IL RACCONTO
14 sabato 22 agosto 2009 l’Adige
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sabato 22 agosto 2009
24 maggio 1915: l’Italia è in guerra contro Vienna
Degasperi e i trentini sfollati
Mi aveva detto che no, non era di papà quella lettera Oramai era quasi un anno che non scriveva Da quando era scoppiata la guerra
Il bambino che guardava gli alberi volare
L
unedì 24 maggio 1915. Settantamila trentini vengono sfollati, onde lasciare libero il fronte di guerra. Il deputato Alcide Degasperi e il vicepodestà di Trento, Francesco Menestrina, si recano a Salisburgo per domandare spiegazioni in merito a quella deportazione. Alla stazione di Innsbruck vengono bloccati dal luogotenente Toggenburg che notifica a Degasperi lo scioglimento del consiglio comunale e la dichiarazione di guerra da parte italiana; a Menestrina addirittura il richiamo alle armi.
Pino Loperfido
I
l treno non l’avevo mai preso. Nemmeno sapevo che esistesse una cosa così. Fino a quando alla mamma non avevano consegnato quella lettera piena di timbri e sigilli. Lei l’aveva letta molto in fretta, appoggiandola quindi sulla credenza, come se scottasse. Mi aveva cercato con lo sguardo, ma io mi ero nascosto davvero bene sotto quelle scale. Lei si era messa a sedere e, come al solito, aveva cominciato a piangere, con il fazzoletto premuto contro la bocca, come se il pianto fosse una ferita da tamponare. È strano, ma a me tra il piangere e il ridere non mi sembra che si siano poi tutte ’ste differenze. Il petto saltella, il respiro si fa grosso; pure le lacrime sono le stesse. Mi aveva detto che no, non era di papà quella lettera. Oramai era quasi un anno che non scriveva. Da quando era scoppiata la guerra. Adesso che ci penso, anche a lui era arrivata una lettera, quella volta. Solo che non si era messo a piangere. Per forza, i papà non lo fanno mai. Il Renzino, il mio compagno di banco, mi ha detto che lui una volta suo padre ce l’ha visto piangere, eccome. Era successo una sera che era tornato dall’osteria con una faccia scura. Molto più scura del solito. La faccia che può fare chi si è giocato la casa al tressette. Ma a parte il papà del Renzino, non esiste che un uomo pianga. Le mamme, invece. Per loro ogni occasione è buona per frignare.
A
nche in treno, quella volta, invece che guardare tutte quelle cose incredibili là fuori dal finestrino, lei non trovava di meglio che sospirare e infilare un’avemaria dopo l’altra. Io, invece, lo spettacolo al di là del vetro non me lo sarei perso per niente al mondo. Il treno non l’avevo mai preso, l’ho già detto. Come potevo immaginare che esistesse una cosa così? Una carrozza che, senza nemmeno un cavallo davanti, va talmente veloce da farti girare la testa. Anche se, se devo essere sincero, a me sembrava che il treno stesse fermo e fosse tutto il resto a muoversi e a cambiare di posto. Le montagne,
beh, quelle erano sempre le stesse. Si muovevano piano piano. I prati, piuttosto, le case, gli animali e le persone che stavano vicine ai binari. Riuscivo a distinguerli per un attimo, giusto il tempo per capire di cosa si trattasse e poi via. Cancellati, risucchiati da un vento strano. I miei preferiti, però, erano gli alberi. Soprattutto quelli vicino ai binari. Piegavo la testa per scorgerli là davanti e, poi, in un secondo me li ritrovavo a fianco, un attimo prima di svanire. Era come se tronchi, chiome e rami venissero risucchiati verso l’alto. Sparivano, insomma, all’improvviso, come se partissero per un mondo misterioso che stava dietro le montagne oppure, chissà, al di là delle stelle. Tentare di domandare spiegazioni alla mamma era inutile. Quella continuava a pregare sfregando tra le dita i grani del rosario. Di certo non aveva tempo adesso per la mia curiosità. In fretta e furia aveva raccattato poche cose – biancheria, un sapone, qualche maglione – senza distogliere lo sguardo dalla lettera appoggiata sulla credenza. No, non era stato papà a scriverla, e nemmeno parlava di lui eppure dovevamo lo stesso partire. Entro due ore avremmo dovuto presentarci alla stazione. Avevo preso tra le mani la lettera e con lo sguardo mi ero aggirato tra quegli strani segni che a scuola insegnano a decifrare, maledicendo il fatto di essere ancora troppo piccolo per riuscire a leggere. Di fronte alle mie insistenze, la mamma aveva detto che quella roba l’aveva scritta l’Imperatore. Insomma, le solite scemenze che sparano i genitori quando vogliono solo che la pianti lì di rompere. Non si prendono nemmeno la briga di dire qualcosa di originale e credibile. La prima cosa che passa loro per la testa, zac, eccotela lì! Te la spiattellano tranquilli, sicuri che ti berrai fino all’ultima parola. Beata sicurezza. Doveva essere bello grande quel posto. L’angolo di cielo dove se ne andavano a finire tutti quegli alberi viaggiatori. Chissà se si ripiantavano in qualche maniera, o continuavano allegramente a galleggiare nell’aria come aquiloni. Forse proprio come quei cervi volanti di cui mi raccontava papà, prima che partisse. Mi diceva che i
soldati li usano per fare segnalazioni. Ci attaccano, annodati alla bell’e meglio, i proclami o gli avvisi, lanciandoli con il vento favorevole e quindi lasciandoli cadere al momento voluto. Certo, gli avevo risposto, che si divertono un bel po’ questi soldati durante la guerra. Pure con gli aquiloni si mettono a giocare. Papà mi aveva sorriso e poi era uscito sulla veranda ad accendersi una sigaretta, senza dirmi nemmeno una parola.
P
iù guardavo la mamma, la sua faccia afflitta, più mi domandavo come possano i grandi non far caso a certe meraviglie. Anche gli altri passeggeri – due donne, qualche militare, uomini con grandi baffi – se ne stavano seduti a parlare trascurando di lasciarsi stupire da quanto stava avvenendo alle loro vite. Voglio dire, questa macchina incredibile che ci accoglieva tutti e ci fiondava a grande velocità verso nord, non faceva loro nessun effetto. Mi domando come facciano i grandi ad avere sempre qualcosa d’altro a cui pensare. Non fermano mai lo sguardo su nulla. Secondo me se una cosa non la guardi, se non le presti un po’ d’attenzione, quella
cosa non esiste nemmeno. Perciò, anche mia madre, delle volte, prepara una crostata, ma non ci pensa mica al momento in cui se la potrà mangiare: a quanto sarà deliziosa. Non ci crederete se vi dico che mentre è ancora lì sbatte le uova e si infarina le mani, sta già con la testa al piatto che dovrà lavare. Tutti così, i grandi. Pure quei due spilungoni seduti di fronte a me. Li stavo osservando già da un po’. Magri e ben vestiti. Grandi riccioli di baffi su per tutta la faccia. Buona parte delle parole che dicevano io non la capivo mica: per capirci, era quel genere di parole che spara il curato quando è di buzzo buono, tipo alla domenica di Pasqua o nel giorno del santo patrono. «Prerogativa», «confisca», «sopruso» e compagnia cantante. Non per dire, ma se a me mi dici certi termini mi fai ridere da matti. Come se un saltimbanco rischiasse
l’osso del collo a furia di capriole e piroette. Non so perché, ma assistere a certe scene mi fa scompisciare dalle risate. Così, dimenticandomi degli alberi volanti e di tutto il resto, senza accorgermene più di tanto, mi ero avvicinato a questi due distinti signori, senza preoccuparmi che il suono della mia risata potesse in qualche modo arrecare loro disturbo. Anche perché, siamo sinceri: non è mica vietato ridere. I due signori interruppero la loro conversazione e dedicarono, per un momento, ogni attenzione al sottoscritto. C’era nei loro sguardi un misto di curiosità e di fastidio. Insomma, mi guardavano come di solito si guarda un poveretto a cui sia capitata una disgrazia. La mamma, naturalmente, non perse tempo. Con la velocità di un fulmine, mi piombò addosso e mi diede uno scappellotto. Benedetta donna, non serviva certo metterci
A sinistra e sopra i protagonisti del racconto rievocati dai disegni di Giordano Pacenza. Nelle altre foto, profughi trentini nel 1915; in alto, a destra, De Gasperi in Austria all’inizio del ’900 con Endrici e altri conterranei
tutta quella forza. Ma lei lo aveva fatto soprattutto per una ragione teatrale, per dare ai due ben vestiti una prova immediata delle sue qualità di madre severa, premurosa e attenta. Sì, teatro puro. Ci mancavano solo gli applausi. Intanto, me n’ero beccato uno di quelli giusti e la testa mi doleva da matti. Per fortuna uno dei due passeggeri, il più spilungone dei due, si schierò subito dalla mia parte. Con modi molto gentili disse alla mamma che non c’era bisogno di punirmi a quel modo. Non li disturbavo mica. Anzi. In un momento tragico come quello, era tanto di conforto sentire riecheggiare la voce squillante e innocente di un pargolo. «Conforto», «pargolo»: altre parole difficili, insomma. Trattenni a fatica le risa. Quando l’uomo disse il suo nome – anche questo incomprensibile per me – la mamma si irrigidì. Quasi si
Sabato i dubbi di due fidanzatini
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n queste pagine pubblichiamo l’ottavo racconto di Pino Loperfido che accompagnerà i lettori tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di
sé nella tragedia della guerra, tra arte e distruzione.Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese. Il libro racconterà un inquietante Trentino del futuro e il titolo è stato deciso in un referendum indetto su Facebook.
mise sull’attenti. Poi si inchinò in avanti, come davanti al tabernacolo. «Vuoi vedere che adesso gli bacia pure le mani», pensai con preoccupazione. No, niente baci. Si mise il solito fazzoletto sulla bocca e fece la faccia insopportabile di quando sta per scoppiare a piangere. Lo spilungone doveva averle chiesto notizie a riguardo della nostra destinazione e quella aveva spifferato tutto, senza un attimo di esitazione. Che rabbia mi faceva. A me non aveva detto nemmeno una parola e adesso, al primo che le capitava davanti – ’sto qua con il nome strano – aveva fatto un resoconto dettagliatissimo. Addirittura gli aveva mostrato la lettera che ci era arrivata al mattino. Lo spilungone scosse la testa e le disse di non preoccuparsi, che per quanto rientrava nelle sue «competenze», si sarebbe «prodigato» affinché la nostra «dignità» non venisse «lesa». Non so che dire in mia discolpa, ma l’ennesima scarica di paroloni fu irresistibile. Davanti a quei due, seri come stoccafissi, feci di tutto per non scoppiare a ridere. Trattenni il respiro, mi tappai il naso con due dita. Provai anche a mettermi la faccia tra le mani. Solo che il signore con i baffi interpretò il mio gesto come un momento di commozione e mi accarezzò la testa, compatendomi. Naturalmente, tutto ciò rese ancora più spassosa la scena, al punto che mi vidi costretto a simulare davvero un pianto disperato, lasciando che il petto mi saltellasse intanto che la risata scaricava qualcosa del suo forte potenziale. Mai come quella volta mi tornò utile, insomma, la somiglianza tra il ridere e il piangere. Anzi, feci una scoperta non da poco. Esisteva un modo per scacciare via la tristezza, ed era talmente semplice e a portata di mano che mi meravigliava un sacco essere il primo ad averlo scoperto. Bastava solo ridere di più.
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eh, se proprio volete saperlo, riuscii a farla franca. Certo, mi riferisco alla questione che mi scappava da ridere e tutto il resto. Mi complimentai con me stesso per la piccola impresa e, mentre la mamma mi sussurrava qualcosa a proposito dei due signori – «podestà», «deputato», ecc. –, io ero tornato ad affacciarmi sul panorama: tutto uno spostarsi di case e montagne, con gli alberi più veloci di tutti. Alla stazione ci radunarono tutti. Un po’ come si fa con le pecore. Mancavano solo i bastoni e il cane. Anche se ad abbaiare ci pensavano due o tre soldatacci grossi e grassi che puzzavano di grappa, vino o non so cosa. Sbraitavano, ordinandoci di stare zitti e fermi, anche se nessuno aveva voglia di muoversi né di parlare. I due ben vestiti del treno si fecero largo tra la folla e cominciarono a cantargliele a ’sti qua in divisa. Dicevano che non era il modo di trattare la gente, che avrebbero protestato contro chi di dovere per quello che stava accadendo. Lo spilungone, nonostante fosse certamente il più timido tra i due,
tirò fuori un vocione da cantante d’opera, gorgheggiando che lui era un deputato, consigliere comunale di Trento, ecc. e che voleva subito parlare con il luogotenente: il capoccia, insomma. Quello che dava gli ordini in mezzo a quel quarantotto.
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llora, si fece avanti questo tarchiatello, talmente basso che i mustacchi gli arrivavano quasi alle ginocchia. Diede a gran voce una notizia che ci stroncò un po’ tutti, me compreso, per quanto ne potevo capire di certe cose. Per farla breve, l’Italia ci aveva dichiarato guerra. Il Parlamento sarebbe stato chiuso a breve. I consigli comunali, Trento compresa, erano sospesi. Un sacco di belle novità, insomma. In più, per l’amico dello spilungone – che scoprii essere il vicepodestà del capoluogo – ci fu una sorpresa supplementare. Il luogotenente gli disse di considerarsi arruolato. Non vi dico la faccia di quello a sentire certi ragionamenti. Una mazzata, insomma. Liquidati in quattro e quattr’otto quei due, venne il nostro momento, nel senso che i soldati presero ad urlare nomi e cognomi del gregge. A turno, quindi, si lasciava la massa informe degli sfollati e ci si metteva a disposizione di un tizio in divisa. Un po’ come a scuola, solo che invece della maestra, c’era ’sto bellimbusto che puzzava di grappa. Ci portarono in uno stanzone là vicino e ci fecero sedere. Dissero che nel giro di qualche ora saremmo ripartiti, verso la destinazione assegnata. Domandai alla mamma cos’era ‘sta roba e lei per tutta risposta mi sparò un nome strano, mai sentito prima: Mitterndorf. Per dirne una, avrebbe potuto anche dirmi Zanzibar o Nuova York, per me sarebbe stato esattamente lo stesso. Mi aspettavo di tutto, insomma. Meno ciò che stava per accadere. Perché ad un certo punto fece il suo ingresso nel nostro stanzone un tizio tutto fasciato, zoppicante, che attirò la mia attenzione. Non tanto per la divisa o per le macchie di sangue sulle bende, quanto per il fatto che i tratti del suo volto mi ricordavano in tutto e per tutto quelli del mio papà. A dire la verità, a guardarlo bene, sembrava più vecchio del mio papà. Tutte quelle rughe, la faccia sofferente. Senza la chiassosa reazione della mamma, che gli saltò addosso come un grillo, non lo avrei mai detto che quello fosse davvero il mio vecchio. Anche perché, le lacrime che gli solcavano la faccia, fecero crollare ogni mia convinzione riguardo al fatto che i papà non piangessero. Il Renzino aveva proprio ragione. Alla prima occasione glielo avrei detto. Inutile negarlo. Anche io ero contento fino alle lacrime. Papà mi spupazzò con discrezione, stando attento alle ferite. Mi domandò se ero contento del fatto che era tornato e che ci saremmo andati assieme in quel posto dal nome strano. Cavolo se ero contento. Ma soprattutto non vedevo l’ora di rimontare sul treno, piazzarmi davanti al finestrino e mostrare al papà tutte quelle meraviglie là fuori.