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DIRETTORE RESPONSABILE Anna Coppola De Vanna · info@mediazionecrisi.it COMITATO SCIENTIFICO Alessandro Diotallevi, Anna Coppola De Vanna, Gianpaolo Impagnatiello, Gianvittorio Pisapia, Federico Reggio, Armando Saponaro, Anna Laura Tocco, Giuseppe Valenti REDAZIONE Elena Straziota · straziotaelena@libero.it Isabella de Ruvo · redazione@lameridiana.it CURATORI Studi e ricerche: Comitato scientifico · info@mediazionecrisi.it Dossier del mediatore: Comitato scientifico · info@mediazionecrisi.it Itinerari del diritto: Giampaolo Impagnatiello · gianpaimp@libero.it Interdefinizione: Gianvittorio Pisapia · gianvipisa@yahoo.it Biblioteca: Giuseppe. M. Valenti · giuse.valenti@tiscali.it Contiguità: Armando Saponaro · prof.saponaro.a@gmail.com Storie: Anna Laura Tocco · annalauratocco@libero.it CADENZA Semestrale STAMPA Martano Editrice S.r.L. Zona Industriale (Le) 73100 EDITORE © edizioni la meridiana, via G. Di Vittorio, 7 - 70056 Molfetta (www.lameridiana.it) Registrazione del Tribunale di Bari n. 1588 del 17/10/2002 Finito di stampare a ottobre 2012
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In questo numero
Editoriale di Anna Coppola De Vanna
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Studi e ricerche Andrea Chmieliski Bigazzi Le Nazioni Unite invitano a incrementare l’uso della mediazione. L’Unione Europea plaude
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Maria Rosaria Fascia, Viviana Trombini Mediazione in ambito sanitario
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Andrea Cimmino L’indennità di mediazione
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Alberto Fornasari Il doppio sguardo: educazione interculturale e riflessioni pedagogiche per una «convivialità delle differenze»
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N.D. Liantonio, S. Ingrosso, S. Legrottaglie, P. Conese, V. Delle Foglie, A. Fanigliulo, G. Gallone, M. Palmisano, R. Porfido, I. Grattagliano Sindrome di Alienazione Genitoriale: contributo casistico
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Dossier del mediatore Gianluca Tramontano Visioni alternative della giustizia riparativa?
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Itinerari del diritto InĂŠs C. Iglesias Canle La mediazione in materia civile e commerciale
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Rubriche Interdefinizione Gianvittorio Pisapia Quale mediazione senza narrazione?
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Biblioteca Anna Coppola De Vanna Un magistrato ispirato. Gherardo Colombo
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Giuseppe. M. Valenti Arancia meccanica: un apologo (a contrario?) sulla mediazione penale
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ContiguitĂ Donato Torelli, Ignazio Grattagliano Marito, moglie, figli e magistrati, ovvero: i bambini in tribunale
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Storie Anna Laura Tocco Pane, amore e mediazione
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Studi e ricerche
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Il doppio sguardo: educazione interculturale e riflessioni pedagogiche per una «convivialità delle differenze» Alberto Fornasari*
1. Dal «multiculturale» all’«interculturale» Interessarsi di questioni interculturali rappresenta, per la ricerca scientifica attuale, una necessità. Le dinamiche demografiche europee e il fenomeno dell’immigrazione hanno, infatti, profondamente modificato il tessuto sociale nel quale viviamo, sempre maggiormente caratterizzato dalla presenza di persone di diversa nazionalità. E insieme alle persone si spostano gli oggetti, le culture, le lingue e i linguaggi, i saperi della scienza e dell’arte, le tradizioni, i valori, le fedi. Oggi, poi, la cosiddetta «rivoluzione mobiletica», consentita dalla facilità e velocità dei mezzi di trasporto, ha reso più piccolo il nostro pianeta, ma anche, perciò stesso, più esposto a un incremento di conflittualità e a una maggiore densità di problemi. Quanto accaduto l’11 settembre 2001 a New York ha rimesso drasticamente in discussione alcuni precari equilibri, faticosamente raggiunti, facendo apparire come ingenue tesi, esperienze, prospettive centrate sulla * Formatore, esperto in Comunicazione e processi multi/interculturali, Dottore di Ricerca in Dinamiche formative ed educazione alla politica, docente (a contratto) in Pedagogia generale e sociale e Pedagogia sociale e interculturale.
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positività di convivenza fra diverse culture, sulla possibilità di un reciproco arricchimento nella ricerca di nuove e più avanzate costruzioni comuni. Trovare le risorse affettive, cognitive, morali per decifrare l’esistente, per capire quanto è accaduto e, purtroppo, può ancora accadere, è l’impegno che accomuna chi assume compiti e responsabilità educative e politiche. L’educazione e la politica, infatti, come sostiene Luisa Santelli Beccegato «devono saper riconoscere le dinamiche del proprio tempo, assumere le sfide che vengono avanzate per fare in modo che la storia porti il segno delle nostre scelte per la costruzione del bene comune». Importante è poi tracciare con chiarezza la netta differenza di significati di due termini, oggi utilizzati come fungibili, ovvero multiculturalismo e interculturalità. Multiculturalità si riferisce ad una situazione in cui individui di diverse tradizioni culturali convivono l’uno accanto all’altro senza avere rapporti significativi. In questa situazione le relazioni sono lasciate al caso, o dipendono dall’interesse individuale, o sono dirette a un adattamento che si limita a diminuire i danni di una convivenza forzata. Interculturalità si riferisce ad una situazione multiculturale, in cui si pone l’attenzione sul prefisso «inter», cioè sulla relazione tra i soggetti culturali: una relazione che, evitando pericoli di un’assimilazione, permetta la circolazione di elementi culturali in modo da arrivare alla creazione di un codice comunicativo comune tra le culture. Il modello francese assimilazionista tendente all’omologazione delle diversità ha dato i risultati che tutti abbiamo potuto osservare con gli episodi di violenza verificatisi nelle banlieues parigine; il modello multiculturale di tipo anglosassone ha mostrato anch’esso sul lungo periodo delle falle ed è per questo che noi oggi in Italia parliamo di modello interculturale. Certo la prospettiva interculturale ha bisogno di riconoscere la vastità delle dimensioni coinvolte, la multicomponenzialità che le è propria: la legittimità delle sue analisi e, ancor più, la produttività delle sue soluzioni sono in relazione alla sua capacità di uscire da uno stretto angolo visuale
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per avvalersi di molteplici competenze che vanno dal sociale allo psicologico, dall’economico all’antropologico, al politico, dallo storico al pedagogico-educativo. La questione inizialmente affrontata nei contesti nordamericani, tedeschi e francesi, cioè nelle società maggiormente e più intensamente investite dal problema dell’immigrazione, come educazione e didattica per gli stranieri si è venuta via via sviluppando in termini sempre più articolati, ricuperando argomentazioni complesse e provenienti da molteplici versanti disciplinari. Per quanto riguarda l’ambito italiano si è cominciato ad avvertire queste problematiche verso la seconda metà degli anni Ottanta, ma è in quest’ultimo decennio che le ricerche sono diventate numerose e significative. I temi trattati vanno dall’analisi dell’implicazione del contesto sociale sull’educazione, alle relazioni fra le società, gli Stati, i rapporti internazionali, all’approfondimento delle dinamiche etniche e culturali passando per l’evidenziazione dei principi fondamentali del pluralismo, dei diritti umani, delle pari opportunità, della interdipendenza e della integrazione per insistere sui processi di formazione. La dimensione pedagogica entra in questo intreccio di questioni portando il suo contributo in termini interpretativi e soprattutto – proprio nel rispetto della specificità del suo discorso – in termini progettuali. Questo significa riguardare ai grandi e ricorrenti temi secondo le specificità che contrassegnano il tempo attuale. Indagare la dimensione dell’identità e dell’alterità, dell’essere uguali e dell’essere diversi, approfondire le categorie dell’incontro e del dialogo, assumere lo sforzo della costruzione della propria identità riconoscendo le proprie radici e, ad un tempo, sapendosene anche distaccare: questi rappresentano temi che caratterizzano il discorso pedagogico generale, ma sono anche gli argomenti che ritroviamo, con questo sforzo interpretativo specifico, nei contesti di ricerca rivolti oggi all’analisi della questione interculturale. Ognuno di noi nasce in un certo tempo e in un determinato spazio, ma la nostra stessa presenza costituisce un cambiamento delle
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condizioni date. Sta a noi cercare di fare in modo che il cambiamento si venga a configurare in termini costruttivi senza rimanere chiusi all’interno delle situazioni in cui accidentalmente siamo stati posti. In tal modo si mescolano così realtà diverse per cui diviene fondamentale interrogarsi sui tratti qualificanti un discorso interculturale che comporta l’indagare le modalità di percezione, di interpretazione e di rapporto con l’altro – sia esso gruppo, società, individuo; capire quali significati vengano elaborati nei confronti di dimensioni quali l’identità e la differenza; elaborare strategie per una possibile convivenza nel rispetto della diversità. A fondamento di ogni possibile analisi sta il principio della comune dignità umana: al di fuori di questa assunzione ogni considerazione diventa improponibile, perde il suo senso e la sua percorribilità. Se alla domanda semplice nella sua radicalità, se ogni altra vita «sia altrettanto importante della mia» rispondiamo in maniera affermativa, allora – e solo allora – possiamo continuare il discorso. In caso contrario ogni significato di interculturalità, così come ogni autentico significato di democrazia ed educazione, viene precluso. Posta questa base, le categorie fondative del discorso interculturale sono – a mio avviso – sostanzialmente riconducibili a due. La prima che assume la diversità non come un ostacolo, un limite, ma come una possibilità e uno stimolo per l’arricchimento personale e sociale; la seconda che riconosce nella comunicazione la strategia fondamentale da perseguire con se stessi e non solo con gli altri. Una comunicazione che si svolga però tra interlocutori che si trovino su di uno stesso piano per evitate approcci di tipo etnocentrico (quando cioè considero la mia cultura superiore alle altre e quando cerco di interpretare le culture «altre» sulla base dei parametri culturali di riferimento della mia, cosa che, ovviamente, porta ad una deformazione valutativa della cultura oggetto di studio). In questa prospettiva la presenza dell’altro, del diverso, dello straniero perde la sua dimensione di minaccia e assume un ruolo propositivo, costruttivo: il suo esserci è un’occasione per far nasce-
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re nuove realtà. La riflessione pedagogica ha messo in evidenza come lo straniero, studente o lavoratore che voglia inserirsi in una nuova struttura sociale non per questo debba rinunciare alla propria storia, a quell’insieme di significati, dalla lingua alla religione, che sono fondamentali per l’elaborazione della propria identità. Intendere le diversità come opportunità rinvia a un’interpretazione rispettosa delle singole peculiarità e nel contempo tesa a favorire la comunicazione e il dialogo. La valenza interculturale sottolinea ed enfatizza lo sviluppo di un percorso che tende a cogliere quanto vi è di specifico e quanto vi è di universale nei diversi accadimenti umani per cercare di perseguire un continuo approfondimento di senso e raggiungere intese sempre più feconde. Gli studi d’impostazione psicologica e sociologica sull’intercultura hanno messo in evidenza come tutte le differenze – di razza, di nazionalità, sesso, classe, politiche, di ruolo, di religione… – costituiscano un suolo che alimenta le ansie, i timori, le ostilità, l’aggressione, gli atteggiamenti difensivi, le gelosie. Ma nella persona che costruisce una sua autonomia e cerca una sua identità, nella persona che si autorealizza, il rapporto con l’altro cessa di essere una minaccia, un’occasione di aggressione – realizzata, subita, temuta – e si configura come disponibilità al rapporto e all’intenzionalità costruttiva. Imparare a interessarsi delle differenze e a non temerle significa innescare una dimensione di reciprocità, alimentare il proprio sviluppo superando blocchi di varia origine e natura. Per quanto riguarda gli aspetti educativi, sostiene Santelli Beccegato, «l’interculturalità viene solitamente impostata valorizzando profonde connessioni con l’educazione cognitiva, l’educazione eticosociale e, più recentemente, l’educazione alla politica». Riferimenti tutti di grande rilevanza. I primi, relativi all’educazione cognitiva, per l’impegno a superare pregiudizi e forme di pensiero stereotipato che costituiscono insormontabili barriere per un possibile incontro con l’altro: la loro decostruzione si pone come premessa per aprirsi a un percorso formativo con valenza interculturale, al-
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trimenti inaccessibile. È peraltro da osservare come l’educazione cognitiva, necessaria per un’educazione interculturale, non sia ancora condizione sufficiente per un vivere sociale positivo. L’educazione cognitiva, fondamentale per superare l’intolleranza, non è bastante per aiutarci ad andare oltre un altro atteggiamento, certamente meno grave del precedente, ma a sua volta incapace di innescare processi di attenzione all’altro: l’indifferenza. Atteggiamento diffuso là anche dove sono riconoscibili alti livelli di informazione e di conoscenza. Da qui la necessità di promuovere un’educazione etico-sociale che, pur fondandosi nell’interiorità personale, non si chiuda affatto nel privato, ma avverta l’esigenza di coniugarsi con una dimensione politica e si espone in termini chiari e diretti con scelte di tipo pubblico. L’interculturalità acquisisce la sua dimensione autentica nel momento in cui riesce a qualificarsi non semplicemente come un’apertura più o meno controllata nei confronti dello straniero e un’accettazione generosa del diverso – mantenendo peraltro inalterate le condizioni di sfondo – ma come precisa intenzionalità di costruire una nuova e più umana realtà comune, di promuovere una cittadinanza attiva. L’educazione interculturale si viene così a connettere con l’educazione alla pace, ai diritti umani, allo sviluppo: tutte espressioni che sottolineano l’esigenza di assicurare un ambiente armonico, uno spazio accogliente dove sia possibile la vita per tutti e per ciascuno, e dove l’«Alter» non diventi mai l’«Alienus».
2. Dinamiche interculturali e condizioni socio-politiche europee Stiamo vivendo un’epoca di diffuse trasformazioni e di laceranti contraddizioni che mettono in crisi, scardinano consolidati modi di pensare e di organizzare l’esistenza pubblica e privata. È necessario, sulla base di chiare e fondate ragioni pedagogiche, elaborare nuove progettazioni che utilizzino le energie positive esistenti e controllino, ri-
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ducano (se non riescono a eliminare) le forze distruttive. L’impegno prioritario diviene allora quello di tracciare un cammino verso l’integrazione che tenga conto di una reale interazione dei diversi gruppi. Perché si possa realizzare una società multiculturale e – in prospettiva – una società interculturale è necessario assicurare la possibilità di riconoscimento e di condivisione di un nucleo minimo di principi e regole che costituiscano la base di una comune convivenza. Essi sono individuabili: • nel principio giuridico dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge; • nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Su questa base comune è possibile perseguire, nel reciproco rispetto, la costruzione di nuove modalità di convivenza. Chi si occupa di questioni culturali ed educative sa di non poter sperare di ottenere risultati evidenti immediati o sul breve periodo. Deve saper certamente agire nel presente, riconoscere priorità ed essere in grado di selezionare temi e strategie che abbiano una loro incidenza nel momento attuale, ma avendo sempre di mira i tempi estesi che consentano ai cambiamenti di radicarsi nella coscienza comune. Gli studi sul tema dell’interculturalità hanno messo in rilievo come sia necessario lavorare sul duplice versante della «prossimità» e della «distanza», sia cioè necessario realizzare un percorso di educazione sociale, cognitiva, etica, religiosa in grado di sostenere disponibilità positive nei confronti dell’altro, di superare pregiudizi e stereotipi, di favorire sentimenti di ascolto e di accoglienza; ma ha anche avvertito come tutto ciò, pur radicalmente necessario, non sia sufficiente. In questi ultimi anni è maturata la consapevolezza di quanto le dimensioni giuridico-istituzionali incidano sulle dinamiche interculturali. Ricoeur, come ricorda Santelli Beccegato, definisce «relazione corta quella che coinvolge il prossimo e relazione lunga quella che riguarda le implicazioni economiche, sociali, politiche, istitu-
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zionali». La relazione corta ha bisogno del sostegno e della protezione della relazione lunga. A sua volta quest’ultima ha bisogno di essere rigenerata continuamente dalle energie della prima per evitare l’oggettivazione spersonalizzante dell’istituzione e della legge e la riduzione del soggetto all’anonimato dei rapporti tecnici, sociali, politici. La responsabilità dell’educatore ha la sua ragione primaria nella relazione interpersonale, nella «relazione corta», secondo appunto l’espressione di Ricoeur, ma non si esaurisce in questa. Le connessioni con l’ambiente di appartenenza, la stessa contestualizzazione dell’agire educativo, il compito sociale che l’educatore svolge, il suo ruolo pubblico toccano la «relazione lunga» e gli richiedono un impegno in questa direzione. Per essere effettivamente credibile, l’educatore deve ampliare la sua attenzione alle dinamiche politiche e istituzionali ed esercitare un impegno critico; dare il proprio apporto per incrementare i livelli di civiltà. L’attenzione agli aspetti giuridici, alla «relazione lunga» nel contesto dell’educazione interculturale si configura come garanzia per evitare pericolosi scivolamenti retorici, sempre possibili in educazione, ma nei quali si può ancora più facilmente incorrere, purtroppo, quando si tratta di interculturalità: gli appelli emotivi, sentimentalistici spesso si ritrovano come soluzione per problemi che richiedono invece ben più solide e complesse risposte. La pedagogia ha certamente bisogno di continuare ad approfondire la struttura del proprio discorso, l’impianto epistemologico per sempre meglio definire ambiti, modalità, ragioni e scopi della sua ricerca. La stessa pedagogia interculturale richiede di porsi più chiaramente nelle articolazioni dei saperi pedagogici, ma tutto ciò non è fine a se stesso. Se così fosse formalismo e astrattezza (limiti in cui il discorso pedagogico è a volte incorso e incorre) investirebbero pesantemente questo tipo di studio: rafforzare la teoria ha un senso per poter essere più incisivamente presenti nella realtà, per riuscire a renderla – sia pure di poco – migliore. Riconoscere quali siano i problemi, le loro priorità è il primo
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passo per poter agire nella ricerca di una loro possibile, anche se parziale, soluzione. La prospettiva del dialogo, della convivenza, della non violenza sono prospettive non utopistiche. E l’apporto del discorso educativo e di chi si impegna nel settore della formazione interculturale è appunto quello di fare emergere come la violenza o la non violenza dipendano da motivazioni e da scelte ben precise. Riuscire ad esercitare un’influenza su questi livelli di intenzionalità e di responsabilità per far riconoscere a ciascuno non solo la correttezza, ma anche la «produttività» e i vantaggi personali e collettivi che emergono da comportamenti di apertura e di intesa in rapporto a quelli di rottura e di conflittualità è il senso dell’azione educativa. La pedagogia si fonda su un principio che consiste nella convinzione che il soggetto possa migliorare se stesso e trasformare la realtà e non soltanto accettarla e continuarla. Se non si parte da questo presupposto lo stesso tentativo di fare un discorso pedagogico sarebbe fallito in partenza. È quindi proprio questa convinzione della possibilità di un miglioramento, di una continua dinamica costruttiva che contrassegna la linea pedagogica generale. E la pedagogia interculturale è la risposta all’insieme complesso e spesso drammatico dei problemi del nostro tempo, risposta a condizioni che richiedono nuovi e migliori equilibri. La pedagogia interculturale si configura quindi come l’angolatura che ci consente di sintetizzare in maniera attuale le tematiche educative generali. Il punto cruciale del discorso è riuscire a riconoscere le possibilità intenzionali e creative di ogni persona, rafforzare il suo sapere costruttivo, la sua capacità di comprendere avendo, nel contempo, coscienza dei vincoli, dei limiti, dei condizionamenti che in un determinato tempo e in un determinato contesto sono presenti. Per non rimanere vittime, come pedagogisti e come educatori, di una visione utopica delle cose, di un approccio semplificante e superficialmente ottimistico dei problemi, spesso invece connotati da pesanti e forti limitazioni, per non limitarsi a fare discorsi soltanto di buone intenzioni è necessario calare questi principi nelle si-
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tuazioni e condizioni reali, date appunto spesso da conflittualità, rischi e condizionamenti. Nel nostro tempo l’educazione è attraversata da diffuse incertezze teoriche e operative. La pedagogia interculturale deve saper rielaborare i significati qualificanti un agire educativo per sostenere processi costruttivi, reali, concreti, per diffondere un sapere capace di orientare le scelte di una vita in comune. Nell’ambito dell’affermazione dei diritti umani, ad esempio, occorre non soltanto muoversi sui livelli d’informazione perché siano conosciute le dichiarazioni e le normative dell’Assemblea delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei vari Organismi nazionali e internazionali, ma è necessario operare perché queste affermazioni, indubbiamente importanti, non restino sulla carta senza un impegno operativo che le possa rendere motivazioni di un agire concreto e contrassegno di effettivi congruenti comportamenti. Si apre qui il compito specifico di una didattica interculturale assumendo la didattica non soltanto come strategia da applicare in situazioni di apprendimento scolastico, ma come visione interpretativa delle modalità di impostazione e sviluppo dei diversi processi di mediazione che si possono ritrovare in ogni situazione esperienziale. È importante riuscire a realizzare non soltanto dei saperi sulla interculturalità, ma riuscire a promuovere comportamenti collegati a questi significati. Questo saper vedere i tratti di unione nelle diverse storie di individui, popoli e culture, valorizzarli in luogo di enfatizzare gli altrettanto certamente esistenti contrasti e conflittualità è l’indicazione forse più chiara e rilevante che proviene dalle politiche europee, marcate in senso segnatamente interculturale.
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Rubriche1 Interdefinizione**
Gianvittorio Pisapia*
1. Introduzione Un mediatore di formazione umanistica (quale sia il suo modello di riferimento) se fosse chiamato a svolgere una mediazione civile e commerciale raramente avrebbe la presunzione di presentarsi, neppure dopo avere letto numerosi manuali di diritto e procedura civile, come un esperto nelle controversie previste dal Decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 e dal Decreto ministeriale 18 ottobre 2010, n. 1801. Vi sono avvocati, notai, commercialisti, medici, ingegneri… che ritengono di potere svolgere adeguatamente il ruolo di mediatori dopo avere assimilato qualche nozione di tecnica comunicativa. A questi professionisti riproponiamo quanto già scritto su questa Rivista (n. 15-16, 2010), cioè che un organismo riconosciuto do* Docente di Criminologia e di Sociologia della devianza presso la Facoltà di Psicologia, Università di Padova. Direttore del Corso di perfezionamento e del Corso di aggiornamento in Criminologia e Criminalistica. ** Questa Rubrica raccoglie l’eredità di quella condotta da Fulvio Scaparro denominata «Dizionario delle Mediazioni». In quelle pagine
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Quale mediazione senza narrazione?
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vrebbe prevedere, come la legge per altro consente (art. 1 «individualmente o collegialmente»), una conduzione che veda affidato a un mediatore «canonico» il compito di avviare l’incontro di mediazione e a un tecnico-mediatore l’incarico di affrontare gli aspetti civilistici e commerciali della controversia.
2. Tra realtà e interpretazione Da sempre gli uomini narrano e si narrano. Ci chiediamo, tuttavia, se abbia ragione Pinardi quando afferma che l’analogia tra un film d’azione e la requisitoria di un pubblico ministero, un romanzo d’amore e un progetto urbanistico, una proposta politica e una ricostruzione storiografica, un’analisi sociologica e un elogio funebre, la bugia di un bambino e la diagnosi medica siano tutte, semplicemente, narrazioni2. È ragionevole considerare alla stessa stregua il romanzo e il racconto, la barzelletta e il sogno comunicato dal paziente all’analista, il conto del negoziante e quanto si legge su un giornale di gossip, la sentenza di un giudice o quello che i periti scrivono nella loro perizia?
hanno trovato spazio alcune voci che fanno parte del vocabolario internazionale della mediazione e la sua finalità era quella di costruire un lessico condiviso tra studiosi e pratici della mediazione. Con «Interdefinizione» si intende puntare l’attenzione sulla relazione tra parole, nozioni, situazioni, eventi che riguardano l’ambito della mediazione e concetti, nozioni, situazioni, eventi che non sono suo patrimonio diretto. Una rubrica che contribuisca a fare sì che i mediatori si impegnino sempre più verso un’esplorazione del possibile e la mediazione diventi sempre più un’esperienza di confronto, in modo che la consapevolezza sulla propria identità conduca a costruire ipotesi, strategie e azioni condivise con altri ambiti disciplinari e professionali per il raggiungimento di obiettivi comuni.
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Quale mediazione senza narrazione?
Interdefinizione
Sarebbe ragionevole se non fosse una differenza sostanziale tra la narrazione come azione del narrare e il prodotto di tale azione, tra ciò che è elaborato per essere comunicato all’esterno e il processo narrativo durante il quale – se prendiamo l’esempio della mediazione penale minorile – il reo e la vittima accompagnati dal mediatore costruiscono e ricostruiscono un’interazione durante gli incontri nella stanza della mediazione. Non si intende sottovalutare la ricerca di significati nelle parole già narrate (la parola deve circolare «altrimenti moriamo senza morire»3), ma non è sufficiente dialogare o scrivere perché si sia di fronte a una narrazione. Narrare è mettersi in gioco accettando l’imprevedibilità di quanto può emergere durante un’interazione. Se puntiamo l’attenzione sul prodotto della narrazione abbiamo due figure: il narratore (colui che ha scritto un saggio per «Mediares») e il narratario (colui che legge e commenta l’articolo). Se ci rivolgiamo alla narrazione come azione – e prendiamo in considerazione ancora la mediazione penale minorile – il reo, la vittima e il mediatore sono tutti narratori. È accogliendo l’accezione del narrare come risultato dell’agire narrativo che la narrazione è ipotizzabile come «un’articolazione di segni organizzata gerarchicamente secondo una precisa sintassi interna», di norma talmente rigida e così precisa che qualunque modifica alla struttura di un testo narrativo ne modifica quasi sempre il valore4. In questa prospettiva si giustifica la distinzione tra colui che narra e il fruitore della narrazione ed è plausibile affermare che non esiste una narrazione senza un narratario. In questo caso spetta al narratore condurre a sé il narratario, anche se sta a quest’ultimo accettare ciò che gli è proposto dal momento che «un suo semplice rifiuto bloccherebbe l’intera operazione narrativa facendola essiccare e riducendola immediatamente in polvere»5. Il lettore esausto che chiude il libro, lo spettatore annoiato che si alza e se ne va dal teatro o dal cinema, la persona infastidita che rifiuta di ascoltare una barzelletta o non vi presta attenzione, l’uditore che rigetta una re-
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Gianvittorio Pisapia
Interdefinizione
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lazione o un’analisi, tutti costoro sono narratari che bloccano la narrazione o quanto meno la sviliscono e la destrutturano6. Nella nostra concezione di mediazione svanisce la dualità tra narratore e narratario. Tutti gli interlocutori sono narratori e il giudice – sempre nel caso della mediazione penale minorile – non assumerà una decisione unicamente sulla base dell’esito della mediazione. Questo non può avvenire nella mediazione finalizzata alla conciliazione, dove il senso della mediazione dipende da un accordo che troverà il proprio interlocutore determinante (che diventa in questo caso un narratario) nel giudice, il quale deciderà sulla base dell’accordo (o del mancato accordo) che ha posto termine agli incontri.
3. Conciliazione e mediazione narrativa In una mediazione che si sviluppi in termini narrativi il senso della narrazione è «racchiuso nel non detto quanto nel detto e spesso è la sacralità del non detto che illumina e dà senso al detto»7. Grazie all’oblio selettivo è possibile ricercare la novità e stimolare la creatività; il chiaroscuro prodotto dalla maggiore e minore lividezza dei ricordi aiuta a creare una prospettiva che si costituisce se i ricordi non sono presenti tutti con forza uguale. La creatività del narrare si colloca lungo la dialettica di un’esperienza tra pratica dell’oblio e della memoria. Ritrovare il dettaglio può provocare infatti sensazioni dissonanti per cui è opportuno che il passato cada nell’oblio difensivo; l’ansia per nuovi cambiamenti può indurre a stabilire uno spazio limite nel quale non sono ammessi ricordi discrepanti. Non necessariamente vi è la volontà di negare quanto è avvenuto, si è solo scelto (magari inconsapevolmente) di rivivere alcune esperienze e non altre. Mettere tra parentesi, seppure provvisoriamente, alcuni fatti, facilita gli interlocutori ad «andare incontro a se stessi come incontro a un estraneo, qualcuno che si impara a conoscere in quel preciso momento»8. È a questa condizione che il narrare aiuta le parti
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Quale mediazione senza narrazione?
In una mediazione narrativa gli interlocutori ignorano come si svilupperà la comunicazione ed è anche questo che rende possibile far emergere non solo quanto viene narrato nell’incontro ma, soprattutto, quanto ancora non è stato narrato e che potrebbe emergere tramite parole nuove. Quando in una mediazione si manifestano parole nuove (e le parole che stanno per sorgere sanno di noi quello che ignoriamo di loro, direbbe René Char) significa che si è dato ascolto al silenzio (che non è mancanza di parole ma assenza di alcune parole, è la loro ombra). Il silenzio è espressivo al pari del discorso, è la condizione affinché la parola trasgredisca le forme precostituite del linguaggio assumendo una valenza positiva e produttiva. È il silenzio della parola, «dal quale germoglia il linguaggio, il silenzio che il linguaggio maschera, il silenzio che il linguaggio
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a scoprire possibilità che esistevano ma non erano ancora emerse, e si prospetta come una domanda senza punto interrogativo che non ha come finalità quella di fotografare l’esperienza quotidiana e di riferire ciò che si è registrato nella memoria più di quanto lo scopo della fisica sia quello di fotografare la natura. È possibile che un minorenne autore di reato non riesca a riconoscere e a narrare quei frammenti di esperienza che non coincidono con l’atto di trasgressione e incontri difficoltà a farli emergere perché non corrispondono agli schemi in cui si sente incasellato e non coincidono con lo stereotipo fissato dal giudizio istituzionale. Si dovrebbe allora riuscire a far divenire il processo mediativo uno spazio nel quale si costruisce quell’autobiografia senza fatti suggerita da Bernardo Soares del Libro dell’inquietudine, personaggio di finzione di Fernando Pessoa. Nella mediazione finalizzata alla conciliazione diventa essenziale impegnarsi a ricostruire storicamente i fatti. Non si può accettare l’idea che quando si trasmettono gli eventi che hanno condotto alla controversia questi vengano «ricostruiti» identificandone come significativi alcuni piuttosto che altri.
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Gianvittorio Pisapia
lascia al suo passaggio, perché forse lo abita da sempre»9. Ascoltare il silenzio è forse lo sforzo più impegnativo di chi è coinvolto nel processo narrativo, così come sovente è difficile accogliere l’oblio come un diritto (e a volte un dovere). Ricorda Anna Coppola De Vanna come in mediazione il silenzio sia un momento fondamentale. Le emozioni sono sovente mascherate e «il silenzio è centrale perché le parole non sempre sono adeguate a dire, a raccontare»; il silenzio rispetta i tempi e i modi di elaborazione personale dell’esperienza che si sta vivendo10. Nella mediazione finalizzata alla conciliazione contano le parole che vengono pronunciate ed è su ciò che è stato detto (oltre che sulle carte) che verrà poi stesso il testo dell’accordo. Non è consentito il silenzio (a costo di non pervenire a una conciliazione) perché non è in gioco la propria esperienza di contendenti. Come suggerisce Paolo Fabbri, la metafora della conversazione è importante poiché aggiunge, al problema della determinazione o indeterminazione delle storie che vengono raccontate, l’indeterminazione della relazione fra uomini che se la raccontano. La conversazione, essendo meno strutturata di altre forme di comunicazione interpersonale, si caratterizza come spazio dell’imprevedibilità che «determina, in qualche misura, quello che accade ma non può pre-determinare definitivamente, salvo alcune condizioni, la risposta»11. Ogni storia diventa penultima, «perché c’è sempre un’ultima storia che sarà la risposta a questa storia, anch’essa penultima rispetto all’ultima risposta»12. In una mediazione narrativa, l’esperienza di ogni soggetto è sottoposta a continui cambiamenti. Qui gioca l’irresponsabilità della mediazione, perché dovrebbe mettere di fronte non alla verità storica, ma alla possibilità della verità. Non esistono narrazioni autentiche e narrazioni false, esistono solo storie reali anche se non trasmettono i fatti nella loro veridicità. Nella mediazione finalizzata alla conciliazione bisogna pervenire
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Quale mediazione senza narrazione?
Il quesito che poniamo ai professionisti è se non ritengano opportuno vi siano due differenti figure di mediatori, una che gestisce l’avvio degli incontri, un’altra che si preoccupa di contribuire a stilare un accordo conciliativo14. Avanziamo questo interrogativo ben consapevoli che domandare è evidenziare un problema ed è il problema che bisogna esaminare, sempre che lo si ritenga tale. Affrontare un problema piuttosto che ricercare risposte stereotipate aiuta ad abbandonare i sentieri certi e sicuri del conosciuto e dello sperimentato, in modo da «essere pronti a mettersi in discussione e a mettere in discussione tutto l’universo di convinzioni e convenzioni, rassicurante e tranquillo, in cui abbiamo condotto la nostra vita fino ad oggi»15.
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ad un’ultima risposta che consenta al mediatore di affermare se si è risolta (in un modo o l’altro) la controversia e diventa irrilevante che l’interazione si declini come conversazione in grado di condurre a «scandagliare l’essere umano nella sua complessità mutevole»13. Bisogna ricostruire i fatti nella loro storicità al fine di poterli valutare: sono stati ricostruiti in modo autentico o gli eventi raccontati non corrispondono alla realtà? Concordiamo con Hannah Arendt quando afferma che la narrazione non dovrebbe conoscere ortodossia; se siamo interessati a fare sì che l’attività mediativa diventi occasione di narrazione non dovrebbe ricercare una propria ortodossia, non dovrebbe aspirare a conseguire certezze. Nella mediazione finalizzata alla conciliazione, se consideriamo prevalente la parte tecnica, non è ammessa la mancanza di ortodossia. Per quanto la normativa sia sovente confusa e contraddittoria, vi sono limiti e vincoli di carattere giuridico dai quali non è possibile prescindere.
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Le edizioni la meridiana … per gli operatori sociali I LIBRI
Il lato oscuro della mente L’Io di fronte ai cambiamenti F. Berto, P. Scalari Verso la Nascita Percorsi per una maternità consapevole V. Bastianini, D. Daniele, M.L. Verlato A scuola con le emozioni Un nuovo dialogo educativo P. Scalari Psicoigiene e Psicologia Istituzionale Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni J. Bleger Quando l’amore se ne va La coppia tra disillusioni, accordi, compromessi e separazioni I. Grattagliano, D. Torelli Di padre in padre I tempi della paternità Coppola De Vanna, D’Elia, Gigante Identità alla deriva Vuoto di sé e vuoto di relazione nel tempo del “tutti connessi” M.L. Verlato Biblioterapia La lettura come benessere B. Rossi ConTatto La consulenza educativa ai genitori F. Berto, P. Scalari Ho perso le parole Potere e dominio nelle pratiche di cura F. Di Lernia Il benessere nelle emozioni Manuale di counseling biosistemico S. Cristifori, E. Giommi
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Il corpo violato Un approccio psicocorporeo al trauma dell’abuso M. Stuppiggia L’alchimia adottiva Narrazioni e pensieri M.P. Cosmo La dignità nel morire Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita Albano, Floridia, Lisi, Martinelli La psicantria Manuale di psicopatologia cantata G. Palmieri, C. Grassilli Mal d’amore Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative F. Berto, P. Scalari Nascere e crescere Il mestiere dei genitori M. De Pra, P. Scalari Per una nuova prevenzione P. Misesti So-stare nei gruppi Proposte per esperienze di benessere B. Rossi IL BLOG per inviare contenuti info@premesse.it Seguici su