-60)
38,3 ±10,7 (25-56)
0,374
44,5 ±9,7 (32-65)
44,7 ±13,1 (11-62)
0,711
P: 0,450
Trait Anxiety Inventory – STAI-X2
45,4 ±11,6 (23-61)
40,7 ±12,8 (20-61)
1,00
45,3 ±8,1 (28-59)
47,3 ±12,7 (10-68)
0,533
P: 0,357
Trail Making B –TMB
UMORE Beck Depression Inventory – BDI
ANSIA
Note: *differenza statisticamente significativa (p <0,05)
modello lineare generalizzato a misure ripetute (GLM) è stato applicato per il confronto dei risultati tra i gruppi. I tassi di mortalità sono stati confrontati per mezzo dell’analisi di sopravvivenza di Kaplan-Meier e il log-rank test. Tutti i valori di p riportati sono a due code, con valore di significatività statistica fissato <0,05. Le analisi sono state eseguite utilizzando SPSS 18 per Windows. Tutti i soggetti partecipanti hanno firmato un consenso informato scritto.
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RISULTATI Caratteristiche basali
Come mostrato nella Tabella 1A, B, non sono state osservate significative differenze tra il gruppo trattato con terapia medica e il gruppo sottoposto a NST-DBS alla valutazione basale: l’età era di circa 60 anni, con una durata di malattia compresa tra 11 e 13 anni. Inoltre, i due gruppi mostravano punteggi sovrapponibili alle principali valutazioni cliniche e neuropsico-
logiche e presentavano una gravità sovrapponibile delle complicanze della terapia (discinesie e periodi “OFF”).
Figura 2. Risultati dello studio Gruppo DBS e gruppo trattato con terapia medica: attività della vita quotidiana, sintomi motori e complicanze motorie
w Valutazioni cliniche
al follow-up
Le valutazioni cliniche e neuropsicologiche sono state confrontate dopo un periodo medio di 6,22 anni per il gruppo DBS (range 4-10 anni) e 6,03 anni (range 4-11 anni) per il gruppo trattato con terapia medica. w Sintomi motori Entrambi i gruppi hanno mostrato un significativo peggioramento del Note: i pazienti trattati con STN-DBS hanno dimostrato una migliore evoluzione punteggio di UPDRS-III in “MEDnelle attività della vita quotidiana (UPDRS-II) in condizione “MED-OFF” e nelle complicanze OFF” e “MED-ON” durante il della terapia (UPDRS-IV); non sono state osservate altre differenze significative follow-up. Come mostrato nella Fitra i due gruppi nei restanti outcome gura 2 il punteggio di UPDRS-III in “Med-OFF” è passato da 40,16 a 53,16 nel gruppo trattato con terapia medica (p: 0,007) e da Ai punteggi della scala Schwab and England, che fornisce in45,37 a 53,47 (p: 0,038) nel gruppo NST-DBS (“StimOFF/ formazioni sull’autonomia globale del paziente nello svolgiMed-OFF”), senza differenze significative intergruppo nell’e- mento delle attività della vita quotidiana, è stato osservato un voluzione clinica dei sintomi motori (p: 0,388). peggioramento di entrambi i gruppi nella condizione clinica Un simile andamento è stato osservato nei punteggi di “MED-ON”, senza differenze intergruppo (p: 0,735), con pasUPDRS-III in “MED-ON”: il gruppo trattato con terapia saggio da valori di 90,94 a 70,00 per cento nei pazienti trattati medica ha mostrato un aumento da 19,31 a 31,30 (p: 0,002), con terapia medica (p: 0,001) e da 92,37 a 73,61 per cento nei mentre il gruppo NST-DBS (nella condizione Stim-ON/MED- pazienti trattati con NST-DBS (p: 0,003). ON) ha mostrato un aumento da 14,79 a 24,97 (p: 0,001), sen- La condizione clinica “MED-OFF” ha invece evidenziato un za differenze significative di progressione al test di confronto andamento simile a quanto descritto nella scala UPDRS-II, intergruppo (p: 0,766). con peggioramento significativo solamente nel gruppo tratInoltre, risultati simili (p: 0,684) sono stati osservati anche tato con terapia medica. Per quest’ultimo, infatti, i punteggi comparando l’efficacia della sola terapia con levodopa fra i sono variati da 63,75 a 46,25 per cento (p: 0,004) mentre sono due gruppi, utilizzando nei pazienti NST-DBS i punteggi in rimasti sostanzialmente stabili nel gruppo di pazienti trattati condizione “Stim-OFF/MED-ON”. con NST-DBS (condizione “Stim-ON/MED-OFF”) passando da 52,89 a 46,33 per cento (p: 0,332). Il test di confronto inw Attività della vita quotidiana (ADL) tergruppo è risultato ai limiti della significatività statistica (p: I punteggi della scala UPDRS-II nella condizione clinica 0,091). “MED-ON” sono significativamente peggiorati al follow-up in entrambi i gruppi; nel gruppo trattato con terapia medica w Complicanze della terapia il punteggio è passato da 7,50 a 19,27 (p: 0,001), mentre nel Le complicanze della terapia, misurate con l’UPDRS-IV, sono gruppo NST-DBS si è modificato da 6,0 a 17,94 (p: 0,001). risultate significativamente diverse nei due gruppi di pazienNon sono state riscontrate differenze di evoluzione clinica fra ti (p <0,001): il gruppo sottoposto a trattamento medico ha i due gruppi di pazienti (p: 0,965). mostrato un aumento dei punteggi da 6,78 a 10,75 (p: 0,004), Al contrario, il punteggio clinico di UPDRS-II nella condi- mentre quello di pazienti trattati con NST-DBS è migliorato, zione clinica “MED-OFF” ha mostrato una differente pro- passando da 8,30 a 3,17 (p: 0,001). gressione nei due gruppi di pazienti (p <0,001), peggiorando La durata delle discinesie (item 32 della scala UPDRS) e la da 17,09 a 31,10 (p: 0,001) nei pazienti trattati con terapia gravità delle discinesie (item 33 della scala UPDRS) erano medica e rimanendo sostanzialmente stabile nel gruppo trat- significativamente ridotte dopo il trattamento con NST-DBS tato con NST-DBS (“Stim-ON/MED-OFF”), dove i punteggi (rispettivamente p: 0,001 e p: 0,003), mentre non si sono passavano da 21,00 a 20,14 (p: 0,586). osservate rilevanti variazioni nel gruppo di pazienti trattati la NEUROLOGIA italiana
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PATOLOGIE NEURODEGENERATIVE con sola terapia medica (rispettivamente p: 0,64 e p: 0,133). Inoltre, la percentuale di tempo trascorsa in “OFF” durante la giornata (item 39 della scala UPDRS) è aumentata nel gruppo di pazienti in terapia medica (p: 0,015), mentre si è lievemente ridotta (p: 0,204) nel gruppo di pazienti trattati con NSTDBS, mostrando una significativa differenza tra i due gruppi (p: 0,005). Per quanto riguarda i problemi correlati alla procedura chirurgica, sono stati osservati i seguenti eventi avversi: disartrofonia (4 casi), embolia polmonare (1 caso), aprassia apertura occhi (1 caso). In 9/19 pazienti trattati con NST-DBS si è resa necessaria la sostituzione della batteria del generatore d’impulsi durante il periodo di follow-up. w Dose equivalente giornaliera di levodopa (LEDD)
Nei pazienti trattati con NST-DBS la LEDD è diminuita da 1.120 a 510 mg/giorno (p: 0,001), mentre nel gruppo di pazienti trattati con terapia medica è stata osservata una minima riduzione (da 1.252,73 a 1.141,50; p: 0,638), con una differenza significativa fra i due gruppi (p: 0,001). La percentuale di pazienti trattati con dopaminoagonisti è diminuita in entrambi i gruppi, senza differenze significative (p: 0,146), passando dall’87,5 al 68,8 per cento nel gruppo di pazienti trattati con terapia medica e dall’89,5 al 47 per cento nei pazienti trattati con NST-DBS. w Dati neuropsicologici Come riportato in tabella 2, i due gruppi hanno mostrato un simile andamento dal punto di vista neuropsicologico, riportando un lieve peggioramento delle performance cognitive globali. Il confronto tra i due gruppi non ha mostrato differenze significative, tranne che nella fluenza verbale, risultata maggiormente compromessa nei pazienti trattati con NSTDBS (p: 0,023). I test volti alla valutazione delle capacità di ragionamento (PM47) sono peggiorati in entrambi i gruppi, mentre i test di memoria hanno mostrato un lieve peggioramento del BWT e una sostanziale stazionarietà del CBT e del PAL. Inoltre, entrambi i gruppi hanno mostrato un lieve peggioramento delle funzioni attentive ed esecutive, con una significatività statistica evidenziabile esclusivamente al test di Nelson MCST. Il tono dell’umore e i livelli di ansia sono rimasti invariati nei due gruppi.
w Mortalità Durante il follow-up, i due gruppi hanno mostrato un simile tasso di mortalità (p: 0,628). Nel gruppo di pazienti trattati con terapia medica sono deceduti 3 pazienti (uno per infarto miocardico e due per polmonite, rispettivamente dopo circa 1 anno e mezzo, 5 e 7 anni dalla selezione pre-chirurgica); nel gruppo di pazienti trattati con NST-DBS sono stati osservati 2 decessi (un infarto intestinale dopo 5 anni dall’intervento e un’embolia polmonare dopo 3 anni).
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DISCUSSIONE In questo studio sono stati valutati pazienti trattati con terapia medica tradizionale e DBS del nucleo subtalamico con l’obiettivo di confrontare i due approcci terapeutici a medio-lungo termine. È stato utilizzato un particolare disegno di studio retrospettivo, selezionando un gruppo di controllo composto da pazienti inizialmente selezionati come candidati alla DBS, sia per durata e gravità di malattia sia per assenza di controindicazioni neurologiche/neuropsicologiche, ma che successivamente non hanno eseguito l’intervento per cause non strettamente correlate alla malattia. Questi soggetti hanno proseguito la terapia medica e sono stati confrontati dopo un periodo medio di circa 6 anni dalla selezione con un gruppo di pazienti sottoposti a NST-DBS sovrapponibile per età e durata di malattia. Questo particolare “gruppo di controllo retrospettivo” ha permesso di eseguire un confronto adeguato tra terapia medica e terapia chirurgica. In letteratura sono presenti numerosi studi di follow-up a lungo termine sull’efficacia clinica della NST-DBS (Fasano 2010, Zibetti 2011), mentre un confronto tra terapia chirurgica e terapia medica è stato effettuato solamente in studi clinici a breve termine (Williams 2010, Deuschl 2006, Weaver 2009, Schupbach 2007) per ovvi motivi etici. Il trial clinico multicentrico PD SURG (Williams 2010) ha riportato i dati a 12 mesi di 366 pazienti parkinsoniani trattati con terapia chirurgica o terapia medica ottimizzata, mostrando un significativo miglioramento della qualità di vita dei pazienti trattati chirurgicamente, a fronte però di una più elevata incidenza di eventi avversi (19 per cento). Inoltre, due studi multicentrici (Deuschl 2006, Weaver 2009) hanno descritto un significativo miglioramento del tempo trascorso in “ON” senza discinesie invalidanti dopo 6 mesi di trattamento con stimolazione; dati simili sono infine stati riportati da uno studio con minor numerosità e con 18 mesi di follow-up clinico (Schupbach 2007). L’evoluzione clinica a lungo termine dei pazienti affetti da MP è stata accuratamente riportata dagli studi di storia naturale di malattia (Hely 2005, Hely 2008); i dati di tali studi non sono però adatti a essere confrontati con quelli a lungo termine di soggetti operati, in quanto i candidati alla DBS rappresentano spesso un sottogruppo di pazienti altamente selezionato e non sono pertanto paragonabili alla popolazione generale dei pazienti affetti da MP (Okun 2010). Il nostro studio, seppur con le limitazioni di un’analisi retrospettiva, fornisce alcune indicazioni sull’evoluzione a lungo termine dei pazienti sottoposti a NST-DBS rispetto a quelli trattati con terapia medica. I valori di UPDRS-III in “MEDOFF” e in “MED-ON” hanno mostrato un peggioramento in entrambi i gruppi, verosimilmente a causa dello sviluppo di sintomi non levodopa responsivi (Chauduri 2011). Il gruppo di pazienti trattati con NST-DBS ha mostrato un minor peggioramento dei punteggi relativi alla scala UPDRS-II in “MED-OFF”, presentando una minore fluttuazione dei sin-
tomi e una maggiore autonomia nello svolgimento delle attività della vita quotidiana. Tali osservazioni trovano conferma nella diminuzione della gravità e della durata delle discinesie e nella minor percentuale di tempo trascorso in “OFF”. L’insieme di questi dati suggerisce che la NST-DBS è efficace nel migliorare l’autonomia nelle attività della vita quotidiana, riducendo la gravità delle fluttuazioni motorie. Nel gruppo di pazienti trattati chirurgicamente sono stati tuttavia osservati alcuni effetti collaterali legati all’intervento o alla stimolazione: un caso di embolia polmonare, uno di aprassia apertura occhi e quattro casi di alterazioni del linguaggio. Non sono invece state osservate differenze significative nei tassi di mortalità fra i due gruppi e l’incidenza di complicanze appare simile a quanto descritto in letteratura (Benabid 2009). Per quanto riguarda l’aspetto neuropsicologico, nonostante la presenza di alcuni lievi deficit dell’attenzione e delle funzioni esecutive nei pazienti trattati con NST-DBS, non sono state rilevate differenze significative fra i due gruppi. A tale riguardo,
sono riportati in letteratura dati clinici contrastanti (Witt 2008, Perozzo 2001); i risultati ottenuti in questo gruppo di pazienti sembrano suggerire che la NST-DBS non interferisce con i principali domini cognitivi a eccezione della fluenza verbale, come già riportato in letteratura (Okun 2012). In conclusione, pur con le limitazioni rappresentate dall’analisi retrospettiva dei dati, dalla ridotta numerosità del campione e dalla durata di follow-up di 6 anni, il nostro studio sembra dimostrare che nei pazienti affetti da MP in fase avanzata: a) la NST-DBS manifesta un’efficacia maggiore nel controllo delle fluttuazioni motorie rispetto alla terapia medica orale, riducendo la percentuale del tempo trascorso in “OFF” e migliorando la gravità e la durata delle discinesie; b) l’intervento fornisce una maggiore autonomia nelle attività della vita quotidiana; c) non esistono differenze significative nella progressione del punteggio motorio (UPDRS-III) nei due gruppi; d) il profilo cognitivo e comportamentale mostra un’evoluzione pressoché sovrapponibile nei due gruppi.
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DISTURBI DISTURBI DEL DEL SONNO SONNO
Possibili soluzioni farmacologiche al problema dell’eccessiva sonnolenza diurna nei pazienti affetti da MALATTIA DI PARKINSON in terapia con dopamino-agonisti Maria Laura Ester Bianchi1, Giulio Riboldazzi1,2 1. Centro Parkinson e Disordini del Movimento, Ospedale di Circolo, Varese 2. Unità Semplice Riabilitazione Disordini del Movimento, Fondazione Gaetano e Piera Borghi, Brebbia (VA)
I disturbi del sonno e della veglia sono tra i più frequenti e invalidanti sintomi non-motori nei soggetti con malattia di Parkinson, interessando circa il 90 per cento dei pazienti. Le alterazioni del ciclo sonno-veglia non solo riducono la qualità della vita del soggetto malato, ma lo espongono al rischio di incidenti, con conseguente aumento della morbidità e della mortalità
L
a malattia di Parkinson (MP) è una malattia neurodegenerativa cronica progressiva molto diffusa, seconda solo alla malattia di Alzheimer per prevalenza. In Italia la prevalenza della malattia di Parkinson è pari all’1-2 per cento della popolazione sopra i 60 anni, e al 3-5 per cento della popolazione sopra gli 85 anni; colpisce maggiormente le persone di sesso maschile, con una frequenza 1,5-
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2 volte superiore rispetto al sesso femminile. Attualmente si stima che nel nostro Paese le persone affette da MP siano circa 230.000; gli epidemiologi ritengono inoltre che nel 2030 il numero dei pazienti tenderà addirittura a raddoppiare. La MP può essere idiopatica o familiare. Le forme familiari di solito si manifestano prima dei 40 anni e non rappresentano più del 5 per cento dei pazienti:
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finora sono stati individuati diversi geni coinvolti in queste forme, tra cui SNCA, PINK1, LRRK2 e PARKIN. La forma idiopatica è sicuramente la più frequente, rappresentando il 95 per cento dei casi, e di solito insorge in persone con più di 65 anni. L’eziopatologia della MP non è ancora stata chiarita: disfunzione mitocondriale, tossine, stress ossidativo, infezioni, diminuzione di fattori trofi-
ci, disfunzione del sistema ubiquitinaproteasoma, alterazioni metaboliche, infiammazione e l’effetto cumulativo di un numero di geni di suscettibilità sono state le teorie finora proposte per spiegare l’avvio e lo sviluppo della MP idiopatica (1). Dal punto di vista neuropatologico la MP è caratterizzata dalla perdita di neuroni dopaminergici nella substantia nigra pars compacta, e dall’accumulo di α-sinucleina e altre proteine in aggregati proteici intracellulari che formano i cosiddetti corpi di Lewy. La morte neuronale nella substantia nigra pars compacta determina un deficit di dopamina nello striato che ha come conseguenza la comparsa delle caratteristiche cliniche del parkinsonismo, ossia bradicinesia, rigidità, tremore a riposo, e l’instabilità posturale (2). La diagnosi di MP è essenzialmente clinica e si basa sulla diagnosi della sindrome parkinsoniana e l’esclusione di altre cause di parkinsonismo. Una buona risposta alla levodopa e l’asimmetria dei sintomi motori supportano la diagnosi. Sebbene la MP sia tradizionalmente considerata un disturbo del movimento, i sintomi motori possono essere preceduti o accompagnati da diversi sintomi non-motori, come iposmia, costipazione, disturbi neuropsichiatrici, disturbi del sonno ecc. (2). Come i sintomi motori anche i sintomi non-motori hanno un forte impatto sulla qualità di vita del paziente e dei caregiver, rendendo pertanto necessario un loro pronto riconoscimento e un adeguato trattamento.
DISTURBI DEL SONNO E DELLA VEGLIA I disturbi del sonno e della veglia sono tra i più frequenti e invalidanti sintomi non-motori, interessando circa il 90 per cento dei pazienti (3). La loro presenza nelle fasi più avanzate della malattia era stata riconosciuta dallo stesso James Parkinson (4). I disturbi del sonno nella malattia di Parkinson possono es-
sere distinti in disturbi del sonno propriamente detti (insonnia, restless leg syndrome, REM behaviour disorders, apnee ostruttive del sonno e parasonnie) e disturbi della veglia (eccessiva sonnolenza diurna e attacchi di sonno). Le alterazioni del ciclo sonno-veglia non solo riducono la qualità di vita del paziente, ma lo espongono al rischio di incidenti con conseguente aumento della morbidità e della mortalità dei pazienti stessi. L’esatta patogenesi di questi disordini non è nota: attualmente l’ipotesi più accreditata è quella multifattoriale secondo cui i disturbi motori, gli effetti collaterali delle medicine, la nicturia, la neurodegenerazione del sistema regolatore del ciclo sonno-veglia, i disturbi primitivi del sonno, le alterazioni del ritmo circadiano della melatonina ecc. contribuirebbero all’insorgenza dei disturbi del sonno. Purtroppo al momento i trattamenti a disposizione sono limitati e si associano a importanti effetti collaterali (3).
ECCESSIVA SONNOLENZA DIURNA L’eccessiva sonnolenza diurna (EDS) è definita come uno stato cronico di incapacità di mantenersi svegli durante il giorno. In particolare l’American Academy of Sleep Medicine definisce l’eccessiva sonnolenza diurna come “l’incapacità di mantenere lo stato di veglia e di vigilanza durante i principali episodi di veglia del giorno, con il sonno che si verifica involontariamente o in momenti inappropriati quasi ogni giorno per almeno tre mesi (5). I meccanismi alla base dell’EDS sono probabilmente molteplici: deficit di dopamina, uso di dopamino-agonisti, deficit di serotonina e norepinefrina (monoamine dell’allerta), disfunzione autonomica, perdita del ritmo circadiano e delle vie dell’ipocretina (6). Per valutare la presenza di EDS abbiamo a disposizione varie metodiche: tra quelle più diffusamente usate e accet-
tate ci sono l’Epworth Sleepiness Scale (ESS), il Multiple Sleep Latency Test (MSLT), la Parkinson’s Disease Sleep Scale (PDSS) e la polisonnografia (PSG). L’eccessiva sonnolenza diurna colpisce un’elevata percentuale di pazienti affetti da MP, e viene considerata da molti anche un possibile marker preclinico della malattia stessa. Sicuramente le terapie usate nel trattamento dei sintomi motori sono tra i principali responsabili dell’insorgenza di EDS, tuttavia Tholfsen et al. hanno recentemente documentato una maggiore frequenza di EDS nei pazienti parkinsoniani non ancora in trattamento rispetto ai controlli: tale frequenza aumentava con il progredire della malattia. In questo studio il principale fattore di rischio è risultato un valore elevato dell’ESS; tuttavia il sesso maschile, l’uso di dopamino-agonisti, un aumentato punteggio dell’UPDRS-ADL e sintomi depressivi sono risultati associati a punteggi più elevati di ESS (7). Dato il forte impatto che l’EDS ha sulla qualità della vita dei pazienti parkinsoniani sono stati condotti molteplici trial controllati randomizzati per valutare diversi tipi di trattamento possibile dell’EDS in questi pazienti. Già negli anni ’50 erano comparsi dei report sull’uso delle amfetamine nel trattamento della sonnolenza nei pazienti affetti da MP, riportando risultati positivi: tuttavia il potenziale di abuso legato a queste sostanze, che potrebbe risultare ancora maggiore nei pazienti parkinsoniani e altri effetti collaterali associati ne limitano notevolmente l’utilizzo (8). Il modafinil è stato senz’altro il farmaco più studiato nell’ambito dei disturbi del sonno nella malattia di Parkinson: il meccanismo d’azione non è noto, ma probabilmente agisce attraverso un’azione sui sistemi noradrenergici e dopaminergici. Gli studi finora condotti basati su valutazioni oggettive della sonnolenza non hanno dimostrato un beneficio del modafinil sulla sonnolenza (9,10). È stato condotto
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DISTURBI DEL SONNO
Figura 1. Catabolismo della dopamina e ruolo degli i-MAO
Note: TH, tirosina idrossilasi; L-DOPA, levodopa; DDC, dopa decarbossilasi; MAOA, monoamino ossidasi A; BBB, barriera ematoencefalica; COMT, catecol-O-metiltransferasi; 3-OMD, 3-O-metildopa; D1, D2, recettori per la dopamina Fonte: Youdim et al. Nature Reviews Neuroscience 7; 295-309 (April 2006) | doi:10.1038/nm1883
anche un trial randomizzato in doppio cieco per valutare l’efficacia della caffeina nella MP: questo studio non ha documentato alcuna efficacia oggettiva della caffeina sulla sonnolenza dei parkinsoniani (11). La memantina è stata valutata per il trattamento di diversi sintomi non-motori della MP, ma non è risultata efficace nel caso della sonnolenza (12). Infine il sodio oxibato ha dato risultati promettenti nel trattamento dell’EDS nei pazienti parkinsoniani, tuttavia essendo un depressore del sistema nervoso e del sistema respiratorio e avendo un potenziale di abuso non può essere considerato un farmaco di prima scelta (13). w Selegilina La selegilina è un inibitore selettivo della monoamino ossidasi B (MAO-B):
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le monoamino ossidasi (MAO) sono enzimi intracellulari localizzati sulla membrana mitocondriale che catabolizzano le monoamine (dopamina, norepinefrina, 5-idrossitriptamina) (Figura 1). La MAO-B è il principale responsabile della trasformazione della dopamina nei suoi cataboliti inattivi e rappresenta la principale forma di MAO presente nel sistema nervoso centrale. La selegilina, al dosaggio normalmente usato nei pazienti affetti da MP non ha alcun effetto sulla MAO-A, mentre forma un legame covalente con la MAO-B che determina un effetto irreversibile, limitato tuttavia dall’emivita della selegilina stessa che si aggira intorno ai 2-10 giorni. È stato documentato che la selegilina ha un effetto sintomatico quando usata in monoterapia e, nello studio finora più ampio che è stato con-
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dotto al riguardo (DATATOP), è stato dimostrato anche che questo farmaco è in grado di ritardare l’introduzione della levodopa. Oltre l’uso in monoterapia nelle fasi precoci della MP, la selegilina viene utilizzata anche in add-on nei pazienti con forme avanzate di Parkinson che presentano fluttuazioni motorie: è stato dimostrato che questo farmaco è in grado di ridurre il tempo in Off e migliora lo wearing-off (14). Alcuni studi hanno evidenziato un effetto neuroprotettivo della selegilina mediato dall’upregolazione di proteine anti-apoptotiche, fattori di crescita, glutatione e altri fattori neurotrofici e antiossidanti (15). Per poter confermare questi dati, e soprattutto per poter passare dal dato laboratoristico al paziente, sono necessari studi più ampi e maggiormente focalizzati su questo aspetto.
La selegilina in genere è ben tollerata: tra i suoi effetti collaterali sono elencati bocca secca, ansia, disturbi del sonno, confusione, nausea, ipotensione ortostatica e allucinazioni. Solo raramente sono stati riportati elevati valori delle transaminasi, pertanto non c’è alcuna indicazione a effettuare controlli della funzionalità epatica di routine. In ultimo va tenuto in considerazione che i metaboliti amfetaminici della selegilina possono risultare cardiotossici. Gli inibitori della MAO (IMAO) sono noti anche per il rischio di indurre il cosiddetto “effetto formaggio”, ossia il rischio di indurre crisi ipertensive quando il paziente che sta assumendo gli IMAO introduce cibi ricchi in tiramina (formaggio stagionato, vino rosso ecc.). Al dosaggio normalmente utilizzato nei pazienti parkinsoniani (10 mg/die), la selegilina è abbastanza selettiva per la
MAO-B per cui non induce crisi ipertensive. Al dosaggio abituale appare basso anche il rischio di sindrome serotoninergica, anche nei pazienti che stanno assumendo SSRI. La selegilina è metabolizzata (Figura 2) in demetil-selegilina e L-metamfetamina che a loro volta possono essere ulteriormente metabolizzate in L-amfetamina e altri metaboliti minori: nonostante questo non ci sono evidenze sulla possibilità di dipendenza indotta da selegilina (16). Probabilmente è alla luce dei prodotti del suo catabolismo che la selegilina è stata usata in passato nel trattamento della narcolessia: al momento però, data la limitata esperienza clinica riguardo l’impiego della selegilina in questo ambito e le possibili interazioni con la dieta e i farmaci, l’American Academy of Sleep Medicine esprime riserve in merito all’utilizzo della selegilina nel trattamento dell’eccessiva sonnolenza diurna (5).
LO STUDIO Alla luce di questi dati della letteratura e, soprattutto in base al frequente riscontro nella nostra pratica clinica di pazienti che lamentano un’eccessiva sonnolenza diurna, talora molto invalidante per le attività del vivere quotidiano e la loro qualità di vita, abbiamo deciso di valutare l’efficacia della selegilina nel trattamento dell’eccessiva sonnolenza diurna nei pazienti affetti da MP e in trattamento con dopamino-agonisti. Abbiamo selezionato 16 pazienti affetti da MP idiopatica, 8 uomini e 8 donne con un’età media di 66,9 anni e durata media della malattia di 6,4 anni. Di questi pazienti, 10 erano in trattamento con pramipexolo, 4 con ropinirolo e 2 con rotigotina, sia come terapia di prima linea che in add on alla levodopa. Tutti presentavano un’eccessiva sonnolenza diurna sviluppata dopo l’introduzione del
Figura 2. Metabolismo della selegilina
C H2
H C CH3 N
C C H2
CH
C H2
CH3
Selegilina (L-deprenyl)
C H2
H C CH3 NH
CH3 L-metamfetamina
H C CH3 N
H
C C H2
CH
Demetil-Selegilina
C H2
H C CH3 NH2
L-amfetamina
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DISTURBI DEL SONNO
TABELLA 1
Risultati delle valutazioni della Parkinson’s Disease Sleep Scale e dell’Epworth Sleep Scale
PDSS 1 I
PDSS 1 F
9
P
PDSS 15 I
PDSS 15 F
P
ESS I
ESS F
P
9
2
8
<0,001
16
5
<0,001
8
9
3
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<0,001
10
4
<0,001
8
8
4
7
<0,005
12
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<0,005
6
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3
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<0,001
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<0,001
6
6
0
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<0,001
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8
<0,001
10
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4
4
13
18
7
8
2
6
<0,005
18
17
7
7
0
7
<0,001
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0
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<0,001
8
7
6
8
1
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<0,001
6
4
9
8
5
5
16
15
9
9
2
8
2
0
<0,005
10
10
3
10
<0,005
14
8
<0,001
6
6
0
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<0,001
7
1
<0,001
5
7
0
5
<0,005
7
0
<0,001
7
8
0
0
8
4
<0,005
<0,005
<0,001
PDSS= Parkinson’s Disease Sleep Scale; ESS= Epworth Sleep Scale; i= iniziale; f=finale; PDDS 1= item n°1; PDSS 15= item n°15
dopamino-agonista. La presenza di EDS è stata accertata tramite ESS e PDSS (Tabella 1). Abbiamo quindi introdotto in terapia selegilina in 13 pazienti, mentre nei restanti 3 abbiamo dapprima sospeso rasagilina e poi introdotto selegilina. Dopo tre mesi di trattamento con selegilina abbiamo riscontrato un miglioramento dell’EDS statisticamente significativo in 12 (p <0,001) pazienti, in 3 non abbiamo documentato alcun cambiamento mentre un paziente ha presentato un peggioramento dell’EDS.
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w Conclusioni
Pur basato su una coorte di pazienti poco numerosa, questo studio fornisce dati a nostro parere molto interessanti. Innanzitutto conferma alcuni dei dati già presenti in letteratura, ma soprattutto fornisce un interessante spunto terapeutico per uno dei sintomi non-motori maggiormente lamentato dai pazienti affetti da malattia di Parkinson idiopatica. Alla luce di questi risultati possiamo pertanto ipotizzare che la selegilina sia efficace nel trattamento dell’EDS indotta da
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dopamino-agonisti: dato l’ampio utilizzo di tale farmaco in questa popolazione di pazienti, data la buona tollerabilità della molecola e la sostanziale buona aderenza dei pazienti a questa terapia, riteniamo possa essere anche di facile applicazione nel trattamento non solo dei disturbi motori, ma anche nella gestione dell’eccessiva sonnolenza diurna. Studi su coorti più ampie di pazienti sono tuttavia necessari al fine di confermare tali risultati.
BIBLIOGRAFIA 1. Herrera AJ, Espinosa-Oliva AM, Carrillo-Jiménez A, Oliva-Martín MJ, García-Revilla J, García-Quintanilla A, de Pablos RM, Venero JL. Relevance of chronic stress and the two faces of microglia in Parkinson’s disease. Front Cell Neurosci 2015; 9: 312. 2. Rocha NP, de Miranda AS, Teixeira AL. Insights into Neuroinflammation in Parkinson’s Disease: From Biomarkers to Anti-Inflammatory Based Therapies. BioMed Research International Volume 2015; ID 628192. 3. Videnovic A, Noble C, Reid KJ, Peng J, Turek FW, Marconi A, Rademaker AW, Simuni T, Zadikoff C, Zee PC. Circadian melatonin rhythm and excessive daytime sleepiness in Parkinson’s disease. JAMA Neurol 2014; 71: 463–9. 4. Parkinson J. An essay on the shaking palsy. London: Whittingham and Rowland for Sherwood. Neely and Jones, 1817. 5. International Classification of Sleep Disorders, 3rd ed, American Academy of Sleep Medicine, Darien, IL 2014. 6. Ondo WG. Sleep/wake problems in Parkinson’s disease: pathophysiology and clinicopathologic correlations. J Neural Transm 2014; 121 (Suppl 1): S3–S13. 7. Tholfsen LK, Larsen JP, Schulz J, Tysnes OB, Gjerstad MD. Development of excessive daytime sleepiness in early Parkinson disease. Neurology 2015; 85(2): 162-8. 8. Meter V Jr. Therapy of Parkinson’s disease. Calif Med 1950; 73: 322–4. 9. Ondo WG, Fayle R, Atassi F, Jankovic J. Modafinil for daytime somnolence in Parkinson’s disease: double blind, placebo controlled parallel trial. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2005; 76: 1636–9. 10. Hogl B, Saletu M, Brandauer E, Glatzl S, Frauscher B, Seppi K, Ulmer H, Wenning G, Poewe W. Modafinil for the treatment of daytime sleepiness in Parkinson’s disease: a double-blind, randomized, crossover, placebocontrolled polygraphic trial. Sleep 2002; 25: 905–9. 11. Postuma RB, Lang AE, Munhoz RP, Charland K, Pelletier A, Moscovich M, Filla L, Zanatta D, Rios Romenets S, Altman R, Chuang R, Shah B. Caffeine for treatment of Parkinson disease: a randomized controlled trial. Neurology 2012; 79: 651–658. 12. Ondo WG, Shinawi L, Davidson A, Lai D. Memantine for non-motor features of Parkinson’s disease: a double-blind placebo controlled exploratory pilot trial. Parkinsonism Relat Disord 2011; 17: 156–159. 13. Ondo WG, Perkins T, Swick T, Hull KL Jr, Jimenez JE, Garris TS, Pardi D. Sodium oxybate for excessive daytime sleepiness in Parkinson disease: an open-label polysomnographic study. Arch Neurol 2008; 65: 1337–1340. 14. Robottom BJ. Efficacy, safety, and patient preference of monoamine oxidase B inhibitors in the treatment of Parkinson’s disease. Patient Prefer Adherence 2011; 20; 5: 57-64. 15. Takahata K, Shimazu S, Katsuki H, Yoneda F, Akaike A. Effects of selegiline on antioxidant systems in the nigrostriatum in rat. J Neural Transm 2006; 113: 151–158. 16. Schneider LS, Tariot PN, Goldstein B. Therapy with l-deprenyl (selegiline) and relation to abuse liability. Clin Pharmacol Ther1994; 56: 750-6.
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I QUADERNI
di Medico & Paziente MeP Edizioni presenta una collana di volumi dedicati ai capitoli della medicina che stanno vivendo una fase di profonda trasformazione. Per molte patologie “dai grandi numeri” la messa a punto di farmaci innovativi e l’introduzione di schemi di trattamento di nuova generazione stanno rivoluzionando le strategie di cura dei pazienti. Nella pratica questo comporterà una ridefinizione delle coordinate nell’approccio clinico e del ruolo del Medico di Medicina Generale. I Quaderni di Medico e Paziente si inseriscono in questo panorama e nascono come strumento di aggiornamento, da consultare ogni giorno e al bisogno.
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Nuova iniziativa editoriale I QUADERNI di Medico & Paziente
EPATITE C
Una battaglia da vincere
La cura dell’epatite C sta vivendo una fase di grande progresso, grazie alla disponibilità di una nuova generazione di farmaci che consentono l’eradicazione del virus anche nei pazienti
I trattamenti di ultima generazione stanno trasformando radicalmente i percorsi terapeutici e le prospettive dei malati sia in termini di guarigione che di qualità della vita
In un quadro nel complesso positivo, non mancano le criticità. L’elevato costo dei nuovi farmaci apre la questione dell’accesso alle cure. L’AIFA per ora ne ha limitato l’accesso ai soli casi più gravi
MP
Sig Significativamente Significativa ativa tivamente nte a abb abbiamo bb bbi biiamo amo d de deciso eciiso iso di d edicare re e il il primo mo Q Qua Qu uad ader ader erno e no all’ep ep epa pat atit tit ite eC dedicare Quaderno all’epatite C,, una patologia che sta vivendo una vera e propria rivoluzione grazie alla disponibilità di una nuova generazione di farmaci che consentono l’eradicazione del virus in un’ampia percentuale di casi, compresi i pazienti “difficili”. I nuovi trattamenti stanno trasformando radicalmente i percorsi terapeutici e le prospettive dei malati sia in termini di guarigione che di qualità della vita.
Tuttavia T utt uttav ttaviia iin nu un n qu quadro ad dro o compless co complessivamente less essivam posi ositivo tivo, no non n n ma manc ncan can a o le ano l criticità cr tà à. positivo, mancano criticità. I nuovi antivirali aprono la questione dell’accesso alle cure. L’elevato costo delle nuove molecole ha imposto delle scelte: l’AIFA ne ha pertanto limitato l’accesso ai soli casi più gravi. Una decisione comprensibile dal punto di vista economico ed etico, forse un po’ meno dal punto di vista clinico
NEWS congressi XLVI CONGRESSO NAZIONALE SIN, 10-13 OTTOBRE – GENOVA
La neurologia italiana UN’ECCELLENZA SOSTENIBILE Il Congresso nazionale della Società italiana di neurologia (SIN) quest’anno si è tenuto a Genova, nella storica sede dei Magazzini del Cotone. A lavori conclusi è tempo quindi per fare un bilancio della XLVI edizione del Meeting
A
nche quest’anno il Congresso prosegue sulla strada dell’eccellenza e della sostenibilità, un impegno che la SIN ha preso da tempo e che sta portando avanti con successo. La ricerca in campo neurologico prosegue con risultati significativi in tutti gli ambiti di questa complessa e articolata disciplina, seppure con le difficoltà che il nostro Sistema sanitario e assistenziale sta attraversando in questi anni. In ambito clinico le novità presentate sono molte e i progressi compiuti diventano sempre più tangibili e vanno di pari passo con un miglioramento nell’assistenza al malato neurologico. L’assistenza al paziente a 360 gradi è la sfida che i neurologi si sono da tempo posti e che stanno cercando
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di realizzare, coniugando eccellenza nella cura e sostenibilità economica e sociale. Ogni paziente rappresenta un mondo a sé che il neurologo in collaborazione con specialisti di altre discipline dovrebbe cercare di scoprire, al fine di ottenere il percorso di cura più adatto e prospettare al paziente la possibilità di guarigione. Non sempre questo è possibile. Molte patologie neurologiche al momento purtroppo restano ancora incurabili, nonostante i progressi compiuti. E laddove la guarigione non è perseguibile, l’impegno dovrebbe essere quello di attuare l’approccio che garantisca la migliore qualità di vita del malato.
IL TRATTAMENTO ENDOVASCOLARE NELL’ICTUS ISCHEMICO Nel nostro Paese secondo i dati più recenti sono 930mila le persone che vivono con invalidità a causa di un ictus. Lo stroke è la prima causa di disabilità, la seconda di demenza e la terza causa di decesso nel mondo industrializzato. Oggi la migliore terapia per l’ictus ischemico in fase acuta è la trombolisi sistemica che, come noto, consiste nella somministrazione di un farmaco capace di “liberare” l’arteria cerebrale occlusa. Recentemente la letteratura scientifica si è arricchita di evidenze che dimostrano l’efficacia del trattamento endovascolare con procedure di rimozione meccanica del trombo. Come ha sottolineato in una presentazione il prof. Elio Agostoni, dell’AO
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Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, “questo panorama terapeutico rappresentato dalla trombolisi sistemica e dalla trombectomia meccanica, consente di ridurre sensibilmente la mortalità e la disabilità”. La nuova frontiera per la cura dell’ictus ischemico in fase acuta è la combinazione di trombolisi farmacologica sistemica e trombectomia meccanica. Queste procedure terapeutiche sono efficaci se praticate in una stretta finestra terapeutica di 4,5 ore per la trombolisi sistemica e di 6 ore per la trombectomia meccanica. Questo significa che l’efficacia della terapia dipende dal tempo, e qualifica lo stroke come un’emergenza tempo-dipendente. Per attuare questo duplice approccio, le strutture dovranno adeguarsi alla gestione di questa emergenza. Per una presa in cura ottimale del
paziente con ictus è necessario avere personale competente nell’attuazione delle procedure interventistiche, e quindi la formazione professionalizzante degli operatori dovrà rivestire un ruolo centrale.
UN VIAGGIO ATTRAVERSO LA STORIA DELLA NEUROLOGIA A GENOVA "La Clinica neurologica dell’Università di Genova: la storia e il presente": è questo il titolo del libro che il professor Gianluigi Mancardi ha scritto insieme a Leonardo Cocito e Andrea Seitun (De Ferrari Editore), e ha presentato al meeting di Genova. È un volume storico che partendo dalle origini, fino ai nostri giorni, ripercorre l’evoluzione della ricerca neurologica della Clinica dell’Università di Genova. Nella prefazione, il prof. Mancardi, attuale direttore della struttura racconta “…L’idea di scrivere un libro sulla Clinica neurologica c’era da tempo, ma solo più recenti avvenimenti, come la vicina scomparsa di figure storiche della Clinica, il modificarsi della situazione assistenziale e di ricerca nell’area del San Martino, l’occasione di organizzare proprio a Genova ad ottobre 2015 il Congresso nazionale della Società italiana di neurologia ed avere quindi una scadenza precisa, e infine, il timore che ‘se non si faceva ora non si sarebbe fatto mai più’, hanno determinato che tutti noi della Clinica neurologica ci siamo in questi mesi impegnati, chi più chi meno, a scrivere il libro. Si tratta della descrizione di una parte rilevante della Medicina di Genova, la Neurologia, che negli ultimi cento anni ha avuto un formidabile sviluppo, passando da una situazione iniziale, in cui non vi erano praticamente mezzi per capire se il problema clinico che si doveva affrontare era psichiatrico o neurologico, fun-
zionale od organico, se non con la propria esperienza e una complessa semeiotica fine, per arrivare a una situazione attuale dove la diagnosi è facilitata dagli esami di laboratorio e dalle neuroimmagini, la cura è per molte malattie a disposizione o molto vicina (ma per molte malattie ancora abbastanza lontana), e la ricerca sempre più si sviluppa verso la comprensione dei meccanismi alla base delle diverse malattie…”. Il risultato è un volume di facile lettura, ricco di documentazione e splendide fotografie, con aneddoti e curio-
sità. Leggendo possiamo apprendere per esempio, che già all’inizio del XVII secolo a Genova, le persone affette da disturbi mentali erano considerate come malate e quindi bisognose di cura. E ancora, nel 1866 veniva attivato il primo insegnamento universitario di Clinica delle Malattie mentali, e nel 1933 veniva inaugurata la Clinica delle malattie nervose e mentali. Oltre a ripercorrere la storia e il passato, il volume avvicina il lettore all’attività attuale di ricerca e cura, che ha mantenuto la stessa vivacità di un tempo. n
Malattia di Parkinson avanzata QUALI OPZIONI TERAPEUTICHE
L’
aspettativa di vita dei pazienti parkinsoniani è in crescita e con essa aumenta il numero di quei soggetti che entrando nella fase avanzata di malattia richiedono un approccio più avanzato alla terapia. Di questo si è parlato in un simposio nell’ambito del Congresso SIN 2015, promosso da AbbVie, e moderato dal prof. Carlo Serrati. Il prof. Giovanni Fabbrini, del Policlinico Umberto I di Roma, ha presentato una revisione densa di “aspetti operativi” in cui ha illustrato la complessità del paziente in fase avanzata, mettendo a confronto le attuali tre opzioni terapeutiche disponibili per questa fase della malattia di Parkinson (MP): infusione di apomorfina, infusione intradigiunale di levodopa-carbidopa, e deep brain stimulation (DBS). La definizione di MP avanzata è complessa. Molti neurologi concordano sul fatto che quando l’intervallo tra due dosi di farmaco diventa troppo breve, circa 2-3 ore, e le fluttuazioni ON-OFF, le discinesie e il tremore emergono e sono difficili da control-
lare è arrivato il momento di considerare un approccio più avanzato. Una opzione terapeutica è costituita dall’apomorfina, la più “anziana”, con efficacia ben nota; vanno menzionate alcune criticità legate a questa terapia, come un aumento del rate di drop out nel tempo (in 3 mesi circa), una riduzione di efficacia nel tempo, e un’incidenza consistente di noduli sottocutanei che pongono problemi di gestione. La DBS è un’altra opzione terapeutica, clinicamente efficace, anche se gravata da stringenti criteri di selezione dei pazienti (età, aspetti cognitivi, psichiatrici) e richiede un monitoraggio accurato. Va ricordato inoltre che a questa terapia è associato un rischio di induzione di disartria, disfagia, di problemi di equilibrio e di deambulazione. L’infusione continua intradigiunale di levodopa/carbidopa è disponibile in Italia dal 2006. Il gel viene infuso attraverso una PEG/J direttamente nel duodoeno (sito di assorbimento degli aminoacidi) per mezzo di una
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NEWS congressi XLVI CONGRESSO NAZIONALE SIN, 10-13 OTTOBRE – GENOVA
Tabella 1. “BEST STRATEGY” PER LA MP IN FASE AVANZATA APOMORFINA
DUODOPA
DBS
Demenza lieve
Demenza severa
Ansia, depressione
Tremore farmacoresistente
No supporto familiare
Massima indipendenza
Costo
FOG (Freezing of gate)
???
pompa portatile alla quale viene collegata una cassetta preriempita con un quantità di gel generalmente sufficiente per tutto il giorno. La pompa può essere indossata in vari modi sia a tracolla che alla cintura. In Italia, l’infusione di Duodopa è disponibile da alcuni anni e al momento vede circa 600 pazienti in trattamento. Negli USA, l’autorizzazione della FDA è avvenuta pochi mesi fa sulla base dei risultati di uno studio pubblicato su Lancet Neurology (Olanow et al., 2013), che sia nella fase in doppio cieco che nell’estensione in aperto dimostra chiaramente l’efficacia clinica di questo approccio. Ma quali sono i momenti e i soggetti in cui è possibile somministrare tale terapia? I criteri sono “DBS like” ovvero pazienti in fase complicata, con buona risposta alla L-dopa e gravi fluttuazioni motorie nonostante il “best medical treatment”. Un elemento interessante che deriva dall’esperienza italiana è che gli aspetti neurologici in questi pazienti hanno una gestione generalmente lineare. È fondamentale la corretta gestione di tutti gli aspetti legati alla gestione del sistema PEG/J. Serve dunque un team multidisciplinare dedicato alla gestione del paziente parkinsoniano in fase avanzata, cosa non sempre
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facile da ottenere. Il prof. Fabbrini ha sottolineato il grande supporto di AbbVie nella sensibilizzazione e coinvolgimento dei gastroenterologi in questo ambito. Rispetto ai criteri per la DBS, l’infusione di Duodopa è più flessibile e non trova una controindicazione assoluta nella presenza di patologie associate (a eccezione di quelle che controindicano il posizionamento della PEG); occorre effettuare valutazioni più approfondite nei pazienti con bassi livelli di vitamina B12 e folati, polineuropatia e patologie oncologiche. Sempre rispetto alla DBS, le comorbidità psichiatriche non
rappresentano una controindicazione assoluta, così come non costituiscono controindicazioni la demenza lieve e nemmeno l’età, e stando a quanto emerso dalle ultime osservazioni, neppure la presenza di sintomi assiali. Dall’esperienza italiana emerge che i migliori risultati terapeutici nel trattamento con Duodopa sono stati ottenuti in soggetti con età media di 65 anni, con 8 anni di storia di malattia con fluttuazioni e discinesie gravi, e senza deficit cognitivi. In pratica sta emergendo l’importanza di anticipare la fase avanzata di malattia intervenendo con le terapie avanzate in una fase più precoce, senza aspettare che il paziente arrivi al “punto di non ritorno”. Il deterioramento cognitivo lieve non ne controindica l’uso, la demenza grave invece rappresenta un criterio di esclusione per tutte le terapie. Uno schema di “best strategy” per la terapia della fase avanzata, elaborato dal dr. Angelo Antonini, è mostrato in Tabella 1, in cui i tre approcci sono messi a confronto. Sui “semafori” indicati vi è accordo comune tra gli specialisti neurologi: secondo Fabbrini merita ulteriore approfondimento il FOG, fenomeno di difficile valutazione e poco responsivo ai farmaci dopaminergici. n
L’importanza del controllo dei processi neuroinfiammatori nelle malattie del sistema nervoso centrale
L
a neuroinfiammazione è un processo associato a numerose patologie del sistema nervoso centrale (CNS), da quelle neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la
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malattia di Alzheimer, alle malattie autoimmunitarie come la sclerosi multipla. I processi di neuroinfiammazione si sviluppano anche in seguito ad eventi ischemici e traumatici
del CNS e sono presenti in condizioni psichiatriche come nell’autismo e in caso di disturbi dell’umore. La mancata risoluzione della neuroinfiammazione è ritenuta un fattore determinante nella degenerazione dei neuroni. Pertanto, la comprensione dei meccanismi biologici e molecolari responsabili della progressione della neuroinfiammazione potrà permettere di individuare target terapeutici innovativi per contrastare la neuroinfiammazione e la conseguente neurodegenerazione. Al Congresso della Società Italiana di Neurologia 2015, a questa tematica è stato dedicato un simposio che ha visto la partecipazione dei professori Carlo Caltagirone, dell’Università Tor Vergata di Roma, Carlo Serrati, dell’AO San Martino di Genova e Salvatore Cuzzocrea, dell’Università degli Studi di Messina, promosso da Epitech Group. Grande attenzione è stata posta ad un approccio terapeutico emergente basato sull’impiego della palmitoiletanolamide (PEA), una molecola lipidica la cui biodisponibilità è favorita da opportune tecniche di micronizzazione. Si tratta di un’aciletanolamide endogena sintetizzata “su richiesta” principalmente da cellule non neuronali al fine di garantire la risoluzione dei processi infiammatori e proteggere i neuroni; i suoi livelli possono, pertanto, subire variazioni significative in caso di danno del tessuto nervoso. Ciò avviene, per esempio, in seguito a episodi ischemici cerebrali oppure in caso di perdita delle connessioni delle vie neuronali. L’efficacia della PEA esogena è stata dimostrata in molti studi sperimentali e in diverse condizioni cliniche. Gli studi clinici hanno anche evidenziato l’ottimo profilo di tollerabilità della molecola. Recentemente è emerso che l’efficacia della PEA è potenziata quando è nella forma di ultramicrocomposito (co-ultraPEALut), un
prodotto tecnologico ottenuto dalla ultramicronizzazione simultanea della PEA con la luteolina (un flavone con elevato potere antiossidante) che consente il controllo sincrono su neuroinfiammazione e stress ossidativo. Un gruppo di ricercatori italiani, di cui fanno parte i professori Cuzzocrea e Caltagirone, ha disegnato due studi paralleli per confermare le proprietà terapeutiche del co-ultraPEALut a livello preclinico, utilizzando un modello sperimentale di occlusione dell’arteria cerebrale media (MCAo) e a livello clinico, in pazienti con ictus ischemico. I risultati dello studio preclinico hanno dimostrato che coultraPEALut riduce l’edema cerebrale e il volume d’infarto degli animali resi ischemici, rispetto agli animali di controllo. Gli effetti morfometrici di co-ultraPEALut sono associati a un miglioramento dei deficit comportamentali e a un contenimento dei processi di neuroinfiammazione, evidenziati dalla minore infiltrazione e attivazione mastocitaria e astrocitaria e dalla ridotta produzione di mediatori proinfiammatori. Lo studio clinico è stato effettuato su 250 pazienti con ictus stabilizzato e in riabi-
litazione neurologica. I pazienti hanno assunto co-ultraPEALut (GLIALIA® microgranuli, 2 bustine al giorno) per un periodo di 60 giorni. Una serie di test ha permesso la valutazione delle funzioni neurologiche, delle abilità cognitive, della presenza di dolore, e dell’autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane, prima, durante e dopo il trattamento. I risultati ottenuti dimostrano che il trattamento con co-ultraPEALut nei pazienti reduci da ictus ischemico induce un miglioramento delle funzioni neurologiche e una riduzione dei deficit cognitivi associati a diminuzione del dolore e della spasticità e maggiore autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane rispetto alla sola terapia riabilitativa. Nel loro insieme, i risultati ottenuti dimostrano che il controllo della neuroinfiammazione osservato a livello preclinico è associato ad un miglioramento dei deficit comportamentali. I risultati sono trasferibili a livello clinico dove il recupero delle funzioni neurologiche e cognitive è probabilmente associato alla protezione cerebrale dal danno neuroinfiammatorio secondario. n
Trattamento con alemtuzumab L’ESTENSIONE DEGLI STUDI A CINQUE ANNI DIMOSTRA IL MANTENIMENTO DELL’EFFETTO TERAPEUTICO
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e prospettive di cura della sclerosi multipla (SM) sono cambiate drasticamente negli ultimi anni, grazie alla disponibilità di risorse terapeutiche con differenti meccanismi d’azione, e tra queste certamente rientra alemtuzumab, molecola di recentis-
sima approvazione in Italia (è disponibile dallo scorso aprile). Questa molecola si presenta con un profilo particolare in quanto distrugge le cellule patogeneticamente rilevanti con grande efficacia ed effetti persistenti a lungo termine, risultan-
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do particolarmente indicata nei pazienti con elevata attività di malattia. E proprio ad alemtuzumab è stato dedicato un simposio nell’ambito del Congresso SIN 2015, che oltre ai risultati finora ottenuti nel programma registrativo del farmaco (studi CAMMS223, CARE-MSI e CARE-MSII), si è focalizzato sulla presentazione dei recentissimi dati a lungo termine. Come ha ricordato il prof. Antonio Uccelli, dell’Università di Genova, spiegando il meccanismo d’azione del farmaco e partendo dalle osservazioni ottenute sui modelli animali, e poi confermate nell’uomo, alemtuzumab è un anticorpo monoclonale umanizzato che ha come bersaglio la proteina CD52 presente in grandi quantità sulla superficie delle cellule T e B circolanti, ritenute responsabili del dannoso processo infiammatorio tipico della SM. L’effetto anti-CD52 di alemtuzumab determina una rapida e profonda deplezione dei linfociti circolanti a seguito di infusione ev, a causa di una citotossicità cellulomediata anticorpo-dipendente. La molecola esercita un effetto minimo sulle altre cellule immunitarie, il che garantisce la conservazione dell’immunità innata. In pratica quello che si osserva è una rapida e imponente deplezione di cellule della memoria e una ricostituzione di un fenotipo meno prono all’autoimmunità e una comparsa di cellule ad attività regolatoria in grado di controllare l’espansione delle cellule autoreattive. È come se colpendo e sopprimendo le cellule immunocompetenti, il farmaco rimuovesse l’errore primitivo ovvero la causa prima della SM. I risultati degli studi registrativi, ha sottolineato il prof. Paolo Gallo, dell’Università di Padova, dimostrano l’efficacia di alemtuzumab in confronto con IFN beta-1a, in termini di riduzione del rischio di ricadute e rallentamento dell’accumulo di disabilità.
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In parallelo, il trattamento ha mostrato un favorevole profilo di safety, con reazioni avverse legate all’infusione di intensità lieve o moderata. Particolare significato riveste la valutazione di efficacia-tollerabilità nel lungo periodo. La fase di estensione a 5 anni di CARE-MS I (pazienti naive) e CARE-MS II (pazienti con recidive nonostante un precedente trattamento) conferma quanto osservato negli studi pivotal. In termini di safety ciò che si osserva è una riduzione degli eventi associati all’infusione al quinto giorno. Le infezioni più comuni sono state nasofaringiti, infezioni del tratto urinario, infezioni delle alte vie respiratorie, infezioni erpetiche orali, che si riducono con profilassi a base di acyclovir. È di interesse il fatto che i pazienti che hanno manifestato infezioni, avevano una conta linfocitaria sovrapponibile a quella dei pazienti che invece non erano interessati da tali eventi. Per quel che riguarda la valutazione della durata dell’effetto, il prof. Gallo si è soffermato in particolare sul rallentamento dell’atrofia cerebrale: a partire dal secondo anno i pazienti con SMRR in alemtuzumab perdono tessuto cerebrale con un tasso simile a quello dei soggetti sani. Altro dato significativo è che i pazienti trattati recuperano la disabilità rispetto al baseline. In pratica il trattamento con alemtuzumab sembra “ripulire la malattia”. Nell’estensione, la maggior parte dei pazienti trattati ha continuato a manifestare una riduzione dell’attività di malattia pur non essendo stata sottoposta a ulteriori cicli di trattamento. Alemtuzumab soddisfa i criteri per una terapia immunosoppressiva “ideale”? Secondo il prof. Gallo sembra proprio di sì, in quanto prevede: una ridotta frequenza di somministrazione, una rapida attività biologica e clinica (che persiste nel tempo), il rispetto della qualità di vita del paziente, e
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in più ha costi accettabili. A tutto ciò si aggiunge un profilo di tollerabilità favorevole; restano da approfondire alcuni aspetti tra cui la questione dell’autoimmunità severa Ig-mediata e l’incidenza di sindrome da rilascio di citochine. Ma quali sono i pazienti candidabili alla terapia? Ogni volta che abbiamo un farmaco nuovo, ha sottolineato la dr.ssa Lucia Moiola, dell’Ospedale San Raffaele di Milano, dobbiamo capire come collocarlo. È un farmaco di induzione, e dunque è destinato ai pazienti naive oppure ai pazienti in terapia, ma non responder? Allo stato attuale i pazienti che potrebbero trarre maggiori benefici dal farmaco sono quelli con chiare evidenze di fattori prognostici negativi (evidenza di alto carico midollare alla RM per esempio) ovvero pazienti con SM attiva, con ricadute, attività alla RM e/o rapida progressione dovuta all’infiammazione. Il paziente ideale, ma certamente non sarà l’unico a cui il farmaco verrà prescritto, dovrebbe essere giovane, con breve durata di malattia, basso EDSS, RM senza atrofia, non politrattato, soprattutto con immunosoppressori, e senza comorbidità in particolare immunitarie. Oggi si cerca di proporre la molecola anche nelle fasi iniziali se il paziente mostra una rilevante attività infiammatoria, nelle fasi intermedie ai pazienti che non rispondono ad altre terapie di prima o seconda linea oppure in situazioni di particolare acuzie, quando la malattia mostra improvvise impennate. Le esperienze real life sono le più utili per dare indicazioni sul “place in therapy”. Sia la dr.ssa Moiola che il dr. Pietro Annovazzi, dell’Ospedale di Gallarate (Varese) hanno ricordato il programma Free of Charge (F.O.C), creato per i pazienti che non avevano alternative terapeutiche. F.O.C è partito nel 2014 (prima dell’approvazione AIFA)
e si è concluso quest’anno, con il coinvolgimento di 40 pazienti sul territorio nazionale. La popolazione del FOC è complicata, in quanto i pazienti provengono da altre terapie importanti (per esempio natalizumab, fingolimod, ciclofosfamide, ma anche GA e IFN) sono altamente attivi e hanno un carico importante di malattia. Le valutazioni su questi pazienti sono attualmente in corso, ma il dr. Annovazzi ha evidenziato che dei pazienti che hanno compiuto 1 anno di terapia circa i 2/3 sono in NEDA (non evidenza di attività di malattia). L’esperienza real life inoltre ha permesso una valutazione delle giornate di infusione. L’infusione di alemtuzumab è di 5 giorni e richiede una premedicazione (steroide, antistaminico, paracetamolo, acyclovir) cui segue alemtuzumab 12 mg (25
ml/h). Ecco quanto è emerso: • L’infusione nella maggior parte dei casi richiede non più di 8-10 ore • Le reazioni all’infusione sono la regola, ma in genere sono lievi • In prima giornata la cefalea è frequente • Il rash cutaneo compare dalla terza giornata (ma è possibile anche prima) • La premedicazione con steroide non sembra avere un effetto protettivo sul rash • Attenzione a effetti collaterali da terapia concomitante (antistaminico, steroide, paracetamolo). Per contenere le reazioni all’infusione, il dottor Annovazzi propone per esempio, il rallentamento (o l’interruzione temporanea) della velocità di infusione e la somministrazione di antistaminico con o senza steroide. n
Sclerosi multipla EFFICACIA E TOLLERABILITÀ DI TERIFLUNOMIDE SI CONFERMANO ANCHE IN “REAL LIFE”
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ra le terapie innovative per la sclerosi multipla (SM), teriflunomide (TFU, Aubagio®) è una delle molecole a somministrazione orale di più recente introduzione. Fin dai primi studi condotti, si è rivelata una molecola interessante a cominciare dal meccanismo d’azione che si inserisce in un nuovo approccio di immunosoppressione selettiva, in cui l’obiettivo è interferire nei processi eziopatogenetici della malattia senza compromettere in modo significativo l’immunosorveglianza . Questo è stato uno dei temi del simposio, promosso da Genzyme, a Sanofi Company, nell’ambito del
Congresso SIN 2015, dedicato alla TFU, in cui sono stati discussi anche i dati di efficacia e tollerabilità e i risultati finora ottenuti nelle esperienze in “real life”. Il prof. Marco Salvetti, dell’Ospedale S. Andrea di Roma, ha illustrato il meccanismo con cui agisce TFU, ricordando che comunque molto ancora resta da chiarire. Al riguardo il prof. Salvetti ha citato un lavoro che dimostra come la potenziale autoreattività dei linfociti T sia legata all’avidità del legame con l’antigene: maggiore è questa avidità maggiori sono le possibilità che ci sia una risposta autoaggressiva. La
TFU riduce la sottopopolazione linfocitaria che ha una risposta ad alta affinità, quindi quella potenzialmente più “shiftata” in senso autoimmune. L’effetto di riduzione dei linfociti attivati si esplica attraverso l’inibizione reversibile e selettiva dell’enzima mitocondriale DHODH (diidroorotato deidrogenasi), indispensabile per la sintesi “de novo” delle pirimidine e per la proliferazione dei linfociti attivati. Bloccando l’enzima DHODH , TFU produce un effetto citostatico inducendo la fase di arresto G1/S del ciclo cellulare. A differenza dei classici immunosoppressori, la molecola non induce apoptosi: l’azione di TFU è di tipo citostatico con scarsa o assente interferenza con le cellule dell’immunità innata . Altri aspetti del meccanismo sono in fase di studio e vanno ben oltre l’azione di immunosoppressione selettiva. Recentemente sono stati presentati dati che dimostrano un'azione selettiva sui vari subset di linfociti T CD4+, suggerendo uno shift, nell’ambito della popolazione linfocitaria T, da un profilo proinfiammatorio a un profilo regolatorio. E ancora, a dispetto dell’etichetta di farmaco immunosoppressore selettivo, TFU potrebbe avere un effetto paradosso in senso positivo: esistono alcuni report in cui farmaci di questa categoria possono essere inclusi in protocolli di terapie antivirali, per esempio per citomegalovirus che fa parte della famiglia di agenti eziologici della SM. Dal punto di vista clinico il farmaco si colloca tra le opzioni di prima linea e il prof. Francesco Patti, dell’Università di Catania, ha sottolineato la centralità della terapia personalizzata, fermo restando che quanto più un trattamento è precoce ed efficace tanto più si rallenta l’accumulo di disabilità irreversibile. Negli studi di fase III (TEMSO, TOWER, TENERE, TOPIC) sono emersi risultati significativi in termini di riduzione del rischio di
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progressione di disabilità, riduzione dell’ARR (tasso annuale di ricadute) e del numero di lesioni in T2 e Gd+ (parametri RMI); il trend è confermato anche negli studi di estensione. L’ efficacia di TFU è comparabile a quella dei farmaci “tradizionali” (IFN beta e glatiramer acetato). I risultati di safety sono ben documentati. Tra gli eventi avversi più frequenti (AEs) possiamo ricordare cefalea, disturbi gastrointestinali (nausea, diarrea), aumento delle ALT, assottigliamento dei capelli, parestesia, in buona parte reversibili anche nel corso del trattamento. Negli studi clinici sopramenzionati, non è stato riscontrato un aumentato rischio per infezioni e malignances. Merita un cenno l’ipertensione arteriosa che non è frequente, ma ha una certa rilevanza soprattutto perché presuppone un’attenta valutazione delle eventuali comorbidità del paziente. In generale, in corso di gravidanza, l’utilizzo dei farmaci per il trattamento della SM è controindicato e/o fortemente sconsigliato; la controindicazione vale anche per TFU, pertanto le donne in età fertile devono utilizzare una contraccezione affidabile durante la terapia con TFU. Teriflunomide dunque arriva nel panorama della terapia per la SM con una serie convincente di dati di efficacia e di tollerabilità. Anche l’esperienza in “real life” conferma la “solidità” della molecola. Ne ha parlato il prof. Angelo Ghezzi, dell’Ospedale di Gallarate (Varese), riportando l’esperienza del suo Centro. Lo studio iniziato 2 anni fa, ha arruolato 103 pazienti consecutivi con età media di 46 anni (±8,9), durata di malattia di 15 anni (±8,1) e un relapse rate nei 2 anni pre-TFU di 0,3±0,4. I pazienti sono stati classificati come: naive (18 pz.), switcher per efficacia (17 pz.) e switcher per tollerabilità (68 pz.). Il follow up medio è di 13±6,7 mesi. Sul fronte dell’efficacia i risultati confermano quanto osservato negli
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studi di fase III, con la maggior parte dei pazienti relapse free. In relazione alla tollerabilità, gli effetti gastrointestinali, non sono risultati irrilevanti e hanno avuto frequenza maggiore rispetto agli studi di fase III; non è stata riscontrata però cefalea e l’effetto epatico è stato poco incisivo. Un altro lavoro in “real life”, del gruppo di Alessandra Lugaresi conferma l’effetto del trattamento con TFU sul relapse rate in pazienti naive o con pregresso trattamento con altri farmaci per la SM e
il buon profilo di tollerabilità. In conclusione possiamo dire che TFU ha buone possibilità di risultare efficace sia nei pazienti naive sia in quelli già in terapia che hanno una risposta terapeutica non adeguata soprattutto per scarsa tollerabilità. A questo si associa l’evidente vantaggio della praticità d’uso (somministrazione singola orale giornaliera) rispetto ai farmaci che devono essere somministrati per via parenterale (interferoni, glatiramer acetato). n
Sclerosi multipla LA TERAPIA È PERSONALIZZATA E PRECOCE
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a disponibilità di terapie emergenti nel panorama della sclerosi multipla (SM) porta in primo piano il tema della personalizzazione del trattamento, e di come effettuare la scelta terapeutica. Diventa pertanto indispensabile disporre di strumenti in grado di prevedere la risposta alla terapia. Un simposio nell’ambito del Congresso SIN 2015, promosso da Merck Serono, si è focalizzato sulla definizione dei marker di risposta all’IFN beta. Come ha sottolineato la prof. Maria Pia Sormani, dell’Università di Genova, l’IFN beta è il farmaco più usato in prima linea, ed è quello con storia più lunga e per il quale abbiamo a disposizione una mole di dati che ci permettono di individuare i pazienti responder e non responder. Diversi trial si sono occupati della valutazione della risposta all’IFN beta prendendo in esame i dati di RM, i dati di relapse e i dati di progressione durante la terapia ed elaborando degli score utili a valutare gli effetti del trattamento nel tempo. Il Modified Rio Score (Sormani MP et al.) fornisce indicazioni utili
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sul cut off del numero di lesioni RM e di relapse che fanno aumentare il rischio di progressione: esso identifica in 5 il numero di lesioni che un paziente deve avere a un anno perché il rischio di progressione aumenti. In pratica chi al primo anno di terapia ha 1, 2 o 3 lesioni ha lo stesso rischio di chi ne ha 0. E naturalmente, i pazienti con relapse hanno un aumentato rischio. Sulla base del Modified Rio Score è stato “costruito” un algoritmo di risposta all’IFN evidence based, molto utile per definire la risposta di un paziente all’IFN-beta. L’effetto delle lesioni alla RM e delle relapse sulla probabilità di progressione è valutato anche nell’ambito del progetto europeo MAGNIMS, di cui fanno parte molti centri italiani; dall’analisi dei dati è stato stabilito un cut off di 3 lesioni alla RM al primo anno, e il MAGNIMS score assume valori di 0, 1 o 2 ai quali corrisponde rispettivamente una probabilità di progressione del 19, 28 e 48 per cento. Da quanto esposto emerge l’importanza dell’utilizzo integrato dei dati di RM
e clinici per valutare la risposta alla terapia; va tenuto conto che gli algoritmi di risposta non possono essere generalizzati, ma devono essere diversificati per ciascun farmaco. E inoltre, trattandosi di una patologia in continua evoluzione, nella valutazione degli effetti di una terapia dovrebbero essere inclusi anche nuovi marcatori di risposta. La terapia della SM oltre che personalizzata, deve essere precoce. Tanto più l’intervento è tempestivo, al primo esordio di malattia, tanto più aumenta la probabilità di rallentarne l’evoluzione. Il prof. Paolo Gallo, dell’Università di Padova, ha illustrato il razionale di una terapia precoce in termini di rallentamento e prevenzione della disabilità. In particolare si è focalizzato sulla SM non solo come patologia della sostanza bianca (WM), ma patologia a carico anche della corteccia. Anche nelle CIS troviamo infiammazione corticale diffusa, e molti studi evidenziano un esordio corticale della SM. A partire dalla metà degli anni Duemila, numerosi studi si sono focalizzati sulla valutazione della patologia corticale ai fini della prognosi. Anche perché le lesioni corticali correlano con l’atrofia e con la disabilità fisica. Con le attuali, sempre più avanzate, tecniche diagnostiche è possibile valutare le lesioni corticali con molta precisione: per esempio “in una fettina di RM” è possibile visualizzare fino a 10-12 lesioni. Le lesioni della corteccia possono essere presenti in numero maggiore rispetto a quelle identificate nella WM. L’infiammazione nella SM nella WM e nella sostanza grigia (GM) avviene con tempi e modalità differenti. Nelle forme relapsing-remitting (SMRR), l’accumulo di disabilità nasce da questi due fenomeni ovvero l’infiammazione e le lesioni attive della WM e il sottostante processo di perdita di GM. Quest’ultimo, secondo il prof. Gallo,
inizia all’esordio di malattia per poi progredire, e correla sia con la disabilità fisica che con la disabilità cognitiva. Nella valutazione degli effetti di una terapia acquista significato quindi andare ad analizzare l’impatto di un determinato farmaco sull’accumulo di lesioni corticali e di atrofia. Un lavoro di Gallo P et al. condotto in pazienti in trattamento con IFN-beta 1a e GA (glatiramer acetato) mostra come entrambi questi farmaci abbiano effetto sulle lesioni corticali. In particolare il numero di pazienti privi di segni radiologici indicativi di patologia della corteccia era decisamente maggiore nel gruppo trattato rispetto a quanto riscontrato nel gruppo di soggetti non trattati. A 4 anni, i risultati confermano che l’introduzione precoce di una terapia antinfiammatoria ha un effetto positivo anche sull’infiammazione della corteccia. Quindi l’early treatment è decisamente superiore rispetto a un approccio “delayed” in quanto in grado di ridurre l’accumulo di lesioni corticali, di atrofia e di disabilità irreversibile. Ed è proprio questo, secondo il prof. Gallo, l’obiettivo da perseguire nella strategia terapeutica della SM. Un campo emergente nella patofisiologia della SM è il ruolo delle cellule Treg (regolatorie). La prof. Luisa Imberti, degli Spedali Civili di Brescia, ha presentato le ultime acquisizioni al riguardo focalizzando l’attenzione sul ruolo delle Treg in relazione alla terapia con IFN-beta. La quantificazione delle cellule Treg naturali e dell’attività delle cellule Tr1 nei pazienti in cui l’IFN-beta è biologicamente attivo potrebbe rappresentare un primo passo per l’identificazione di nuovi marcatori capaci di prevedere gli effetti della terapia. In pazienti in terapia con IFNbeta che sono stati seguiti nel tempo, prima e dopo l’inizio della terapia, e tra i quali sono stati individuati i pazienti in cui IFN-beta non era bioat-
tivo si evidenzia che a livello di pool totale, i linfociti Treg non presentano variazioni dovute alla terapia, né si riscontra un loro deficit prima dell’inizio del trattamento. Al contrario si riscontra uno “shift” fenotipico delle Treg, da Treg naive a Treg CM (central memory), con coinvolgimento della popolazione Tr1. Questi due fenomeni potrebbero spiegare almeno in parte il meccanismo attraverso il quale l’IFN-beta esplica i suoi benefici nella SM. Inoltre, la quantificazione dell’mRNA per IL-10 e CD-46 (metodica indiretta che permette di analizzare la sottopopolazione Tr1) potrebbe permettere di identificare precocemente i pazienti con un minor rischio di progressione della malattia perché alti produttori di mRNA per IL-10 e CD46, mentre l’analisi delle sottopopolazioni Treg (effettuata mediante citofluorimetria) potrebbe aiutare a individuare quei pazienti che presentano una più alta percentuale di cellule a elevata attività soppressoria. n
IL NUOVO PRESIDENTE SIN
Leandro Provinciali, direttore della Clinica Neurologica e del Dipartimento di Scienze Neurologiche degli Ospedali Riuniti di Ancona, è il nuovo Presidente della SIN. Il prof. Provinciali succede al prof. Aldo Quattrone, che ha diretto e presieduto la Società negli ultimi due anni.
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NEWS congressi NUTRIZIONE, CIBI ED EMICRANIA, 26 settembre 2015 - Roma
Il cervello al posto del cibo nella nuova visione copernicana della cefalea alimentare
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l 26 settembre si è svolto presso l’IRCCS San Raffaele Pisana di Roma l’incontro Nutrizione, Cibi ed Emicrania, indetto da Piero Barbanti, direttore dell’Unità per la Cura e la Ricerca su Cefalee e Dolore dell’Istituto romano. Da sempre alcuni alimenti sono ritenuti a rischio e sistematicamente esclusi dalla dieta di pazienti ritenuti particolarmente sensibili, ma le più recenti revisioni scientifiche indicano che una dieta di esclusione non è sufficiente a causa dei cofattori genetici soggettivi implicati. Come spiegato al convegno, il gut-brain axis, l’asse di collegamento fra metabolismo batterico intestinale e attività cerebrale risponde infatti a precise determinanti genetiche, diverse da persona a persona, che influenzano predisposizione e gravità di varie patologie e non solo delle cefalee (1).
SUPPLEMENTAZIONE COPERNICANA L’incontro romano segna il passaggio da una visione tolemaica dove al centro c’è il cibo a una visione copernicana con al centro il cervello, mentre il cibo ha solo un ruolo satellitare. “Ci stiamo rendendo conto - ha sottolineato il prof. Barbanti - che più che togliere, conviene aggiungere cibi e nutrienti (per esempio vitamina B2, magnesio, coenzima Q10, acido alfa-lipoico ecc.) con una supplementazione mirata. Le più recenti review escludono che il cioccolato e il glutammato monosodico (presente nel dado da cucina e nella cucina cinese) abbiano un ruolo scatenante nell’attacco emicranico. Sulla base di uno studio che abbiamo recentemente pubblicato (2) stiamo ad esempio mettendo a punto un nutra-
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ceutico per la prevenzione dell’emicrania con aura e delle sue complicanze a base di SOD, la superossido-dismutasi”. Magnesio. La dieta d’integrazione mirata ha un esempio ante litteram nella cefalea da carenza di magnesio (3): nei primi anni ’90 Kenneth M.A. Welch coniò la definizione di intense people per chi, oltre a condurre una vita convulsa e frenetica, instaura abitudini alimentari che riducono fortemente il magnesio nella dieta senza mai consumare cibi come crusca, farina di soia o integrale, frutta secca, verdura e carne, soprattutto vitello e manzo. Il rischio di attacchi è poi ulteriormente aggravato dallo stile di vita stressante di questi soggetti che fa aumentare l’eliminazione di magnesio. Con l’ormai dilagante diffusione del technofood, il cibo preconfezionato che meglio si adatta alla vita frenetica di oggi, il rischio sembra destinato ad aumentare e la supplementazione con magnesio sembra essere la corretta via di prevenzione. Partenio. Si va anche riscoprendo l’azione nutraceutica delle piante officinali: una recente revisione Cochrane conferma le proprietà del Tanacetum parthenium, chiamato dagli anglosassoni feverfew. Noto nel Medioevo come erba delle febbri, deriva il suo nome dalla parola greca “vergine” perché attenua i dolori mestruali. Più recentemente studi pubblicati su Lancet e British Medical Journal (3-4) hanno dimostrato che, oltre a ridurre frequenza e gravità degli attacchi, combatte anche il vomito associato al dolore. L’effetto deriverebbe dal partenolide, sostanza che esercita un’azione antiossidante protettiva, inibisce la sintesi
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delle prostaglandine pro-infiammatorie e avrebbe anche azione analgesica (5). Farfaraccio. La Petasites hybridus è un’altra erba antiemicranica nota come farfaraccio che compare fra le terapie preventive consigliate dalla SISC (6). Nel 2000 Manuel Grossman pubblicò per primo uno studio dove dimostrava che l’effetto di questa pianta somigliante alla lattuga raggiunge valori del 60 per cento: il suo principio attivo è la petasina, simile alla papaverina, ma con maggiori effetti sedativi e tranquillanti (7). Ginkgobiloba. Ugualmente efficace è il ginkgobiloba, pianta fossile presente sulla terra da 250 milioni di anni e che i medici della Grande Muraglia usavano fin dal 2800 a.C. nei deficit cognitivi, essendosi forse accorti dei suoi effetti sul microcircolo cerebrale. Ora ne è stata estratta la frazione fitosomiale ginkgolide B, che, associata a vitamina B2 e coenzima Q10, ha portato a un integratore simile a un vero e proprio farmaco, prescrivibile in Europa nella prevenzione dell’emicrania. La scelta delle sostanze associate al ginkgolide ha un preciso razionale: la vitamina B2 migliora il funzionamento dei circuiti implicati nella regolazione della soglia dolorifica e il coenzima Q10 riduce la formazione di radicali liberi, con un’azione sinergica a quella dello stesso ginkgolide B. Ma il suo punto di forza sarebbe l’antagonismo per il cosiddetto PAF, il fattore di aggregazione piastrinica. Nell’imminenza di un attacco emicranico, infatti, i vasi meningei rilasciano CGRP, peptide che provoca vasodilatazione e infiammazione, stimolando contemporaneamente pareti vasali e piastrine a rilasciare PAF, che prepara
il terreno al vero attacco operato dal CGRP. Il CGRP va così a stimolare il ganglio trigeminale che libera i segnali dolorosi che innescano l’attacco. Ma perché ciò accada, i neuroni trigeminali devono essere stati sensibilizzati all’azione del CGRP dal PAF e, se il ginkgolide lo impedisce, la cascata di eventi viene bloccata. Diete-farmaco. Esistono poi le cosiddette diete-farmaco: regimi alimentari capaci di influenzare l’andamento di varie malattie. Quella che ha raccolto la maggiore messe di dati è la dieta ketogenica (rapporto tra grassi e proteine/carboidrati di 5:1) nel trattamento dell’epilessia, soprattutto infantile. Dopo il riscontro di miglioramenti del 70 per cento nell’epilessia mioclonoastatica (8) uno studio dell’Hospital for Sick Children di Toronto ha appena riportato un’efficacia dell’82 per cento sullo stato epilettico refrattario (9). Le indicazioni della dieta ketogenica vanno crescendo e secondo uno studio svedese (9) i suoi effetti neuroprotettivi la renderebbero efficace anche nei disturbi del sonno e della memoria, fino alla demenza (11).
DIETA KETOGENICA NELL’EMICRANIA Al Convegno di Roma Cherubino Di Lorenzo del Don Gnocchi di Roma ne ha proposto l’impiego anche nell’emicrania, dove peraltro si usano da tempo farmaci antiepilettici nella terapia di profilassi. Già Ippocrate descriveva un epilettico che stava meglio se digiunava, ma è noto che nell’emicrania il digiuno, per via dell’ipoglicemia che procura, costituisce un fattore di scatenamento, ben studiato in chi, come musulmani ed ebrei, lo pratica per motivi religiosi durante il Ramadan (12) o lo Yom Kippur (13).
La dieta ketogenica, sviluppata alla Mayo Clinic negli anni ’20 a scopi dimagranti e perfezionata negli anni ’60 da Robert Atkins crea una situazione metabolica simile al digiuno. Non peraltro la sua ultima versione ha un nome quantomai indicativo: dieta LGIT, acronimo di Low Glycemic Index Treatment. Eppure sempre più studi ne hanno indicato il possibile impiego anche nell’emicrania a partire da quello di Darryl C. Devivo (14) del St. Louis Children’s Hospital che nel ’78 dimostrò su animale che la dieta ottiene una maggiore stabilità neuronale cerebrale opponendosi all’ipereccitabilità che sta alla base dell’emicrania e dell’epilessia. Nel 2006 Scott R. Strahlman della Columbia University, unico autore, riporta il caso della propria moglie migliorata dall’emicrania grazie a questa dieta (15). L’anno prima, Eric Heath Kossoff del Johns Hopkins Center di Baltimora, studioso di riferimento nella ketogenica per l’epilessia del bambino, ne aveva indicato l’impiego in caso di comorbidità fra cefalea emicranica e sindrome di Sturge-Weber (16). La prima vera dimostrazione di un effetto sul sistema nervoso centrale arriva comunque nel 2008: un’azione di rallentamento della spreading depression, l’onda di depolarizzazione elettrica che si propaga lentamente in direzione postero-anteriore durante l’attacco emicranico, associandosi a fenomeni vasomotori che procedono parallelamente a quelli elettrici (17), dimostrazione che pone il primo razionale di efficacia a ponte fra emicrania ed epilessia. Nel 2010, in uno studio pilota su adolescenti con cefalea cronica quotidiana (18), Kossoff non riporta però risultati significativi. I bias di quel primo studio sono stati messi in luce nel 2011 da uno studio del gruppo di Giorgio Zanchin dell’Università di Padova (19) il quale, primo italiano ad affacciarsi su questo fronte terapeutico, sottolinea come le conclu-
sioni interlocutorie di Kossoff fossero conseguenza quasi scontata del numero esiguo di pazienti studiati (solo 8), così come della loro scarsa aderenza a una dieta che, data l’età, facevano in fretta a considerare troppo restrittiva. I dati riportati da Di Lorenzo al convegno romano hanno fatto tesoro di queste precedenti esperienze e di due studi personali, entrambi conclusi nel 2013. Il primo sui miglioramenti a breve termine indotti su dolore e consumo dei farmaci (20) e il secondo condotto su una popolazione particolare: due sorelle gemelle 47enni in sovrappeso che hanno ottenuto il duplice risultato di un miglioramento del dolore e della linea (21). Cesare Peccarisi
BIBLIOGRAFIA 1) Ochoa-Repáraz J, Mielcarz DW, Begum-Haque S, Kasper LH. Gut, bugs and brain: Role of commensal bacteria in the control of CNS disease. Annals of Neurology, DOI: 10.1002/ana.22344 2) Palmirotta R, Barbanti P, De Marchis ML, Egeo G, Aurilia C, Fofi L, Ialongo C, Valente MG, Ferroni P, Della-Morte D, Guadagni G. Is SOD2 Ala16Val Polymorphism associated with Migraine with Aura phenotype? Antioxid Redox Signal 2015 Jan 20; 22(3): 275-9. doi:10.1089/ars.2014.6069. Epub 2014 Nov 11. 3) Johnson ES, Kadam NP, Hylands DM, Hylands PJ. Efficacy of feverfew as prophylactic treatment of migraine. Br Med J (Clin Res Ed) 1985; 291 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.291.6495.569 (Published 31 August 1985) 291: 569 4) Iversen HK, Nielsen TH, Olesen J, Tfelt-Hansen P. Arterial responses during migraine headache.
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2009; 30(8): 1014–1016. doi: 10.1111/j.14682982.2009.02016.x. 19) Maggioni F, Margoni M, Zanchin G. Ketogenic diet in migraine treatment: a brief but ancient history. Cephalalgia 2011 Jul; 31(10): 1150-1. doi: 10.1177/0333102411412089. 20) Di Lorenzo C, Coppola G, Sirianni G, Pierelli F. Short term improvement of migraine hea-
daches during ketogenic diet: a prospective observational study in a dietician clinical setting. J Headache Pain 2013; 14(Suppl 1): P219. doi: 10.1186/1129-2377-1-S14-P219. 21) Di Lorenzo C, Currà A, Sirianni G, Coppola G et al. Diet transiently improves migraine in two twin sisters: possible role of ketogenesis? Funct Neurol 2013 Oct-Dec; 28(4): 305–308.
MEETING ECTRIMS, 7-10 OTTOBRE - BARCELLONA
Progressi nella sclerosi multipla primaria progressiva
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i è da poco conclusa l’edizione di quest’anno, la 31ma, del congresso ECTRIMS (European Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis), l’appuntamento più atteso per chi si occupa di sclerosi multipla (SM) in Europa. I progressi compiuti nel corso di questi ultimi anni sul fronte della terapia e della diagnosi sono stati davvero enormi. Qui presentiamo i risultati relativi a un farmaco sperimentale che sembra davvero promettente per la SM primaria progressiva (SMPP). La SMPP colpisce circa il 10 per cento dei soggetti e presenta un andamento caratterizzato da un costante peggioramento delle funzioni neurologiche, fin dall’esordio. Si tratta di una forma che porta inesorabilmente il paziente ad altissimi gradi di disabilità e anche al decesso. Per questa grave forma di SM, fanno ben sperare i risultati presentati a Barcellona, dello studio ORATORIO, una delle comunicazioni più attese, che è stato condotto su ocrelizumab, una molecola in sperimentazione. Lo studio di fase III ha raggiunto il suo endpoint primario, dimostrando che il trattamento con ocrelizumab ha ridotto significativamente la progressione della disabilità clinica sostenuta per almeno 12 settimane rispetto al placebo, come misurato all’EDSS. ORATORIO è un trial randomizzato, in doppio cieco, multicentrico condotto per valutare l’efficacia e la sicurezza di ocrelizumab (600 mg somministrato per infusione ev ogni sei mesi) rispetto al placebo in 732 persone con PPMS. Oltre ai positivi risultati in termini di rallentamento della progressione di disabilità, la molecola ha mostrato anche un buon profilo di sicurezza, sovrapponibile al placebo. Ocrelizumab (R1594) è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro l’antigene di membrana CD20. Le cellule CD20- B positive sono un tipo specifico di cellule immunitarie che si ritiene rappresentino un fattore chiave per il danno alla mielina e all’assone che si osserva nelle persone con SM e che può portare a disabilità. Ocrelizumab si lega alle proteine di superficie delle cellule CD20 espresse su alcune cellule B, ma non sulle cellule staminali o sulle cellule del plasma. Pertanto, la possibilità di produrre nuove cellule B è conservata nelle persone trattate con ocrelizumab. Ocrelizumab è il primo farmaco in fase di sperimentazione a mostrare un effetto clinicamente rilevante e statisticamente significativo sulla progressione in questa forma di malattia.
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Un strumento in pi첫 per il Medico Il supplemento di Medico e Paziente, destinato a Medici di famiglia e Specialisti Algosflogos informa e aggiorna sulla gestione delle patologie osteo-articolari, sulla terapia del dolore e sulle malattie del metabolismo osseo
NEWS dalle associazioni GIORNATA NAZIONALE PARKINSON
La prevalenza della MALATTIA DI PARKINSON svelata dalle ASL italiane
La Giornata Nazionale Parkinson 2015, organizzata il 28 novembre dalla Fondazione LIMPE per il Parkinson onlus e dall’Accademia LIMPE-
In particolare la maggiore frequenza si riscontra in Veneto (Figura 1). Tenuto conto di tali caveat, se a Padova, città con il maggior tasso di malattia, si registrano 26,28 casi ogni 10mila abitanti, il valore più basso si rileva a Sanluri: appena 2,98 casi, che assegnerebbe alla sperduta cittadina
sarda del Bruncu Melas il primato di località più indenne da Parkinson d’Italia, un dato in linea con la bassa prevalenza dell’isola. Altro fattore disturbante nella rilevazione è il fatto che, al Centro-Sud, dove si registrano comunque le frequenze più basse, le prevalenze
Figura 1. Distribuzione della malattia di Parkinson in Italia
DISMOV, è stata l’occasione per divulgare una ricerca condotta dai ricercatori dell’Accademia volta a meglio definire la prevalenza in Italia dei pazienti affetti da malattia di Parkinson, quantificati finora nella misura di oltre 240mila soggetti La loro distribuzione geografica è stata ricavata in base alle richieste di esenzioni per malattia nelle varie ASL, posto che ogni paziente la inoltrasse alla propria. Tale presupposto ha però costituito un bias nella raccolta dei dati con il rischio di una sottostima della prevalenza: innanzitutto non è detto che tutti i pazienti facciano richiesta di esenzione. In secondo luogo c’è stato il mancato invio dei dati richiesti da parte di alcune ASL. Nonostante ciò, “anche dopo la correzione statistica di questi fattori - ha precisato Giovanni Defazio dell’Università di Bari, presidente onorario dell’Accademia - risulta chiaramente un gradiente geografico Nord-Sud”.
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Note: le regioni in bianco sono quelle dove le ASL non hanno mandato un numero sufficiente di risposte, e quindi non sono state inserite nell’indagine. Per le altre regioni, il gradiente di colore va dal più scuro, meno casi, al più chiaro, più casi. Elaborazione grafica dei dati a cura di Anna Maria Nannavecchia
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NEWS maggiori si osservano costantemente nelle ASL dei capoluoghi (Napoli, Bari, Palermo): ciò potrebbe far pensare a un maggior accesso ai servizi per richiesta di esenzione, piuttosto che per una maggiore prevalenza di malattia. Il fattore costi è infatti importante: all’Italia del Parkinson a macchia di leopardo si aggiunge quella delle spese disomogenee evidenziate da un altro studio dell’Alta Scuola di Economia e Management Sanitario, dell’Università Cattolica presentato dal suo direttore Americo Cicchetti: “Sia per quanto riguarda le spese del SSN (3.500-4.800 euro/anno a paziente), sia quelle dei malati (1.5002.700 euro/anno), i costi sono maggiori al Centro, rispetto a Nord e Sud. In base al numero di pazienti italiani si calcola comunque una spesa totale per il SSN compresa fra 1,1 e 1,3 miliardi di euro. Purtroppo la maggior parte delle Regioni non ha sviluppato uno specifico PDTA, cioè un percorso diagnosticoterapeutico-assistenziale, la cui definizione nazionale risolverebbe molte delle disomogeneità che, in maniera paradossale, sembrano far ammalare di Parkinson diversamente da regione a regione”. Ciononostante, a un incontro di pre-
sentazione della Giornata, tenutosi il 18 novembre nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, il presidente dell’Accademia Alfredo Berardelli, dell’Università La Sapienza di Roma ha rassicurato che “in Italia la ricerca nel Parkinson è di primissimo livello con strutture all’avanguardia, del tutto competitive con quelle europee e statunitensi. I nostri neurologi, figure essenziali in grado di seguire il paziente nelle varie fasi di malattia, sono professionisti a cui rivolgersi con piena fiducia”. Per trovare l’elenco delle strutture sanitarie italiane che hanno aderito alla Giornata e dispongono di ambulatori dedicati al Parkinson resta sempre consultabile il sito www.giornataparkinson.it, mentre sarà dismesso il numero verde 800 149626 attivato per dare informazioni sui centri che hanno proposto incontri informativi ed eventi locali aperti al pubblico in occasione della Giornata. Tra le iniziative dell’Accademia LIMPE-DISMOV è degno di nota il primo censimento nazionale sul problema delle cadute di cui i parkinsoniani sono vittime il doppio degli altri anziani, spesso procurandosi lesioni con ulteriore riduzione di mobilità e conseguente indebolimento. Due terzi di loro cadono continuamente con
perdita d’indipendenza e aumentato rischio di ospedalizzazione. Lo studio coordinato da Giovanni Abruzzese, dell’Università di Genova e presentato in occasione della Giornata Nazionale ha definito attraverso il lavoro di 19 Centri della penisola la situazione della popolazione italiana individuando parametri predittivi o comunque associati al rischio di caduta. Sia al Nord che al Sud il 42 per cento dei pazienti cade almeno una volta l’anno (media 23 cadute) rispetto al 17 per cento degli anziani di controllo e al rischio di cadere sono associati fattori come età, durata e gravità della malattia, stato cognitivo, presenza di ansia e depressione, ma soprattutto la durata di malattia e alcuni specifici disturbi del cammino. Come miglior terapia per le cadute e per la malattia di Parkinson in genere è stato individuato il movimento, tema al quale è stata intitolata la giornata che ha avuto come testimonial ufficiale il campione olimpionico Jury Chechi (https://www.youtube.com/ watch?v=LzwUq12It3U) che ha partecipato anche a un progetto AbbVie per i pazienti presso i centri di Riabilitazione di Pietro Marano, di Catania e di Maria Grazia Ceravolo, di Ancona. Cesare Peccarisi
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la nuova versione del sito e n i l n o www.medicoepaziente.it cambia volto!
Il nuovo sito si presenta come una galassia, che ha come centro la figura del Medico di Medicina generale. www.medicoepaziente.it non è un portale generico, e nemmeno la versione elettronica della rivista, ma un aggregatore di contenuti, derivanti da una pluralità di fonti, che possano essere utili al Medico di Medicina generale nel suo lavoro quotidiano.
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