la Neurologia italiana 4 17

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patologie neurodegenerative

L’impatto del bilinguismo sulla riserva cognitiva e il possibile ruolo neuroprotettivo nella demenza di Alzheimer

> D. Perani et al. •

Malattie rare

Adrenoleucodistrofia Dal sospetto diagnostico alla patogenesi e terapia

> Ilaria Di Donato, Antonio Federico •

XLVIII Congresso nazionale SIN

4

La sclerosi multipla all’attenzione dei neurologi italiani

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

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Anno XIII - n. 4 - 2017

Anno XIII - n. 4 - 2017

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Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel./Fax 024390952 info@medicoepaziente.it Direttore editoriale Anastassia Zahova abbonamenti Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi segreteria di redazione Concetta Accarrino progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Hanno collaborato a questo numero Ilaria Di Donato, Antonio Federico

direttore commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Stampa Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) Comitato scientifico Giuliano Avanzini, Milano Giorgio Bernardi, Roma Vincenzo Bonavita, Napoli Giancarlo Comi, Milano Ferdinando Cornelio, Milano Fabrizio De Falco, Napoli Paolo Livrea, Bari Mario Manfredi, Roma Corrado Messina, Messina Leandro Provinciali, Ancona Aldo Quattrone, Catanzaro Nicola Rizzuto, Verona Vito Toso, Vicenza

Comitato di redazione Giuliano Avanzini, Milano Alfredo Berardelli, Roma Giovanni Luigi Mancardi, Genova Roberto Sterzi, Milano Gioacchino Tedeschi, Napoli Giuseppe Vita, Messina Direttore Responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

So m m a r i o 4

news dalla letteratura

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malattie rare

Adrenoleucodistrofia

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Dal sospetto diagnostico alla patogenesi e terapia

L’adrenoleucodistrofia è una patologia genetica rara che si presenta con quadri clinici eterogenei e richiede un approccio multidisciplinare. Di estrema importanza è l’inquadramento clinico e diagnostico precoce, dato che nella maggior parte dei casi i pazienti sono suscettibili di trattamento Ilaria Di Donato, Antonio Federico

14 congressi

La sclerosi multipla all’attenzione dei neurologi italiani Anche quest’anno arriva puntuale il nostro aggiornamento dall’ultimo Congresso della Società italiana di neurologia che si è svolto a metà ottobre a Napoli w Fingolimod: una promessa rispettata. Dai dati sperimentali alla pratica clinica w Teriflunomide e il nuovo paradigma di successo terapeutico nella daily life w Alemtuzumab: dagli studi registrativi alla real life experience italiana w Verso il reset del sistema immunitario e la remissione a lungo termine nella sclerosi multipla. Razionale e nuove opportunità w Oltre vent’anni d’esperienza clinica nella SM: l’interferone beta in un contesto che cambia w Opicapone, una nuova opzione terapeutica nel paziente con malattia di Parkinson w Etnomedicina Estratto dall’intervento “Parte dal passato la lotta futura contro la malattia delle statue che tremano” di Cesare Peccarisi

la neurologia italiana

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NEWS dalla letteratura G. Comi, F. Patti, M. Filippi et al. Golden Study Group

Confronto di efficacia tra fingolimod e IFN beta-1b sui disturbi cognitivi nella SMRR. Risultati a 18 mesi dello studio multicentrico GOLDEN ❱❱❱ Journal of Neurology 2017; 264: 2436-49 È il primo studio randomizzato, in doppio cieco, che valuta in modo prospettico e ampio i disturbi cognitivi in individui con sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) trattati con fingolimod confrontato con un principio attivo di controllo, l’interferone (IFN) beta-1b. Dopo 18 mesi, entrambi i gruppi hanno mostrato miglioramenti in tutti i parametri cognitivi. Il tasso di ricadute, il numero totale e il volume delle lesioni T2/T1 captanti gadolinio erano più elevati con IFN beta-1b, come pure il cambiamento percentuale del volume cerebrale nel corso dello studio. Gli effetti sui parametri MRI e sul tasso di ricadute erano significativamente migliori con fingolimod, nonostante uno svantaggio in termini di caratteristiche dei pazienti al basale e di andamento dei drop-out (una quota maggiore di pazienti trattati con IFN beta-1b aveva interrotto anzitempo il trattamento: 41,18 vs 8,49 per cento; p ≤ 0.0001; e i soggetti che avevano completato lo studio erano con probabilità coloro che rispondevano meglio all’interferone). Sicurezza e tollerabilità di entrambi i trattamenti erano in linea con gli studi precedenti. Lo studio GOLDEN è uno studio pilota che ha arruolato 157 pazienti con SMRR e con compromissione cognitiva già allo screening, randomizzati (2:1) per ricevere fingolimod (0,5 mg/die) o IFN beta-1b (250 microg a giorni alterni). I pazienti del gruppo fingolimod avevano caratteristiche cliniche e quadri MRI al basale più severi rispetto a quelli con IFN beta1b. La compromissione cognitiva è stata valutata con una batteria di test validati, quali Rao’s Brief Repeatable Battery (BRB), Delis-Kaplan Executive Function System test (DKEFS) e Montgomery-Asberg Rating Scale (MADRS) per la valutazione della depressione che spesso accompagna i disturbi cognitivi. Rispetto alla sicurezza, non sono emerse differenze significative tra i due trattamenti, eccetto un numero maggiore di effetti collaterali con fingolimod (blocco atrio-ventricolare di secondo grado dopo la prima dose del farmaco) e una percentuale maggiore di pazienti con una recidiva della SM con IFN beta-1b. Sebbene su un campione limitato, lo studio GOLDEN conferma il profilo di rischio-beneficio favorevole di fingolimod riferito da trial precedenti.

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numero 4 · 2017 la neurologia italiana

C. Babiloni, C. Del Percio, M.F. De Pandis et al.

Anomalie dei meccanismi di sincronizzazione corticale nei disturbi cognitivi di grado lieve dell’Alzheimer e del Parkinson. I dati da uno studio EEG retrospettivo ❱❱❱ Journal of Alzheimer’s Disease 2017; 59: 339-58 Le sorgenti corticali dei ritmi encefalografici in veglia rilassata a occhi chiusi (rsEEG) possono rivelare anomalie di diverso tipo della sincronizzazione corticale nei pazienti con disturbi cognitivi di grado lieve (MCI) dovuti rispettivamente a malattia di Alzheimer (ADMCI) e di Parkinson (PDMCI), rispetto ai soggetti sani. Sebbene i ritmi rsEEG non siano specifici, possono fornire un indice dell’ampiezza delle anomalie della struttura e delle funzioni cerebrali nei soggetti ADMCI e PDMCI, in modo non invasivo, non stressante e cost-effective. Nella pratica clinica, i marker rsEEG potrebbero essere utili per una diagnosi differenziale dei disturbi cognitivi lievi dovuti a queste patologie, nello staging della malattia, nel suo monitoraggio nel tempo e nella ricerca di farmaci. A parità di diagnosi di MCI in presenza di Alzheimer o di Parkinson, ritmi rsEEG anomali possono rivelare per esempio un paziente candidato a una progressione rapida della malattia. Sono in sintesi le considerazioni di uno studio retrospettivo ed esplorativo internazionale che ha coinvolto anche diversi centri italiani e ha esaminato dati clinici e rsEEG di archivio di 75 ADMCI, 75 PDMCI e 75 anziani normali sotto il profilo cognitivo (Nold). La frequenza alfa individuale (IAF) è stata usata per determinare i range dei ritmi in banda delta, theta, alfa 1, alfa 2 e alfa 3. I risultati mostrano che, rispetto al gruppo Nold, le attività delle sorgenti dei ritmi alfa 2 e alfa 3 posteriori erano maggiormente anomale nel gruppo ADMCI rispetto al PDMCI, mentre le attività della sorgente delta parietale erano più anomale nel gruppo PDMCI rispetto all’ADMCI. Questi riscontri correlavano con gli score della Mini-Mental State Evaluation e classificavano correttamente gli individui Nold e quelli malati. Si tratta di risultati preliminari che motivano ulteriori studi prospettici e multicentrici, che impieghino protocolli unici per la raccolta dei dati, valutazioni dettagliate dello stato cognitivo dei pazienti e sistemi armonizzati per le rilevazioni EEG (limiti del presente studio svolto su dati di archivio).


NEWS D. Perani, M. Farsad, J. Abutalebi et al.

Il bilinguismo come risorsa: l’impatto sulla riserva cognitiva e il possibile ruolo protettivo nella demenza di Alzheimer ❱❱❱ Proc Natl Acad Sci USA 2017; 114: 1690-5 Il bilinguismo praticato per tutta la vita può agire come una riserva cognitiva e può ritardare l’insorgere della demenza di 4-5 anni circa. Un recente studio svolto in collaborazione tra il San Raffaele di Milano e l’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige di Bolzano ha studiato l’attività metabolica cerebrale in stato di riposo e la connettività neuronale in individui bilingui o monolingui con diagnosi di probabile demenza di Alzheimer (AD), per approfondire l’ipotesi circa il possibile ruolo neuroprotettivo del bilinguismo. Il metabolismo e la connettività neuronale sono stati studiati con FDG-PET. Degli 85 pazienti con probabile AD

arruolati, 45 erano bilingui italo-tedeschi e 40 monolingui. I bilingui erano in media 5 anni più anziani e con un livello di istruzione più basso dei monolingui. Malgrado quadri più severi di ipometabolismo cerebrale, i pazienti bilingui mostravano performance migliori dei monolingui nella memoria verbale a breve e lungo termine e nelle abilità visuo-spaziali, ma non in quelle di linguaggio (dato da interpretare con cautela: anche i soggetti bilingui sani hanno di solito più difficoltà dei monolingui nelle prove di linguaggio). Due meccanismi potrebbero spiegare l’effetto neuroprotettivo del bilinguismo. Il primo: l’uso per tutta la vita di due lingue determina cambiamenti strutturali, come l’aumento della densità delle sostanze grigia e bianca in network specifici, per esempio correlati con le funzioni esecutive generali e con l’apprendimento del linguaggio. Il secondo, la compensazione neurale, permette di superare la perdita strutturale da atrofia (invecchiamento) o da neurodegenerazione. La più forte connettività funzionale indotta dal bilinguismo è stata evidenziata con FDG-PET in aree come il network frontoparietale per il controllo esecutivo e il default mode network. Nello studio, l’effetto protettivo del bilinguismo era indipendente da potenziali fattori confondenti come istruzione, genere, occupazione, contesto urbano o rurale.

C. Tassorelli, M. Aguggia, P. Cortelli et al.

L’impiego di onabotulinotossina A in seconda opzione per la gestione dell’emicrania cronica: indagine su 63 Centri per la cura delle cefalee in Italia ❱❱❱ Journal of Headache and Pain 2017; 18: 66 A circa 4 anni dall’approvazione in Italia dell’onabotulinotossina di tipo A (OBT-A) per il trattamento dell’emicrania cronica in soggetti che non rispondono o non tollerano i farmaci per os, si può dire che questa opzione terapeutica sia usata in modo corretto, secondo le attuali raccomandazioni. A tali conclusioni giunge un’indagine condotta via web sui medici che lavorano nei Centri Cefalee (63). Quasi tutti i Centri usavano OBT-A da più di 1 anno e la maggioranza la somministrava secondo il paradigma di trattamento PREEMPT. Nel primo anno di profilassi, il 93,6 per cento dei medici ripeteva le iniezioni ogni 3 mesi come raccomandato; negli anni successivi gli intervalli erano variabili. Il 58,7 per cento dei clinici ha definito la risposta all’OBT-A come una riduzione ≥50 per cento dei giorni di emicrania e il 25,4 come una riduzione ≥30 per cento. Il trattamento aveva di solito inizio dopo il fallimento di vari principi attivi per la profilassi dell’emicrania: più di 3 agenti per il 60 per cento dei medici, come raccomandato dalle linee guida. Anche nella definizione di non-responder vi era un buon accordo con le indicazioni della letteratura, ovvero il fallimento di almeno tre cicli di trattamento. Circa il 60 per cento dei medici considerava questa opzione farmacologica come terapia di lunga durata, mentre un terzo riteneva che il trattamento potesse essere interrotto nei pazienti che mostravano un beneficio per 6 o più mesi. Secondo l’80 per cento dei clinici, la somministrazione precoce di OBT-A dopo l’esordio dell’emicrania cronica si associava con outcome migliori e il 47,6 per cento era del parere che l’OBT-A dovesse essere raccomandata come una opzione di prima linea. la neurologia italiana

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Malattie rare

Adrenoleucodistrofia Dal sospetto diagnostico alla patogenesi e terapia L’adrenoleucodistrofia è una patologia genetica rara che si presenta con quadri clinici eterogenei e richiede un approccio multidisciplinare. Di estrema importanza è l’inquadramento clinico e diagnostico precoce, dato che nella maggior parte dei casi i pazienti sono suscettibili di trattamento Ilaria Di Donato, Antonio Federico Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Neuroscienze, Università degli Studi di Siena

L’

adrenoleucodistrofia (X-ALD, OMIM #300100) è una malattia neurometabolica rara che coinvolge sistema nervoso e surrene, panetnica, con una prevalenza di 1 su 20.000 maschi e 1 su 14.000 femmine, ereditaria, con trasmissione recessiva X-legata, causata da mutazioni del gene ABCD1 (gene ATP Binding Cassette Transporter subfamily D member 1). Tale gene codifica per una proteina transmembrana perossisomale (ALDP o ABCD1), deputata a veicolare gli acidi grassi a catena molto lunga (very long chain fatty acid, VLCFA) all’interno dei perossisomi. Il cattivo funzionamento di ABCD1 comporta un’alterata degradazione dei VLCFA con conseguente accumulo plasmatico e tissutale.

dei livelli di VLCFA (Figura 1). I VLCFA, per le loro proprietà altamente idrofobiche, determinano la rottura o la perdita delle guaine mieliniche periferiche e centrali, mediante azione diretta sugli oligodendrociti e sulle cellule di Schwann e inducono morte cellulare alterando l’omeostasi del calcio e determinando disfunzione mitocondriale mediante l’induzione di stress ossidativo. A livello surrenalico, il prodotto del gene ABCD1 è altamente espresso e l’accumulo anomalo di VLCFA altera direttamente la funzione cellulare alterando la viscosità della membrana cellulare surrenale, inibendo gli effetti stimolatori dell’ACTH sulle cellule surrenali. I maggiori contributi agli studi clinici, patogenetici e terapeutici su tale malattia sono stati dati da Ann e Hugo Moser.

Patogenesi

Aspetti Clinici

I perossisomi, organelli ubiquitari presenti in tutte le cellule eucarioti, sono coinvolti in vari processi cellulari, ma soprattutto nel metabolismo lipidico. Sono deputati alla β-ossidazione di VLCFA (>C22:0) e di altri substrati lipidici (acido pristanico, intermedi degli acidi biliari, prostanoidi ecc.). La β-ossidazione di questi substrati è limitata ai perossisomi e non all’interno dei mitocondri, dove avviene la β-ossidazione di acidi grassi a catena lunga, media e corta (con 18 atomi di carbonio o meno). La proteina perossisomale ALDP interviene nel trasporto dei VLCFA attivati come esteri del coenzima-A dal citosol ai perossisomi. Nell’adrenoleucodistrofia, l’assenza o la disfunzione di ALDP determina un accumulo citosolico di questi esteri che sono sottoposti a ulteriore allungamento mediante l’azione di una elongasi specifica (ELOVL1) con conseguente incremento citosolico

Il quadro clinico è marcatamente eterogeneo, anche all’interno dello stesso pedigree, e differisce molto tra maschi e femmine: nei maschi le manifestazioni cliniche sono più gravi e precoci rispetto ai soggetti di sesso femminile, che possono essere asintomatici o manifestare sintomi lievi a esordio più tardivo. I vari fenotipi sono riassunti in tabella 1, l’andamento clinico è mostrato in figura 2.

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w Fenotipi clinici Adrenomieloneuropatia (AMN) nei maschi. Tale forma rappresenta circa il 40-45 per cento dei maschi affetti. Si manifesta come assonopatia distale dei tratti corticospinali, determinando un quadro di paraparesi spastica, atassia sensitiva, disfunzione sfinterica e sessuale, neuropatia peri-


Figura 1. Meccanismo cellulare di accumulo di VLCFA

Fonte: http://www.x-ald.nl/

Circa il 20-35 per cento di pazienti AMN può sviluppare tardivamente una forma cerebrale infiammatoria (CAMN), presentando la stessa prognosi infausta delle forme cerebrali di ALD. Tale rischio, anche se non si azzera mai, diminuisce in maniera significativa dopo i 45 anni di età. L’insufficienza surrenalica compare in epoca infantile nella quasi totalità dei casi di AMN. Il 20 per cento circa presenta ipogonadismo con infertilità e un’elevata percentuale presenta alopecia. Forma cerebrale di ALD (CALD). Colpisce esclusivaFigura 2. Andamento clinico nell’adrenoleucodistrofia mente i maschi e si manifesta con una demielinizzazione ADL cerebrale infiammatoria della sostanza bianca cerebrale rapidamenPreInsufficienza Mielopatia sintomatici te progressiva con maggior coinvolgimento dei lobi pariesurrenalica (screening) to-occipitali. Il rischio di un maschio affetto di sviluppare questa forma è stimato attorno al 60 per cento, inclusa la percentuale di quelli inizialmente diagnosticati come AMN. La forma classica è quella infanEtà (anni) tile, con esordio tra i 3 e i 12 anni (CCADL) (circa il 35-40

ferica assonale sensitivo-motoria. In circa 2/3 dei pazienti, l’esordio è nella terza-quarta decade di vita e l’aspettativa di vita è buona (raggiungimento dell’ottava decade di vita con disabilità lentamente progressiva in un arco di 10-15 anni); nel restante terzo, l’esordio è più precoce e la progressione di malattia più rapida (disabilità in 3-5 anni). Oltre il 63 per cento di pazienti AMN presenta aree di alterato segnale della sostanza bianca cerebrale che si comportano in maniera asintomatica o paucisintomatica.

la neurologia italiana

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Malattie rare

Tabella 1

Fenotipi clinici nell’X-ALD CCALD

AdolCALD

ACALD

AMN senza forma cerebrale

Frequenza (%)

35-40

4-7

2-3

40-45

Età d’esordio (anni)

5-12

13-19

>20

>20

Fenotipo

Disturbi comportamentali, cognitivi, deficit neurologici, epilessia, non mieloneuropatia

Disturbi comportamentali, cognitivi, deficit neurologici, epilessia, non mieloneuropatia

Disturbi psichiatrici, declino cognitivo, deficit neurologici, non mieloneuropatia

Paraparesi spastica lentamente progressiva, turbe sfinteriche, neuropatia sensitivomotoria assonale

Lesioni della sostanza bianca alla RM cerebrale

Diffuse

Diffuse

Diffuse

Alterazioni dei tratti corticospinali

Insufficienza surrenalica

Presente

Presente

Presente

Presente, insufficienza anche testicolare

Progressione

Rapida

Rapida

Rapida

Lenta

per cento dei casi). L’esordio prima dei 3 anni di età è raro e, in genere, più è precoce l’esordio clinico, più rapida è la progressione. Forme adolescenziali (AdolCALD) e adulte (ACALD) sono più rare e meno gravi. Il quadro clinico in genere è subdolo, manifestandosi con turbe comportamentali, simili ai sintomi presenti nell’ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder). Compaiono successivamente e rapidamente alterazioni cognitive, motorie, cerebellari, visive (cecità centrale), uditive (ipoacusia neurosensoriale). Le crisi epilettiche possono manifestarsi in corso di malattia o essere il primo sintomo. La prognosi è in genere infausta, con durata media di malattia poco superiore ai 10 anni e stato vegetativo in genere entro 5 anni dall’esordio clinico. La forma adulta esordisce in genere con disturbi psichiatrici, con aspetti ossessivo-compulsivi e turbe di personalità, che possono precedere anche di anni il decadimento cognitivo e i segni motori. Infezioni o traumi cerebrali possono, come in altre malattie neurodegenerative, essere la causa scatenante di una sintomatologia silente. Un 10 per cento di pazienti con neuroimaging tipico di CALD può non entrare nello stato infiammatorio attivo, un fenotipo che è definito “X-ALD cerebrale cronico o arrestato”, tuttavia le lesioni possono riattivarsi anche dopo molti anni. Fenotipo solo Addison. Rappresenta circa il 10-20 per cento dei maschi affetti e si manifesta con insufficienza surrenalica primaria (malattia di Addison) come primo e spesso unico sintomo in genere entro la prima decade di vita. Si manifesta con iperpigmentazione cutanea, astenia, nausea, perdita di peso, ipotensione, ipoglicemia, alopecia. L’insufficienza surrenalica primitiva acuta, o crisi surrenalica, può essere il primo segno di adrenoleucodistrofia. Molti di questi pazienti, tuttavia, svilupperanno AMN in età giovane-adulta e sono a

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rischio di sviluppare la forma cerebrale. I reperti principali sono bassi livelli di cortisolo basale e dopo test di stimolazione elevati livelli di ACTH. In un terzo circa di pazienti è inoltre presente alterata risposta di aldosterone. Sono tuttavia descritti casi di AMN con normale test di stimolazione all’ACTH. L’adrenoleucodistrofia va dunque sospettata in tutti i soggetti maschi con malattia di Addison. X-ALD nelle femmine. Tipicamente, i sintomi appaiono in quarta-quinta decade con un fenotipo AMN e manifestazioni cliniche meno gravi. La forma cerebrale è estremamente rara, e nei rari casi descritti è stata attribuita a un’alterata inattivazione del cromosoma X portatore del gene ABCD1 mutato. Altrettanto rara, nelle femmine portatrici, la malattia di Addison (<1 per cento). VLCFA possono essere aumentati nel plasma, ma a livelli minori rispetto ai maschi. Studi più recenti sostengono che, con l’aumentare dell’età, la maggior parte se non la totalità delle femmine sviluppano i sintomi dell’AMN. Spesso questi casi sono diagnosticati erroneamente come sclerosi multipla. Fenotipo X-ALD “asintomatico/MRI normale”. Sono stati descritti più di 200 maschi X-ALD completamente asintomatici, persino senza segni di insufficienza surrenalica, oltre la quinta decade di vita. w Iter diagnostico Indagini biochimiche Nel 70 per cento dei maschi affetti, i livelli di ACTH sono elevati a causa del mancato effetto stimolatorio sulle cellule surrenali e il livello di cortisolo plasmatico e urinario basale e dopo stimolo di ACTH. Spesso anche il DHEA (deidroepiandrosterone) e il DHEAS (deidroepiandrosterone solfato) possono essere bassi. L’ipocorticosurrenalismo si accompa-


AMN con forma cerebrale

Fenotipo solo Addison

20% di pazienti con AMN

50% nei bambini, diminuisce con l’età Non nota

>20

>2

>40

Paraparesi spastica, turbe sfinteriche, neuropatia sensitivo-motoria assonale, disturbi psichiatrici, declino cognitivo, deficit neurologici

Insufficienza surrenalica senza segni neurologici

Asintomatico/fenotipo AMN

Parieto-occipitali, frontali, centri semiovali

Normale

Lieve alterazione dei tratti cortico-spinali

Presente, insufficienza anche testicolare

Presente

Raro (<1%)

Rapida

Assente

Lenta

gna a neutropenia con linfocitosi ed eosinofilia relativa e, talvolta, ipoglicemia e aumento dell’azotemia. Nelle fasi avanzate si riscontra iperkaliemia, iponatremia e modesta acidosi. Talvolta si associa insufficienza testicolare con testosterone ridotto ed elevati valori di LH e FSH. Tali alterazioni biochimiche non sono mai riscontrate nei portatori. I valori plasmatici di VLCFA sono elevati in tutti i maschi affetti, fin dalla nascita, indipendentemente da età, durata di malattia, stato metabolico e sintomi clinici. I pazienti non trattati mantengono approssimativamente stabili i valori di VLCFA per tutta la vita. Il parametro diagnostico più frequentemente usato è la concentrazione totale di acido ecosanoico (C26:0) e il rapporto di questi due con acido docosanoico (normali valori di ratio C24:0/C22:0 <1,0 e C26:0/C22:0 <0,02) (Tabella 2). Alternativamente, può essere misurato il rapporto di C26:0/ C22:0 o C24:0/C22:0, perché C22:0 resta immodificato o è persino lievemente ridotto nel plasma di pazienti maschi. Mentre il dosaggio del C26:0 è altamente specifico nei maschi, è individuato solo nell’85 per cento circa delle femmine portatrici. Così, l’indagine genetica è necessaria per l’indiviTabella 2

Femmine X-ALD

duazione delle femmine eterozigoti. Va considerato che i livelli di VLCFA sono aumentati anche in alcune altre malattie perossisomali, così come in pazienti che seguono una dieta chetogenica. Risonanza magnetica (RM) cerebrale Tutti i pazienti con una diagnosi di ALD/AMN dovrebbero sottoporsi a RM dell’encefalo per valutare se è presente un coinvolgimento cerebrale e andrebbe ripetuta ogni 6 mesi nei maschi presintomatici di età compresa tra i 3 e i 12 anni e annualmente dopo i 45 anni. Le anomalie cerebrali alla RM precedono i sintomi nei pazienti con la forma cerebrale di adrenoleucodistrofia. Il quadro tipico è caratterizzato da lesioni che partono dallo splenio del corpo calloso e diffondono nelle aree parietoccipitali della sostanza bianca bilateralmente, ma in alcuni casi può essere limitato a un solo lato, soprattutto se un precedente trauma ha fatto da trigger. Le fibre a U sono in genere risparmiate. In molti pazienti possono essere distinte 2 zone: una anteriore dove la demielinizzazione avanza, meno danneggiata di quella posteriore. Dopo somministrazione

Concentrazioni plasmatiche di VLCFA

VLCFA

Valori normali

Maschi con X-ALD

Femmine con X-ALD

C26:0 (µg/ml)

0,23±0,09

1,30±0,45

0,68±0,29

C24:0/C22:0

0,84±0,10

1,71±0,23

1,30±0,19

C26:0/C22:0

0,01±0,004

0,07±0,03

0,040±0,020

Fonte: Steinberg at al., 2008 la neurologia italiana

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Malattie rare

Figura 3. Possibile modello di neuroinfiammazione

Refrattarietà a terapie infiammatorie Sintomi clinici Difetto intrinseco di monociti

Incapacità a contenere l’infiammazione

Arresto spontaneo dell’infiammazione

Demielinizzazione spontanea o indotta

di mezzo di contrasto, una rima di enhancement separa le 2 zone. La zona anteriore rappresenta la zona in cui il processo di demielinizzazione è attivo senza infiammazione, la zona intermedia rappresenta la zona con segni di preminente infiammazione, la zona posteriore è completamente demielinizzata e distrutta. In quest’ultima, si possono riscontrare aree di cavitazione e calcificazione. Negli stadi avanzati, è coinvolta tutta la sostanza bianca. In più rari casi, la demielinizzazione può iniziare dalle aree frontali e dal rostro del corpo calloso, e in una percentuale ancora più bassa di pazienti, può esserci un coinvolgimento concomitante, ma indipendente delle aree frontali e parietoccipitali. In alcuni pazienti, che sono in genere adulti maschi con segni clinici di AMN, i tratti frontopontini o corticospinali possono essere le uniche proiezioni alterate. Con la progressione della malattia, possono emergere alterazioni anche a livello dei peduncoli cerebellari, splenio del corpo calloso e radiazioni ottiche. Un pattern ancora meno frequente è caratterizzato da interessamento simmetrico della sostanza bianca cerebellare, peduncoli cerebrali medi e tronco encefalico. Loes et al. hanno introdotto un sistema per valutare le alterazioni RM, mediante uno score che va da 0 a 32 (0: normale, 32: molto grave) per stimare il grado e l’estensione delle lesioni iperintense nelle sequenze FLAIR (Fluid Attenuated Inversion Recovery) o T2-pesate, così come il grado di atrofia regionale. Tale scala ha dimostrato di avere un valore predittivo per la risposta al trapianto di cellule staminali emopoietiche (HSCT). Per l’AMN, il reperto principale è l’atrofia del midollo spinale, che può

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però mancare nella metà circa dei pazienti e comparire solo in fase avanzata di malattia. Enhancement dopo mezzo di contrasto non è osservato nelle AMN. Sono riportati casi con coinvolgimento delle fibre frontopontine o corticospinali senza alterazioni periventricolari.

Indagine genetica Il gene ABCD1 mappa il cromosoma Xq28 e consta di 10 esoni, e codifica per la proteina ABCD1 Instabilità o ALDP, lunga 745 aminoacidi. della membrana mielinica Le mutazioni sono per circa il 93 VLCFA-mediata per cento identificate con analisi di sequenza del DNA, solo nel 6 per cento dei casi metodi come Fattori ambientali PCR (reazione polimerasica a caproinfiammatori tena) quanitativa, MLPA (multiple cerebrali ligation-dependent probe amplification) o Southern blot sono usati per individuare ampie delezioni, duplicazioni o riarrangiamenti cromosomici. A oggi, sono descritte 717 mutazioni nel database X-ALD (http://www.x-ald.nl) e il 51 per cento sono rappresentate da mutazioni missenso, il 28 sono mutazioni frameshift, il 12 sono mutazioni non senso, il 6 mutazioni puntiformi e il 3 per cento ampie delezioni di uno o più esoni. Il tasso di mutazioni de novo è tra il 5 e il 19 per cento. Mutazioni missenso sono state trovate lungo l’intero gene e sono state identificate 209 differenti singole sostituzioni aminoacidiche come mutazioni missenso patogene. A oggi, una correlazione genotipo-fenotipo non è stata dimostrata. Persino ampie delezioni o mutazioni frameshift che determinano l’assenza completa della proteina sono associate a un fenotipo AMN lieve, e all’interno di uno stesso pedigree sono spesso presenti fenotipi clinici differenti, anche in gemelli monozigoti. Essendo una patologia X-legata, mentre i figli di sesso maschile di maschi affetti non erediteranno mai il cromosoma X affetto, quelli di sesso femminile saranno automaticamente portatori dell’allele mutato; per le femmine portatrici, la probabilità di trasmissione del gene mutato è del 50 per cento indipendentemente dal sesso. Rare eccezioni sono i casi di mosaicismo gonadico dove sono previsti diversi tassi di rischio di trasmissione. Potenziali evocati, elettromiografia, elettroneurografia Potenziali evocati motori e somatosensoriali sono alterati nei pazienti AMN. I potenziali evocati visivi, e in percentuale minore gli uditivi, risultano precocemente alterati nella forma cerebrale di adrenoleucodistrofia. L’elettromiografia è nella norma, l’elettroneurografia mostra un pattern di neuropatia mielinica.


Esame del liquor cefalorachidiano Elavati livelli di IgG liquorali e presenza di bande oligoclonali possono essere riscontrati nel liquor di pazienti con CALD. Sono riportati anche elevati livelli di metalloproteasi e citochine proinfiammatorie liquorali. Neuropatologia Nel sistema nervoso centrale, ALDP è espressa prevalentemente in oligodendrociti, microglia, astrociti e cellule endoteliali, ma non nei neuroni. Inclusioni lipidiche contenenti colesterolo, fosfolipidi e gangliosidi esterificati con VLCFA saturati sono stati trovati in tutti i tessuti colpiti, anche nelle regioni morfologicamente normali, indicando che le anomalie biochimiche precedono le alterazioni istopatologiche. L’esame neuropatologico di lesioni del midollo spinale e del sistema nervoso periferico osservato nell’AMN mostra un’assonopatia distale non infiammatoria senza alterazioni mieliniche significanti. In molti casi la malattia di solito colpisce le colonne dorsali del midollo cervicale e i tratti corticospinali nei segmenti toracolombari del midollo spinale. In un discreto numero di casi, aree sporadiche di demielinizzazione senza segni di infiammazione possono essere rinvenute nella sostanza bianca cerebrale. Le lesioni tipiche della CALD sono ampie aree di demielinizzazione della sostanza bianca con risparmio della corteccia e delle fibre arcuate, con iniziale interessamento delle regioni parietoccipitali nell’85 per cento dei casi e con progressione asimmetrica delle lesioni verso i lobi frontali o temporali. Le lesioni possono talvolta coinvolgere il tronco encefalico, soprattutto il ponte, mentre il midollo spinale è in genere risparmiato, fatta eccezione per i casi di degenerazione bilaterale dei tratti corticospinali. Diagnosi differenziale Ogni fenotipo entra in diagnosi differenziale con una serie di patologie: leucodistrofie da deficit di enzimi lisosomiali, panencefalite sclerosante subacuta, ceroidolipofuscinosi entrano in diagnosi differenziale con la forma CCALD; paraparesi spastiche ereditarie, sclerosi multipla, lesioni del midollo spinale vanno invece differenziate dal fenotipo AMN. Interessante il confronto con la sclerosi multipla, con la quale X-ALD condivide alcuni aspetti quali l’enhancement dopo mezzo di contrasto con gadolinio, la presenza di bande oligoclonali nel liquor, elevati livelli di IgG, macrofagi leganti IgG nel cervello di pazienti ALD (Figura 3). Tuttavia, terapie immunomodulanti e immunosoppressive si sono dimostrate fallimentari nell’adrenoleucodistrofia. In figura 3, un modello ipotetico illustra i possibili eventi sequenziali che determinano la demielinizzazione infiammatoria nei soggetti CALD.

Terapia w Terapia patogenetica Trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche

(HSCT). È il trattamento di scelta negli stadi precoci di XALD cerebrale, dove può determinare una stabilizzazione a lungo termine e talvolta un miglioramento del quadro clinico. Le cellule staminali possono essere ricavate dal sangue periferico, midollo osseo e sangue del cordone ombelicale di donatori immunocompatibili. Sebbene il meccanismo dell’effetto terapeutico è ancora poco chiaro, le cellule del midollo osseo esprimono il gene ABCD1 e la riduzione dei livelli di VLCFA dopo il trapianto di midollo osseo è un utile biomarker per la valutazione dell’attecchimento o rigetto del trapianto. È stato dimostrato che le cellule derivate dal midollo osseo superano la barriera ematoencefalica e che una porzione di microglia perivascolare è gradualmente sostituita da cellule derivate dal donatore. Il trapianto può anche diminuire la risposta infiammatoria cerebrale così come la perossidazione lipidica e il danno proteico. Una stabilizzazione della malattia si ha in genere a 6 mesi dal trapianto. L’attuale strategia è quella di monitorare pazienti asintomatici mediante RM dell’encefalo a intervalli di 6 mesi/1 anno e valutare l’opportunità di HSCT quando il pattern RM avanza e la disabilità clinica è lieve. Non è invece raccomandato per pazienti con uno stadio cerebrale avanzato di malattia, dove le evidenze di un miglioramento sono scarsissime, se non peggiorative. HSCT non è indicato per le AMN per lo sfavorevole rapporto rischio-beneficio: 5 per cento di mortalità legata alla procedura e 50 per cento circa di pazienti che non svilupperanno mai la forma cerebrale. Inoltre, non è chiaro se il trapianto sia efficace nei confronti dell’assonopatia non infiammatoria tipica dell’AMN. Non c’è evidenza di miglioramento dell’insufficienza surrenalica dopo HSCT. Terapia genica autologa di cellule staminali ematopoietiche (HSC) trattate con vettori lentivirali. È il caso di pazienti senza donatori HLA-compatibili o di pazienti adulti con CALD, dove è presente un più alto rischio di mortalità del trapianto allogenico rispetto ai bambini. In questa procedura, le cellule CD34+ di pazienti X-ALD sono transfettate ex-vivo mediante un vettore lentivirale derivato dal virus HIV1 che codifica per il cDNA del gene ABCD1. Come risultato, il 7-14 per cento dei granulociti, monociti, linfociti B e T esprimono ALDP con outcome clinici che sono comparabili al trapianto allogenico HSCT. Tuttavia, le preoccupazioni di biosicurezza per quanto riguarda l’uso di vettori lentivirali, tra mutagenesi inserzionale da disregolazione mediata dagli enhancer di geni vicini o splicing aberranti, devono essere prese in considerazione. Come per il trapianto allogenico, i pazienti sottoposti a questa procedura non migliorano l’insufficienza surrenalica. Terapia dietetica. Le terapie dietetiche includono una restrizione di introito di grassi e in particolare di VLCFA e grassi saturi. L’introito di grassi è limitato al 15 per cento delle calorie globali e sono tollerati non oltre 10 mg di C26:0. Cibi ricchi di VLCFA sono oli vegetali, pesce grasso, carne, bucce di frutta e verdura, semi di frutta, cereali e noci; cibi ricchi di acidi grassi saturi sono oli vegetali, pesce grasso, carne, la neurologia italiana

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Malattie rare latte e derivati, uova, pasticceria industriale. Tuttavia, poiché la maggior parte di VLCFA è di origine endogena, questo approccio non è sufficiente. La somministrazione di una miscela di gliceril trierucate (GTE; C22:1) e gliceril trioleato (GTO; C18:1) secondo un rapporto di 1:4, noto come Olio di Lorenzo, ha dimostrato di arrestare l’elongazione dei VLCFA mediante inibizione di ELOVL1. Questa terapia normalizza i livelli plasmatici di VLCFA entro 4 settimane e ha dimostrato di prevenire la progressione della malattia in pazienti asintomatici con neuroimaging normale. Gli effetti terapeutici, invece, in pazienti già sintomatici, sono molto limitati e l’azione sulla funzione surrenalica è nulla. Un dosaggio giornaliero di Olio di Lorenzo di 2-3 ml/kg/die è ben tollerato. Il principale effetto collaterale è una trombolinfocitopenia transitoria. Non è raccomandata in bambini sotto l’anno di vita, per la parallela diminuzione di altri acidi grassi, in particolare dell’acido docosaesaenoico, essenziale per lo sviluppo neurocognitivo. La formulazione di nuova generazione, nota come Aldixyl, oltre a contenere una miscela di GTO e GTE in rapporto 4:1, presenta all’interno un trigliceride dell’acido linoleico coniugato (TGCLA) e un mix di potenti antiossidanti ad alti dosaggi come l’acido alfa-lipoico, l’L-glutatione ridotto e la vitamina E. Il TGCLA, un gruppo di isomeri dell’acido linoleico, è in grado di superare la barriera ematoencefalica e agire come fattore di trascrizione per i geni coinvolti nella beta ossidazione perossisomiale. Quindi la prima rivoluzione rispetto alla passata formulazione risiede nella capacità di Aldixyl di superare la barriera ematoencefalica e quindi di svolgere la sua azione anche a livello del sistema nervoso centrale. Tramite questa azione, oltre a ridurre i livelli di VLCFA nel sistema nervoso centrale, sarebbe in grado di incrementare il catabolismo degli eicosanoidi e dei prodotti dello stress ossidativo, agendo come un fattore antinfiammatorio e antiossidativo. Ciò è stato dimostrato dalla riduzione dei livelli di IL-6 nel liquido cerebrospinale e dal miglioramento del

potenziale somatosensoriale evocato anche in pazienti sintomatici, rimasto invariato dalla sola somministrazione di GTO e GTE. Inoltre, la somministrazione precoce di alti dosaggi di potenti antiossidanti, potenzia l’attività antinfiammatoria, intervenendo sulle iniziali disfunzioni assonali e dunque sui danni locomotori e previene lo stress ossidativo dato dalla malattia. Per le sue caratteristiche intrinseche, Aldixyl trova l’indicazione terapeutica sia per l’ALD sia per l’AMN. Può essere usato sia in pazienti asintomatici sia in quelli sintomatici; in entrambe i casi si apprezza una normalizzazione dei VLCFA. La posologia iniziale raccomandata è di 0,5-1 mg/ kg/die, incrementabili fino 1,5-2 mg/kg/die. In entrambe le situazioni è ben tollerato; se la quantità da assumere è volumetricamente importante, è consigliato dividere la posologia giornaliera in due frazioni: una al mattino e una alla sera indipendentemente dall’assunzione di un pasto. w Terapia patogenetica Comprende la terapia sostitutiva ormonale nei pazienti con insufficienza surrenalica, testosterone in pazienti con ipogonadismo, terapie psichiatriche nei pazienti con forme CALD ecc.

Conclusioni L’adrenoleucodistrofia rappresenta una malattia genetica con quadri fenotipici decisamente eterogenei, con morbidità e mortalità estremamente variabili. È una malattia non solo neurologica, e dunque prevede un approccio multidisciplinare tra neurologo, endocrinologo, pediatra, psichiatra. Un inquadramento clinico precoce è estremamente importante dato che i pazienti sono nella maggior parte dei casi, suscettibili di trattamento non solo sintomatico. Ringraziamenti: Ricerca in parte condotta con un contributo Pharmaelle, Milano.

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NEWS XLVIII CONGRESSO NAZIONALE SIN, 14-17 OTTOBRE - NAPOLI

La sclerosi multipla all’attenzione dei neurologi italiani Anche quest’anno arriva puntuale il nostro aggiornamento dall’ultimo Congresso della Società italiana di neurologia che si è svolto a metà ottobre a Napoli, città che ha una valenza storica per la neurologia nel nostro Paese. Le tematiche affrontate durante il meeting sono state molteplici e di interesse. In questo servizio, cercheremo di sintetizzare alcuni aspetti salienti che sono emersi a Napoli, riguardanti per lo più la sclerosi multipla, patologia per la quale la ricerca in ambito terapeutico ha compiuto passi da gigante ed è inarrestabile

Fingolimod: una promessa rispettata. Dai dati sperimentali alla pratica clinica

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ella sclerosi multipla (SM), i marcatori di danno neurologico sono importanti non solo per valutare il danno che si accumula nel sistema nervoso nei pazienti, ma anche per rilevare gli effetti del trattamento farmacologico. È questa la tesi sostenuta da Giancarlo Comi dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, intervenendo al simposio dedicato a fingolimod (Novartis), nel corso del congresso SIN. I due marcatori oggi più attuali e determinanti per questo scopo sono l'atrofia cerebrale

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e il livello sierico di neurofilamenti. L'atrofia cerebrale è un processo che si verifica in tutte le persone in misura progressiva con l'età: è quantificabile in 0,1-0,2 per cento di perdita di massa cerebrale annua a partire dai 35 anni nei soggetti sani, mentre nei malati di SM raggiunge percentuali di 0,6-0,7 per cento all'anno. In uno studio multicentrico, l'atrofia cerebrale si è dimostrata in grado, insieme al carico lesionale, di predire l'evoluzione della disabilità a lungo termine. Per questo, recentemente si è deciso di

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aggiungerlo ad altri marcatori già utilizzati da tempo, con un valore limite di separazione tra perdita fisiologica e perdita correlata alla patologia dello 0,4 per cento. Per quanto riguarda i neurofilamenti, essi forniscono un'informazione molto importante sia delle lesioni acute sia della lenta e progressiva perdita di assoni. Alcuni studi dimostrano che i malati che hanno una maggiore progressione verso la disabilità tendono ad avere una quantità di neurofilamenti (nel sangue o nel liquido cefalo-rachidiano) più elevata, e che la progressione dell'atrofia nel tempo è predetta dal livello di neurofilamenti. Fingolimod è un antagonista funzionale di 4 dei 5 sottotipi del recettore S1P, recettore


congressi che, oltre sulle cellule del sistema immunitario, è espresso anche sui neuroni, sugli astrociti e sulla microglia. È naturale quindi aspettarsi che i benefici del trattamento con questo farmaco possano essere rilevati misurando l'atrofia cerebrale e il livello di neurofilamenti. Ed è proprio ciò che è stato riscontrato negli studi TRANSFORMS e FREEDOMS, con una riduzione netta di neurofilamenti rispetto al basale nei pazienti esposti al trattamento. Il risultato è ancora più evidente negli studi contro placebo, poiché anche l'interferone ha un effetto antinifiammatorio. Di seguito è intervenuto Carlo Pozzilli, dell’Ospedale Sant'Andrea di Roma, sul tema "Neuroplasticità e importanza dello switch precoce". Nella SM, il danno strutturale va di pari passo con il progredire della malattia. Ma c'è una discrepanza tra danno strutturale e clinica, che può essere spiegato dalla neuroplasticità. Un dato fondamentale è che l'infiammazione che accompagna la SM ha un effetto negativo sulla neuroplasticità. Si è quindi pensato di verificare se i farmaci antinfiammatori, come l'interferone, possano contrastare questo processo. Un primo riscontro positivo a questa ipotesi si è avuto alcuni anni fa, in uno studio condotto presso il centro diretto dal professor Pozzilli, con la somministrazione d’interferone. Lo studio è poi stato replicato su 32 pazienti trattati con fingolimod e valutati con scansioni di RMN. Dopo sei mesi di trattamento è emerso un recupero della neuroplasticità rispetto al basale, correlato con un miglioramento sia delle condizioni cliniche sia delle prestazioni cognitive. I dati sono inoltre confermati dall’esperienza clinica del centro del prof. Pozzilli su più di 200 pazienti trattati con fingolimod che, dopo due anni di terapia, hanno raggiunto lo status NEDA (No Evidence of Disease Activity) in una percentuale notevole, superiore a quella che si vede tipicamente negli studi regi-

strativi. Se si suddividono i pazienti in sottogruppi – naïve, pazienti che provenivano da un fallimento con farmaci di prima linea e pazienti già trattati con natalizumab – si vede in particolare che le percentuali di soggetti che hanno raggiunto il NEDA nel corso del trattamento con fingolimod sono, rispettivamente, dell’80, del 65 e 50 per cento. Con la collaborazione dei Centri per la SM di tutto il Lazio, sono stati valutati anche pazienti che non rispondevano ai trattamenti di prima linea passati a fingolimod o natalizumab, oppure trattati con interferone. Il risultato è che fingolimod offre un evidente vantaggio rispetto a interferone. Infine, uno studio recentissimo ha confrontato fingolimod con dimetilfumarato: sebbene nel complesso le due molecole siano risultate sovrapponibili in termini di NEDA, è emerso un chiaro vantaggio per fingolimod nello “switch” ovvero nel gruppo di pazienti che provenivano dalle prime linee. Maria Trojano, dell’Università di Bari, è intervenuta sugli studi di real life, e in particolare sull’estensione degli studi registrativi e sugli studi osservazionali. Gli studi di estensione sulle popolazioni aggregate di FREEDOMS, FREEDOMS II e TRANSFORMS hanno seguito pazienti per sette anni: i dati di efficacia in termini di annualized relapse rate confermano la forte attività antinfiammatoria di fingolimod, che garantisce una stabilità in termini di progressione della disabilità nell'arco di otto anni, con la maggior parte dei pazienti che presentano EDSS stabile in entrambe le coorti considerate. Una seconda analisi a otto anni dello studio TRANSFORMS ha considerato come outcome il NEDA 3 e il NEDA 4, che sono stati raggiunti, nella fase core, dal 43 e dal 30 per cento dei pazienti, rispettivamente. Negli anni successivi, la percentuale di pazienti che ha raggiunto il NEDA 3 è arrivata al 50 per centro dopo il primo anno di estensione fino al 78 per cento all’ot-

tavo anno, mentre quella di NEDA 4 ha raggiunto valori di 30-35 per cento in media, con un beneficio evidente anche nel braccio che è passato da interferone a fingolimod. L'ultimo intervento di Gianluigi Mancardi, dell'Università di Genova, ha riguardato il profilo di sicurezza nel lungo termine di fingolimod. Il periodo di osservazione di 7-8 anni e più di 200mila pazienti trattati confermano l'ottimo profilo di sicurezza del farmaco. Esistono alcune lievi differenze tra studi di real life e studi registrativi, in termini di eventi avversi, e riguardano alcuni casi in più di linfopenia e di Herpes zoster registrati nella pratica clinica, mentre gli eventi cardiaci rimangono stabili. Si sono registrati anche rarissimi casi di meningite pneumococcica e di leucoencefalopatia multifocale progressiva, ma si tratta di 13 (oggi 15, n.d.r.) casi su 213.000 (oggi su 217.000, n.d.r.) pazienti trattati, quindi meno di un caso su 10.000 persone. Il prof. Mancardi ha poi illustrato uno studio condotto nel suo centro su 166 pazienti, con età e durata di malattia un po' più elevate rispetto agli studi registrativi, come spesso accade nella pratica clinica reale. La popolazione osservata era in parte naïve al trattamento, in parte proveniente da terapia di prima linea e in parte proveniente da natalizumab. Non ci sono stati problemi con la pressione sanguigna, e le variazioni di frequenza cardiaca sono risultate in linea con i valori attesi. L'aderenza è stata buona: dopo tre anni, l'80 per cento di pazienti è ancora sotto terapia. I soggetti che hanno lasciato fingolimod per inefficacia erano pazienti particolarmente attivi, che richiedevano una terapia più aggressiva. Solo 8 hanno sospeso per eventi avversi, tra cui: alterazioni della funzionalità epatica, cefalee, disturbi GI, infezioni, vertigini e malessere. Da segnalare un solo caso di grave rebound che è poi stato trattato con trapianto. n

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NEWS XLVIII CONGRESSO NAZIONALE SIN, 14-17 OTTOBRE - NAPOLI

Teriflunomide e il nuovo paradigma di successo terapeutico nella daily life

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a centralità del paziente calata nel modello bio-psicosociale". Così Riccardo Torta, dell'ospedale Molinette di Torino, ha aperto il simposio dedicato a teriflunomide (Sanofi Genzyme), farmaco indicato per il trattamento di pazienti adulti con sclerosi multipla (SM) recidivante-remittente. Adottare un modello bio-psico-sociale nella SM significa passare da un paradigma di tipo biomedico, centrato sulla malattia, in cui l'attenzione è rivolta prevalentemente agli aspetti biologici, a un modello più articolato, centrato sul paziente, in cui occorre tener conto anche degli aspetti emozionali e relazionali, considerando la sua percezione soggettiva nella valutazione non solo dei sintomi (fatigue, dolore), com'è naturale, ma anche degli effetti collaterali. Da sottolineare inoltre che le considerazioni sul bilanciamento tra efficacia e sicurezza di un farmaco vanno fatte in un contesto in cui le priorità del paziente cambiano a seconda della fase di malattia e dell'entità della disabilità. Altro punto fermo è che la valutazione del paziente è diversa da quella del medico, perché fortemente influenzata sia dalla sua modalità di difendersi dalla malattia, in termini di resilienza e di coping, sia da quanto è riuscito a recepire dalle informazioni avute dal medico, in una comunicazione modulata dai fattori emotivi (ansia, depressione e stress). E il progresso farmacologico, con la disponibilità di nuove disease modifying therapies, ha certamente aumentato le aspettative di medici e pazienti, spostando l'obiettivo da un rallentamento della progressione a una remissione della patologia, at-

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traverso la riduzione della disabilità sia emozionale sia fisica. Ciò s'intreccia al problema sempre complesso dell'aderenza terapeutica. Il tipo di formulazione farmacologica, e quindi la modalità di somministrazione, rappresentano un fattore sicuramente importante: il paziente preferisce la terapia per os, e come seconda scelta, una terapia infusionale ma ogni sei mesi, secondo lo schema one shot. Pietro Annovazzi dell'AO S. Antonio di Gallarate (VA) ha trattato il tema della soddisfazione terapeutica nella pratica clinica, sia dal punto di vista del medico sia da quello del paziente. Una survey su 102 neurologi indica per esempio che gli specialisti ricercano in primo luogo l'efficacia: l'87 per cento degli intervistati l'ha messa al primo posto delle caratteristiche importanti del farmaco, seguita dalla sicurezza e dalla tollerabilità. Risultati analoghi sono emersi da una consensus con metodo Delfi tra neurologi tenutasi negli Stati Uniti. Uno studio olandese ha interpellato anche infermieri e pazienti, riscontrando un notevole accordo tra le tre categorie sulle priorità nella soddisfazione terapeutica: effetto sulla progressione di malattia, sicurezza e infine qualità di vita. Da altri studi emerge che per i pazienti un fattore fondamentale per la valutazione di un farmaco è la via di somministrazione, ancora più della frequenza delle visite o della frequenza degli effetti collaterali, e che la formulazione orale è certamente la preferita. Lo studio Teri-PRO, condotto in real-life, ha coinvolto mille pazienti, suddivisi tra naïve (definiti come pazienti senza assunzioni di DMT nei due anni precedenti l’inclusione nello studio)

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e switcher (soprattutto da farmaci iniettivi, ma anche da dimetilfumarato, da fingolimod e da natalizumab). I risultati sono interessanti: la soddisfazione nei confronti della terapia con teriflunomide è elevata fin dall’inizio e rimane tale nel tempo. Tra gli switcher, la soddisfazione verso teriflunomide è sicuramente alta, anche per chi arriva a questo farmaco da un altro farmaco orale: il beneficio soggettivo è in termini sia di efficacia sia di tollerabilità, e ciò si traduce in un miglioramento dell'aderenza alla terapia. Maria Pia Amato dell’AOU Careggi di Firenze ha affrontato il tema della disabilità cognitiva, su cui si è concentrata molta ricerca negli ultimi 20 anni. La prof.ssa Amato ha voluto sottolineare i risultati di una serie di studi epidemiologici che, ribaltando una sorta di dogma, hanno chiaramente documentato l'importanza del deficit cognitivo anche in fase iniziale e in tutti i sottotipi di malattia, con un impatto funzionale che va ben oltre la disabilità fisica misurata dall'EDSS. Alcuni studi ancora più recenti hanno documentato inoltre il potenziale ruolo della disabilità cognitiva come marker prognostico. In uno studio condotto in centri per la SM italiani che ha coinvolto 1.040 soggetti con una buona rappresentazione dei diversi sottotipi di malattia, la frequenza complessiva del disturbo cognitivo è risultata pari al 47 per cento (una percentuale in linea con la letteratura). Il secondo dato confermato è che il disturbo può interessare le forme CIS, con una frequenza del 35 per cento. Il terzo dato, che emerge dal semplice confronto trasversale dei diversi sottotipi è che il disturbo cognitivo tende ad aumentare nel corso della malattia: si passa dal 45 per cento nella SMRR, all'8090 nelle forme progressive. Ciò è dovuto all’aumento del carico lesionale, nonché alla riduzione nel tempo del


congressi volume cerebrale, della neuroplasticità e dei meccanismi di compenso. L'impatto della disabilità cognitiva sulla vita del paziente è notevole: riguarda tanto le attività lavorative quanto quelle ricreative, tanto le relazioni sociali quanto i rapporti familiari; riduce la sicurezza del soggetto nella guida e lo rende più a rischio di cadute; limita la sua consapevolezza ed efficacia in tutta una serie di scelte relative alla malattia e la sua aderenza ai trattamenti. Negli ultimissimi studi è emerso come il disturbo cognitivo possa anche essere un fattore prognostico: i pazienti con deficit co-

gnitivo al primo episodio di SM hanno una conversione più rapida a una forma clinicamente definita di malattia. La riduzione del decadimento cognitivo è la grande sfida delle terapie per la SM. Diventa perciò importante l’utilizzo precoce di un farmaco come teriflunomide che si è dimostrato efficace su questo aspetto. Sulla base delle ultime evidenze presentate all’ECTRIMS, in un’analisi post hoc dello studio TEMSO, teriflunomide ha, infatti, dimostrato un impatto positivo su alcuni score relativi al test PASAT, specifico per la valutazione delle funzionalità cognitive. n

Alemtuzumab: dagli studi registrativi alla real life experience italiana

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farmaci disponibili per la sclerosi multipla (SM) fanno intravedere la prospettiva di trasformare il trattamento in una vera e propria cura per una porzione significativa di pazienti, grazie anche al passaggio alla terapia induttiva. Da questa premessa è partito l’intervento del professor Giancarlo Comi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, nel corso del Congresso SIN di Napoli, in apertura di un simposio dedicato ad alemtuzumab, farmaco sviluppato da Sanofi Genzyme e approvato in Italia nel 2015. Alemtuzumab è uno dei protagonisti di questo possibile cambio di prospettiva per la sua efficacia, anche in pazienti con malattia molto attiva. Gli studi pivotal CARE-MS I e CARE-MS II hanno dimostrato effetti positivi su tutti i parametri: frequenza di ricadute, atrofia cerebrale, disabilità confermata e NEDA (No Evidence of Disease Activity). Ora sono disponibili nuovi dati sullo studio di estensione fino a sette anni, che confermano i dati positivi

emersi nella fase core dagli studi registrativi. Ma che cosa succede quando si passa dagli studi clinici alla real life experience nei centri SM italiani? Una risposta significativa – per quanto ancora parziale – viene dagli interventi di Luca Prosperini, dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma, Francesco Saccà dell’Università di Napoli e Lucia Moiola, dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Il dottor Prosperini ha presentato i risultati di uno studio effettuato sui primi pazienti che hanno ricevuto il farmaco basato sull’analisi di dati di risonanza magnetica. Si trattava di pazienti che avevano già utilizzato altri farmaci per la SM , con lunga durata di malattia, punteggio EDSS mediano pari a 4 (quindi già abbastanza compromessi da punto di vista della disabilità), un elevato numero di lesioni attive alla risonanza magnetica e due ricadute nell’ultimo anno. I risultati sono stati molto incoraggianti, soprattutto nel primo anno, dopo il primo ciclo di alemtu-

zumab: la maggior parte dei pazienti è risultata stabile (50 per cento) o è migliorata (35 per cento). Circa un terzo dei pazienti, inoltre, ha registrato un miglioramento in termini di disabilità. Pur con i limiti dovuti alla grandezza del campione e alla durata, ancora limitata, del periodo di follow-up, secondo il dottor Prosperini questo è lo studio di real life meglio caratterizzato che esiste oggi in Italia su alemtuzumab. Un altro aspetto importante nella pratica clinica quotidiana è lo switch da un farmaco a un altro, argomento approfondito nella relazione del dottor Francesco Saccà che ha presentato i dati di una coorte di pazienti trattata con alemtuzumab dopo la sospensione di fingolimod e di altri DMT. Alcuni dati preliminari, relativi a 9 pazienti, avevano infatti evidenziato come il passaggio da fingolimod ad alemtuzumab fosse associato a una notevole ripresa di malattia, sia sotto forma di relapse sia sotto forma di nuove lesioni nei 12 mesi dall’inizio della terapia. I dati presentati dal dottor Saccà - osservazionali, retrospettivi, multicentrici - hanno coinvolto quasi 160 pazienti, con età media intorno ai 38 anni, EDSS di 3,5 e durata di malattia di circa 10 anni. 73 pazienti hanno al momento ricevuto un secondo ciclo e solo un paziente un terzo ciclo; 4 hanno sospeso il trattamento. Tra i pazienti che hanno iniziato la terapia con alemtuzumab, 15 (10 per cento circa) hanno mostrato relapse dopo il primo ciclo. I dati mostrano che non c’è alcun effetto della terapia precedente: alemtuzumab risponde bene qualunque sia il DMT. Anche i pazienti trattati con alemtuzumab dopo lo switch da fingolimod non hanno evidenziato fenomeni di riattivazione importante come ipotizzato inizialmente. Alemtuzumab è inoltre in grado di ridurre l’annualized relapse rate (ARR) dopo

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NEWS XLVIII CONGRESSO NAZIONALE SIN, 14-17 OTTOBRE - NAPOLI farmaci di prima e seconda linea e non è stato evidenziato un effetto rebound. Nel suo intervento la dottoressa Moiola ha sottolineato che il punto di partenza nell’ambito della SM dev’essere porre una diagnosi precoce e iniziare il trattamento prima che il paziente accumuli disabilità. Ma come operare una scelta in un panorama terapeutico così vasto e articolato? Occorre basarsi sui fattori prognostici. In presenza di malattia aggressiva, la risposta terapeutica è l’induction therapy con alemtuzumab. Un ottimo candidato è il paziente naïve con un esordio aggressivo di malattia. Inizialmente alemtuzumab era usato in seconda e terza linea; ora l’atteggiamento terapeutico è cambiato: a oggi sono trattati 1.200 pazienti, il 20 per cento dei quali è naïve (25 pazienti in 10 centri). A un anno di follow-up, tra questi 25 pazienti naïve ci sono state 2 ricadute, 4 pazienti hanno avuto nuove lesioni, l’EDSS è passato da 3 a 2,5 e la qualità di vita è molto buona. A 18 mesi, ci sono 16 pazienti con EDSS medio di 2,5. A 24 mesi c’erano 10 pazienti, nessuno con ricadute, e c’è stato un ulteriore miglioramento dell’EDSS, con un’ottima qualità di vita. Alla luce di questi dati la dr.ssa Moiola sta conducendo uno studio italiano che coinvolge circa 50 centri su pazienti naïve con una forma aggressiva di SM: l’obiettivo è verificare i valori di NEDA a 2, 3 e 5 anni più una serie di obiettivi secondari. Alla luce delle esperienze che si stanno consolidando, l’orientamento attuale circa l’utilizzo di alemtuzumab è sempre più in favore del suo impiego in una fase di malattia sempre più precoce per i pazienti che non rispondo ad altre DMT, con un numero crescente di persone con SM trattate con alemtuzumab come primo trattamento. n

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Verso il reset del sistema immunitario e la remissione a lungo termine nella sclerosi multipla. Razionale e nuove opportunità

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l reset del sistema immunitario è uno degli approcci al trattamento della sclerosi multipla (SM) che negli anni recenti ha dato i risultati più incoraggianti. Se ne è parlato a Napoli, nell'ambito di un simposio organizzato da Merck Serono, impegnata in questo campo con il farmaco cladribina. A delineare il possibile ruolo futuro dell'immunosoppressione in funzione di una terapia sempre più personalizzata è intervenuto Antonio Uccelli, dell'Università di Genova. Le strategie utilizzate per la SM sono sostanzialmente due: l'escalation therapy e l'induction therapy. Nella prima, s'inizia il trattamento con un farmaco con una buona efficacia, ma inferiore potenzialmente a quella di altri farmaci, e si passa a questi ultimi in caso di malattia non controllata o controllata in modo sub-ottimale. L'induction strategy è invece una terapia d'urto, in cui si utilizza subito il farmaco più potente, anche se magari ha un profilo di sicurezza meno soddisfacente, in pazienti naïve o comunque in fase precoce, quando si tratta di una malattia molto attiva. Un concetto basilare è che esiste, indipendentemente dal farmaco che si vuole utilizzare, una finestra terapeutica entro la quale occorre agire, che va correlata con una serie di eventi biologici e non soltanto con la diagnosi clinica. Occorre inoltre verificare molto precocemente se il farmaco sta funzionando adeguatamente, o se ci si trova di fronte a un non responder o a un sub-optimal responder per valutare se passare ad altre terapie. Un altro concetto chiave del trattamento con

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immunosoppressori è che in seguito a una deplezione spesso il "nuovo" sistema immunitario che si rigenera può avere caratteristiche biologiche e qualitative molto diverse da quelle originarie. Per questo, il meccanismo di deplezione merita di essere considerato in dettaglio. Cladribina è una molecola che può entrare all'interno della cellula grazie a un trasportatore. Una volta nella cellula può essere attivata, grazie all'azione di una chinasi, con un meccanismo di fosforilazione che porta alla morte cellulare, e defosforilata, grazie all'azione di una fosfatasi. Questo fa sì che, come dimostrato dagli studi clinici, cladribina abbia una capacità di deplezione molto diversa, a seconda del sottoinsieme di cellule considerato, cioè in base al loro contenuto dei due enzimi: le piastrine e i monociti non vengono influenzati dal trattamento, i neutrofili lo sono in misura molto limitata, eosinofili e basofili lo sono in misura modesta. Sui linfociti invece l'effetto è molto più importante, ed è maggiore nelle cellule B che nelle cellule T. Diversi studi in corso stanno cercando di verificare se la diversa suscettibilità al farmaco possa essere legata proprio alla diversa espressione di chinasi e fosfatasi all'interno delle cellule del sistema immunitario. Alcune evidenze preliminari fanno pensare che il trattamento con cladribina "pulsato", cioè somministrato in tempi diversi e non in maniera cronica, possa indurre la rigenerazione del sistema immunitario. Modificando il comportamento delle cellule dendritiche e delle cellule B, si induce una significativa varia-


congressi zione del profilo citochinico prodotto da cellule del sangue periferico a favore di un profilo antinfiammatorio (e a sfavore di un profilo antinfiammatorio). Giancarlo Comi dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ha approfondito il tema dell’induction vs. escalation. Nella terapia scalare, ha spiegato Comi, il privilegio va alla sicurezza. Questo concetto è del tutto logico se sicurezza ed efficacia si mantengono stabili nel tempo, ma nella pratica non succede mai: la dinamica della malattia fa sì che l'efficacia si riduca nel tempo, così come la sicurezza, perché il fattore età sottende una serie di possibili complicanze. Quindi in realtà si tratta di un rapporto dinamico. Un problema rilevante nella terapia scalare è relativo a quando iniziare un certo farmaco. Un'idea ben chiara è certamente che cosa fare quando un trattamento fallisce: occorre passare a un trattamento più potente. Nell'induction therapy si parte direttamente all'attacco della malattia con un'azione molto più potente. Questa strategia si basa non solo sulla forza d'urto, ma anche sul meccanismo d'azione del farmaco. Da considerare inoltre che via via che la malattia avanza, il target terapeutico svanisce anche per il farmaco più potente. Cladribina agisce sui linfociti T e B e induce una riorganizzazione importante del sistema immunitario, con un impatto molto evidente sulla disabilità. Studi passati hanno dimostrato anche l'assenza di un effetto rebound una volta interrotta la terapia e addirittura una persistenza di effetto. Il farmaco ha dimostrato anche di poter reggere il confronto con un'attività di “malattia più ricca”, con numero di attacchi elevato. Infine un messaggio pratico operativo: per fare scelte corrette, è fondamentale raccogliere elementi prognostici in modo molto accurato, così da poter definire i percorsi di cura individualizzati. n

Oltre vent'anni di esperienza clinica nella SM: l'interferone beta in un contesto che cambia

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n un panorama terapeutico in perenne e rapido mutamento, quale ruolo può avere l’interferone? È questo il quesito da cui ha preso le mosse un simposio dedicato al farmaco di Merck Serono utilizzato da oltre 20 anni. Il primo intervento è stato di Francesco Patti, dell'Università degli Studi di Catania, che ha parlato di “Escalation e switching laterale: pratica consolidata e problemi aperti". La premessa del professor Patti è che nel trattamento della sclerosi multipla (SM) si possono individuare alcuni punti fermi. In primo luogo, il trattamento precoce ha sicuramente un impatto positivo sull'evoluzione della malattia. Inoltre, esiste un'ampia quota di pazienti che può essere trattata con una terapia cosiddetta "di prima linea", compresa quella somministrata per via iniettiva. Ci sono inoltre approcci terapeutici che devono spingere a una riflessione. Per esempio, c'è la tendenza a cambiare terapia subito dopo il primo fallimento: s'impone quindi l'esigenza di definire chiaramente che cosa s'intende per fallimento terapeutico, e allo stato attuale delle conoscenze non esiste una risposta univoca. E quando si decide per uno switch, come dev'essere messo in atto? La scelta del farmaco è dettata non solo dalla risposta terapeutica, ma anche da diversi altri aspetti, come il costo, la gestione della terapia stessa, l’esperienza del clinico e non ultima la sicurezza. Bisogna anche tenere conto che il panorama della terapia della SM è cambiato: il confronto tra i dati più recenti e quelli di alcuni decenni fa suggerisce che l'accesso alla diagnosi è migliorato. Inoltre, è ipotizza-

bile che il fenotipo di malattia negli anni sia andato incontro a un certo cambiamento: la forma di malattia di grado lieve-moderato si riscontra più di frequente rispetto alle forme più aggressive, anche se l'incidenza di malattia è aumentata. In un contesto di terapia di precisione, il principio guida è la personalizzazione: ciò significa che le scelte devono essere calate nella storia clinica del paziente. Se poi si analizzano attentamente i trial che hanno messo a confronto l'interferone con i farmaci di seconda linea, i risultati sono meno scontati di quanto si creda comunemente, e devono indurre a una riflessione. Lo studio CARE-MS II, per esempio, considerava pazienti randomizzati a ricevere alemtuzumab o interferone beta-1a per via sottocutanea. I dati mostrano sicuramente una maggiore risposta ad alemtuzumab, ma anche un 89 per cento dei pazienti trattati con interferone che non presentano una progressione di disabilità rispetto al 92 per cento dei pazienti trattati con alemtuzumab. Quindi, in un approccio di terapia di precisione spetta allo specialista neurologo valutare quali siano i pazienti che possono trarre vantaggio da una terapia o da un’altra, e per quanto tempo trattare. Inoltre, in gruppi selezionati di pazienti si può pensare a uno switch laterale. È quello che dimostra uno studio effettuato a Catania, pubblicato sul Journal of Neurology nel 2016. In questo studio, contrariamente all’opinione comune, secondo cui i pazienti quando hanno una nuova ricaduta o un nuovo peggioramento alla risonanza magnetica, devono passare dalla prima linea

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NEWS XLVIII CONGRESSO NAZIONALE SIN, 14-17 OTTOBRE - NAPOLI direttamente alla seconda linea, i pazienti in un gruppo che andava a fare uno switch laterale, quindi che passavano da copolimero a interferone o da interferone a copolimero oppure da un interferone a un altro interferone, mostravano la stessa efficacia dei pazienti che invece erano stati switchati verso terapie più “aggressive” di seconda linea, come natalizumab e fingolimod. Antonio Bertolotto, del CReSM di Orbassano (TO) ha approfondito il tema dell’"Immunomodulazione dopo l'induzione: possibilità e prospettive”. Per il trattamento, è ben noto che esistono diversi tipi di protocollo. Il primo è l'escalation, indicata nei pazienti non rispondenti, che prevede il passaggio a una terapia più potente, ma anche più rischiosa. Un'altra possibilità è quella dell'induction therapy, che consiste nell'iniziare con una terapia aggressiva seguita da un'immunomodulazione o da una terapia di

prima linea (post-induzione), nell'intento di ottenere sia un'elevata efficacia sia un basso numero di eventi avversi. Il problema è che i lavori che verificano efficacia e sicurezza dell'induction therapy seguita da una terapia di prima linea sono molto scarsi. Lo studio italo-francese spesso citato quando si parla d'induzione confronta il trattamento con mitoxantrone seguito da interferone con il trattamento con il solo interferone (e quindi non si può parlare di un vero e proprio studio di post-induzione), mentre un altro studio con lo stesso protocollo confronta mitoxantrone seguito da glatiramer acetato con il solo glatiramer acetato. Un unico studio condotto nel 2012 su un numero limitato di pazienti è stato disegnato correttamente: dopo mitoxantrone, solo un gruppo è stato trattato con interferone, mentre il secondo non ha fatto alcun trattamento. Risultato: i pazienti trattati con interferone

sono andati meglio. Ma quali caratteristiche dovrebbe avere un farmaco adatto per l'induzione? In primo luogo, dovrebbe contrastare l'aggressività della malattia. Inoltre, dovrebbe avere un effetto duraturo e resettare, se possibile, il sistema immunitario. Dovrebbe avere un effetto anche sulle cellule immunitarie del SNC. Viceversa, non dovrebbe avere un effetto rebound, né esporre a un elevato rischio di eventi severi, di neoplasie e d'induzione di altre malattie autoimmuni. Nessun farmaco chiaramente ha tutte queste caratteristiche, ma si possono escogitare diverse strategie di uso dei differenti farmaci a seconda delle caratteristiche del paziente. E quali caratteristiche per un farmaco da usare nella post-induzione? In breve: efficacia sul lungo termine, minimo rischio di eventi avversi severi, semplicità gestionale, assenza di eventi avversi cumulativi con il farmaco usato per l'induzione. Altro

Etnomedicina Estratto dall’intervento “Parte dal passato la lotta futura contro la malattia delle statue che tremano” di Cesare Peccarisi

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l Corriere della Sera, per illustrare l’articolo “I duecento anni di James Parkinson” pubblicato il 14 marzo 2017, e persino l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano per la locandina ufficiale del seminario “Parkinson 200 anni: ieri, oggi e domani” del 14 novembre 2017 tenuto in occasione della Giornata Nazionale Parkinson 2017 hanno usato la stessa immagine del neurologo inglese da cui poi la malattia ha preso il nome. A parte il fatto che il bicentenario della malattia di Parkinson è inficiato dal fatto che in realtà si potrebbe parlare di “bimillenario” facendo riferimento al medico ayurvedico indiano Charaka Samhita che la descrisse con una precisione quasi attuale chiamandola Kampavata, dall’indiano kampa che significa tremore. Per di più Charaka ne anticipò il trattamento di oltre duemila anni utilizzando, senza rendersene conto, la levodopa. Ma se si può forse discutere sulla reale paternità della malattia, non ci sono dubbi sull’attribuzione di questa immagine al neurologo inglese che per noi resta ancora il suo vero

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scopritore. Questa fotografia, infatti, non si riferisce affatto allo scopritore della paralisi agitante, bensì a James Cumine Parkinson legato al noto medico inglese solo dall’omonimia, essendo nato in Irlanda del Nord il 1° febbraio 1832 a Killough, vicino a Belfast e morto il 13 luglio 1887 in Australia, quando ormai il noto neurologo inglese era sepolto da oltre sessant’anni. Eppure se cercate su Google un’immagine del Dr. James Parkinson questa salta fuori ben 62 volte nelle prime pagine, tant’è vero che anche gli illustratori del Corriere della Sera l’hanno scelta per l’articolo senza notare che la foggia dei vestiti non corrispondeva affatto a quella dell’epoca in cui viveva il vero Parkinson morto otto anni prima che Cumine nascesse. D’altro canto c’è una ragione storica che si oppone alla possibile realizzazione di una foto di James Parkinson precedentemente a quella considerata come la prima mai scattata al mondo e cioè la cosiddetta “view from the vindow” realizzata da Nicephore Niépce dalla finestra della sua casa di Gras nel 1826 e cioè due anni


congressi quesito importante è: quanto tempo dopo l'ultima somministrazione di un farmaco d'induzione si può iniziare il farmaco di post-induzione? La risposta varia secondo le caratteristiche del farmaco d'induzione. E per iniziare il secondo farmaco, occorre aspettare la ripresa di malattia o si procede in un momento prefissato? Per avere una risposta basata sull'evidenza, si potrebbe disegnare uno studio in cui un braccio inizia la post-induzione a una data prestabilita, mentre l'altro inizia dopo la ripresa di malattia: ciò potrebbe chiarire quanto l’approccio terapeutico di post-induzione possa ridurre il rischio di ripresa di malattia. Si potrebbe anche pensare a uno studio con un terzo braccio di trattamento con farmaco induttore. I risultati in questo caso chiarirebbero quanto è efficace la post-induzione rispetto alla continuazione della terapia e quando è il momento giusto per iniziarla. n

Opicapone, una nuova opzione terapeutica nel paziente con malattia di Parkinson

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Napoli un simposio organizzato grazie al contributo di BIAL ha avuto come oggetto opicapone, una nuova opzione terapeutica nel paziente con malattia di Parkinson (MP). L'argomento è stato trattato da Fabrizio Stocchi, del San Raffaele di Roma. Nel trattamento della MP, la somministrazione di levodopa è una tappa obbligata per tutti i pazienti per il controllo dei sintomi motori. Come noto, la terapia a lungo termine è gravata purtroppo da un forte rischio sia di complicanze motorie tra cui fluttuazioni motorie, cioè marcate oscillazioni tra stato di immobilità, indicato brevemente anche come OFF, e lo stato

dopo che il 69enne Parkinson era già morto per uno stroke. Nel 2011 Mark Lawden del Dipartimento di Neurologia dell’ospedale generale di Licester ha pubblicato su Practical Neurology un intero articolo intitolato Parkinson’s Facies (Practical Neurology 2011; 11:316, http://dx.doi. org/10.1136/practneurol-2011-000093) in cui riporta proprio questa foto di James Parkinson, sottolianeando l’incongruità della sua attribuzione per la semplice ragione storica che Louis Da guerre sviluppò la tecnica del dagherrotipo solo nel 1838, cioè 14 anni dopo che il vero Parkinson era morto. Gli fa il paio il Direttore dell’Istituto Parkinson di Milano Gianni Pezzoli che è stato uno dei primi ad accorgersi dell’errore degli illustratori del Corriere della Sera inviando via mail una intitolata “James Parkinson non ha immagini” in cui sottolineava l’inadeguata scelta della redazione di illustrare l’articolo con un’immagine che non poteva corrispondere al vero Parkinson per pure ragioni storiche in quanto la prima immagine in dagherrotipo risale a quando lui era già morto da oltre un decennio. IL DENTISTA INGLESE Per buona pace dei due illustri neurologi c’è da dire che gli errori dell’editoria sono sempre gli stessi da quasi un secolo: nel 1872 venne fotografato un dentista inglese che

di mobilità, indicato come ON, sia di movimenti involontari (discinesie di picco) sia infine di distonie di picco o del mattino. Per quanto riguarda le fluttuazioni motorie e le discinesie, la loro origine è legata sia alla farmacocinetica sia alla farmacodinamica della levodopa. Per limitare il catabolismo periferico della levodopa e aumentare la sua emività e la sua AUC, si può procedere a una somministrazione contemporanea di inibitori dell’enzima catecol-O-metiltransferasi (COMT). Opicapone, farmaco recentemente approvato dall'Ema e dall'Aifa è il primo rappresentante della terza generazione degli inibitori specifici della COMT e si caratterizza

La fotografie di James Cumine Parkinson (sopra) e del dentista inglese (a lato)

condivideva col noto neurologo solo l’omonimia, ma era tesoriere della British Dental Association. Fatto sta che nel 1938 questa foto finì come illustrazione di una review sulla shaking palsy pubblicata su Medical Classics da Kelly EC (Annotated reprinting: Essay on the Shaking Palsy by James Parkinson. Medical Classics 1938; 2: 957-998) e per molti anni restò erroneamente associata al noto neurologo all’interno di questa collana. Non è comunque l'unica falsa immagine del vero James Parkinson.

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NEWS XLVIII CONGRESSO NAZIONALE SIN, 14-17 OTTOBRE - NAPOLI per la potenza della sua capacità inibitoria e per la lunga emivita, che ne consente la somministrazione una sola volta al giorno, preferibilmente la sera. Il profilo di efficacia di opicapone è stato valutato da due studi di fase III su larga scala, multicentrici, randomizzati, in doppio cieco, con un anno di estensione in aperto su più di 1.000 pazienti. Il primo studio (BIPARK I) era uno studio randomizzato, controllato con placebo e controllo attivo, condotto con tre dosi di opicapone (5, 25 e 50 mg una volta al giorno) in aggiunta a levodopa. Il controllo attivo era con entacapone somministrato alla dose di 200 mg in aggiunta a ogni somministrazione di levodopa. Il risultato dell'analisi gerarchica è stato chiaro: il gruppo trattato con opicapone 50 mg ha mostrato un'efficacia costante raggiungendo l’endpoint primario di superiorità rispetto al placebo e di non inferiorità rispetto all’entacapone nella riduzione del tempo in OFF: riduzione media di 117 minuti rispetto al basale, e di 60,8 minuti rispetto al placebo. Nel secondo studio (BIPARK II), multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, e sen-

za controllo attivo, l'opicapone alla dose di 50 mg ha determinato una riduzione media del tempo di OFF di due ore rispetto al basale e di 54 minuti rispetto al placebo. I risultati della fase di estensione confermano sostanzialmente il mantenimento dell'effetto: in entrambi gli studi, la riduzione del tempo di OFF dal basale della fase in doppio cieco è proseguita o addirittura aumentata in aperto. Nell'estensione di BIPARK II, in particolare, è emerso un beneficio dell'utilizzo più precoce dell'opicapone: i risultati alla fine della fase in aperto sono più positivi nel gruppo assegnato subito a opicapone rispetto al gruppo originariamente assegnato al placebo. A ulteriore conferma del favorevole profilo di efficacia a lungo termine, si registra la valutazione della funzione globale percepita sia dal paziente sia dallo sperimentatore, che si mantiene dalla fine del doppio cieco a tutto l'anno di studio in aperto. Per quanto riguarda la sicurezza e la tollerabilità, in tutti gli studi opicapone risulta generalmente ben tollerato, senza apparente relazione tra dosaggio ed eventi avversi emergenti. Gli studi su volontari sani, d'altra parte, hanno confermato che

il dosaggio di 50 mg di opicapone non è associato ad alterazioni della ripolarizzazione cardiaca né ad altre variazioni significative dell’elettrocardiogramma e dei parametri vitali, né infine a significative variazioni dei parametri ematologici, ematochimici o urinari. In conclusione, dunque, la levodopa rimane il farmaco di riferimento per il trattamento della MP, nonostante le fluttuazioni motorie e non motorie e le discinesie che accompagnano il suo utilizzo. Gli inibitori delle COMT migliorano le fluttuazioni e danno ai pazienti una maggiore stabilità oltre a una terapia più prevedibile e affidabile. Tolcapone ed entacapone hanno dato buoni risultati, ma soffrono di alcune limitazioni di utilizzo. Opicapone, rappresentante della terza generazione di inibitori COMT, ha dimostrato nei trial clinici di avere un favorevole profilo di efficacia nel migliorare le fluttuazioni, riducendo al contempo in modo significativo il tempo di OFF. Inoltre il farmaco è ben tollerato, viene somministrato una sola volta al giorno e non induce diarrea e discolorazione delle urine. Infine, non sono ancora stati segnalati eventi avversi di natura epatica. n

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numero 4 · 2017 la neurologia italiana


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