Mediares Semestrale sulla mediazione
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Scritti di:
Semestrale sulla mediazione
n. 20 2013
In questo numero: Il negoziato come approccio tra globalizzazione e mediazione
| n. 20 2013 |
Il Mediterraneo luogo di incontri Mediazione civile e commerciale: quale il ruolo del formatore? Mediare nelle controversie: la legge dei danni e/o degli inganni? Restorative Justice e tutela delle vittime di reato nel diritto europeo: la direttiva 2012/29/UE Scopri i contenuti multimediali
Euro 28,00 (I.i.)
S. Cera A. Chmieliski Bigazzi A. Coppola De Vanna N. Foggetti A. Fornasari I. Grattagliano G. Impagniatiello D. Kalogerou V. Martelli M. Martello G. Pisapia F. Reggio A.L. Tocco D. Torelli G.M. Valenti
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In questo numero
Editoriale di Anna Coppola De Vanna
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Studi e ricerche Giuseppe M. Valenti Globalizzazione e mediazione. Appunti per una teoria generale sul negoziato come approccio globale
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Alberto Fornasari Il Mediterraneo luogo di incontri
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Stefano Cera Il ruolo del formatore nella mediazione civile e commerciale
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Maria Martello Mediazione delle controversie. La Legge dei danni e degli inganni?
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Nadina Foggetti Restorative Justice e tutela delle vittime di reato nel diritto europeo: la direttiva 2012/29/UE
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Dossier del mediatore J.R. Blad, D.J. Cornwell, M. Wright (a cura di Federico Reggio) ‘Civilizzare’ la giustizia penale. Principi, filosofia e prassi della Restorative Justice secondo una prospettiva internazionale e interdisciplinare
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Federico Reggio Annotazioni sul Dossier del n. 19
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Itinerari del diritto Gianpaolo Impagnatiello La nuova legge sulla filiazione e la mediazione familiare: un’(altra) occasione persa
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Rubriche Interdefinizione Gianvittorio Pisapia Giocare a scacchi senza il Re?
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Contiguità Donato Torelli, Ignazio Grattagliano La violenza nascosta nei rapporti di coppia
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Demetra Kalogerou Migliorare la protezione dell’investitore attraverso il rafforzamento del sistema risarcitorio europeo
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Interviste Andrea Chmieliski Bigazzi Il Mediatore europeo per i casi di sottrazione dei minori (On. Roberta Angelilli)
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Esperienze Virginia Martelli Un esperimento di giustizia riparativa in Italia
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Storie Anna Laura Tocco Mediazione ed economia
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Biblioteca Giuseppe M. Valenti Tarkus o dell’inutilità distruttiva della conflittualità permanente
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John R. Blad, David J. Cornwell e Martin Wright* versione italiana a cura di Federico Reggio** Questo articolo descrive e presenta un volume collettaneo a cura degli autori, di prossima pubblicazione per i tipi di Waterside Press (UK). Il suo titolo, Civilizing Criminal Justice (civilizzare la giustizia penale), è volutamente costruito intorno alla possibilità di una duplice interpretazione: da un lato l’allusione all’avvicinamento del diritto penale al diritto civile, già altre volte individuato come una delle possibili istanze della restorative justice, e dall’altro lato una ‘sfida di civiltà’ di ben più ampio respiro, ovvero l’urgenza di una globale riforma dei sistemi penali vigenti in molti stati democratici. Il libro nasce con una vocazione internazionale, dal momento *
John Blad è Professore Associato di Scienze Criminologiche presso la Erasmus University Law School, Rotterdam (Olanda). È fondatore del Forum Olandese per la Restorative Justice e di una Rivista Olandese/Fiamminga espressamente dedicata alla Restorative Justice. David Cornwell svolge da anni attività di consulenza in ambito criminologico ed autore di numerose pubblicazioni in materia. In precedenza è stato Prison Governor e Tutor presso il HM Prison Service College, Wakefield, UK. Martin Wright è globalmente riconosciuto come uno dei pionieri della Restorative Justice, sulla quale ha scritto numerosi articoli e saggi sin dai primi anni ’90. Tra i fondatori dello European Fo-
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‘Civilizzare’ la giustizia penale. Principi, filosofia e prassi della Restorative Justice secondo una prospettiva internazionale e interdisciplinare
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che raccoglie contributi di diciassette autori provenienti da quattordici diversi Paesi; esso ha inoltre l’intento di mettere in contatto la riflessione teorica con la prassi, come emerge dalla struttura stessa del testo, che si divide in tre differenti parti (Civilizing the Procedure; Civilizing the Theory; Civilzing the Practice), ciascuna dotata di capitoli di commento da parte dei curatori1. Il movimento della restorative justice – oramai dotato di estensione mondiale – riflette un’ampia e variegata tipologia di approcci e stadi di sviluppo diretti a un generale e comprensivo obiettivo di ‘fare giustizia in modo migliore’. L’interesse nei confronti della filosofia sottostante a tale movimento di pensiero, così come nei riguardi dei suoi principi operativi, si espande di anno in anno, mentre un sempre più ampio numero di democrazie giunge a riconoscere i profondi limiti che caratterizzano l’impostazione di fondo del proprio modello di risposta al reato. In particolare, emerge sempre più come la ‘ossessione punitiva’, divenuta dominante negli scenari politico-penalistici del dopoguerra, abbia impedito un pieno ripensamento dei sistemi penali di molti stati democratici, a dispetto di considerazioni teoriche e dati empirici che ne evidenziano da tempo un serio stato di crisi. Tassi alti e sempre crescenti di recidiva, soprattutto a seguito di pene detentive, hanno comprensibilmente messo in discussione l’idea per la quale ‘la prigione funziona’, così ampiamente sposata da politici ansiosi di mantenere la loro credibilità elettorale apparendo, o dichiarandosi, ‘duri con la criminalità’. rum for Restorative Justice e di Mediation UK, è stato direttore della Howard League for Penal Reform. Già Direttore della Biblioteca dell’Istituto di Criminologia di Cambridge, è ora ‘Senior Research Fellow’ presso la facoltà di Human and Life Sciences, De Montfort University, Leicester, UK. ** Assegnista di Ricerca ‘Senior’ presso il Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto, Università di Padova.
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Per quanti siano oggi alla ricerca di mezzi alternativi per ridurre il crimine nel suo accadere e nel suo impatto complessivo, oltre che per affrontare in modo costruttivo il problema della commissione del reato e quello della vittimizzazione, gli approcci alla giustizia di stampo riparativo o ‘rigenerativo’ (restorative) sembrano offrire nel contempo una sfida e una ‘illuminazione’ in vista del ripensamento complessivo della pena del cui bisogno molta parte della criminologia contemporanea si è fatta interprete. Tra i principali vantaggi che tali approcci manifestano vi sono: la loro ‘adattabilità’ ad operare entro (e con) differenti sostrati culturali, la capacità di attuare un coinvolgimento della comunità civile nel ‘justice process’, l’attenzione offerta alle vittime di reato; la riduzione dell’invasività dell’intervento dello stato nella vita degli autori di reato. Civilizing Criminal Justice dedica specifica attenzione a ciascuna di queste questioni vitali, traendo importanti sollecitazioni dalla poliedricità che caratterizza le varie forme con le quali i principi della restorative justice hanno trovato attuazione in differenti contesti culturali, sociali e giuridici. Le prassi e gli istituti ispirati alla restorative justice (solitamente identificate con l’ampio termine di restorative practices) hanno inoltre dato prova di risultare efficacemente applicabili anche oltre gli stretti confini del diritto penale, come strumenti di un più ampio ‘peace-making’ o di soluzione concordata delle controversie, come mezzi per favorire la riparazione (o per lo meno l’attenuazione) del danno provocato da forme di illecito differenti dal reato stricto sensu, oppure come prassi atte a favorire lo sviluppo o il rafforzamento di legami intersoggettivi o comunitari ispirati a reciprocità e mutualità. Del resto, in un mondo più ‘illuminato’ sarebbe possibile affrontare con maggiore flessibilità e ‘permeabilità’ i confini – oggi definiti con accentuata rigidità – fra diritto e giurisdizione penale e civile, così come fra ‘giustizia’ (intesa come tutela di diritti) e ‘governance’. Gli autori di Civilizing Criminal Justice muovono dalla
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comune convinzione che questo obiettivo sia desiderabile e anche raggiungibile: il testo ambisce pertanto a mostrare che si può (e, per certi aspetti risulta doveroso) spingersi oltre la mera (e oramai ampiamente diffusa) constatazione dei consolidati limiti e fallimenti del tradizionale modello di risposta al reato, spostandosi dalla diagnosi alla proposta di alternative auspicabili e percorribili.
1. La restorative justice e le sue provocatorie domande Ci sono una serie di acquisizioni riguardo alla restoraive justice e al suo progressivo sviluppo a livello mondiale che, attraverso gli ultimi vent’anni, hanno oramai raggiunto un’accettazione quasi pacifica. Queste possono essere così brevemente riassunte: la restorative justice non rappresenta totalmente un novum nel contesto della riflessione sulla pena (nel senso che alcuni suoi principi e prassi trovano antecedenti in molte tradizioni risalenti); essa sfida con decisione lo status quo delle tradizionali politiche e prassi penalistiche; offre un elevato potenziale per un approccio più inclusivo e costruttivo alla comminazione ed irrogazione della sanzione penale; la sua accettazione e integrazione nella prassi penalistica è ancora marginale o comunque limitata, in molti ordinamenti, a un numero selezionato di tipologie di casi. Fortemente radicata nel principio della ‘riduzione del danno’ complessivo (tanto quello cagionato dal reato quanto quello che viene realizzato dalla reazione al crimine, la quale molto spesso ‘allarga la ferita’ piuttosto che ridurla), la restorative justice pone domande totalmente differenti riguardo agli esiti dei ‘justice processes’ nei confronti degli offensori, delle persone direttamente colpite dal reato, così come per le comunità entro le quali il reato accade (Zehr 1990; Zehr e Mika 1998). Tuttavia, pur configurando un’attitudine radicalmente differente nei confronti della risposta al reato (costruttiva, riparativa, inclusiva…), la restorative justice non si differenzia in modo radicale dalla tradizionale idea di pena (retributiva,
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o per lo meno prevalentemente afflittiva), nonostante le troppo frequenti, sebbene ingenue, accuse in tal senso. Ciò che comunque l’approccio restorative realizza è porre in modo aperto e profondo un importante quesito filosofico: se lo scopo principale della giustizia penale sia quello di riparare il danno sociale creato dalla condotta offensiva, o se invece esso non sia quello di infliggere una ritorsiva afflizione all’autore di tale condotta. La domanda sopra esposta viene fatta propria anche dai vari autori del volume che qui stiamo brevemente presentando, nella consapevolezza che il quesito posto dalla restorative justice assume un’attualità significativa in un momento, come il presente, nel quale in molti ordinamenti giuridici democratici si verifica una impasse sia filosofica che operativa riguardante il problema della pena. Tale difficoltà si consolida in una condizione di crisi visibile già nelle statistiche (ad esempio relative alla popolazione carceraria, o al tasso di recidiva), ma che si rende tangibile nel porre in discussione l’autorevolezza e, in ultima istanza, la legittimazione degli stessi sistemi punitivi e degli ordinamenti in cui essi sono collocati. Popolazioni carcerarie in continua crescita, e con costi umani e sociali sempre meno sostenibili – considerati anche gli standards di vivibilità dei contesti detentivi – rappresentano un peso economico in un momento di scarsità di risorse, ma anche un serio interrogativo etico. Tale interrogativo si rende ancora più radicale in considerazione della variegata tipologia di soggetti che vengono a costituire la popolazione carceraria. In molti Paesi, peraltro, l’aumento della durata dei processi – combinato con un ampio utilizzo della custodia cautelare in carcere – ha significativamente ampliato il numero di detenuti (confondendo peraltro il detenuto in attesa di sentenza da quello che effettivamente sconta una pena in carcere); a ciò si deve aggiungere l’insufficiente ricorso ad efficaci misure alternative alla detenzione, soprattutto per reati di minore entità ma commessi da soggetti recidivi. La situazione sopra descritta è esacerbata da due fattori signi-
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ficativi: il primo è l’alto tasso di recidiva successivo alla scarcerazione (dal quale quantomeno dovrebbe sorgere una domanda relativa all’efficacia della sanzione appena scontata), e il secondo è la riluttanza a creare o ad adottare adeguate forme di sanzione alternative alla detenzione carceraria, ed idonee ad assicurare un adeguato reinserimento sociale e un’adeguata ricomposizione della ferita causata dal reato. Ne risulta che la pena detentiva è spesso l’unica tipologia di sanzione applicata, e non già la tipologia di pena alla quale si ricorre quando altre misure risultino incongrue rispetto alla gravità del fatto o alle esigenze di protezione della cittadinanza. Desta ulteriore preoccupazione, poi, collegare queste considerazioni ai dati che mostrano come, dagli anni ’90, nei Paesi occidentali la popolazione carceraria sia aumentata in modo continuo e significativo, mentre invece i tassi di reato di ogni tipologia sono rimasti sostanzialmente costanti, se non in lieve flessione. Una simile escalation è largamente dovuta al fatto che l’accesso a sanzioni o a programmi community based (ovvero esterni alla mera detenzione in strutture carcerarie) è stato residuale. Non giova il fatto che, a prescindere dal colore politico dei governi, in gran parte degli stati occidentali si siano perseguite politiche di durezza con il crimine che hanno incrementato un diffuso allarme sociale non di rado sproporzionato rispetto alla reale incidenza e frequenza dei reati violenti nelle comunità di riferimento. L’agenda della restorative justice – mentre riconosce che reati seri e violenti richiedono comunque una risposta sanzionatoria adeguata alla gravità del fatto – cerca di promuovere la riduzione del ricorso alla sanzione detentiva, primariamente incoraggiando forme di mediazione fra offensori, vittime e comunità; la volontaria riparazione del danno alle vittime da parte degli autori di reato; la riabilitazione degli offensori attraverso un’accettazione di responsabilità per il danno e la sofferenza da essi cagionata, dalla quale scaturisca un’adeguata attività riparatoria nei confronti delle vittime e delle società colpite dal reato, eventualmente accompagnate anche
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2. Zone d’ombra e necessari approfondimenti Ciononostante, sembra permanere una diffusa riluttanza verso un ricorso più ampio e sistematico ai principi e ai modelli operativi dell’approccio restorative, soprattutto con riguardo ai reati di maggiore gravità o allarme sociale. A ciò non giova l’attuale mancanza di un adeguato chiarimento sulla natura stessa della restorative justice e degli istituti da essa ispirati: se si tratti, in altri termini, di modelli di diversion alternativi al processo tradizionalmente inteso (destinato a non mutare, bensì a rimanere un’alternativa), se invece delineino principi che vanno integrati nel sistema penale ma nel contempo destinati a modificarne l’assetto complessivo, o se an-
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da una formale manifestazione di scuse da parte dell’offensore. Questa agenda ‘curativa’ è disegnata per includere tutti i soggetti coinvolti dalla vicenda di reato e, in aggiunta, per offrire agli offensori adeguate life skills o qualità lavorative atte a consentire loro una più seria opportunità di allontanarsi, in futuro, da condotte criminose. Il riferimento alla comunità, qui brevemente accennato, non è di secondaria importanza, poiché le prassi ispirate alla restorative justice mirano a creare momenti di confronto fra i soggetti originariamente coinvolti nel conflitto, con lo scopo di abilitarli attivamente alla ricerca di soluzioni che essi ritengano eque e sostenibili, secondo modalità più vicine al diritto civile che ai tradizionali ‘schemi di pensiero’ del diritto penale moderno e contemporaneo. C’è, del resto, un sempre crescente volume di dati empirici, suffragati da ricerche, che dimostrano l’efficacia delle iniziative riparative, o rigenerative, in termini di soddisfazione e riconoscimento delle vittime ma anche nella riduzione dei tassi di recidiva, particolarmente nel settore minorile, nel quale i modelli di restorative justice hanno avuto sinora più ampio recepimento.
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cora gli elementi ‘restorative’ costituiscano un’aggiunta rispetto ai modelli procedimentali e sanzionatori già in atto. Sebbene siano stati effettuati molti sforzi nel tentativo di promuovere una più ampia accettazione della restorative justice, gli studi compiuti in tal senso nei primi anni duemila, sia pur molto rigorosi dal punto di vista scientifico, mancavano ancora di sufficiente suffragio di dati empirici per attuare una persuasione sufficientemente efficace2. Non sono mancati tuttavia, già in quegli anni, rilievi che hanno posto in evidenza una perdurante difficoltà nella esatta definizione dei contorni concettuali del paradigma restorative: una difficoltà, questa, che sembra aver giocato un ruolo negativo nell’affermazione di questo modello di pensiero all’interno del dibattito criminologico e penalistico (dove peraltro ha ottenuto negli anni sempre maggiore attenzione), ma soprattutto nel mondo della prassi e nell’ambito delle scelte di politica criminale. A questo proposito, un contributo particolarmente interessante sembra essere stato quello di uno studioso della Sheffield University, Jim Dignan, il quale ha individuato in particolare tre ‘linee di ambiguità’ (fault lines) lungo le quali si manifesta tutt’oggi una debolezza del paradigma restorative, e che possono essere così riassunte: (1) la definizione stessa di restorative justice e dei suoi contorni concettuali; (2) l’identificazione e il ruolo dei vari stakeholders (es. vittima, offensore, comunità) coinvolti nelle restorative practices; (3) la natura della relazione che si può istituire tra la restorative justice e il sistema penale tradizionale. Sono linee di ambiguità presenti nel dibattito tra gli stessi sostenitori del modello restorative e che quindi – come evidenzia Dignan – rappresentano un pericolo per l’affermazione stessa del paradigma alternativo cui ambisce la restoration: quest’ultima infatti può facilmente apparire troppo vaga e imprecisamente definita per
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3. Linee di approfondimento e sfide: le tematiche centrali del libro Supponendo che le osservazioni espresse da Dignan dieci anni or sono siano sostanzialmente corrette, e che frattanto i cambiamenti
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costituire una valida e percorribile alternativa agli istituti e ai modelli di pensiero già esitenti3. Ad esempio, con riguardo alla prima linea di ambiguità si possono distinguere fra approcci orientati al procedimento (ossia che identificano la restorative justice con determinate prassi) e approcci incentrati sui risultati (e che quindi ritengono fondamentale il raggiungimento di alcuni obiettivi, e non solo l’attuazione di procedimenti). La seconda linea, invece, riguarda non solo la definizione del reato e del suo impatto, ma anche l’individuazione dei soggetti chiamati ad ‘avere un ruolo’ nella ricerca di risposte accettabili. Al cuore di questa riflessione si cela una domanda profonda e problematica sul rapporto tra lo Stato ed i suoi cittadini, e sull’estensione del potere dello Stato stesso di agire ‘per il pubblico interesse’, non di rado surrogandone, oltre che la funzione, anche la rappresentazione soggettiva. La terza linea riguarda il ruolo stesso che il modello restorative ambisce a rappresentare: un binario alternativo ad un sistema destinato a permanere (quand’anche in funzione sussidiaria) o un modello di pensiero destinato a ri-pensare in modo onnicomprensivo il problema della pena? La risposta alla domanda varia in modo significativo a seconda della ‘radicalità’ con la quale il paradigma restorative intende proporsi: qui risiede, ovviamente, un dilemma cardinale, dal quale dipende la possibilità stessa di proporre la restorative justice come modello principale di risposta al reato, destinato a lasciare il ricorso a misure prevalentemente afflittive solo come extrema ratio.
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e le evoluzioni nel dibattito in materia siano stati relativamente esigui, dovremmo ritenere che ci troviamo ancora di fronte ad una montagna da scalare. Soprattutto – per rimanere entro una metafora alpinisitica – se la restorative justice deve ancora salire al di sopra delle colline poste ai piedi di questa montagna, può darsi che nuove vie di ascesa vengano scoperte ed esplorate; vie, magari, ancora non censite su alcuna mappa. È infatti una nostra decisa convinzione che – sebbene le condizioni climatiche attuali rimangano non favorevoli ad un’ascesa (per lo meno lineare) e tali possano perdurare ancora per del tempo – la montagna sia ancora scalabile. Comunque, senza la saggezza e le capacità di guide esperte, sarebbe davvero difficile identificare quali vie offrano le migliori chances. Pertanto, il nostro primo compito è stato quello di individuare e ‘cooptare’ guide del calibro e della prodezza necessari, e in ciò siamo stati più che fortunati. Abbiamo diciassette guide da tredici diversi stati, un significativo numero dei quali provengono dall’Europa e da Paesi Anglosassoni. Potremmo ora dire – sempre restando nella nostra metafora – che una volta iniziato con loro a ‘fare il punto della situazione’, abbiamo stabilito un ‘campo base’ ben oltre la linea degli alberi: un punto sicuro da cui muovere per esplorare vie di accesso alla vetta. La selezione degli itinerari da cui ‘aggredire’ le possibili vie d’ascesa alle rocce è stato un requisito di importanza vitale, considerando l’altezza e le pendenze della massiccio roccioso. Sicuramente le tre ‘linee di ambiguità’ delineate da Jim Dignan hanno costituito un importante punto di riferimento, anche per noi curatori del testo: in particolare esse hanno aiutato a mantenere una ‘messa a fuoco’ su alcune delle principali questioni che richiedono ulteriore approfondimento e valutazione. Dopo una lunga ponderazione e discussione, tre tematiche sono apparse di particolare importanza per una riflessione – come quella intrapresa alla base del progetto di Civilizing Criminal Justice – volta a promuovere un mo-
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dello di giustizia penale più consono alle istanze e ai principi delineati entro il dibattito sulla restorative justice. Li riassumiamo qui brevemente, specificando che queste tre tematiche hanno costituito per tutti gli autori del testo uno sfondo comune sul quale li abbiamo invitati a riflettere e a confrontarsi con i curatori del testo. Tema 1: La possibile relazione sussistente fra l’approccio restorative e i modelli di sanzione retributivi basati sul modello del just desert: il ruolo del principio di proporzionalità e della considerazione della lesività del reato come fattori di limite al ricorso a sanzioni indeterminate o giustificate sulla base di politiche generalpreventive. Tema 2: La riduzione del numero di illeciti che vengono sanzionati penalmente e l’avvicinamento – per i restanti illeciti – a forme di tutela del danneggiato simili a quelle previste dal diritto civile. Qui si pone l’interrogativo riguardante le linee concettuali che consentono di operare una simile distinzione e, più in generale, sul ruolo e sulle prerogative dei poteri pubblici nel processo penale e nella pretesa punitiva in senso lato. Tema 3: L’incremento di sanzioni orientate alla riparazione e alla ‘rigenerazione’, erogate a stretto contatto con contesti sociali e con ridotto ricorso alla detenzione come modalità principale di attuazione della pena, richiede una riflessione sulla tipologia di sanzioni alternative erogabili, sulla loro implementazione e sul monitoraggio e la valutazione dei risultati ivi conseguiti. A riguardo di questi ultimi si pone l’interrogativo su come contemperare al meglio le esigenze di rassicurazione e sicurezza sociale con quelle di riconoscimento e tutela delle vittime e di responsabilizzazione degli autori di reato. È evidente – già dalla breve descrizione qui proposta – che le tre tematiche si intersecano e si connettono sotto molteplici profili, e hanno da sfondo una riflessione globale sui motivi ispiratori della svolta invocata dalla restorative justice. Accanto a questa riflessione – più di stampo teorico – si pone però un essenziale quesito, legato
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in particolare alla terza tematica, ed attinente alle esigenze di ‘credibilità’ sociale e politica che la restorative justice ambisce ad ottenere. Per quanto l’era del motto ‘prison works’ sia in fase di declino, ciò non significa che la risonanza di un pensiero che configura la pena in termini essenzialmente afflittivi e contenutivi, e principalmente intesa come detenzione, non rimanga dotata di ampia risonanza nell’immaginario e nella sensibilità sociale, complici anche i mass-media.
4. Alcuni Pensieri Conclusivi... in attesa di lasciare la parola al testo Derek Lewis, stimato direttore del Prison Service of England and Wales e persona dalle idee innovative, durante una conferenza riguardante l’esigenza di una riforma carceraria di ampio respiro ha affermato con simpatica ironia che quando ci si accinge a mangiare un elefante è prudente e più indicato per la digestione procedere a piccoli bocconi. Siamo dunque consci che l’impresa di collocare la restorative justice nel mainstream del dibattito penalistico – e ancor più dell’agenda riformatrice di molti legislatori – sia un’impresa che può apparire sproporzionata e, appunto, elefantiaca, soprattutto perché richiede un cambiamento operante non solo a livello normativo, ma anche filosofico e nell’attitudine verso la prassi. Riteniamo, tuttavia, che sia un cambiamento moralmente giustificabile e necessario. Tre filoni di ricerca – distinti ma correlati – sono emersi come chiavi di lettura dominanti all’interno del nostro studio, e ciascuno di essi è connesso all’auspicio di riforme legislative tra loro consequenziali. L’importanza della limitazione della popolazione carceraria e del ricorso alle pene detentive va connessa necessariamente ad un ripensamento normativo e giurisprudenziale accompagnato da un ricorso a sanzioni alternative e non strettamente detentive (gli autori parlano, a questo proposito di community sanctions,
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n.d.t.). Soprattutto, una più vasta applicazione di istituti ispirati alla restorative justice può offrire un importante contributo verso una più ampia e diffusa giustizia sociale, e percepiamo che tali iniziative possano costituire ingredienti essenziali non solo per un miglioramento dei servizi della giustizia, ma anche per lo sviluppo di società più eque e rispettose. Già alcuni nostri interlocutori ci hanno interrogato su quali esiti ci aspettiamo di veder emergere dal progetto di studio che Civilizing Criminal Justice incarna. La risposta, ovviamente, è incerta, perché abbiamo lasciato al gruppo di esperti coinvolti nella stesura del testo ampia libertà di esprimere la loro saggezza, competenza e comprensione professionale all’interno delle ‘linee guida’ che abbiamo sopra esposto come temi portanti della riflessione su cui abbiamo interrogato noi stessi e tutti gli autori del testo. Gli esperti spesso si trovano in disaccordo, o per lo meno affrontano questioni analoghe con approcci anche significativamente diversi, e ciò accade con particolare riguardo alla questione dell’implementazione del ricorso alla restorative justice. Avendo presente questo aspetto, comunque, possiamo parimenti osservare che già gli abstracts inviati dagli autori hanno evidenziato un ricco novero di prospettive, ciascuna delle quali trae riferimento dalla specifica formazione di ciascuno di essi, così come dal contesto nel quale i suoi studi e la sua esperienza sono maturati. Siamo pertanto fiduciosi che la saggezza collettiva che emerge ed emergerà dai contributi degli autori coinvolti nel progetto – e con i quali abbiamo frequentemente dialogato nelle fasi di realizzazione dei loro scritti – forniranno importanti ‘referenti concettuali’ e indicazioni per il futuro della restorative justice e degli istituti ad essa ispirati, soprattutto nell’ambito della giustizia penale. Mentre riconosciamo che differenti culture e contesti possono vedere differenti modalità di recepimento delle proposte della restoration – la cui flessibilità si presta peraltro ad una realizzazione contestuale – siamo anche convinti che ogni società abbia bisogno di
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procedimenti capaci di affrontare e ‘curare’ le ferite cagionate da condotte violente, di relazionarsi in modo corretto e giusto con gli autori di reato e nel contempo di mostrare preoccupazione per i bisogni delle vittime, così contribuendo alla coesione sociale che l’accadere stesso del reato pone in discussione e indebolisce. Che questo possa raggiungersi in un modo ‘civilizzato’ è un proposito che costituisce la cornice delle nostre riflessioni, le quali sono animate dalla convinzione che la prospettiva della restorative justice possa offrire un valido contributo – sia teorico che pratico – alla realizzazione delle finalità sopra indicate. Infine, condividiamo la visione per la quale devono essere trovati modi di elevare le restorative practices al punto da consentire alle loro proposte e modalità operative di offrire una proposta capace di superare lo stallo dell’ossessione punitiva nella quale la giustizia penale tradizionale è rimasta intrappolata in molte società contemporanee. Società civilizzate riconoscono che le prigioni tradizionalmente intese dovrebbero progressivamente essere portate a divenire l’extrema ratio della reazione penale e che le comunità civili sono le vere custodi del futuro. Investire nel modello detentivo tradizionale è investire nel passato: ricercare un modo migliore di fare giustizia è un investimento che tutta la comunità civile deve e può fare per il proprio stesso futuro.
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Donato Torelli*, Ignazio Grattagliano** Si conoscevano troppo per provare quello stupore del possesso che centuplica la gioia. Lei era annoiata da lui, quanto lui era stanco di lei Flaubert
Ci sono tante situazioni che danneggiano e usurano la storia tra due persone che un tempo si rapportavano in modo diverso forse volendosi anche un bene appassionato. Tenteremo di dimostrare come questo tipo di usura, indubbiamente crono-dipendente, sia una vera e propria violenza occulta. Questo danno nei confronti dell’altro, e implicitamente di se stessi, poco per volta, diviene abitudinario, quotidiano e, non essendo in genere riconosciuto come tale, viene da chi lo commette quasi sempre contestato come non vero. Sono quei pericoli che si annidano nella cosiddetta “normalità” che, vessata dall’abitudine, dalle difficoltà quotidiane e dalla * Neuropsichiatra, psicoterapeuta. ** Psicologo, psicoterapeuta, specialista in Criminologia clinica, ricercatore universitario.
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fatica del vivere, col tempo portano inevitabilmente ad adottare comportamenti rozzi, arcaici che determinano una condizione di degrado e di vero e proprio “analfabetismo sentimentale di ritorno”. È come se, poco per volta, divenissimo inferiori persino a noi stessi! Col tempo accadrebbe che non si riesca più ad immaginare gli effetti di ciò che diciamo o facciamo, creando così una specie di crostosa innocenza auto-assolutoria ( “…ma che cosa avrò detto o fatto di così grave?”). Cultura, sensibilità e leggerezza, tre parole così interconnesse, sono probabilmente le uniche barriere possibili per questa minaccia che incombe sulle relazioni di coppia. Per Braudel1, la “cultura” di una persona o di un gruppo si esprime attraverso il suo modo di crescere, di vivere, di amare, di sposarsi, di pensare, di credere, di ridere, di nutrirsi, di vestirsi, ecc. Per la filosofia e la psicologia, la “sensibilità” è rappresentata dalla intensità e l’acutezza con cui un soggetto intuisce qualcosa di esterno a lui e la predisposizione a condividere le emozioni altrui. Mentre per poter parlare di “leggerezza”, è pressoché inevitabile il riferimento a Calvino2: “In certi momenti – dice l’Autore – mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa (…) la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario (…) Da quanto ho detto fin qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi, spero innanzi tutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza”. E se, per l’appunto, alla “leggerezza” si riuscisse ad aggiungere
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La violenza nascosta nei rapporti di coppia
“…rido di me, rido del tempo che passa, di questo vento che si ferma a giocare, così ridendo guardo il mondo ad occhi chiusi, ridere è l’arma sai, che accomuna gli esclusi. E questo gioco lo regalerò ai miei figli, che lo conservino per tutte le battaglie, contro ogni freddo, ogni pioggia, ogni ghiaccio rido e così, a modo mio, ti abbraccio. E rideremo di quanti amori hanno sconfitto i nostri cuori, e rideremo di quanti affanni, rideremo in faccia agli anni …”3 Quindi, se non vogliamo che tutto vada in degrado, verso una calviniana “pietrificazione” sentimentale, bisogna tentare di porre in atto non solo “esercizi di estensione morale”, per usare un’ efficace espressione di Enders4, ma aggiungere anche un po’ di sana “gioia di vivere”, così come canta Teresa De Sio3 Sin quando ad esempio si è portati a pensare, con la mentalità corrente, che anche nelle relazioni importanti, tutti, compreso il proprio partner, siano “fungibili”, sostituibili” e “provvisori”, non ci si porrà a sufficienza il problema che parole e gesti possono ferire a volte più di un pugnale. “La violenza – dice Sofsky5 – è il destino della nostra specie. Ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi”. In un nostro scritto precedente6 definivamo la “famiglia” come una “Organizzazione biologico-culturale tendente al degrado, dove però ognuno, per quello che può, pone in atto dei meccani-
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nelle relazioni di coppia anche un po’ di sana “frivolezza”, intesa come una forma di leggerezza un po’ più scanzonata, sicuramente si migliorerebbe ulteriormente il grigiore di alcune quotidianità appesantite da una opprimete routine.
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smi riparativo-salvici per sé stesso e per gli altri”; è quanto mai evidente quindi che qualsiasi modalità espressiva e/o comportamentale, non positiva, specie se ripetuta e non corretta, tenda ad aggravare il degrado. È proprio questo che noi definiamo come “violenza nascosta”. In questo tipo di azione nociva non c’è sicuramente la volontà di recare danno all’altro, e di provarne di conseguenza gioia o soddisfazione (schadenfreude); non v’è infatti deliberazione in tal senso, al massimo, come s’è detto, scarsa sensibilità, individualismo, brutte abitudini, poca cultura, questo sì. Inquiniamo, poco per volta, il cuore e la mente dell’altro proprio come accade per alcune brutte abitudini contro l’ambiente nel quale noi stessi viviamo. Non dobbiamo poi meravigliarci delle inevitabili reazioni. Se invece impariamo a vivere con un’altra persona, rinunciando ad esempio, anche se solo di tanto in tanto, ad essere al centro dell’attenzione (ricordandoci che non sempre è possibile fare tutto ciò che si vuole); se riusciamo a cogliere la differenza che c’è, nell’ esposizione domestica dei corpi, tra pudore, seduzione, vergogna ed incuria; se riusciamo a comprendere, sempre nella relazione con l’altro, la differenza che c’è tra comprensione e indifferenza; se riusciamo ad accostare concetti assai lontani tra loro come “escapismo” e “vita schiva”, giungendo ad una sano, anche se faticoso, compromesso, o a coltivare e condividere “speranze” e “aspettative”, se ci si interroga, di tanto in tanto, su quando, in una data situazione, è lecito “chiedere” e quando, al contrario sarebbe più giusto “fare da sé”, se si riuscisse a sostituire qualche “brutta abitudine” con qualche “bella sorpresa”, le cose andrebbero probabilmente meglio senza aspirare con ciò a collocarsi nella categoria degli “angeli”. Potrebbe accadere altrimenti, così come spesso purtroppo accade, ciò che Garcìa Marquez7 fa dire alla protagonista del un suo
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Le edizioni la meridiana … per gli operatori sociali I LIBRI
Il lato oscuro della mente L’Io di fronte ai cambiamenti F. Berto, P. Scalari Verso la Nascita Percorsi per una maternità consapevole V. Bastianini, D. Daniele, M.L. Verlato A scuola con le emozioni Un nuovo dialogo educativo P. Scalari Psicoigiene e Psicologia Istituzionale Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni J. Bleger Quando l’amore se ne va La coppia tra disillusioni, accordi, compromessi e separazioni I. Grattagliano, D. Torelli Di padre in padre I tempi della paternità Coppola De Vanna, D’Elia, Gigante Identità alla deriva Vuoto di sé e vuoto di relazione nel tempo del “tutti connessi” M.L. Verlato Biblioterapia La lettura come benessere B. Rossi ConTatto La consulenza educativa ai genitori F. Berto, P. Scalari Ho perso le parole Potere e dominio nelle pratiche di cura F. Di Lernia Il benessere nelle emozioni Manuale di counseling biosistemico S. Cristifori, E. Giommi
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Il corpo violato Un approccio psicocorporeo al trauma dell’abuso M. Stuppiggia L’alchimia adottiva Narrazioni e pensieri M.P. Cosmo La dignità nel morire Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita Albano, Floridia, Lisi, Martinelli La psicantria Manuale di psicopatologia cantata G. Palmieri, C. Grassilli Mal d’amore Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative F. Berto, P. Scalari Nascere e crescere Il mestiere dei genitori M. De Pra, P. Scalari Per una nuova prevenzione P. Misesti So-stare nei gruppi Proposte per esperienze di benessere B. Rossi IL BLOG per inviare contenuti info@premesse.it Seguici su
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