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IL LAVORO OGGI: IN PRESENZA O DA REMOTO?
Le imprese stanno decidendo. Molte lo hanno già fatto. Ma il lavoro da remoto è proprio la soluzione più giusta? I pro e i contro e qualche riflessione sul tema
- a cura di Ugo Perugini -
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Elon Musk
Complice la pandemia e le innovazioni tecnologiche – che hanno imposto il ricorso al lavoro da remoto col fine di mantenere il “necessario” distanziamento sociale – sembra che anche la storia del lavoro umano sia destinata a prendere altre strade. Anche se non tutti sembrano essere d’accordo su questo punto, ci sono numerose grandi imprese che appoggiano e favoriscono il lavoro da remoto, come una soluzione organizzativa definitiva, ad esempio Twitter, Dropbox, Spotify, Meta e Airbnb, dove i dipendenti possono lavorare senza essere presenti mai in ufficio. I motivi sono noti: questa modalità di lavoro, oltre ad essere possibile per le caratteristiche intrinseche dei rispettivi business, renderebbe i lavoratori più soddisfatti e perciò più produttivi, oltre a consentire indubbi risparmi sia ai collaboratori che alla stessa azienda.
ELON MUSK: NO AL LAVORO DA REMOTO Ma non mancano voci contrastanti. Recentemente, infatti, Elon Musk, fondatore e amministratore delegato di Tesla, si è schierato decisamente contro il lavoro da remoto, sostenendo che tale modalità non sarà più ammessa. Si badi bene, non l’ha fatto parlando di persona con i suoi collaboratori, ma da remoto, inviando una mail a ognuno di loro, nella quale sostiene che: “Tutti quelli che intendono lavorare da remoto devono essere in ufficio per un minimo di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla”. Insomma, sembra che vi siano due scuole di pensiero divergenti. Chi è convinto che il lavoro da remoto sia la soluzione più adeguata in relazione allo sviluppo tecnologico e chi invece vuole un ritorno alla situazione prepandemia, perché è preoccupato più che altro che questo sistema di lavoro favorisca una minore produttività. Caso ancora diverso è quello di Apple, che, come altre imprese, ha deciso per una soluzione ibrida, cioè integrare lo smart working al lavoro in presenza. La maggioranza delle imprese italiane è comunque ancora in mezzo al guado e sta valutando la soluzione adeguata e gli eventuali regolamenti da adottare, come conferma anche una recente ricerca dell’AIDP.
I RISCHI DEL LAVORO “DECONTESTUALIZZATO” A parte queste considerazioni, qui vogliamo soffermarci sul senso del lavoro da remoto, e per questo motivo ci chiediamo: Se il lavoratore è avulso dal suo posto di lavoro, la sua prestazione non rischia di diventare una pura funzione produttiva? In questo modo, quello che conta di più è che il lavoratore offra le prestazioni richieste, indipendentemente dall’ambiente in cui si trova ad
operare. Questa è un’idea corretta del lavoro? Secondo il sociologo Pierpaolo Donati no. Il lavoro non può essere una semplice operazione economica “prestazionale”, che si esaurisce in sé, ma deve essere intesa come una relazione sociale, cioè un rapporto che si instaura con gli altri, con la realtà dell’azienda, con la sua organizzazione, collocata in un luogo preciso. In altri termini, il lavoro dovrebbe legarci al nostro ambiente culturale e sociale, permettendoci di valorizzarlo ed esserne valorizzati. Altrimenti, si rischia che non abbia più senso. Il lavoro “decontestualizzato” priva chi è costretto a ricorrervi delle prerogative di cittadinanza, cioè di quei diritti e doveri che gli consentono di considerarsi realmente integrato in una società civile, in una comunità umana. Questa situazione di isolamento impedirà alla persona di esprimere tutte quelle qualità che si sviluppano solo entrando in relazione con gli altri. Nessuno nega che il lavoro da remoto abbia portato anche dei notevoli vantaggi. Pensiamo al risparmio di tempo dovuto al trasferimento da casa al luogo di lavoro, e alla razionalizzazione di certi meccanismi relazionali, spesso pletorici, che favorivano un improduttivo uso del tempo. Si è pensato, a questo punto, che il tempo così “guadagnato” sarebbe tornato utile per sé stessi e per la cura dei propri cari. Ma è proprio così?
COLLABORATORI ISOLATI MENO STRESSATI? Purtroppo, ciò è avvenuto raramente. Lo stress infatti non è affatto diminuito, i confini tra tempo di lavoro e tempo personale si sono fatti sempre più labili, le ore lavorate sono aumentate a parità di salario e, come già accennato, chi lavora con questo sistema ha conti-
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Pierpaolo Donati nuamente la sensazione di isolamento e il rischio di non sentirsi più parte di quella forma di comunità che è l’azienda. Il lavoro si aliena allo stesso modo in cui si aliena la persona che lo fa. Il tutto per rispondere a un’idea che è quella produttivistica ed efficientista che è la cosa che più interessa all’impresa. La soluzione? Nel libro “Smart Working Reloaded” di Luca Pesenti e Giovanni Scansani riportiamo qualche suggerimento che ci sentiamo di condividere. “Occorrerà riprogettare le organizzazioni, ripensare i ruoli, concepire il management fuori dalla logica moderna comandocontrollo ma dentro l’idea di un modello produttivo costruito per fasi, cicli e obiettivi misurabili e dunque valutabili. L’organizzazione agile dovrà essere costruita a partire dalla fiducia, dalla libertà di chi lavora di scegliere se e in che misura avvalersi di modalità di lavoro da remoto, dalla capacità di tenere vive le relazioni e di non svuotare di significato i luoghi del lavoro, che sono anche elementi essenziali dell’identità di chi ci lavora. Se così sarà, anche il lavoro agile potrà concorrere a umanizzare il lavoro, salvandolo dalle logiche dis-umanizzanti e immunizzanti del lavoro digitalmente modificato. Una sfida di civiltà, insomma”.
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