Racconti l'Adige 2009

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IL RACCONTO

14 sabato 22 agosto 2009 l’Adige

15 l’Adige

sabato 22 agosto 2009

24 maggio 1915: l’Italia è in guerra contro Vienna

Degasperi e i trentini sfollati

Mi aveva detto che no, non era di papà quella lettera Oramai era quasi un anno che non scriveva Da quando era scoppiata la guerra

Il bambino che guardava gli alberi volare

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unedì 24 maggio 1915. Settantamila trentini vengono sfollati, onde lasciare libero il fronte di guerra. Il deputato Alcide Degasperi e il vicepodestà di Trento, Francesco Menestrina, si recano a Salisburgo per domandare spiegazioni in merito a quella deportazione. Alla stazione di Innsbruck vengono bloccati dal luogotenente Toggenburg che notifica a Degasperi lo scioglimento del consiglio comunale e la dichiarazione di guerra da parte italiana; a Menestrina addirittura il richiamo alle armi.

Pino Loperfido

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l treno non l’avevo mai preso. Nemmeno sapevo che esistesse una cosa così. Fino a quando alla mamma non avevano consegnato quella lettera piena di timbri e sigilli. Lei l’aveva letta molto in fretta, appoggiandola quindi sulla credenza, come se scottasse. Mi aveva cercato con lo sguardo, ma io mi ero nascosto davvero bene sotto quelle scale. Lei si era messa a sedere e, come al solito, aveva cominciato a piangere, con il fazzoletto premuto contro la bocca, come se il pianto fosse una ferita da tamponare. È strano, ma a me tra il piangere e il ridere non mi sembra che si siano poi tutte ’ste differenze. Il petto saltella, il respiro si fa grosso; pure le lacrime sono le stesse. Mi aveva detto che no, non era di papà quella lettera. Oramai era quasi un anno che non scriveva. Da quando era scoppiata la guerra. Adesso che ci penso, anche a lui era arrivata una lettera, quella volta. Solo che non si era messo a piangere. Per forza, i papà non lo fanno mai. Il Renzino, il mio compagno di banco, mi ha detto che lui una volta suo padre ce l’ha visto piangere, eccome. Era successo una sera che era tornato dall’osteria con una faccia scura. Molto più scura del solito. La faccia che può fare chi si è giocato la casa al tressette. Ma a parte il papà del Renzino, non esiste che un uomo pianga. Le mamme, invece. Per loro ogni occasione è buona per frignare.

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nche in treno, quella volta, invece che guardare tutte quelle cose incredibili là fuori dal finestrino, lei non trovava di meglio che sospirare e infilare un’avemaria dopo l’altra. Io, invece, lo spettacolo al di là del vetro non me lo sarei perso per niente al mondo. Il treno non l’avevo mai preso, l’ho già detto. Come potevo immaginare che esistesse una cosa così? Una carrozza che, senza nemmeno un cavallo davanti, va talmente veloce da farti girare la testa. Anche se, se devo essere sincero, a me sembrava che il treno stesse fermo e fosse tutto il resto a muoversi e a cambiare di posto. Le montagne,

beh, quelle erano sempre le stesse. Si muovevano piano piano. I prati, piuttosto, le case, gli animali e le persone che stavano vicine ai binari. Riuscivo a distinguerli per un attimo, giusto il tempo per capire di cosa si trattasse e poi via. Cancellati, risucchiati da un vento strano. I miei preferiti, però, erano gli alberi. Soprattutto quelli vicino ai binari. Piegavo la testa per scorgerli là davanti e, poi, in un secondo me li ritrovavo a fianco, un attimo prima di svanire. Era come se tronchi, chiome e rami venissero risucchiati verso l’alto. Sparivano, insomma, all’improvviso, come se partissero per un mondo misterioso che stava dietro le montagne oppure, chissà, al di là delle stelle. Tentare di domandare spiegazioni alla mamma era inutile. Quella continuava a pregare sfregando tra le dita i grani del rosario. Di certo non aveva tempo adesso per la mia curiosità. In fretta e furia aveva raccattato poche cose – biancheria, un sapone, qualche maglione – senza distogliere lo sguardo dalla lettera appoggiata sulla credenza. No, non era stato papà a scriverla, e nemmeno parlava di lui eppure dovevamo lo stesso partire. Entro due ore avremmo dovuto presentarci alla stazione. Avevo preso tra le mani la lettera e con lo sguardo mi ero aggirato tra quegli strani segni che a scuola insegnano a decifrare, maledicendo il fatto di essere ancora troppo piccolo per riuscire a leggere. Di fronte alle mie insistenze, la mamma aveva detto che quella roba l’aveva scritta l’Imperatore. Insomma, le solite scemenze che sparano i genitori quando vogliono solo che la pianti lì di rompere. Non si prendono nemmeno la briga di dire qualcosa di originale e credibile. La prima cosa che passa loro per la testa, zac, eccotela lì! Te la spiattellano tranquilli, sicuri che ti berrai fino all’ultima parola. Beata sicurezza. Doveva essere bello grande quel posto. L’angolo di cielo dove se ne andavano a finire tutti quegli alberi viaggiatori. Chissà se si ripiantavano in qualche maniera, o continuavano allegramente a galleggiare nell’aria come aquiloni. Forse proprio come quei cervi volanti di cui mi raccontava papà, prima che partisse. Mi diceva che i

soldati li usano per fare segnalazioni. Ci attaccano, annodati alla bell’e meglio, i proclami o gli avvisi, lanciandoli con il vento favorevole e quindi lasciandoli cadere al momento voluto. Certo, gli avevo risposto, che si divertono un bel po’ questi soldati durante la guerra. Pure con gli aquiloni si mettono a giocare. Papà mi aveva sorriso e poi era uscito sulla veranda ad accendersi una sigaretta, senza dirmi nemmeno una parola.

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iù guardavo la mamma, la sua faccia afflitta, più mi domandavo come possano i grandi non far caso a certe meraviglie. Anche gli altri passeggeri – due donne, qualche militare, uomini con grandi baffi – se ne stavano seduti a parlare trascurando di lasciarsi stupire da quanto stava avvenendo alle loro vite. Voglio dire, questa macchina incredibile che ci accoglieva tutti e ci fiondava a grande velocità verso nord, non faceva loro nessun effetto. Mi domando come facciano i grandi ad avere sempre qualcosa d’altro a cui pensare. Non fermano mai lo sguardo su nulla. Secondo me se una cosa non la guardi, se non le presti un po’ d’attenzione, quella

cosa non esiste nemmeno. Perciò, anche mia madre, delle volte, prepara una crostata, ma non ci pensa mica al momento in cui se la potrà mangiare: a quanto sarà deliziosa. Non ci crederete se vi dico che mentre è ancora lì sbatte le uova e si infarina le mani, sta già con la testa al piatto che dovrà lavare. Tutti così, i grandi. Pure quei due spilungoni seduti di fronte a me. Li stavo osservando già da un po’. Magri e ben vestiti. Grandi riccioli di baffi su per tutta la faccia. Buona parte delle parole che dicevano io non la capivo mica: per capirci, era quel genere di parole che spara il curato quando è di buzzo buono, tipo alla domenica di Pasqua o nel giorno del santo patrono. «Prerogativa», «confisca», «sopruso» e compagnia cantante. Non per dire, ma se a me mi dici certi termini mi fai ridere da matti. Come se un saltimbanco rischiasse

l’osso del collo a furia di capriole e piroette. Non so perché, ma assistere a certe scene mi fa scompisciare dalle risate. Così, dimenticandomi degli alberi volanti e di tutto il resto, senza accorgermene più di tanto, mi ero avvicinato a questi due distinti signori, senza preoccuparmi che il suono della mia risata potesse in qualche modo arrecare loro disturbo. Anche perché, siamo sinceri: non è mica vietato ridere. I due signori interruppero la loro conversazione e dedicarono, per un momento, ogni attenzione al sottoscritto. C’era nei loro sguardi un misto di curiosità e di fastidio. Insomma, mi guardavano come di solito si guarda un poveretto a cui sia capitata una disgrazia. La mamma, naturalmente, non perse tempo. Con la velocità di un fulmine, mi piombò addosso e mi diede uno scappellotto. Benedetta donna, non serviva certo metterci

A sinistra e sopra i protagonisti del racconto rievocati dai disegni di Giordano Pacenza. Nelle altre foto, profughi trentini nel 1915; in alto, a destra, De Gasperi in Austria all’inizio del ’900 con Endrici e altri conterranei

tutta quella forza. Ma lei lo aveva fatto soprattutto per una ragione teatrale, per dare ai due ben vestiti una prova immediata delle sue qualità di madre severa, premurosa e attenta. Sì, teatro puro. Ci mancavano solo gli applausi. Intanto, me n’ero beccato uno di quelli giusti e la testa mi doleva da matti. Per fortuna uno dei due passeggeri, il più spilungone dei due, si schierò subito dalla mia parte. Con modi molto gentili disse alla mamma che non c’era bisogno di punirmi a quel modo. Non li disturbavo mica. Anzi. In un momento tragico come quello, era tanto di conforto sentire riecheggiare la voce squillante e innocente di un pargolo. «Conforto», «pargolo»: altre parole difficili, insomma. Trattenni a fatica le risa. Quando l’uomo disse il suo nome – anche questo incomprensibile per me – la mamma si irrigidì. Quasi si

Sabato i dubbi di due fidanzatini

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n queste pagine pubblichiamo l’ottavo racconto di Pino Loperfido che accompagnerà i lettori tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di

sé nella tragedia della guerra, tra arte e distruzione.Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese. Il libro racconterà un inquietante Trentino del futuro e il titolo è stato deciso in un referendum indetto su Facebook.

mise sull’attenti. Poi si inchinò in avanti, come davanti al tabernacolo. «Vuoi vedere che adesso gli bacia pure le mani», pensai con preoccupazione. No, niente baci. Si mise il solito fazzoletto sulla bocca e fece la faccia insopportabile di quando sta per scoppiare a piangere. Lo spilungone doveva averle chiesto notizie a riguardo della nostra destinazione e quella aveva spifferato tutto, senza un attimo di esitazione. Che rabbia mi faceva. A me non aveva detto nemmeno una parola e adesso, al primo che le capitava davanti – ’sto qua con il nome strano – aveva fatto un resoconto dettagliatissimo. Addirittura gli aveva mostrato la lettera che ci era arrivata al mattino. Lo spilungone scosse la testa e le disse di non preoccuparsi, che per quanto rientrava nelle sue «competenze», si sarebbe «prodigato» affinché la nostra «dignità» non venisse «lesa». Non so che dire in mia discolpa, ma l’ennesima scarica di paroloni fu irresistibile. Davanti a quei due, seri come stoccafissi, feci di tutto per non scoppiare a ridere. Trattenni il respiro, mi tappai il naso con due dita. Provai anche a mettermi la faccia tra le mani. Solo che il signore con i baffi interpretò il mio gesto come un momento di commozione e mi accarezzò la testa, compatendomi. Naturalmente, tutto ciò rese ancora più spassosa la scena, al punto che mi vidi costretto a simulare davvero un pianto disperato, lasciando che il petto mi saltellasse intanto che la risata scaricava qualcosa del suo forte potenziale. Mai come quella volta mi tornò utile, insomma, la somiglianza tra il ridere e il piangere. Anzi, feci una scoperta non da poco. Esisteva un modo per scacciare via la tristezza, ed era talmente semplice e a portata di mano che mi meravigliava un sacco essere il primo ad averlo scoperto. Bastava solo ridere di più.

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eh, se proprio volete saperlo, riuscii a farla franca. Certo, mi riferisco alla questione che mi scappava da ridere e tutto il resto. Mi complimentai con me stesso per la piccola impresa e, mentre la mamma mi sussurrava qualcosa a proposito dei due signori – «podestà», «deputato», ecc. –, io ero tornato ad affacciarmi sul panorama: tutto uno spostarsi di case e montagne, con gli alberi più veloci di tutti. Alla stazione ci radunarono tutti. Un po’ come si fa con le pecore. Mancavano solo i bastoni e il cane. Anche se ad abbaiare ci pensavano due o tre soldatacci grossi e grassi che puzzavano di grappa, vino o non so cosa. Sbraitavano, ordinandoci di stare zitti e fermi, anche se nessuno aveva voglia di muoversi né di parlare. I due ben vestiti del treno si fecero largo tra la folla e cominciarono a cantargliele a ’sti qua in divisa. Dicevano che non era il modo di trattare la gente, che avrebbero protestato contro chi di dovere per quello che stava accadendo. Lo spilungone, nonostante fosse certamente il più timido tra i due,

tirò fuori un vocione da cantante d’opera, gorgheggiando che lui era un deputato, consigliere comunale di Trento, ecc. e che voleva subito parlare con il luogotenente: il capoccia, insomma. Quello che dava gli ordini in mezzo a quel quarantotto.

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llora, si fece avanti questo tarchiatello, talmente basso che i mustacchi gli arrivavano quasi alle ginocchia. Diede a gran voce una notizia che ci stroncò un po’ tutti, me compreso, per quanto ne potevo capire di certe cose. Per farla breve, l’Italia ci aveva dichiarato guerra. Il Parlamento sarebbe stato chiuso a breve. I consigli comunali, Trento compresa, erano sospesi. Un sacco di belle novità, insomma. In più, per l’amico dello spilungone – che scoprii essere il vicepodestà del capoluogo – ci fu una sorpresa supplementare. Il luogotenente gli disse di considerarsi arruolato. Non vi dico la faccia di quello a sentire certi ragionamenti. Una mazzata, insomma. Liquidati in quattro e quattr’otto quei due, venne il nostro momento, nel senso che i soldati presero ad urlare nomi e cognomi del gregge. A turno, quindi, si lasciava la massa informe degli sfollati e ci si metteva a disposizione di un tizio in divisa. Un po’ come a scuola, solo che invece della maestra, c’era ’sto bellimbusto che puzzava di grappa. Ci portarono in uno stanzone là vicino e ci fecero sedere. Dissero che nel giro di qualche ora saremmo ripartiti, verso la destinazione assegnata. Domandai alla mamma cos’era ‘sta roba e lei per tutta risposta mi sparò un nome strano, mai sentito prima: Mitterndorf. Per dirne una, avrebbe potuto anche dirmi Zanzibar o Nuova York, per me sarebbe stato esattamente lo stesso. Mi aspettavo di tutto, insomma. Meno ciò che stava per accadere. Perché ad un certo punto fece il suo ingresso nel nostro stanzone un tizio tutto fasciato, zoppicante, che attirò la mia attenzione. Non tanto per la divisa o per le macchie di sangue sulle bende, quanto per il fatto che i tratti del suo volto mi ricordavano in tutto e per tutto quelli del mio papà. A dire la verità, a guardarlo bene, sembrava più vecchio del mio papà. Tutte quelle rughe, la faccia sofferente. Senza la chiassosa reazione della mamma, che gli saltò addosso come un grillo, non lo avrei mai detto che quello fosse davvero il mio vecchio. Anche perché, le lacrime che gli solcavano la faccia, fecero crollare ogni mia convinzione riguardo al fatto che i papà non piangessero. Il Renzino aveva proprio ragione. Alla prima occasione glielo avrei detto. Inutile negarlo. Anche io ero contento fino alle lacrime. Papà mi spupazzò con discrezione, stando attento alle ferite. Mi domandò se ero contento del fatto che era tornato e che ci saremmo andati assieme in quel posto dal nome strano. Cavolo se ero contento. Ma soprattutto non vedevo l’ora di rimontare sul treno, piazzarmi davanti al finestrino e mostrare al papà tutte quelle meraviglie là fuori.


IL RACCONTO

10 sabato 5 settembre 2009 l’Adige

11 l’Adige

sabato 5 settembre 2009

Il 2 febbraio 1810 il tirolese era prigioniero dei francesi

Quando Hofer pernottò ad Ala

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Antonio e Marco non trovarono di meglio da fare che starsene in quella cameretta del palazzo che si affacciava sul paese, a far passare il tempo giocando a dadi

enerdì, 2 febbraio 1810. L’eroe tirolese Andreas Hofer viene scortato in catene e condotto dai francesi ad Ala, per passare la notte a Palazzo Taddei. Lo storico locale Antonio Bresciani Borsa, allora ragazzino, assiste non visto al passaggio dell’Hofer assieme al suo amico di giochi, figlio del proprietario del palazzo. Il generale «Barbone» rifiuta la cena, preferendo pregare. Durante la notte, anziché darsi alla fuga, salverà clamorosamente dalla morte i due soldati francesi incaricati di sorvegliarlo, quasi uccisi dal monossido sprigionato da una caldana di braci.

Anche vinto il nemico è qualcuno

non avevano gli strumenti per tradurre lo strano linguaggio usato dal proprio piccolo cuore. Tutto ciò che la giovane età permetteva loro di fare era di meravigliarsi. Sgranarono gli occhi con la stessa voracità con cui Hofer sgranava il rosario. Quell’ossessivo ripetere invocazioni alla Madre di Dio, con un vocione da orco, sortì un effetto comico. I due ragazzi risero. Ma erano, le loro, risa di commiserazione e di profonda tristezza. Pur senza saperlo, Antonio e Marco nascondevano dietro gli sghignazzi un intenso e interminabile pianto sconsolato.

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Pino Loperfido

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a pioggia era un reticolo indistricabile, fatto di minuscole e trasparenti barre verticali. A caso, andavano ad infrangersi sui tetti, sul selciato, sui corrimano in legno. Antonio e Marco non trovarono di meglio da fare che starsene in quella cameretta del palazzo che si affacciava sul paese, a far passare il tempo giocando a dadi. Ogni tanto i due si fermavano e lanciavano un’occhiata verso i tetti delle case là sotto, tanto per vedere se il paese di Ala c’era ancora o era stato spazzato via dal temporale. La stanza era situata in una posizione strategica. Era una sorta di sala di comando da cui, senza fatica, si riusciva a tenere sotto controllo chi andava e veniva e cosa faceva all’interno di Palazzo Taddei. Sporgendosi verso est, infatti, i due ragazzi erano in grado di godere di una chiara panoramica del cortile interno. Affacciandosi dalla finestrella posta a settentrione, la vista era ottima sul salone principale. Per non parlare della posizione strategica rispetto alle scale: bastava scendere di qualche gradino, tendere bene l’orecchio, per far sì che improvvisamente il palazzo non avesse più segreti per loro. I francesi arrivarono che era quasi suonato mezzodì. Un gran sferragliare di catene, ruote ferrate e spade frammisto allo scalpiccio dei cavalli catturò subito l’attenzione dei due ragazzini. Non era una sorpresa. Che quelli sarebbero presto giunti non era mistero per nessuno in paese. Ma lo stesso, come sovente avviene allorquando ci si dà un gran da fare per prepararsi al sopravvenire di una forte emozione, Antonio e Marco trasalirono per quanto i loro occhi stavano ora vedendo.

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icono che sia possibile entusiasmarsi, gioire e perfino provare commozione nell’ascolto di un racconto. Non è difficile prestarvi fede, fare propria ogni singola frase, fino quasi a intesserla nelle fitte trame del proprio essere. Rendere, insomma, ogni parola di quanto ci venga narrato parte integrante di se stessi e della propria vita. Tutto ciò senza

la necessità di toccare con gli occhi ogni singolo elemento della narrazione. Tuttavia, trovandosi poi – per caso o in seguito ad un impeto di volontà – a tu per tu con un protagonista di quel racconto, oppure visitando di persona un ambiente lì così realisticamente descritto, si è costretti a scoprire che la fede che si era prestata nell’ascolto era solo un effimero e provvisorio placet. Una concessione amichevole che nascondeva una riserva. Ciò avviene per ogni sorta di racconto: dalla più breve delle fiabe fino alla più articolata e antica delle storie, ad esempio quella che sta alla base del Cristianesimo. Per questa ragione, quando i due amichetti, non visti, videro quell’omone barbuto in catene non poterono fare a meno di trasalire. Di Andreas Hofer avevano sentito parlare a lungo, soprattutto durante l’anno che si era appena concluso. Si erano anche entusiasmati venendo a conoscenza delle gesta che costui pare avesse compiuto in ogni angolo del Tirolo. Naturalmente non v’era motivo di dubitare nell’ascolto di certe storie. Nessuno si permetteva di metterne in dubbio la veridicità oppure, addirittura, di diffidare della reale esistenza di questo Hofer; eppure vederlo adesso, in carne ed ossa, nel cortile di Palazzo Taddei, bagnato fradicio, umiliato dal capestro, oltre a renderlo ancora più umano di quanto lo si sarebbe potuto immaginare, effondeva una pena che stringeva il cuore. Nelle loro menti di bambini, Antonio e Marco facevano ancora fatica a classificare le categorie del bene e del male. Amico e nemico, nella vergine indole di un cucciolo di uomo, erano concetti che tendevano ad avvicinarsi talmente, a sfiorarsi e quindi a fondersi l’uno nell’altro fino ad annullarsi e a perdere, così, ogni possibile significato. Il contrasto tra l’immobilità del prigioniero e la memoria delle gesta raccontate tendeva a fissare anche altri principi, come l’eroismo, la fedeltà, la passione; ma cogliere il significato di tali concetti richiedeva una maturità che i due ragazzi erano ancora lungi dal conquistare. Cosicché nella loro visione acerba della realtà, tali

principi perdevano forma e si facevano tenui immagini che solo a tratti lanciavano impulsi al cervello, provocando piccole scariche di adrenalina che Antonio e Marco interpretavano, però, a modo loro, come solo un bambino è in grado di fare. Delimitando ogni reazione del proprio corpo alle ludiche forme del gioco. Ecco perché la vista di quel prigioniero barbuto li faceva ridere così tanto, adesso. Al punto che, spostandosi sulla finestrella a settentrione, nel seguire i passi pesanti del condannato, dovettero tamponarsi la bocca con degli stracci per mantenere il segreto della loro privilegiata posizione.

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ra, il salone da pranzo, un grande rettangolo il cui lato più corto era pressappoco un terzo di quello lungo. Pertanto la presenza del grande tavolo, sebbene accostato ad una delle pareti, sommata al gran numero di soldataglia presente, inficiava ogni libertà di movimento e costringeva i presenti a vere e proprie acrobazie per potersi spostare da un punto all’altro della stanza. Il prigioniero venne introdotto al banchetto, ma nessuno parve curarsi più di tanto di lui. Anzi. I più

avevano già cominciato ad affondare i denti nei succulenti stinchi di maiale, tra urla di soddisfazione e sollievo. Aleggiava nella stanza una strana euforia, come se l’animalesco rimpinzarsi compensasse non solo il dramma personale dell’uomo barbuto e di tutti i suoi seguaci, rimasti senza guida. Il gaudio del convito aveva anche una pretesa ben più ampia: quella di celare dietro alcuni brandelli di maiale e litri di Marzemino lo scempio che l’umanità pareva intenzionata a fare di se stessa mediante la logica perversa della guerra. C’era un che di mostruoso nelle urla di gioia e nei brindisi che si levavano a quella tavola. Andreas Hofer aveva lo sguardo fiero e un po’ furbo di chi ha la verità in tasca, all’insaputa di tutti. Un viatico che pareva dargli forza.

A sinistra e sopra i protagonisti del racconto nei disegni di Giordano Pacenza; a destra, un ritratto di Hofer e palazzo Taddei ad Ala; in alto a sinistra, un’altra veduta dell’edificio; a destra, scena della fiction sulla figura del patriota combattente tirolese

Lo rendeva diverso, incapace di subire il giogo di alcune debolezze umane come l’umiliazione, la privazione della libertà, la fame. Tanto è vero che alcuni lo invitarono – un po’ per pietà, un po’ per divertimento – a sedersi con loro, per consumare quello che avrebbe potuto rivelarsi uno degli ultimi pasti della sua breve esistenza. In realtà conoscevano bene la lealtà di quest’uomo nei confronti della religione; sapevano che essendo venerdì mai egli avrebbe acconsentito a mangiare della carne. Infatti, il prigioniero rifiutò e la sua dignità fu talmente intensa da irraggiarsi tra i presenti come una luce. Buggerati dalla loro stessa baldanza, i soldati abbassarono il volume della voce fino a farne un sommesso mormorìo che, a sua volta, si sciolse in silenzio non

appena Hofer fece un’unica, precisa e lapidaria richiesta: di poter pregare nei pressi del caminetto. Antonio e Marco riuscirono soltanto ad intuire l’importanza storica della scena a cui stavano assistendo. Percepirono, grazie alla presenza di quell’uomo, studiando le curiose reazioni della propria anima, di essere portatori di altri sentimenti. I loro imberbi corpicini erano macchine, un complesso sistema di trasformazione dell’energia che, però, celava anche qualcos’altro. Un cuore, ad esempio, che palpitava in quel momento. Lanciava impulsi che segnalavano una gamma completa di sentimenti che negli anni a venire avrebbero potuto fiorire: la bontà, l’anelito alla giustizia, la fede, la pietà. Tuttavia Antonio e Marco erano solo due ragazzini persi nei meandri della pubertà e

Sabato le «bombe» di Bach

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n queste pagine pubblichiamo il decimo racconto di Pino Loperfido, scrittore che accompagna i lettori dell’Adige lungo tutta l’estate, con una storia ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi racconti e un’anticipazione dell’autore sui loro contenuti. La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di sé nella tragedia della guerra, tra arte e distruzione. Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato

«Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo, «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese, ambientato in Trentino: le oltre quattrocento pagine del romanzo raccontano sette giorni della vita di Giacomo Andreatti, 48 anni, medico di base con l’hobby della scrittura che torna nella sua città natale, dopo un lungo esilio, in seguito alla morte del vecchio padre, notissimo esponente politico.

l primo dei due a riaprire gli occhi fu Marco. Il sonno è una sospensione dello stato di coscienza durante il quale l’organismo recupera energia; uno stato di riposo fisico e psichico, caratterizzato dall’assenza, completa o parziale, della coscienza e della volontà, dal rallentamento delle funzioni neurovegetative. Si può capire così come in fondo il risveglio sia molto simile ad una sorta di piccolo trauma. Anche il ragazzo, istintivamente, tentò di opporre resistenza a quel vorticoso risucchio verso la realtà. Un odore di fumo e carbone consumato aveva appesantito l’aria. Marco svegliò subito Antonio e assieme commentarono la sorpresa per l’essersi addormentati a quel modo sulle scale. Altresì, tentarono di comprendere che ora fosse, restando in attesa dei rintocchi del campanile. Il salone era deserto. Sul tavolo i resti dei bagordi: pezzi di carne, tocchi di pane, piccole pozze di vino. I partecipanti alla crapula si erano dissolti. Con tutta probabilità erano adesso distesi scompostamente su un duro giaciglio a consumare il pesante sonno degli ubriachi. Non v’era traccia nemmeno del prigioniero. Dovevano averlo portato di sotto. In una delle stanze della cantina in cui i francesi avevano allestito una sorta di cella di detenzione. Marco tossì. Antonio lo seguì a ruota. L’odore di bruciato si rendeva ora tangibile anche al senso della vista sotto forma di una nebbia infida, talmente sottile da far pensare ad un momentaneo disturbo visivo anziché al prodotto della combustione. I due si mossero, dunque, in cerca di una finestra e quindi di una boccata di aria pulita. Pur essendo ancora in tenera età conoscevano bene gli effetti mortali di certe esalazioni. Ogni inverno, in paese, si contavano diverse morti causate dal fumo. La rigidezza della stagione, il freddo intenso portavano sovente la gente a sottovalutare la pericolosità di certi metodi di riscaldamento. Antonio e Marco respirarono forte, affacciandosi sul cortile. I loro polmoni abbrancarono l’aria della notte con voracità, alla stregua di un assetato che d’incanto si ritrovi davanti ad una rigogliosa sorgente. Ma non fecero a tempo a gustarsi il sollievo perché, nello stesso istante in cui il campanile batté le tre qualcosa attirò la loro attenzione al centro del cortile

sottostante. Pochi istanti, giusto il tempo necessario affinché le pupille si abituassero all’oscurità, e si mostrò a loro una scena singolare. Una figura umana si aggirava con circospezione là sotto. Andava ora di qua ora di là, come se non sapesse esattamente cosa fare. Quegli era di sicuro l’Andreas Hofer, il generale «Barbone» di cui si parlava tanto; lo stesso che la sera prima aveva sdegnosamente rifiutato la cena preferendo affidarsi alla consolazione della preghiera. Stava dunque fuggendo. Antonio diede di gomito all’amico e si domandò se era il caso di sorridere o meno, optando infine per una neutrale inespressività. Di fronte ad un tale contrasto di sentimenti, i due scoprirono di non avere una posizione precisa riguardo alle sorti dell’Hofer. Se da una parte, l’indole ribelle dell’adolescenza li spingeva a tenere per lui, a sostenere cioè qualcuno che si opponeva alla prepotenza e combatteva, contro ogni logica, le soverchianti forze dell’invasore, dall’altra un diverso aspetto di quel barbuto eroe li invitava a tenersene alla larga. C’era, infatti, in Hofer un che di selvatico e misterioso. Qualcosa che richiamava alla mente le paure ancestrali dell’umanità, quelle cioè che la civiltà, le consuetudini e le religioni erano fino ad allora riuscite ad addomesticare. Considerazioni che trovarono conferma nell’udire la voce gutturale di quello che chiamava a gran voce i soldati. Un tono basso e sgraziato che ruppe il silenzio e informò i due ragazzi della paradossalità di quella situazione. Perché dunque Hofer non se l’era data a gambe? Non era dunque la fuga l’obbiettivo di quella sortita notturna.

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ncora stordita dal molto vino bevuto, la soldataglia accorse con la sorpresa dipinta sui volti. Che ci faceva dunque il prigioniero da solo, libero, nel cortile? Ma soprattutto perché diavolo aveva avvertito la truppa del suo momentaneo stato di libertà? Era curioso osservare come i francesi non sapessero bene se incatenare e percuotere l’Hofer o pendere dalle sue labbra. Evidentemente ogni dubbio venne subito sciolto perché, dopo una breve consultazione, tutti accorsero verso l’interno del palazzo e in un baleno trassero all’esterno due soldati esanimi. Dovevano essere quelli i carcerieri dell’Hofer intossicati di sicuro dalle esalazioni della grande caldana di braci presente nel palazzo. Dunque il tirolese aveva preferito alla facile fuga la salvezza di quelle due vite. Pur strattonandolo, adesso, e insultandolo i francesi lo guardarono con uno sguardo nuovo. Non era ammirazione, quanto piuttosto meraviglia per le altezze vertiginose che talvolta il bene riesce a raggiungere, cambiando inaspettatamente l’esistenza delle persone. Andreas Hofer era un nemico. Tuttavia, quella notte, il suo gesto aveva insegnato a tutti che anche vinto il nemico può essere qualcuno. E come tale è degno di rispetto.


IL RACCONTO

12 sabato 12 settembre 2009 l’Adige

13 l’Adige

sabato 12 settembre 2009

Sabato 13 maggio 1944 il bombardamento angloamericano

L’attacco aereo su Trento

I colpi della contraerea si susseguivano rapidi, come in certe esagitate sinfonie Certi pezzi di musica che ad ascoltarli fanno pensare che il compositore doveva avere qualche problema

La volta che le bombe suonarono Bach

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abato 13 maggio 1944. Attorno all’una del pomeriggio, sei ondate di attacchi aerei angloamericani colpiscono ripetutamente l’abitato di Trento per circa venti minuti. Maggiormente colpite dal bombardamento alleato sono piazza Duomo, Largo Nazario Sauro, Via San Martino e Cognola. I morti sono centotrentanove. Numerosi gli incendi causati dagli ordigni. Brucia, ad esempio, casa Bertagnolli al Cantone, dove si è voluto ambientare questo immaginario episodio.

Pino Loperfido

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colpi della contraerea si susseguivano rapidi, come in certe esagitate sinfonie. Certi pezzi di musica che ad ascoltarli fanno pensare che il compositore doveva avere un qualche tipo di problema. Forse era incazzato perché il padrone di casa gli aveva aumentato un’altra volta l’affitto. Oppure a causa di una delle solite scenate della consorte. Un artista è pur sempre un uomo, maledizione! Così sparare sui propri simili e far deflagrare note su un pentagramma sono attività molto più simili di quanto si possa pensare. Che ci potesse essere un’armonia anche in una sventagliata di proiettili, era, quella mattina, fuor di dubbio. Insomma, proiettili infiniti sparati verso l’alto, un po’ alla viva-il-parroco, nella speranza di tirar giù uno di quei bombardieri. Salve che erano il preludio ad una pioggia un po’ speciale. Una grandinata d’acciaio pronta a sventrare la città, a colpirla al cuore e lasciarla senza fiato. Trento stava in attesa come i propri abitanti. Una posizione scomoda ispirata dalla paura. Una posa plastica, un passo di danza insegnato da Mastro Terrore. Cose difficili da spiegare a chi non si è mai trovato in mezzo al pantano della guerra. Qualcosa che da un momento all’altro può spezzare le catene della normalità e trasportare la realtà nei territori inesplorati della non vita.

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l Rizzo aveva quattordici anni. Lo chiamavano così per via dei capelli, crespi come setole di rame. Una zazzera piuttosto insolita per un trentino. Tanto insolita che qualcuno si era avventurato nel ricercare esotici padri segreti tra i suoi antenati. Il Rizzo era un teppistello. Si arrabattava rubacchiando qualcosa qua e là. Più di una volta era stato beccato ad arraffare sementi o qualche gallina. Una volta lo avevano colto in flagrante mentre tentava, in maniera peraltro maldestra, di portarsi via un carro con tanto di cavallo. I colpi a lui non facevano paura. La gente correva verso i rifugi con il terrore dipinto sul volto. Il Rizzo fischiettava cercando di stare a

tempo con la contraerea. Faceva eco alle detonazioni, fornendone una versione caricaturale, come una personale parodia. C’era l’allarme. Le vie deserte. Alcuni fraticelli vagavano tra le macerie alla ricerca di feriti, mormorando ipnotiche giaculatorie. Domine, salva nos. Domine, salva nos. Tutta la città era stata colpita. La zona oltre il Fersina, la chiesa del Santissimo, l’ospedale, il Torrione, il Noviziato, l’ex asilo Pedrotti, l’albergo Bologna, la chiesa dell’Annunziata. Poi San Martino e via Brennero. Ovunque polvere, rovine e il pianto dei colpiti. La casualità del bombardamento era la stessa del Destino. Può toccare a te come può non farlo. Ma questa volta la bomba cadde vicino. Molto vicino. Non serviva essere un soldato per capirlo. Lo spostamento d’aria aveva mandato il Rizzo con il sedere all’aria. Il mondo era improvvisamente ruotato, prendendosi gioco di ogni legge dell’equilibrio. Allo scoppio, perentorio e secco, era seguito uno strano silenzio. Quindi un rombo smorzato. Pareva la voce catarrosa dell’ordigno che domandava al Rizzo: «Prova a farlo adesso il cretino». La paura è un’emozione

organizzata soprattutto dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza dell’individuo a una presunta situazione di pericolo. Cose che insegnano i libri. Si scatena ogni volta si presenti un possibile rischio per la propria incolumità, e di solito accompagna un’accelerazione del battito cardiaco e delle principali funzioni fisiologiche di difesa.

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na delle reazioni istintive alla paura è lo stupore. Ma trovarsi di fronte a ciò che rimane di un proprio simile una volta svanita la vita può risultare talmente incomprensibile alla mente, da suggerire gesti incontrollati quali la fuga. Il Rizzo fece trenta, quaranta metri in un battito di ciglio, ma poi si fermò. Con il cuore saltellante in petto. La visione che lo aveva sconvolto era ancora dietro di lui. Nulla si era mosso. Le membra accartocciate e sanguinanti appartenevano a un ragazzo, più o meno della sua stessa età, che stava in posizione fetale, come se il capolinea della breve esistenza lo avesse riportato in un certo senso all’origine. Alla stasi liquida che lo aveva avvolto prima di venire al mondo. La fine come il suo inizio.

Qui accanto un’istantanea scattata durante bombardamenti su Trento; nelle altre foto, dall’alto, i segni delle bombe in piazza Duomo, alla stazione della funivia per Sardagna, nel quartiere San Martino e in via Perini; nelle illustrazioni a sinistra e sopra, il racconto visto dal disegnatore Giordano Pacenza

Ed era la pietà a provocare quella sorta di nausea che dalla bocca dello stomaco si irraggiava in ogni nervo e nel cuore del ragazzo. Indigesta quella pietà, come polenta cementificata che, anziché nutrire, contamina corpo e spirito con il morbo della pellagra. Le schegge delle bombe si erano divertite a tagliuzzare qua e là le mani, la faccia, il collo. Ogni muscolo era abbandonato, sconfitto, svuotato. A parte la mano destra. Muscoli, tendini, estensori e adduttori contratti, le dita avviluppate attorno ad un pacchettino verde ornato da un fiocco rosso. Un curioso oggetto largo una trentina di centimetri e spesso un nulla di millimetri. Un pezzo della carta si era danneggiato nella deflagrazione. Il Rizzo strappò quanto rimaneva, tolse il fiocco e si ritrovò in mano questa cosa nera e rotonda. Al centro una curiosa etichetta rossa,

con il disegno di un cane e di un grammofono. In bella calligrafia ci stava scritto: «Johann Sebastian Bach - Brandenburg Concerto #1 In F, BWV 1046. Grande orchestra sinfonica Stokowski – 1942». Stava per andarsene, il Rizzo, gettando via quella cosa inutile, quando dalla carta verde spuntò fuori un bigliettino. Sopra ci stavano un nome, un indirizzo e un semplice messaggio di buon compleanno. Matilde Marchetti, il Cantone, Trento. Tanti cari auguri per la nostra cara nonna. Lunga vita e felicità.

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l Rizzo si chiuse il portone alle spalle con la segreta speranza che quel gesto potesse metterlo al sicuro dal finimondo che stava cambiando i connotati alla città. Nell’atrio del palazzo i colpi arrivavano leggermente attutiti. È difficile pensare a come a volte le

apparenze siano capaci di ingannarci. Parte del palazzo era in fiamme, eppure una strana pace sottraeva al clamore delle vampe e al fumo, portato via da un vento leggero. L’appartamento era molto grande. Ammobiliato con classe, come si conveniva, insomma, ad una famiglia benestante. La signora camminava accompagnandosi con il ticchettìo di un sottile bastone di legno bianco. Teneva la testa sollevata verso l’alto, come se attraverso le sottili fessure sotto alle ciglia potesse ricevere gocce di luce. Alle pareti erano appesi grandi quadri circondati da cornici dorate; vi erano raffigurati uomini dallo sguardo fiero, donne elegantemente acconciate, quindi panorami rupestri. Le pesanti tende di broccato favorivano una certa oscurità degli ambienti. I candelabri reggevano candele

intonse. Una lampada da tavolo in ottone si pavoneggiava nella sua inutilità con l’alloggiamento per la lampadina vuoto e impolverato. «Nino, sei tu?». La voce era rauca e sottile, come appartenesse a qualcuno che è vivo per miracolo. Ma chi non lo era, vivo per miracolo, in quel frangente? Il Rizzo stava per rispondere subito che no, non era lui Nino. Nemmeno lo sapeva chi fosse questo Nino. Se si trovava lì era solo perché aveva letto quell’indirizzo sul biglietto e ne aveva cercato un riscontro tra le vie della città. Già scuoteva il capo, con un mezzo rispettoso sorriso, pronto a chiarire sul nascere il grottesco malinteso. Lui era il Rizzo, non Nino. Eppure qualcosa impedì alle sue corde vocali di articolare le parole. Come un cavallo che in procinto di saltare un ostacolo si blocchi di colpo, mandando all’aria il cavaliere e la sua prestanza. «Nino, sei tu?». No, non c’era più tempo di rispondere. La signora Matilde era ormai davanti a lui e già gli toccava il volto per vederlo, dato che gli occhi li teneva chiusi. La scena aggiungeva nuova sorpresa allo strano quarto d’ora del ragazzo, trasportandolo in uno di quei vicoli in cui spesso la realtà si va a ficcare per non farsi più riconoscere. «Hai fatto tardi. Ti aspettavo mezz’ora fa. Sei il solito birbante. Siediti. Hai sete?» Una grossa brocca colma d’acqua comparve nelle mani della signora. «Sapevo che avrebbero colpito l’acquedotto, così ne ho messa un po’ da parte. Non me la fanno mica a me quegl’inglesi della malora». Il Rizzo bevve avidamente. La gola secca si ristorò sotto l’insperato getto liquido. In apnea, il ragazzo pensò a qualcosa di molto simile alla Provvidenza, cercando di dargli una forma. Ma poi si accorse dell’oggetto che teneva ancora nella mano. Lo sollevò. Lo mise nelle mani della signora Marchetti che quindi lo palpò, lo esplorò con le dita e commentò la consegna con un largo sorriso che mostrò

Sabato, un figlio e suo padre

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n queste pagine pubblichiamo l’undicesimo racconto di Pino Loperfido, lo scrittore trentino che sta accompagnando i lettori dell’Adige lungo tutta l’estate 2009, con una storia nuova ogni sabato. La serie si concluderà sabato prossimo con il racconto intitolato Ogni giorno è la festa del papà, che così viene descritto in una breve anticipazione fatta dall’autore: «Quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio». Pino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire. Il

racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo, «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese, ambientato in Trentino: le oltre quattrocento pagine del romanzo raccontano sette giorni della vita di Giacomo Andreatti, 48 anni, medico di base con l’hobby della scrittura che torna nella sua città natale, dopo un lungo esilio, in seguito alla morte del vecchio padre, notissimo esponente politico.

una bianchissima chiostra di denti perfettamente allineati. «Che caro ragazzo. La mamma me l’aveva preannunciato che mi avresti portato un regalo, quest’oggi. Vieni, vieni con me che lo mettiamo subito su.» Matilde posò il disco sul piatto e girò una manovella, quindi abbassò la puntina e orientò la tromba in ottone. Un fruscio misterioso si infilò nei padiglioni auricolari dei presenti. Uno zigrignare che aveva l’aria di una presentazione, un preludio al miracolo che stava per avvenire portato nell’aria da sei archi, sei fiati, clavicembalo e un magico corno da caccia. Una detonazione musicale da cui il Rizzo si lasciò ferire volentieri. Non aveva mai avuto occasione di perdersi in certe frivolezze come i concerti sinfonici.

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on aveva mai pensato a una cosa tanto inutile. Eppure adesso ne era affascinato e non riusciva a staccare i piedi dalla posizione che occupava. E non esisteva più nulla attorno. Solo violini e armonia, tanta. Non guerra, non gente stipata nei rifugi, non chiese bombardate, ma pace e serenità. «Tu non puoi immaginare, Nino caro, quanto tenevo a questo settantotto giri.» Disse Matilde. «Tua madre deve aver fatto i salti mortali per procurarselo…». Gli faceva bene sentirsi benvoluto, riconosciuto, amato. Era bella dunque la vita. E se fino a quel giorno l’aveva odiata l’esistenza era solo perché aveva avuto la sfortuna di non conoscerla, così come non aveva conosciuto sua madre, né il calore di un’amicizia. Il Rizzo si accucciò accanto alla signora come un cagnolino. Si leccò le ferite nutrendosi di quelle antiche note, di quei codici musicali che corrispondevano ai desideri del suo cuore. E gli parlavano di ciò che era buono per lui. Gli parlavano di Dio. Spesso le storie insegnano che il mondo non è fatto a nostra immagine e somiglianza. Ci regalano la sensazione che possano esistere altre vite, altre possibilità oltre a quella presente. Il Rizzo la stava vivendo, ora, una storia. Aveva il privilegio di vivere doppiamente, di scoppiare di vita fino a non poterne più. Lo sguardo di Matilde, benché cieco, sotto le mentite spoglie di una formale cortesia, comunicava disperazione frammista a speranza. «Lo so che non sei Nino, maledizione», parevano urlare i due solchi scuri sotto gli occhi. «Lo so che Nino è morto, ci è rimasto sotto le bombe degli inglesi, cosa credi?», annunciavano le linee che dalla bocca scendevano fin sul collo. «So anche che hai paura, piccolo sconosciuto. E non vedi l’ora di andartene da qui. Di lasciarti alle spalle questa vecchia pazza che si muove e parla come un fantasma». «So tutto. Conosco ogni cosa, caro ragazzo. Ma ti prego. Resta ancora un po’. Solo un poco. Domine, salva nos. Questa musica è talmente bella…».


IL RACCONTO

12 sabato 25 luglio 2009 l’Adige

13 l’Adige

sabato 25 luglio 2009

Giovedì 3 novembre 1904, la «guerra» fra gli universitari

Giurisprudenza parla italiano

Innsbruck 1904 L’imperdonabile colpa di essere felici

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iovedì 3 novembre 1904. Ad Innsbruck viene inaugurata la Facoltà di Giurisprudenza di lingua italiana. Gli studenti trentini festeggiano assieme ad alcuni deputati, mangiando all’Albergo Croce Bianca. In strada, intanto, si ingrossa un gruppo di studenti contestatori di lingua tedesca, tenuti a bada dai soldati del reggimento Tiroler Kaiserjäger di cui fanno parte molti trentini. È uno di loro, Luigi Menotti di Borgo Valsugana, a trafiggere mortalmente con una baionetta il pittore Augusto Pezzei. Gli studenti trentini vengono tradotti in carcere, sottratti in extremis al linciaggio. Tra loro, Alcide De Gasperi e Cesare Battisti. (Nella pagina a fianco, nella foto in alto, gli studenti trentini scarcerati: De Gasperi è il secondo da sinistra, Battisti il secondo da destra. Qui sopra, i partecipanti alle lotte universitarie di Innsbruck riuniti vent’anni dopo, nel 1924, al castello del Buonconsiglio; in alto a destra, De Gasperi).

Un paio di italiani si erano fatti avanti agitando le mani nel gesto di domandare un po’di calma Quello più basso portava un pizzetto appuntito L’altro, più alto e magro, portava degli occhialini

Pino Loperfido

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ssere bambini toglie un sacco di opportunità e privilegi, ma presenta anche alcuni vantaggi. Questo pensò Felix mentre infilandosi agevolmente tra le gambe dei manifestanti riuscì a guadagnare la prima fila. A procurargli il brivido lungo la schiena non fu il frescolino dell’inverno oramai alle porte, ma l’emozione di potersi godere lo spettacolo tutto intero. La sonnacchiosa città aveva finalmente qualcosa di eccitante da proporre ai suoi abitanti. Un’occasione da non lasciarsi sfuggire, dunque. Innsbruck non era Parigi, non aveva dunque i pregi della grande città, tuttavia, essendo troppo estesa per poter meritarsi l’appellativo di paese, non presentava neppure i pregi del piccolo borgo di montagna. Felix aveva dunque la consapevolezza di vivere in un indefinito conglomerato di case, strade e persone, un coacervo di umanità e architetture che per convenzione si erano concentrati in quell’insignificante punto dell’universo. Ma quel giorno la città indolente presentava un programma frizzante. Appena sveglio, Felix aveva fatto finta di non prestare attenzione ai discorsi che suo fratello andava facendo. Preparandosi per recarsi all’università, come quasi tutti i giorni, Georg, questo il suo nome, aveva lasciato intendere che qualcosa di grosso sarebbe avvenuto. Come il cagnolino scodinzolando segue la traccia olfattiva che potrebbe condurlo al cibo, così Felix si era vestito in tutta fretta mettendosi alle calcagna di Georg. Non era riuscito però a togliersi dalla testa le insolite parole che il fratello aveva pronunciato appena sveglio. Era accaduto che, diversamente da quanto avveniva di solito, Georg non era balzato sul letto del fratellino per farlo alzare. Quando Felix si era voltato verso il suo giaciglio lo aveva visto con lo sguardo fisso alle travi del soffitto,

le mani intrecciate dietro la testa. Con la bocca a forma di cuore, fischiettava un qualche motivetto appena percettibile. Felix, dunque, messosi a sedere, allarmato dall’eccessiva tranquillità di Georg, gli aveva domandato cosa diavolo stesse facendo, immobile come uno stoccafisso. Georg aveva girato gli occhi verso di lui e con un mezzo sorriso gli aveva domandato: «Ci pensi mai alla morte, tu?». Eh, no che non ci pensava. Felix aveva solo nove anni. Quelli erano pensieri per i quali nella mente di un bambino non c’era spazio. Vi trovavano posto un sacco di altre cose: colori, giochi, forme bizzarre, progetti astrusi, ma la morte era un concetto troppo lontano e opposto alla vitalità di un piccolo uomo. Ecco perché fra le cose più inaccettabili che possano accadere sono proprio certi lutti a far preferire, tutto ad un tratto, un’accomodante pazzia all’incresciosa realtà. «Ci pensi mai alla morte, tu?» aveva

domandato Georg. Poi era tornato a contare i legni della mansarda. Superato lo smarrimento iniziale, Felix era balzato sul suo letto e aveva cominciato a canzonarlo. Aveva il diritto di farlo. Tutti i bambini hanno questo alibi: una sorta di accesso esclusivo alla felicità. Un privilegio che li rende tanto diversi, quasi una specie a sé. Spesso gli adulti gliene fanno una colpa e percepiscono tanto entusiasmo come un’insolenza, un fastidio da sopprimere quanto prima a forza di rimproveri, richiami e scapaccioni assortiti.

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a parte sua, Georg non faceva che ripensare al sogno che l’aveva agitato quella notte. Avesse dovuto raccontarlo, sarebbe stato davvero arduo tradurre in parole il teatro di ombre, visioni e lampi che il cervello gli aveva fatto credere di vedere. Lo stesso vi era, nella foresta di ipotesi, una logica. Un filo narrativo misconosciuto che gli aveva lasciato

un vago senso di angoscia, come un residuo velenoso che rischia di depositarsi sul cuore. Per sempre. A meno che non lo si cacciasse fuori, quel disagio, espettorandolo sotto forma di rabbia, attraverso violenti fiotti di adrenalina. A giudicare dalle urla e dagli sguardi accesi, un po’ tutti i ragazzi convenuti davanti all’Albergo «Rosa Bianca» avevano sintomi simili al suo. Gli italiani si erano barricati là dentro. Vigliacchi bravi a parlare, che se la danno a gambe quando è il momento di menare le mani, di mostrare al cielo quanto si è uomini oppure no. Georg si guardò attorno. La complicità della folla inferocita lo rafforzava. L’energia che si trasmetteva tra quei giovani corpi somigliava a qualcosa di malefico e oscuro; una caricatura della giustizia. L’università aveva concesso agli italiani di poter usare la propria lingua in aula, durante certe lezioni. Quella mattina avevano festeggiato, in maniera esagerata e insolente, com’era loro solito. Si erano presi gioco dei colleghi di lingua tedesca, irridendoli, facendone teatralmente tanti buffoni alla corte dell’Imperatore. Tuttavia non era questo il vero motivo di tanto furore.

Un nuovo romanzo Giordano Pacenza per Pino Loperfido grafico di successo

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ino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Entro la fine di quest’anno uscirà il nuovo atteso romanzo intitolato «Le meccaniche dell’infelicità»

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iordano Pacenza, 37 anni, ha studiato a Trento e Firenze e si occupa di grafica e illustrazione editoriale; ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi in ambito nazionale e vive a Vigolo Vattaro

La diversità è una bomba a tempo il cui innesco è nelle mani di chiunque. L’unico artificiere è la deflagrazione. Non esiste nessun’altra strada. Guardali lì, ora, quei conigli, mentre mostravano i loro occhi impauriti da dietro le tende dell’albergo, guardando con terrore la vita che stava loro toccando vivere. La decadenza della società li illudeva di poter trasformare ogni desiderio in un diritto, dove la diversità non era più un punto di partenza per guardare il mondo con altri occhi, ma una maledizione da combattere in maniera ossessionata e rancorosa.

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er Felix, invece, era tutto un gioco. La contrapposizione etnica, il pericolo di una zuffa imminente, gli sguardi severi dei gendarmi: ogni cosa era fabbrica e motore di una vitalità nuova. Anche i pugni che suo fratello e gli altri studenti austriaci tendevano minacciosi in direzione degli italiani, pur mostrando in tutta evidenza i sintomi della reazione violenta, potevano nascondere un loro aspetto ludico. Il poter ricondurre ogni aspetto del male e del cinismo entro i confini del gaudio era un altro dei privilegi di

Sopra, i fatti di Innsbruck nel disegno di Achille Beltrame apparso sulla «Domenica del Corriere» dell’epoca; a sinistra Cesare Battisti, a destra De Gasperi

quell’età. Pur non conoscendone la causa, Felix si godeva gli effetti clamorosi che l’essere bambini comportava. Guardava Georg e provava ad imitarne le smorfie e scimmiottarne le urla. E poi il silenzio e l’espressione di sorpresa, infine, quando una calma improvvisa scese sulle fazioni contrapposte. Come quando un rumore attira d’un tratto la nostra attenzione e ci fa voltare il capo ora di qua ora di là alla ricerca della fonte sonora, con la speranza di dare immediatamente una spiegazione al fragoroso evento, così ogni studente si lanciò nell’esplorazione dei dintorni per capire a cosa era dovuta l’improvvisa tregua. Gli era che un paio di italiani si erano fatti avanti, agitando le mani nel gesto di domandare un po’ di calma. Quello più basso portava un pizzetto appuntito, i capelli arruffati, l’aria truce di chi vorrebbe incutere rispetto. L’altro, più alto e magro, portava degli occhialini pince-nez appoggiati su un naso lungo e sottile. Il mento appuntito e le orecchie a sventola, più alcune precoci rughe, contribuivano a dare al ragazzo una curiosa faccia da vecchio. Doveva trattarsi dei capi di quel gruppo di facinorosi. Felix carpiva

mozziconi di frasi sussurrate tra la folla. Il primo pare si chiamasse Cesare Battisti e facesse il giornalista. Il secondo guidava gli studenti cattolici del Trentino, tale Alcide De Gasperi. Due imbrattacarte con una parlantina mica da ridere, insomma. Tuttavia Felix era sicuro che il fratellone ed i suoi compagni non si sarebbero fatti incantare tanto facilmente. L’incontro avvenne all’incirca a metà strada tra il cordone di sicurezza dei gendarmi e l’Albergo alla Croce Bianca dove il resto degli italiani se ne stava rintanato. Il bambino tentò di immaginare cosa si sarebbero detti. Le parole che possono sciogliere una matassa tanto intricata gli erano sconosciute. La diplomazia era per lui solo una dei tanti termini incomprensibili che i grandi si ostinano a farsi uscire dalla bocca, tanto per darsi un tono; oppure, solo per nascondere i sentimenti dietro un paravento fatto di parole. Quel Battisti e quel De Gasperi disegnavano strane figure geometriche nell’aria, muovendo le braccia in tutte le direzioni. Mostravano la sicurezza di chi sa con precisione ciò che vuole ottenere e ha la certezza che la strada intrapresa per giungere all’obbiettivo sia proprio quella giusta.

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eorg assisteva alle trattative con l’ottimismo che si portano dietro determinati momenti della giornata o certi periodi storici. Così come, infatti, al mattino lo spirito pare caricarsi di vibrazioni positive, l’avere vent’anni all’inizio di un secolo tanto importante come il Novecento concedeva alcune illusioni: ad esempio quella di poterlo vivere per intero quel secolo. Come se la curiosità potesse bastare, da sola, ad allungare la vita degli esseri umani, a trasportarla indenne alle soglie di un futuro inimmaginabile. Insomma, i due fratelli, con più o meno consapevolezza, erano felici. Sentivano la vita vibrare. Un flusso di energia e sangue troppo grande per le ridicole dimensioni del corpo e così era per ogni partecipante alla

Fra sette giorni la fine di Hofer

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n queste pagine il quinto racconto di Pino Loperfido (accompagnato da due disegni di Giordano Pacenza); racconti che ci accompagneranno lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Il prezzo salato di chi viene al mondo: le acrobazie mentali di un soldato negli istanti che precedono la fucilazione del condannato. Il destino aveva una voce di bimba: la fede nel trascendente a volte fa brutti scherzi. E dove è finita quella bimba dai riccioli biondi? Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza magica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dal mistero, s’intitoleranno «La volta che le bombe suonarono Bach» e «Ogni giorno è la festa del papà».

disfida. Come poteva, dunque, un potenziale tanto dirompente spegnersi nel silenzio di una stretta di mano? La miccia era oramai accesa e troppo corta per poter sperare di scongiurare l’esplosione. Quando la folla prese a vorticare, come foglie secche prigioniere di un piccolo uragano, Georg percepì qualcosa. Uno strano buco nello stomaco, come una falla in una barchetta oramai al largo, quando il porto è divenuto troppo lontano da raggiungere. E quel sogno maledetto riprese a tormentarlo, lo pungolò, diede una spallata a tutti gli ideali e le fantasie che l’inizio del secolo aveva trasmesso ai suoi abitatori. Gli italiani uscirono in massa dall’albergo. La loro venuta assunse le sembianze di una carica. Felix abbandonò la sua posizione per arrampicarsi su un albero e godersi lo spettacolo della violenza senza correre inutili rischi. Da lì riusciva a vedere tutto. I gendarmi che tentavano di riorganizzarsi per riportare la situazione all’ordine. Gli studenti che a gruppi di due o tre si spintonavano urlando. Tra loro rivide pure i due capi, Battisti e De Gasperi, riluttanti ad abbandonare le speranze di una soluzione pacifica. E poi c’era Georg. Fermo. In mezzo a tutti. Come se improvvisamente fosse divenuto invisibile agli altri. Tra il colpo e la caduta al suolo passò un tempo molto breve, troppo perché Felix potesse riuscire a seguirne l’origine e la destinazione. Vedere il corpo di suo fratello disteso sul selciato era inaccettabile alla sua coscienza imberbe e irragionevole. Era come se il destino lo avesse preso per mano e gli stesse domandando con insistenza: «E allora, come la mettiamo adesso con tutta questa felicità?». Felix non aveva risposto alla domanda di Georg, se ci pensasse o no alla morte. Per forza che adesso ci pensava. Ce l’aveva davanti: unica, definitiva. Mai doma, la sua follia di bambino, anziché aggrapparsi alla pietà o ad una religione, tanto per non impazzire, lo portò a odiare quel fratello caduto. Perché morendo lo stava trascinando fuori da un mondo dorato. Le colpe erano tutte dei grandi. Sin da quando avevano cominciato a premiare i più piccoli per le «loro» aspettative. E i bambini avevano imparato in fretta: pezzettino per pezzettino, la loro istintività era stata barattata ogni giorno con un complimento diverso, seguito da un sorriso compiacente. Quello era il prezzo. Far felici i grandi diventando esattamente come loro: cinici e superficiali. Anche lui lo avrebbe fatto. Avrebbe dimenticato tutta quella felicità. I gendarmi intanto avevano disperso la folla. Attorno al morto erano rimasti pochi coraggiosi. Tra loro, quei due italiani. Quello col pizzetto parve guardare con fastidio al corpo esanime; lo studente austriaco ucciso dalla pallottola vagante era per lui motivo di disagio profondo e inspiegabile. L’altro italiano, quello con gli occhialini, si fece il segno della croce e chinò il capo, mormorando qualche oscura preghiera.


IL RACCONTO

10 sabato 29 agosto 2009 l’Adige

11 l’Adige

sabato 29 agosto 2009

27 settembre 1909: Mussolini accompagnato al confine

Trento e Rovereto al buio

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Il padre della ragazza bazzicava il giornale di Alcide De Gasperi, quello di Federico era uno dei facinorosi che andavano dietro alle idee di Cesare Battisti

unedì 27 settembre 1909. Benito Mussolini, redattore capo de «Il Popolo», autore del dileggiatorio romanzo «L’amante del Cardinale», viene accompagnato al confine (nella foto al cippo di Ala, salutato da alcuni compagni socialisti). È la fine della sua permanenza nel Trentino austriaco. I dimostranti socialisti girano per le strade di Trento e di Rovereto, cantando la Marsigliese, agitando bandiere rosse, esortando i commercianti allo sciopero. Le due città restano così, per un giorno, senza luce e senza pane (nella foto in alto a sinistra, un comizio di Cesare Battisti).

Giusto dietro la curva del cuore

colore fucsia. Federico e Claudia assisterono divertiti allo spettacolo. Proruppero in una sonora risata nello scoprire qual era l’oggetto di tanta derisione. Proprio ai piedi di un pensoso Minosse, i dimostranti avevano appeso un fantoccio di colore verde. Il viso era disegnato in maniera posticcia ed imprecisa, tuttavia alcuni particolari lasciavano intuire l’identità del personaggio che si intendeva lì evocare. La barba lunga e fluente, le grosse sopracciglia e soprattutto il buffo cappello piumato non lasciavano dubbi sul fatto che il feticcio impiccato fosse nientemeno che Andreas Hofer, l’eroe tirolese a cui le autorità, proprio in quei giorni, stavano dedicando una serie di celebrazioni, a cento anni esatti dalla rivolta contro i francesi. I ragazzi osservarono attentamente la scena. Studiarono ogni particolare, come se fossero lì per stendere una relazione precisa degli eventi. La rabbia di tutti quegli uomini incravattati e vestiti di nero aveva un che di profondamente atavico. Raccontava le profondità dell’istinto umano, la violenza e il male che molte volte gli uomini si portano nel petto, come un bagaglio leggero, celato dai battiti del cuore.

Pino Loperfido

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uante volte te lo devo dire che certe porcherie tu non le devi leggere. Pensavi di farmela anche stavolta, eh? Guarda che tua madre non è una cretina, sai. Ah, ma la colpa è tutta di quel debosciato di tuo padre. Si comporta ancora come fosse un ragazzino. Sempre con questa storia della politica, il socialismo, l’Italia… Ma quale Italia? Cosa abbiamo da guadagnarci a passare dalla parte di certi pezzenti? Un pugno di mosche, ecco cosa. Tuo padre è un illuso, proprio come i suoi amici saputelli che stanno al giornale. Ah, ma questa volta mi sente, sai? Lasciare in giro certi fogli scandalosi, con un bambino per casa. Com’è che si intitola? L’amante del Cardinale! Capisci bene che è una porcheria… I Cardinali sono dei santi. Sono i successori degli apostoli, capisci? Ti pare che qualcuno possa davvero credere a certe fandonie? Senti qua: …il giovane Carlo Emanuele non aveva molta voglia di fare il principe e ancor meno il Principe della Chiesa. Invaghitosi della giovane vicina Claudia Particella arrivò anche, dopo aver ben meritato in missioni diplomatiche per il Papa e per gli Asburgo, a richiedere più volte la dispensa per poter sposare la giovane… Ma ti puoi immaginare… La bella ragazza…». Federico continuava a toccarsi le guance: gli pareva scottassero talmente che da un momento all’altro avrebbero potuto prendere fuoco. Quando sua madre era piombata in casa e l’aveva sorpreso immerso nella lettura di quello scabroso romanzo avrebbe voluto sprofondare per la vergogna. Per fortuna, troppo presa dalla ramanzina, quella non aveva potuto notare la sua eccitazione e soprattutto non aveva avuto accesso ai suoi pensieri più intimi e segreti. Era proprio lì, infatti, giusto dietro alla curva del cuore, che il ragazzo teneva ben nascosta la sua passione, la tempesta che stava dando una forma alla sua giovinezza. Uno sconvolgimento ormonale riconducibile ad un volto ben preciso. E ad un nome: Claudia. Il fatto che la ragazza – quasi vicina di casa, abitava infatti quattro portoni più in là lungo la contrada Todesca – portasse lo stesso nome

dell’eroina di quel romanzo non faceva che attizzare la brace del sentimento. Federico osservò sua madre che, seduta sul letto, senza accorgersene, aveva diluito il suo accesso di ira perdendosi un poco tra le pagine proibite. Contravvenendo ad ogni regola educativa, trasgrediva dunque i principi professati a gran voce, poco prima, innanzi al figlio. Quella curiosa stasi, pausa nella battaglia, dava pertanto modo al ragazzo di analizzare ogni turbamento che da qualche giorno lo stava devastando, nel corpo e nell’anima. Ciò che più lo incuriosiva erano le prerogative moleste e fastidiose dell’innamoramento. Il mal di pancia, ad esempio. L’inappetenza e l’inedia a cui costringeva non potevano essere ricondotti a qualcosa di piacevole. L’amore doveva essere un processo della stessa natura della conversione religiosa o politica. Le persone si innamorano quando sono pronte a mutare, ad iniziare una nuova vita. A pensarci bene, tra il sentimento provato nei confronti di Claudia, la fede cattolica della madre e i profondi ideali socialisti del padre c’erano solo delle differenze apparenti. In tutti tre i casi vi era l’adesione ad una collettività che si riconosceva negli stessi valori, gruppi coesi da una grandissima solidarietà. Nel suo caso, si trattava di una collettività minima, formata da due sole persone: un ragazzo e una ragazza.

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ostacolare l’avvicinamento di Federico e Claudia, oltre al bigottismo della madre del primo, vi erano ragioni famigliari, di ordine sociale, o meglio ideologico. Il padre della ragazza era molto vicino al clero; bazzicava il giornale di Alcide De Gasperi ed oltre ad essere un cattolico intransigente, sosteneva senza paura l’idea che l’Imperatore godesse di una specie di imprimatur divino: una patente che gli aveva assegnato in un sol colpo un’incontestabile supremazia politica e un’indiscutibile autorità morale. Era, di contro, il papà di Federico uno di quei facinorosi che andavano dietro alle idee di Cesare Battisti,

direttore del giornale «Il Popolo», e del suo pupillo Benito Mussolini: un romagnolo capitato da qualche mese in città che si arrabattava tra un impiego alla Camera del lavoro e il mestiere di giornalista e scrittore. Feroce anticlericale, era di fatti opera sua il romanzo che stava dando scandalo in tutto il Trentino e che «Il Popolo» stava pubblicando a puntate. Era quantomeno curioso che una città piccola come Trento covasse nel suo ventre tali e tanti fomiti di intellettualismo, di passione politica, di attaccamento ai destini dell’umanità. Era quella l’epoca in cui le persone trovavano ancora sacrosanto farsi carico di un’idea e, gratuitamente, difenderla per tutta la vita. I giornali erano i cuori pulsanti di un’anima culturale. Case e palazzi parevano vibrare tanto era l’impeto di giustizia che ognuno si portava dentro. Naturalmente, anche a causa del distacco proprio della sua età, Federico interpretava certi interessi alla stregua di capricci senza senso. Quando ad esempio sentiva il padre fare certi discorsi sul socialismo tratteneva a stento il riso. Non capiva come nella vita uno potesse dedicarsi ad altro che non fosse l’amore. Il dolcissimo dolore che lo affliggeva da quando Claudia era entrata giocoforza nella sua vita di ragazzo. Al dissesto psichico che lo tormentava non v’era altro rimedio che correre immediatamente da lei e perdersi tra le sua braccia, baciarla fino a farsi dolere le labbra e la

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lingua. Federico non aveva dubbi: l’amore era come una malattia a cui nessun medico può porre rimedio. Anche il più grande luminare del pianeta, di fronte ad un fenomeno del genere, poteva solo allargare le braccia e arrendersi alla forza del cuore. Così anche quel pomeriggio, con la scusa di andare a comprare il sale in una certa bottega, Federico si appostò sotto le finestre della casa di lei. Infilandosi due dita in bocca, produsse un sibilo molto sottile e intenso, che si interrompeva a intervalli regolari. Era il segnale convenuto. Un codice sonoro alla cui traduzione avevano accesso loro due soltanto. Claudia comparve ben presto sulla

soglia del portone. Prese per mano Federico e ve lo trascinò all’interno. I due ragazzi si strinsero con meraviglia. La stessa sorpresa che può provare chi si trovi all’improvviso davanti ad un fenomeno inspiegabile. Con la differenza, questa volta, che il tutto avveniva nei misteriosi circuiti dei loro corpi di adolescenti, dove truppe di ormoni impazziti lanciavano il loro attacco alla ragione. Federico provò a dire qualcosa, ma dalla bocca uscivano solo mugugni, parole mozzicate. La verità era che non c’era proprio nulla da dire. Solo abbandonarsi alla gioia. L’energia che li attraversava era talmente forte da spaventarli. I loro corpi si

I giovani «duellanti» Alcide De Gasperi (a sinistra) e Cesare Battisti (a destra); sopra Castel Toblino, visto dall’artista Basilio Armani, dove secondo la leggenda si sarebbero tenuti gli incontri amorosi fra Claudia Particella e il cardinale Carlo Emanuele Madruzzo

alteravano, cambiavano forma: un’inspiegabile metamorfosi che, quel giorno, li agitò talmente da persuaderli ad abbandonare il nido comodo e a cercare il contatto con la folla, il riscontro con la realtà. Giusto un attimo prima di abbandonarsi alla più controllata delle follie.

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i era in piazza uno strano fermento. Una folla di giovani vocianti maramaldeggiava attorno al complesso monumentale dedicato all’Alighieri. Urla di scherno, qualche bestemmia. Altri lanciavano uova che impattando contro l’obbiettivo facevano sbocciare una macchia di

Sabato prossimo, Hofer ad Ala

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n queste pagine pubblichiamo il nono racconto di Pino Loperfido; racconti che ci accompagneranno lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e un’anticipazione dell’autore. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di sé nella tragedia della guerra, tra ar-

te e distruzione.Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo, «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese.

vvenne che sulla città scese il buio. E tale restò, considerato che nessun lampione si accese. Anche nelle botteghe e nei caffè si corse ai ripari dando fuoco ad alcune candele. Cosa dunque stava accadendo? Ad ogni crocicchio, gruppi di uomini e donne discutevano animatamente sui destini oscuri che li attendevano. Scese la notte e per tutti fu come se si trattasse della prima notte dell’umanità. Una paura nuova serpeggiò per le strade di Trento. La stessa paura che probabilmente provarono i nostri progenitori il giorno in cui, dall’antro di una caverna, videro il sole sparire per la prima volta: mica lo potevano sapere che sarebbe tornato il mattino dopo. Federico e Claudia carpirono qualche conversazione e scoprirono che era in atto una sorta di sollevazione popolare. La parola «sciopero» veniva pronunciata più volte, con la perentorietà di una sciabolata. Non solo gli operai dell’azienda elettrica, ma pure i fornai avrebbero incrociato le braccia. E il motivo della protesta restava incomprensibile. E nemmeno interessava più di tanto ai nostri giovani protagonisti che videro nell’insolita oscurità e nell’eccitazione generale un invito pressante a cogliere i frutti dell’intimità. Nella via principale, quella che portava al Duomo, altri incravattati si esibivano nel lancio delle uova colorate. Questa volta il bersaglio non era un fantoccio, ma la facciata di un elegante palazzo. Federico sorrise quando un uomo alto e magro gli mise in mano un uovo, invitandolo a colpire quella che definì «il covo dei baciapile». Senza pensarci due volte, il ragazzo portò il braccio all’indietro, caricò le fasce muscolari dell’arto, lasciando che l’energia chimica prodotta dal corpo fluisse su quell’oggetto tondeggiante e quindi sfociasse in un’esplosione di

energia cinetica. Ma qualcosa lo trattenne. Lentamente, Federico riportò il braccio in posizione di riposo. Claudia, che già si era preparata a godersi lo spettacolo balistico, domandò spiegazioni con lo sguardo al suo fidanzatino. Era un’occhiata carica di rimprovero e di delusione. Le donne spesso chiedono agli uomini di compiere per loro conto azioni che esse stesse non hanno il coraggio o la decenza di fare. Sapeva bene, Claudia, che dietro quelle finestre vi era anche la scrivania di suo padre. Tuttavia quella che a prima vista poteva apparire una nemesi storica ovvero il risultato dell’imperituro contrasto tra padri e figli, tra una generazione e l’altra, non derivava da ragioni dettate dell’odio, bensì da un’inconscia forma di invidia. Federico, infatti, senza saperlo, invidiava del genitore la sicurezza con cui abbracciava la causa socialista; il fatto che in essa egli avesse trovato il propulsore della propria esistenza. Claudia, invece, del padre invidiava la calma, quella capacità quasi disumana di non prendere mai decisioni senza prima meditarle. E poi ne invidiava la fede cattolica e il senso del mistero: l’esperienza più bella e profonda che un uomo possa fare, negli anni che gli tocca vivere. Il profondo disagio filiale che accomunava i due ragazzi aveva fatto fino ad allora da collante. Aveva corroborato il sentimento amoroso. Li aveva rassicurati sul fatto che la decisione di dedicarsi l’uno all’altra per tutta la vita era quella giusta. Eppure, nel clamore della notte bianca, elettrizzata dalle urla degli scioperanti, Federico e Claudia si accorsero che c’era qualcosa dentro di loro che remava in direzione opposta. Giusto dietro la curva del cuore, un granello di malvagità o di idealismo operava affinché ognuno andasse per la sua strada, laddove la ragione avrebbe potuto condurli. L’uovo pieno di vernice che il ragazzo continuava a soppesare nella mano era la chiave della contesa. Pertanto quando Federico si ritrovò sotto gli sguardi incrociati della sua amata e di suo padre, accorso nel frattempo con gli scioperanti, forse non colse l’importanza del gesto che si stava apprestando a compiere. La folla muggiva. Gli operai dell’azienda elettrica, fornai, netturbini inneggiavano a Mussolini, il compagno giornalista che, proprio quel giorno, le autorità austriache avevano costretto all’esilio. Un tale fermento aveva reso la città irriconoscibile, come se milioni di uova piene di vernice fossero improvvisamente piombate su Trento cambiandone il volto. Federico portò indietro il braccio e scagliò l’uovo con tutta la forza che poteva. Suo padre sorrise compiaciuto. Claudia, invece, incurvò la bocca verso il basso e chinò il capo. Il suo fidanzato la abbracciò ridendo. Lei provò uno strano moto di repulsione. Ebbe la percezione che il loro amore non sarebbe stato più lo stesso da quella notte in poi. Il gesto di libertà che Federico aveva compiuto esprimeva non la grandezza, bensì l’infinita debolezza della libertà stessa. Era proprio questo il dramma: la più alta ricchezza dell’uomo poteva generarne anche la più oscura miseria.


IL RACCONTO

12 sabato 19 settembre 2009 l’Adige

13 l’Adige

sabato 19 settembre 2009

Protagonista Anteo Zamboni, 15 anni, di famiglia anarchica

Bologna 1926: attentato al Duce

Avere un padre non significa nulla, specie se sei costretto a dividerlo con qualche altro milione di italiani e tu, tra l’altro, italiano lo sei solo per un pelo Figlio di uno che fa impazzire le folle e di una che fa impazzire solo se stessa E suo figlio

Sul foglio scritto fitto fitto che per titolo portava «Corriere della Sera» c’era una cronaca accorata che, chissà perché, lo riguardava da vicino Molto da vicino

Ogni giorno è la festa del papà

tutto un groviglio di fantasie indicibili, il ragazzo zompettò verso la piazza, e chi non ti vide proprio di fronte alla canonica? La Maria che conversava animatamente con gli altri paesani. Non era schiattata, dunque. Anzi, pareva più in forma che mai. Gesticolava, raccoglieva commenti, mimava alcune espressioni facciali e poi una caduta con tanto di smorfia di dolore. «Non sarà schiattata, ma le ha dato sicuramente di volta il cervello» congetturò il ragazzino. Che ci stava a fare, infatti, in mezzo alla piazza, circondata da decine di persone, come un’attrice? È presto detto. Era accaduto che il parroco, scendendo nel capoluogo di buon ora, aveva acquistato il giornale e, vista la notiziona in prima pagina, era subito corso in paese ad annunciare la dolente novella ai fedeli. Albino si fece largo, sgomitò fino a quando non riuscì ad appoggiare il naso sul foglio scritto fitto fitto che per titolo portava «Corriere della Sera». Più sotto, una cronaca accorata che, chissà perché, lo riguardava da vicino. Molto da vicino. «La Storia ha rischiato di arrestarsi, ieri sera, a Bologna. Il Duce stava inaugurando il nuovo stadio sportivo il Littoriale nell’ambito della commemorazione della "marcia su Roma"; su una macchina scoperta stava andando alla stazione quando un colpo di pistola gli lacerava la sciarpa dell’ordine mauriziano. Dietro alla macchina di Mussolini, che proseguiva, un gruppo di squadristi di Leandro Arpinati (tra cui anche Italo Balbo) si buttava sul presunto attentatore e giustamente lo linciava: il cadavere mostrerà quattordici pugnalate, un colpo di rivoltella e tracce di strangolamento». Altro che festa del papà. La festa «al» papà, al suo papà, aveva pensato di fargliela qualcun altro. Un altro moccioso come lui. Sconosciuto. Un nemico. Diverso. Perché il nemico lo è sempre. Per forza. Altrimenti, beh, metti che in guerra a un certo punto i soldati avessero l’impressione di stare sparando contro uomini troppo simili a loro stessi. Potrebbero, magari, rendersi conto di quanto sia assurda una guerra, di come in un conflitto si nasconda una puerilità che lo rende quasi un gioco, giocato per conto di qualcun altro, al prezzo della propria pelle. In guerra un soldato

Pino Loperfido

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volte aveva la sensazione che il mondo lo tenesse d’occhio. Perfino in quel momento, mentre tra le inferriate era lui a sbirciare al di là del muro, verso il paese, verso il cortile di quella casa verde. Quel moccioso aveva pressappoco la sua età, eppure si faceva ancora coccolare come un infante. Suo padre arrivava la sera, quasi sempre alla stessa ora, al calar del sole, sempre con la medesima divisa nera indosso. La scena era sempre la stessa. Un abbraccio sdolcinato, buffetti e carinerie da far rivoltare lo stomaco. Se questo è tutto ciò a cui serve un padre, allora meglio non averlo. Questo pensava Albino mentre, con gli occhi bassi, cercava i sassolini migliori. Dovevano essere della giusta misura. Né troppo grandi né troppo piccoli. Quanto più rotondi possibile. Non ne mancavano attorno alla chiesetta di Sant’Antonio. Quando la scorta era sufficiente, allora il ragazzo passava all’azione, colpendo la campanella posta sull’edificio sacro. Il tintinnio mandava un attimo in confusione quelli delle case vicine, che avevano la vita regolata su quel suono metallico. Il tempo è definito come l’osservazione della realtà in base alla differenza tra passato e futuro. In parole semplici non esiste. È la pista immaginaria costruita per far atterrare i velivoli delle nostre esistenze che altrimenti sarebbero destinati a schiantarsi sulle rocce dell’insensatezza. Albino certi ragionamenti ce li aveva ben presenti, ma non li sapeva dire. Già, proprio così: che bisogno c’era di dirli? Via col sassolino, allora. Presa la campanella. Eccotene un altro. Colpita un’altra volta. Come una furia giungeva allora la Maria, nervosa al limite della bestemmia. Pronta a menare le mani a fronte di un’azione tanto blasfema e terroristica. «O mi dai il soldino o tiro sassi alla campanella» la canzonava Albino, supportato da un paio di monelli con cui usava far comunella. La Maria conosceva abbastanza la vita da sapere come andavano governate certe forze eversive come l’adolescenza. Per questo agitò il bastone prima di

infrangerlo sulla testa di quei tre scavezzacollo. La minaccia previene, la punizione provoca. Buona la prima.

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o. Avere un padre non significa nulla. Avere un padre non sempre significa avere qualcuno che ti vuole bene e che è disposto a tutto per te. Per diventare padre basta un minuto, per diventare un buon padre non basta tutta la vita. Albino spiava il cortile di quella casa verde e intanto si costruiva ragionamenti arditi, ragnatele mentali dalle quali amava lasciarsi penzolare, in attesa che prendesse forma la solita scena di baci e abbracci. Cosa c’avranno da festeggiare tanto appassionatamente? Non può essere sempre la festa del papà. Ogni giorno, voglio dire. Sopramonte era, a quel tempo, un piccolo comune autonomo, composto da un pugno di case un po’ attorno alla chiesa parrocchiale, altre allineate lungo via Veggiara e via Praiolo. Un’altra manciata di edifici era arroccata in località Dossolo. Tempi di magra che si protraevano da un bel pezzo suggerivano nel frattempo di cambiare aria. Qualcuno se ne scendeva a Trento, altri allungavano di un pelo il viaggio e se ne andavano in America, a fare che cosa non si sa. «O mi dai il soldino o tiro sassi alla

campanella». Eccolo. Ci risiamo. «Ma tua madre non ti dice niente?», lo rimbrottavano i paesani, per tutta quella guasconeria. L’aria sicura di chi sta per aprire il mondo in due. Quell’orgoglio, la forza. E poi i lineamenti, quegli occhi, gli zigomi. Ma sai che quel bocia assomiglia proprio a… Va là, va là. Brutti scherzi fa il caldo.

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cecchini, voglio dire: massì, dai, quei sacramenta dalla mira infallibile. Il nomignolo lo avevano tirato fuori i soldati italiani per definire la soldataglia di Cecco Beppe. A dire la verità, non si sa se fossero gli austriaci ad essere molto precisi o gli italiani una manica di incapaci. Fatto sta che Albino se la sentiva ripetere spesso questa parola. I tiri contro la campanella erano sempre più perfetti. Affinata la tecnica, non restava che assegnare una valenza a quel gesto: l’ontologia del monello. Undici anni, santo cielo, eppure guarda che traiettorie, quale precisione e sicurezza. Che strano, quel giorno la Maria non si faceva vedere. Di solito scattava come una molla a difesa del decoro e della buona educazione. «Stai a vedere che è schiattata, finalmente. Lo fanno in tanti», pensò malignamente Albino, «perché non potrebbe capitare pure a lei?». Così bighellonando, fischiettando, trascinandosi dietro, nella testa,

Quell’uomo, Benito Amilcare Andrea, quello di cui parlava il giornale, non aveva nulla da temere Suo figlio era troppo lontano per poterlo impensierire

Nella foto a destra Ida Dalser con la sorella Adelina; a sinistra Benito Mussolini. Sopra, a destra, Giovanna Mezzogiorno (Ida) e Filippo Timi (il giovane Benito) nel film «Vincere»; in alto, Ida Dalser con il figlio Benito Albino. I disegni sono di Giordano Pacenza

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unedì 1 novembre 1926, nel piccolo borgo trentino di Sopramonte giunge la notizia dell’attentato a Benito Mussolini a Bologna, da parte di Anteo Zamboni (a sinistra, in una foto d’infanzia), quindicenne di famiglia anarchica. L’undicenne Albino, nipote del vecchio borgomastro Albino Dalser, apprende la novità agitato da sentimenti contrastanti.

ha bisogno di trovarsi davanti ad un nemico, un diverso, uno che parli un’altra lingua. Così quando deve ammazzare, imprigionare o umiliare non si fa venire strani scrupoli di coscienza.

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a Maria aveva le lacrime agli occhi, adesso. Andava dicendo che quell’uomo era tanto buono. Non avrebbe meritato certamente di morire in modo così poco eroico. Albino non sapeva cosa pensare. I suoi giorni li viveva sempre allo stesso modo: come se da un momento all’altro avesse dovuto svegliarsi, scoprendo che tutto il mondo immaginato fino a quel momento era appunto questo: un mondo immaginato soltanto. La vita, quella vera, stava da un’altra parte. In un altro paese, su una stella, nel corpo e nella testa di qualcun altro. E gli sguardi che ora lo scrutavano e lo bagnavano di commiserazione erano insopportabili. Si proteggevano così, i compaesani. Si facevano scudo col dispiacere contro i possibili interrogativi di Albino. Non che essi fossero responsabili della condizione del ragazzo, tuttavia vi era lo stesso una premura, un senso del dovere che li costringeva a provare pena per lui. Ma cosa poteva domandar loro, Albino. Facevano dunque così paura le domande di un ragazzino? Era quindi vero quanto andava dicendo quel famoso poeta, che è nel momento in cui i piccoli ci interrogano che capiamo di essere veramente soli? Quell’uomo, Benito Amilcare Andrea, quello di cui parlava il giornale, non aveva nulla da temere. Suo figlio era troppo lontano per poterlo impensierire, per dargli noia con tutte le questioni legate alla responsabilità, all’etica e alla pedagogia. Naturalmente a fronte di un’intera nazione che tirava un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo dell’attentato, ce n’era un’altra che lo faceva solo per adulazione, per tenersi buono il potere. Oppure per paura e per vigliaccheria. No. Avere un padre non significa nulla, specie se sei costretto a dividerlo con qualche altro milione di italiani e tu, tra l’altro, italiano lo sei solo per un pelo. In un angolo di mondo, in mezzo a una manciata di case anonime, nel posto più piccolo dell’universo. Figlio di uno che fa impazzire le

Ida Dalser e Mussolini, tutto cominciò in un salone di bellezza I

da Irene Dalser (1880 – Venezia, 11 dicembre 1937) fu, secondo la ricostruzione del giornalista trentino Marco Zeni e come descritto nelle memorie di Rachele Mussolini, una delle compagne di Benito Mussolini, e secondo più storici ne fu anche la moglie. Nata a Sopramonte, facente allora parte dell’Impero Austroungarico, e figlia del sindaco del paese, si diplomò a Parigi in medicina estetica per poi trasferirsi a Milano ed aprire un salone di bellezza sul modello francese. A Milano riprese una relazione con Mussolini, che conosceva già. Secondo alcuni storici Benito Mussolini e Ida Dalser avrebbero contratto un matrimonio religioso, anche se di questo evento non esistono

registrazioni nei documenti ufficiali. Dalla loro relazione nacque (l’11 novembre 1915) Benito Albino Mussolini, che è stato riconosciuto dal padre (vi è un documento notarile che prova questo riconoscimento) e ne avrebbe assunto il cognome. Benito Mussolini pare abbia accettato anche notevoli somme da lei, come pure dai coniugi Sarfatti, per finanziare la sua attività politica. Ida Dalser avrebbe dichiarato anche di aver partecipato ad incontri con agenti francesi che promettevano finanziamenti al giornale di Mussolini (Il Popolo d’Italia) in cambio del suo impegno a favore dell’entrata in guerra dell’Italia. Allo scoppio della guerra Benito Mussolini si arruolò. Contestualmente si unì con un’altra

donna, Rachele Guidi, con un regolare matrimonio civile avvenuto il 17 dicembre 1915 durante una degenza all’ospedale di Treviglio. Dopo la Marcia su Roma, Mussolini, ormai arrivato al potere, sembra abbia cercato di cancellare le tracce della sua relazione con Ida Dalser, che però non si sarebbe rassegnata al ruolo di examante e pretendeva di essere riconosciuta come prima moglie del duce. Ida Dalser subì un lungo periodo di stretto controllo da parte della polizia locale, e venne internata nel manicomio di Pergine Valsugana e poi di S. Clemente a Venezia, dove morì nel 1937. Il figlio Benito Albino venne internato nel manicomio di Milano Mombello dove morì il 26 agosto 1942.

folle e di una che fa impazzire solo se stessa. E suo figlio. Albino guardava quegli sguardi. La Maria, il parroco, l’oste, il carrettiere, la levatrice. Era lo scontro fra due diverse solitudini: la prima dettata dalla sopravvivenza, la seconda dalla scelta della diversità.

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l dispetto può diventare una religione, un lavoro non retribuito, un hobby particolarmente appassionante, soprattutto quando resta l’unica strada per certificare la propria esistenza in vita. Anche quella mattina Albino prese posto davanti alla chiesetta di Sant’Antonio, affilò le armi e aprì il fuoco. I rintocchi della campanella si rincorrevano tra i cortili di Sopramonte, quindi – come aria calda – risalivano su, verso le pendici del Monte Bondone e nessuno le sentiva più. Il fatto che la Maria non giungesse a rimbrottarlo regalava ad Albino un maggior vigore. Sapeva che non lo avrebbero linciato per quel gesto. Non avrebbe fatto la fine del suo coetaneo di cui avevano scritto sul giornale. Però venire ignorato gli procurava lo stesso un dolore, se non altro perché lasciava intravedere un giudizio. La conclusione del lungo ragionamento attraverso il quale la società arriva a catalogare un individuo, annoverandolo con forza in questo o in quest’altro girone, decidendo la stazione di discesa lungo il percorso dell’esistenza. Pur senza averne piena coscienza, Albino conosceva i nomi di quelle stazioni e sapeva che dopo la stazione «diversità» c’era il capolinea: la pazzia. Ma dove correvano esattamente quei binari? Forse al di là del muro, verso il paese, verso il cortile di quella casa verde. Quel moccioso aveva pressappoco la sua età, eppure si faceva ancora coccolare come un infante. Suo padre arrivava la sera, quasi sempre alla stessa ora, al calar del sole, sempre con la medesima divisa nera indosso. Il solito abbraccio sdolcinato, buffetti e carinerie da far rivoltare lo stomaco. Se questo è tutto ciò a cui serve un padre, allora meglio non averlo… Anche se, ad Albino adesso non sarebbe dispiaciuto averne uno anche per meno. Solo per una carezza o uno sguardo buono. Quel signore in divisa aveva la faccia di tutti i papà del mondo. Anche del suo. E poi non aveva quell’aria da matta della mamma. Sì. Adesso sì, lo poteva affermare con certezza. Urlarlo al mondo intero che avere un padre significava tutto a quell’età. Per questo, in un momento in cui il suo «rivale» era assente, si sentì autorizzato ad avvicinarglisi, a prenderne la mano. È strano, ma l’uomo non si sorprese più di tanto. Non più di quanto lo sorprese la sua stessa immagine riflessa nello specchio. Divisa, fez e la camicia nera. Albino lo vide sorridere, scuotere il capo e quindi sbuffare come una locomotiva. Faceva saltare gli occhi dallo specchio al viso del ragazzo, come fosse indeciso su quale fosse lo spettacolo più degno di nota. Alla fine optò per lo specchio. «Che pagliacciata!», commentò.


14 sabato 27 giugno 2009 l’Adige

IL RACCONTO

15 l’Adige

Pino Loperfido

sabato 27 giugno 2009

L’IRREDENTISTA E IL RAGAZZINO Cesare Battisti e Delfo, protagonisti del racconto di Pino Loperfido, visti dall’artista trentino Giordano Pacenza

Il deputato schierato con l’Italia

Quando Cesare Battisti passò con il «nemico»

stava arrivando.

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Aldeno 1916 Una moneta falsa torna sempre indietro I I vecchi erano sul posto da diverse ore fin da quando era giunta al loro debole udito la notizia che da lì sarebbe passato il Traditore

l paese senza uomini era come una stalla senza mucche. Faceva uno strano effetto girare per le stradine polverose e incontrare solo donne, bambini e persone anziane. Delfo e gli altri monelli quasi non lo ricordavano più cosa significasse la parola «papà». Rammentavano a malapena che molti mesi prima spesso se l’erano sentita uscire di bocca: a volte sussurrata, a volte urlata, tra i campi, altre volte masticata con rabbia e risentimento. Ora facevano fatica a trovare delle sembianze che corrispondessero al curioso termine bisillabico. I volti di quei genitori partiti per il fronte straniero erano oramai sfocati e indefiniti, le loro voci una flebile eco di cui restavano solo brandelli nella memoria. C’era un grande fermento nella piazza. Sulla strada che portava al capoluogo s’era radunata la folla. Le donne, con l’eterna aria indaffarata, ci tenevano a far credere di essere lì solo per caso. Un errore di percorso le aveva costrette a sostare sulla via. I vecchi, invece, erano sul posto da diverse ore. Fin da quando era giunta al loro debole udito la notizia che da lì sarebbe passato il Traditore. Quella che in principio era parsa come poco più di una chiacchiera, con il passare dei minuti aveva assunto consistenza, tramutandosi in ipotesi, prima, e quindi in certezza, quando qualcuno aveva origliato alla porta del comando militare, stanziato proprio in paese. Ora tutti volevano toccare con gli occhi ciò che stava accadendo. Avevano l’impellente necessità di presenziare di persona all’evento per poter finalmente prestar fede ad esso. Vi sono, infatti, situazioni a cui la nostra mente talvolta si rifiuta di credere. Se pure avessimo le prove e le garanzie necessarie per poterlo fare, senza un conforto visivo ci resterebbe nell’anima un briciolo di scetticismo che impedirebbe la piena adesione alla verità. Pare che il Traditore fosse stato preso sul Monte Corno e non avesse opposto la benché minima resistenza all’arresto. Si diceva che lo avrebbero portato subito a Trento per un primo interrogatorio, quindi sarebbe stato il Parlamento a decidere sulla sua sorte. I colleghi deputati avrebbero dovuto sentenziare sul destino di quello sciagurato.

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elfo continuava a saltellare ora su una gamba, ora sull’altra. L’eccitazione generale che aveva sfigurato il piccolo abitato lo aveva contagiato inesorabilmente. Non sapeva nulla degli ormoni che il suo cervello stava sintetizzando, né delle scariche di adrenalina che gli gonfiavano il flusso sanguigno. L’unica cosa che il ragazzo sapeva era che si sentiva bene. Per lui, lo stress dell’attesa era solamente una gioia, un parente lontano della felicità. La cattura di un nemico era sempre una festa. Gliel’aveva detto la sua mamma, quella mattina. Al che lui, con naturalezza, si era incaponito nella richiesta di spiegazioni in merito a quel termine: «nemico». Niente di più semplice per la mamma, controbattere. Per una donna che aveva prestato il suo uomo all’Impero, il nemico era chi quello stesso uomo non avrebbe esitato ad ucciderlo. Poco importava che parlasse la stessa lingua. Poco importava che fosse addirittura un deputato, votato dal popolo, che anziché preoccuparsi

di proteggere quel popolo stesso, di tutelarne i diritti, di puntellarne la dignità, non ci aveva pensato due volte prima di cambiare il colore della propria divisa. Quel tizio era un nemico del suo papà: questo contava per Delfo, e null’altro. Per questo attendeva sulla strada polverosa, assieme a tutto il paese. Un istinto animale portava quella gente a godere del male altrui. Li faceva stare meglio, cioè, constatare quanto gli altri stessero peggio, a volte molto peggio di loro. Erano pronti, adesso, a urlare, a lanciare cose. A domandare al reo le ragioni di quella vita bastarda, come se caricare le proprie domande e frustrazioni sulle deboli spalle di quel disgraziato li avrebbe improvvisamente assolti dai doveri dell’esistenza. Visto che Dio aveva deciso comunque di non farsi vedere, non restava che appigliarsi ai suoi segni, alle manifestazioni imperscrutabili della sua eterna volontà. Un brusio di maggiore intensità seguì all’avvistamento, da parte dei più attenti, di una piccola nube di polvere, qualche centinaio di metri più giù, verso sud. Il Traditore

Giordano Pacenza Giordano Pacenza si occupa di grafica e illustrazione editoriale; ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi in ambito nazionale e vive a Vigolo Vattaro

a valle era austera, lunga e stretta, eppure accogliente, premurosa, perché nella sua forma allungata pareva accompagnare i viaggiatori, consigliare la retta via verso Trento. Il fiume Adige, che scorreva sornione, aveva l’aria furbetta di chi la sa lunga; faceva come certuni padroni di casa che, pur senza fartelo pesare oltremodo, vogliono sottolineare ogni volta che in quel posto tu sei solo un ospite e come tale sei tenuto a comportarti. Lo portavano giù in silenzio. La montagna alle spalle diventava sempre più piccola e distante. Lo sguardo perso nel nulla. L’espressione tesa e concentrata. Più della sua sorte, di cosa gli sarebbe accaduto a questo punto, delle sorti infauste del suo disegno sovversivo, un pensiero gli ronzava nella testa. Lo attraversava il sospetto che la gratuità dell’amicizia non sia più praticabile nell’età adulta. Un vero amico lo si può riconoscere nel momento in cui non si è in grado di spiegare perché lo sia, così come è difficile spiegare perché si ama la donna o l’uomo della propria vita. Esiste, cioè un punto nella vita in cui l’amicizia si vincola ad uno scopo preciso: un’alleanza nel lavoro, una condivisione di certi ideali, la collaborazione riguardo a un progetto. È come se l’amicizia fosse un’occasione consolatoria per l’uomo che però ha una data di scadenza. Da quella data in poi, il destino è quello di essere soli. I primi insulti gli erano arrivati lungo il sentiero. Alcuni malgari, intenti a governare il pascolo delle vacche, gli avevano lanciato contro le frecce avvelenate dell’ingiuria. Tuttavia la sua sicurezza non era stata per il momento scalfita. La certezza di avere la verità dalla propria parte era stata più forte di qualsiasi maledizione. Si riteneva un uomo libero. Uno che ha fatto la sua scelta di campo e con decisione ha virato, invertendo la rotta della propria esistenza. Esiste negli esseri umani questa enorme capacità di autoassolversi anche di fronte all’evidenza dell’errore. Il Traditore lo sapeva. Sapeva bene, insomma, che il bene e il male non possono mai stare dalla stessa parte. Ciononostante aveva abbracciato la sua causa. Dolorosamente. Perché stringere a sé gli ideali dell’irredentismo, della separazione del Trentino dall’Impero, era stato come stringere al petto nudo un cespuglio di rovi. Rovereto, oramai lontana, era solo una macchia sospesa nel verde dei rigogliosi vigneti che arredavano la valle. I carri dei contadini affaccendati sfrecciavano a destra e a manca alzando tanta di quella polvere che c’erano momenti in cui quasi non si respirava più. Oddìo, «sfrecciavano» è solo un modo di dire. Perché la strada che dalla città del Leno si incuneava verso nord, oltre ad essere larga poco più di un budello, era tortuosa come un dannato serpente.

In queste foto, Cesare Battisti fra i gendarmi scortato al luogo dell’esecuzione, al Castello del Buonconsiglio: è il 12 luglio 1916. Sotto, il cadavere dell’irredentista

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unedì, 10 luglio 1916. Durante un’azione nella notte sul Monte Corno, nel Gruppo del Pasubio, il deputato Cesare Battisti, passato dalla parte del nemico italiano, viene catturato e tradotto a Trento. Durante il tragitto verso il capoluogo è coperto di insulti e di sputi dalla folla inferocita. Ad Aldeno, ad esempio, un gruppo di monelli lo fa oggetto di scherno e di derisione. Sopra e in alto a sinistra, due foto di quel 10 luglio: qui, Battisti fra i gendarmi scende dal Monte Corno; a sinistra l’irredentista, incatenato, in una pausa ad Aldeno.

Il Traditore non lo sapeva dove fosse il papà di quel ragazzino, poteva solo immaginarlo Ma non era una semplice informazione logistica quella che Delfo gli stava domandando, bensì le ragioni di tanto dolore e di tanta sofferenza

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ldeno era una pentola in ebollizione. Gli anziani fecero esplodere la loro rabbia al grido di «remengo», la maledizione più grave che si possa lanciare ad un proprio simile. Il Traditore era davanti a loro. Solo qualche anno prima era stato grazie al loro voto se era stato eletto al Parlamento di Vienna. Il

manichino impolverato ed incatenato che a passi lenti attraversava il paese aveva raccolto la fiducia di tutti, in cambio della promessa di portare i loro desideri e i loro sogni davanti alla volontà imperiale. Ed invece, guardalo adesso. Con la divisa del nemico addosso. Mentre gli altri deputati – Degasperi, Tonelli, Conci e compagnia – tiravano per la giacca Francesco Giuseppe, domandando garanzie per la gente trentina, battendo il pugno sullo scranno parlamentare per affermare le ragioni di un popolo, lui aveva ritenuto più giusto saltare il fossato. Diceva di farlo per liberare il Trentino dall’invasore, affinché i trentini potessero approdare alla loro legittima Patria. Eppure nessuno glielo aveva chiesto. Nessuno sentiva la necessità di una liberazione. Tutta la libertà che avrebbe voluto regalare, con la quale desiderava riempire le strade, i campi, le stanze di ogni casa, di ogni paese, i trentini ce l’avevano già. E le urla che gli venivano rivolte contro lo sottolineavano una, dieci, cento volte, con una veemenza che non poteva lasciarlo certo indifferente, fino a fargli venire un dubbio. No, non uno qualsiasi. Ma il più terribile e pesante che possa venire ad un uomo: quello di avere sbagliato tutto. Per questo guardava alla sua discesa verso Trento, a questa sorta di triste transumanza, con rassegnazione, con un’irragionevole quiete. Come il figliol prodigo torna a casa, con la coda tra le gambe, dopo averne combinate di tutti i colori,

Pino Loperfido, dal Cermis a Fellini

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ino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire - Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Tra i più importanti successi teatrali, «Il cuoco di Mozart» e «Viva Rota… Viva Fellini». È caporedattore del mensile «TrentinoMese» e collabora con le pagine culturali de «l’Adige». I suoi libri sono pubblicati da Curcu & Genovese. Entro la fine del 2009 è prevista l’uscita del nuovo atteso romanzo, «Le meccaniche dell’infelicità». Info: www.pinoloperfido.it.

così egli rincasava dopo la bravata di essersi giocato la vita. Tornava al punto di partenza come un monello che stavolta l’ha combinata grossa per davvero. Come una moneta falsa tra le mani del falsario. Come un’anima in cerca di perdono si presenta al cospetto di Dio.

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elfo se lo trovò davanti all’improvviso. I soldati di scorta dovevano firmare alcune carte e per qualche minuto lasciarono il prigioniero in balìa di se stesso e della folla inferocita. Ma fu solo il ragazzo, con un passo sconsiderato, a lanciarglisi contro. Si arrestò a pochi centimetri dal suo volto. Sentiva il lezzo del sudore. Il rancido fetore della paura. La barba ed i baffi sporchi, le mani incatenate, l’elmetto da italiano lasciato sul capo come una coreografica corona di spine. Delfo contemplò la meraviglia e lo scandalo del male. Avrebbe potuto colpirlo, lanciargli un sasso, un pugno di sabbia negli occhi o solo un malvagio improperio. Tuttavia trovò più utile porgli una domanda. Poco importava che ad essa nessuna risposta sarebbe seguita. Come una preghiera. Come i mille interrogativi che ogni giorno si consegnano al cielo. Non serve una risposta, perché essa è tutt’uno con la domanda. È già lì dentro. Il Traditore non lo sapeva dove fosse il papà di quel ragazzino, poteva solo immaginarlo. Ma non era una semplice informazione logistica quella che Delfo gli stava domandando, bensì le ragioni di tanto dolore e di tanta sofferenza. Il motivo a causa del quale si era ritrovato a vivere proprio negli anni più brutti della storia del mondo. Il Traditore, per un attimo solo, fu tentato di rispondergli. Di cimentarsi nella costruzione di una replica; inerpicarsi in uno di quei ragionamenti che fino a pochi mesi prima avevano contribuito a creargli l’effimera fama di intellettuale. Uno strattone dei soldati quasi gli staccò le mani dai polsi. La folla cominciava a disperdersi, a tornare alle occupazioni di ogni giorno, sazia di umiliazione. Il Traditore fece pochi passi e, prima di scomparire all’orizzonte, si voltò un’ultima volta verso Delfo, che imperterrito rimaneva con i piedi piantati sulla strada. I suoi occhi erano due lumini nel buio del giorno. Due lance nel costato del Traditore. La luce di quelle pupille gli fece male. Molto più male dell’umiliazione e dell’improvvisata forca che, di lì a poco, avrebbe posto fine alla sua tragica vita.


12 sabato 4 luglio 2009 l’Adige

IL RACCONTO

13 l’Adige

sabato 4 luglio 2009

1914-1918: IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE

I soldati trentini sul fronte russo divisi fra il Regno e l’Imperatore

La guerra è finita

Papà è tornato ma ormai D eravamo italiani

icono che tutto ciò che esiste nella vita sia limitato a quello che se ne può raccontare. Come a dire che tutto il resto è solo un accessorio, uno dei molti scarti di produzione dell’esistenza. Ma sì, dai, tutti giochi di parole che possono far girare la testa ad un bambino di nove anni, nonostante i bambini di giochi se ne intendano più di chiunque altro. Per poter raccontare una storia come questa sei costretto a sopravviverle. Descrivere lo strano sorriso che aveva la mamma, quel pomeriggio di marzo. L’aria birichina che quasi le stava cambiando i connotati. Non era da lei. No, proprio non era da lei concedersi espressioni facciali diverse dalla compunzione. La maschera dell’angoscia indossata il giorno in cui sapemmo che papà era morto non permetteva grandi variazioni sul tema. Era andata che un giorno, la guerra ancora in corso, si era presentato un soldato dell’imperialregio esercito e ci aveva consegnato una pergamena. Ci stava scritto che Lorenzoni Adamo, classe ‘85, era disperso sul fronte dei Monti Carpazi, presumibilmente deceduto sotto i colpi del nemico. Certe tegole sono capaci di stroncarti la carriera di uomo. Io e la mamma, tuttavia, lì per lì, avevamo retto l’urto. Intendiamoci: pianti a non finire, strepiti e stridore di denti, ma in qualche giorno era finita lì. Stop alle lacrime. Ce n’eravamo fatti una ragione, insomma. La cancellazione di papà dallo stato di famiglia era stata attenuata in parte dal grande quadro che appendemmo in soggiorno, con la pergamena, con la medaglia e la firma illeggibile dell’Imperatore. Con una strana acrobazia mentale, mi ero convinto che papà, in fondo, ci fosse ancora. Aveva solo mutato forma corporea. Era diventato più sottile e quadrato e noi l’avevamo appeso al muro. Quando si è bambini si è in grado di dare una giustificazione a tutto. Perfino all’assurdità della vita. Ciò che, al contrario, non riuscivo a spiegarmi quel pomeriggio era la faccia della mamma. Grande la mia meraviglia a vederla tanto serena. Dopo così tanto tempo. Stava seduta al tavolo, con le mani giunte, i palmi rivolti verso il basso, come a nascondere qualcosa. «Oggi si fa festa» disse con un filo di voce. Al contempo sollevò le mani, permettendomi di vedere la giustificazione di quanto aveva appena detto. Aguzzai la vista. E l’olfatto. Un pezzo di lucanica. Un pezzo piccolo. Molto piccolo. La caricatura di un salame che, vista attraverso il filtro della miseria, assurgeva a feticcio della più pura felicità. Aveva ragione, la mamma. La festa poteva dunque avere inizio. Fu masticando quelle fette sottili come particole, lasciando che il grasso animale si sciogliesse in bocca, nella tempesta salivare provocata da tanta sapidità, che per la prima volta pensai a qualcosa che si poteva definire

Pino Loperfido

come il mio futuro. Gli anni a venire, insomma. Non mi era ancora successo di pensare ad altri momenti della mia esistenza che non fossero l’istante che stavo vivendo. Gustando quel salame, giuravo a me stesso che avrei fatto di tutto affinché una tale delizia non fosse mai mancata alla mia tavola di adulto. In fondo, a parte l’essere diventati italiani, non vedevo grandi sciagure all’orizzonte. La guerra era finita, ripulite le strade, spento ogni clamore e i morti erano stati tutti sepolti. Papà compreso, forse. Potevo permettermi quel che i grandi definivano «ottimismo». Animato dalla piacevole sorpresa di essere tra i primi a poter immaginare una vita migliore di quella dei propri genitori.

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a prima cosa che pensai, sentendo che qualcuno stava battendo alla porta, fu che la lucanica era oramai in salvo nel mio pancino. Lì dentro, il tesoretto gastronomico era oramai al sicuro.

Fu quindi con grande tranquillità che andai ad aprire. Tolsi il ferro e abbassai la maniglia, attraversato però dal sottile brivido di curiosità che si può provare quando qualcuno domanda di poter entrare in casa tua. «Chiedi chi è!» sentii ordinare dalla mamma, ma ormai avevo già spalancato l’uscio sulla faccia da fesso dello Svizzero. Poteva avere una trentina d’anni, ma la sua pelle già tutta raggrinzita, i denti marci e l’andatura claudicante lo annoveravano di diritto nelle schiere poco angeliche della terza età. Dire che fosse lo scemo del villaggio sarebbe alquanto riduttivo, perché lo Svizzero era «lo scemo» per eccellenza. La sua fama di cantastorie, ubriacone e molestatore si era allargata ben presto anche ai paesi vicini, regalandogli una poco invidiabile notorietà. Cosa ci facesse ora, davanti a casa mia, era un mistero che andava svelato al più presto. Così non mi

Giordano Pacenza Giordano Pacenza (nella foto a sinistra) si occupa di grafica e illustrazione editoriale; ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi in ambito nazionale e vive a Vigolo Vattaro

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urono circa 55mila i soldati trentini che combatterono sotto le insegne dell’Impero austroungarico sul fronte russo della Galizia e dei Monti Carpazi (nella foto), durante la prima fase della Grande Guerra. Circa diecimila vi troveranno la morte. In seguito alla dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, dispersi nella vastità dell’Impero zarista, alcuni fecero una scelta irredentistica e, raccolti nel campo di Kirsanov, nell’ottobre 1916 furono – in tre scaglioni successivi – avviati verso l’Italia, dove giunsero attraverso il Baltico, l’Inghilterra, la Francia. Altri, bloccati in Siberia, deviarono verso la Manciuria, da Pechino, attraverso il Pacifico, e da San Francisco giunsero a Genova. Un’altra parte si arruolò nei cosiddetti Battaglioni Neri, entrando a far parte del Corpo di Spedizione Italiano in Medio Oriente, ritornando a casa quando la guerra era già da tempo finita, in un Trentino oramai di fatto italiano.

curai troppo della cortesia e delle buone maniere domandandogli cosa diavolo andasse cercando. «Avete qualcosa da mangiare?» domandò tutto d’un fiato, in tedesco. Io mi voltai verso la mamma. Ci scambiammo un sorriso carico di complicità pensando alla delizia che avevamo appena mandato giù. Gli risposi che no, non avevamo nemmeno una briciola di pane raffermo. Niente di niente. Insomma, non stavamo messi tanto meglio di lui. Ma lui non mollò la presa. Mi propose una sorta di scambio. Se gli avessi dato qualcosa da mettere sotto i denti, lui mi avrebbe confidato un segreto che poteva rendermi felice. Io e la mamma ridemmo di gusto. Ma quale felicità… Era o non era lo Svizzero in persona l’uomo che ci stava parlando? Che ne poteva sapere lui della felicità? Gli feci segno che no, un patto del genere non mi interessava nemmeno un po’. Le sue erano le promesse di un povero disgraziato sconvolto dalla fame. Eppure, senza volerlo, scorsi nei suoi occhi una luce benevola. Un lampo di sincerità che mi gonfiò il cuore di mille piccoli germogli di speranza, ognuno pronto a sbocciare da un momento all’altro. L’idiota è un rivoluzionario: le sue idee sono le sue azioni. A osservarlo si resta increduli.

Lo Svizzero aveva delle percezioni che andavano oltre noi. Era come se il suo comportamento facesse intuire, in quel momento, a me e a mia madre, l’esperienza di un mondo assoluto, senza limiti. La nostra tendenza a censurarlo, a toglierlo dal novero degli uomini, ci aveva impedito fino a quel momento di cogliere la compassione presente nei suoi gesti e nelle sue parole; la consapevolezza della grande armonia dell’esistenza. Per tutti questi motivi decisi di dargli credito. Sfidando gli improperi della mamma, spalancai la credenza e afferrai un pezzo di pane ormai raffermo. Lo Svizzero si accese come una lampada. Fece per strapparmi il pane, ma abilmente me lo misi dietro la schiena. Prima doveva dirmi tutto. Svelarmi ogni dettaglio di questa ricetta della felicità. «Ho visto l’Adamo» disse con noncuranza. Con la stessa rilassatezza con cui si può dire una delle tante banalità che ci escono di bocca durante una giornata. La mamma scattò in piedi. Ma il suo non era un moto di speranza, bensì di rabbia. Sentir parlare del marito in certi termini equivaleva ad essere insultata. Un’offesa pesante. Riaccendere una speranza oramai sopita aveva la stessa gravità dello spegnerla definitivamente. Lo Svizzero mentiva. Ne eravamo

Nella foto a sinistra, la vittoria vista dal celebre disegnatore Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere»; sotto, un Kaiserjäger di vedetta in montagna

I tre disegni di queste pagine portano la firma di Giordano Pacenza; in alto a sinistra,Trento liberata: è il 3 novembre 1918 e la gente affolla via Belenzani

Quello che m’impressionò fu il colore del volto Mi ricordò i fogli del mio quaderno Non doveva esserci più alcun flusso sanguigno sotto quella pelle Lorenzoni Adamo, classe ’85, doveva averli lasciati tutti lassù, sui Monti Carpazi, i suoi globuli rossi

convinti. C’era tanto di certificato di morte là davanti, appeso al muro, con la bella firma dell’Imperatore. Lorenzoni Adamo, classe ’88, era morto. Cosa c’era di più ineluttabile della morte? Così lo Svizzero si mise a spiegare. Come ogni giorno stava scendendo sulla strada che porta a Trento, quando si era affannato ad inseguire un coniglio che, chissà come, gli si era parato davanti. Sul viottolo che sale verso la montagna, lo Svizzero aveva scorto qualcuno dietro alcuni cespugli. Si era avvicinato e lì, non visto, aveva riconosciuto l’Adamo. Bianco in volto, vestito di stracci, brandelli di una divisa da Kaiserjäger. Lo aveva chiamato, ma quello non si era nemmeno voltato, continuando a vagare senza direzione, come un fantasma. Così, aveva pensato di mettere a frutto la notizia, barattandola con un tozzo di pane. È proprio vero che ad osservare un idiota si resta increduli.

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estammo così a guardarci, madre e figlio, incapaci di confessarci l’un l’altra la tempesta che ci stava sconvolgendo nell’anima. Anzi, sforzandoci di restare indifferenti alle parole dello Svizzero, trovando riparo dietro l’armatura di un cinismo che davvero poco aveva di umano. Ci ingegnammo a incanalare le nostre vite nell’usuale corso quotidiano. Tornammo, in pratica, ad aspirare a nulla di più che ad un’onesta normalità. Qualsiasi cosa che ci facesse munificamente dimenticare la nostra vera identità e i nostri sogni, e ci facesse solo lavorare per produrre e riprodurre e, quindi, per sfamarci. La mamma avrebbe ripreso i suoi lavori di ricamo e cucito per conto delle signore del paese, io avrei studiato un poco di geografia e di matematica. Poi ci saremmo infilati nel letto, molto presto come al solito, abbandonandoci al tenero abbraccio dei sogni. Il mattino dopo già non avremmo ricordato più nulla di quanto avvenuto. La

Sabato prossimo, Mussolini e De Gasperi

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n queste pagine il secondo racconto di Pino Loperfido; racconti che ci accompagneranno lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Non c’è peggior sordo di chi non ci sente: i grandi ideali politici di un padre rimangono inascoltati. La solitudine di chi guarda le stelle: chi si nasconde al secondo piano della malga? Le indagini di un piccolo detective. L’imperdonabile colpa di essere felici: la morte è sempre un argomento difficile da proporre al proprio fratello maggiore. Il prezzo salato di chi viene al mondo: le acrobazie mentali di un soldato negli istanti che precedono la fucilazione del condannato. Il destino aveva una voce di bimba: la fede

nel trascendente a volte fa brutti scherzi. E dove è finita quella bimba dai riccioli biondi? Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza magica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dal mistero, s’intitoleranno «La volta che le bombe suonarono Bach» e «Ogni giorno è la festa del papà».

vita è un fiume facile da navigare, basta avere una barca sicura e conoscere il segreto per affidarsi alla corrente. Allo stesso tempo, ripensando alle parole dello Svizzero, non era così facile rinunciare alla vaga promessa di una gioia, sebbene si trattasse di una promessa chiaramente falsa ed infondata. Passarono diversi minuti. La sera scendeva dolcemente sulla valle, regalando riflessi coreografici ad ogni cosa. I rintocchi del campanile echeggiavano, perdendosi nel silenzio della montagna. Un nuovo rumore alla porta mi sottrasse ai pensieri in cui ero immerso. Abbandonai il quaderno a quadretti per farmi nuovamente ciambellano di casa. La mamma, invece, non si era mossa di un millimetro. «Di nuovo quello scemo» aveva detto. Lo Svizzero era tornato sui suoi passi per raccontarci qualche nuova panzana e aveva pensato di scroccarci altre ammuffite leccornie. Attraverso la sottile barriera legnosa lo esortai ad andarsene. Ci aveva sconvolto abbastanza con le sue stupidaggini. Ma per tutta risposta giunsero altri colpi. Questa volta non un elegante e sincopato toc-toc, bensì uno sciancato sbattere, scalciare, strofinarsi pesantemente sulla porta. «Chiedi chi è!» sentii ordinare nuovamente dalla mamma. Questa volta seguii la sua raccomandazione e prima di aprire feci come mi aveva detto. Ma non giunse nessuna risposta. Allora aprii, pronto a mandare a quel paese la faccia da fesso dello Svizzero. Era la sua fisionomia che il mio cervello, attraverso il nervo ottico, stava prospettando al mio organo visivo. Era come se lo vedessi già. Ma la figura sulla soglia non corrispondeva a quanto previsto. Gli occhi erano più incavati, le guance erano due palloni sgonfi. Addosso portava una giacca strappata in più punti e pantaloni rappezzati più volte, alla bell’e meglio. Quello che più mi impressionò fu il colore del volto. Mi ricordò i fogli del mio quaderno. Non doveva esserci più alcun flusso sanguigno sotto quella pelle accartocciata. Lorenzoni Adamo, classe ’85, doveva averli lasciati tutti lassù, sui Monti Carpazi, i suoi globuli rossi. Conficcati nella terra fredda delle trincee, assieme alla maschera della morte che si era rifiutato di indossare. Nel nome di ognuno è nascosto un destino. Adamo – mio padre – era il primo uomo a mettere piede in un mondo che aveva cambiato bandiera. Adesso la nostra tragedia non era più quella di aver perso un padre ed un marito, ma quella più umiliante di aver perso la guerra. Papà non la smetteva di osservarci stranito, come se si aspettasse da noi chissà quale spiegazione. Forse riguardo al fatto di essere ancora vivo. O perché diavolo davamo l’impressione di non gradire nemmeno un po’ quell’insperato ritorno. Eravamo italiani. Questa era l’unica spiegazione che poteva esigere da noi. Presto o tardi avremmo dovuto dargliela.


12 sabato 11 luglio 2009 l’Adige

IL RACCONTO

13 l’Adige

sabato 11 luglio 2009

Merano, domenica 7 marzo 1909

Mussolini contro De Gasperi

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omenica 7 marzo 1909. Alla birreria Corona di Merano, gremita di operai socialisti, si scontrano in contraddittorio Benito Mussolini, della Camera del Lavoro di Trento (pagina a fianco, in alto), e Alcide De Gasperi, direttore del giornale «Il Trentino» (a destra).

Duello in birreria Non c’è peggior sordo di chi non ci sente

Dovreste sentirli i paroloni che si sparano addosso, i grandi ideali che si fanno e poi si disfanno all’ombra delle caraffe piene di schiuma I salari, gli orari di lavoro, i diritti dei contadini...

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l mio vecchio spesso fa le cose solo per dare un dispiacere a qualcun altro. Alla mamma ad esempio. Per questo quella volta mi aveva trascinato in birreria. Giusto per fare un dispetto a quell’altra. E magari farle venire un colpo. Non scherzo mica. L’aveva proprio detto uscendo di casa e sbattendo la porta: «Che le venga un colpo». L’avevo sentito con queste mie orecchie. Quant’è vero che ho tredici anni, quasi quattordici. E la birreria – dovete credermi sulla parola – non è un gran posto per un ragazzino. C’è un sacco di fumo, le bestemmie volano ad altezza d’orecchie e qualche volta può capitarti di incappare in qualche rissa di quelle giuste. Sebbene quella frequentata dal mio vecchio non sia esattamente «quel» genere di locale dove gli uomini vanno a far passare il tempo e a imbottirsi di birre medie. A differenza di certe bettole, qui ci viene solo chi è in grado di dare un senso a quello che dice. E vi dirò di più. Le discussioni sono all’ordine del giorno. Certo, anche a casa mia, ma non è a «quel» genere di discussioni che mi sto riferendo. Qui si parla di come va il mondo, si leggono i giornali, si invitano certi capoccioni e dire la loro: proprio come a teatro. Dovreste sentirli i paroloni che si sparano addosso, i grandi ideali che si fanno e poi si disfanno all’ombra delle caraffe piene di schiuma. I salari, gli orari di lavoro, i diritti dei contadini. Robe che se la mamma dovesse un giorno trovarsi a mettere la testa qui dentro direbbe una delle sue frasi preferite: «Questa è proprio una gabbia di matti».

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ur essendo il nostro tavolo abbastanza in disparte, lo vedevamo bene il tizio che stava parlando: un certo Mussolini. Testa rotonda, fronte molto alta, sguardo da duro, un forte accento italiano. Se devo dirla tutta, più che parlare sbraitava e lanciava improperi all’indirizzo del suo avversario che ancora non si era presentato. Già, avete capito bene. Ho detto proprio avversario. Perché, come mi ha spiegato il mio vecchio, è così che funzionano gli incontri qua dentro. Due uomini

Pino Loperfido espongono le loro tesi, ovviamente contrapposte, e combattono una battaglia a colpi di parole. Se ad esempio, il primo sostiene che la terra è tonda, l’altro deve dimostrare che una simile tesi è sbagliata, provando a tutti i presenti come al contrario il nostro pianeta sia solo una specie di lenzuolo steso nello spazio. Si chiama «contraddittorio». Mentre Mussolini continuava a mandargliele a dire a preti, monaci e compagnia bella, mio padre assentiva con un impercettibile movimento del capo. Ad ogni battuta dell’oratore, si voltava verso di me e buttava lì un «giusto», «è vero», «parole sante» e via di questa solfa. Non per dire, ma a me di quanto guadagnava un mezzadro o a quanto ammontasse l’utile del proprietario di una fabbrica non poteva fregarmene di meno. Così

accolsi con sollievo l’arrivo al nostro tavolo di un giovane, che mi si sedette accanto senza dire nemmeno una parola. Un cafone fatto e finito. Maleducato proprio, considerato che non si degnò nemmeno di rispondere al saluto del mio vecchio, che comunque, da parte sua, non parve dare molta importanza a certi convenevoli. Anzi, dimostrò di apprezzare molto la presenza del nuovo arrivato, al punto da eleggerlo sul campo interlocutore ufficiale al posto del sottoscritto. Beh, volete sapere cosa dissi tra me? Contenti loro…

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ridava talmente, ’sto Mussolini, che a un certo punto m’era pure venuto il dubbio che fosse una specie di cantante o qualcosa del genere. E l’incontro a cui ero stato portato con la forza

altro non fosse che un concerto. Così, tanto per farmi un’idea precisa, cercai di andare dietro a quello che diceva, ma ci capii poco. Spesso mi succede questa cosa con gli adulti: quella di non riuscire a capire un’acca di quello che dicono. Il mio vecchio, invece, assorbiva le parole di Mussolini come una spugna. Poi, a intervalli regolari si voltava verso il nostro silenzioso compagno di tavolo, e faceva una specie di riassunto di ciò che aveva appena sentito. A sottolineare i passaggi più apprezzati, provava a metterci un po’ di farina del proprio sacco linguistico; beh, il risultato non era proprio dei migliori. Poi magari, si accorgeva di dire assurdità e subito si affrettava a metterci una pezza. Ma come dice sempre la mamma: «La pezza è peggio del buco».

Pino Loperfido Giordano Pacenza e le «meccaniche» grafico in carriera

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ino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Entro la fine di quest’anno uscirà il nuovo atteso romanzo intitolato «Le meccaniche dell’infelicità»

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iordano Pacenza, 37 anni, ha studiato a Trento e Firenze e si occupa di grafica e illustrazione editoriale; ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi in ambito nazionale e vive a Vigolo Vattaro

Quell’altro, con lo sguardo spento, il cappello calato sugli occhi, annuiva senza espressione. Il minimo indispensabile per darci la certezza di essere ancora vivo. Non era chiaro quanto apprezzasse i riassuntini del mio vecchio. Per lo meno non parevano disturbarlo. Era già qualcosa. «Mussolini ha ragione. Noi lavoratori siamo sfruttati come bestie. I padroni si ingrassano sulla nostra pelle. Era ora che qualcuno le dicesse queste cose. A noi socialisti tocca rimboccarci le maniche e darci da fare per il nostro avvenire. Troppo comodo per i cattolici demandare tutto al Creatore. Stanno sempre a lamentarsi e ad aspettare che la manna giunga loro direttamente dal cielo». Concluso il comiziuolo, padre e figlio ci voltammo verso lo

A sinistra, Mussolini nel 1909 salutato dai compagni socialisti al momento di lasciare il Trentino; sopra, De Gasperi con Sturzo e Cavazzoni

sconosciuto, ansiosi di scoprire se ci avrebbe finalmente fatto sentire il suono della sua voce. Sperai che temi tanto scottanti gli sciogliessero la lingua; non tanto perché me ne fregasse qualcosa, quanto perché il tizio cominciava ad inquietarmi. Quegli occhi sgranati, la smorfia appena percettibile che gli teneva sollevata la parte sinistra della bocca… Voglio dire: non è normale comportarsi così. Ma ahimè, nemmeno la giustizia sociale lo invogliò a rivolgerci la parola.

«A

nche le donne. Che la finiscano di rompere una buona volta. Ci sarà un motivo se il padreterno ha fatto noi maschi più intelligenti e forti. Sì, beh, padreterno per modo di dire,

perché non ci credo mica io, sa? Non me la fanno i preti con tutte le storielle che raccontano in chiesa. E insomma, anche mia moglie, dovrebbe finirla una volta per tutte di avanzare certe pretese. Non so se lei è sposato, ma io posso dire con certezza che in casa è il marito che deve prendere le redini. Deve farsi rispettare. Soprattutto se ha a cuore i destini dell’umanità e dei lavoratori. Come Mussolini, insomma. Non so se mi sono spiegato». Il tizio sorseggiava la sua birra e taceva. Abbassava impercettibilmente il capo in quello che assomigliava molto vagamente a un cenno d’assenso. Ma non diede al mio vecchio alcuna soddisfazione. Dal canto suo, papà cominciava ad averne abbastanza di una tale intransigenza. Iniziò a sospettare cose strane a riguardo del suo interlocutore: che fosse un cattolico infiltrato, un poliziotto sotto mentite spoglie, una spia ecclesiastica. Ma soprattutto soffriva della mancanza di un riscontro, di un contraddittorio, di qualcuno che commentando le sue parole certificasse la sua dignità. Strani pensieri allora mi balenarono in testa. Pensai al diverso peso che possono avere le parole a seconda che siano condivise o meno. E poi mi spinsi più in là, a riflettere sul senso che può avere la vita delle persone quando non c’è nessun altro a riscontrarla, a fare da sponda, a rispondere a domande e necessità. Quanto inutile poteva essere un essere umano in assenza di un proprio simile. Un po’ come uno specchio che nel momento in cui non trova più nessuno da riflettere diviene l’oggetto più inutile di questa terra. «Quanto è difficile» riprese il mio vecchio «e lei sarà d’accordo con me, affrontare i problemi di tutti i giorni senza la comoda consolazione della fede. La nostra scelta di vivere senza credere in nulla merita rispetto, perché coraggiosa, anzitutto. Preti e devoti dovrebbero levarsi il cappello davanti ad un ateo, complimentarsi con lui. Non crede?». Puntammo nuovamente gli occhi addosso allo sconosciuto, che si stropicciò un poco gli occhi e poi ci guardò con sorpresa, come se solo in quel momento si accorgesse della nostra presenza. Abbozzò un mezzo sorriso. Il mio vecchio mi diede di gomito e mi investì con uno sguardo interrogativo. Una luce nei suoi occhi mi svelava tutta la

Sabato prossimo, Malga Zonta 1944

I

n queste pagine il terzo racconto di Pino Loperfido; racconti che ci accompagneranno lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. La solitudine di chi guarda le stelle: chi si nasconde al secondo piano della malga? Le indagini di un piccolo detective. L’imperdonabile colpa di essere felici: la morte è sempre un argomento difficile da proporre al proprio fratello maggiore. Il prezzo salato di chi viene al mondo: le acrobazie mentali di un soldato negli istanti che precedono la fucilazione del condannato. Il destino aveva una voce di bimba: la fede nel trascendente a volte fa brutti

scherzi. E dove è finita quella bimba dai riccioli biondi? Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza magica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dal mistero, s’intitoleranno «La volta che le bombe suonarono Bach» e «Ogni giorno è la festa del papà».

frustrazione dell’inascoltato. Per una volta che tirava fuori buoni argomenti e riusciva ad esporli anche in una forma discretamente corretta… Insomma, la delusione cominciò a pervaderlo come una pioggia che bagnava solo lui, là dentro. Attorno a noi, infatti, l’entusiasmo era generale. Mussolini aveva umiliato il rappresentante dei cattolici, un certo De Gasperi, sommergendolo di improperi, costringendolo a filare via con la scusa che rischiava di perdere il treno. Nella birreria in cui si stava celebrando il trionfo del socialismo si consumava il piccolo dramma del mio vecchio, troppo timido per platee con più di due spettatori, sfrontato e comiziale in faccia a faccia sufficientemente defilati. Insomma, primattore nel deserto e comparsa nel via vai.

L’

insipienza del nostro dirimpettaio era divenuta oramai intollerabile. Quello che il mio vecchio si preparava a sferrare adesso aveva tutta l’aria di essere l’ultimo assalto. Il tentativo estremo di scardinare il silenzio di quell’incosciente che non si rendeva minimamente conto di avere tra le mani la dignità di un padre di famiglia. Era tempo di assaltare la trincea. «L’operaio diviene tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che egli produce. È questa la fregatura. L’operaio così si sente un uomo solo nelle sue funzioni animali – mangiare, bere, procreare – mentre si sente un animale nel lavoro, cioè in quella che dovrebbe essere un’attività tipicamente umana. La proprietà privata non fa altro che…». «Ecco dove ti eri cacciato dunque. Sono due ore che ti cerco!», un anziano signore interruppe bruscamente la sparata finale del mio vecchio, prendendo lo sconosciuto per le spalle e costringendolo ad alzarsi. «Te l’ho detto mille volte di non allontanarti senza avvertire…». Il nuovo arrivato ci osservò un po’ stranito. È comprensibile. La curiosità doveva averci deformato i lineamenti. Dovevamo apparirgli come due esseri affamati di spiegazioni. È per questo motivo che non ci fece attendere nemmeno un secondo. «Chiedo scusa se vi ha importunati» disse il vecchio. Poi, senza farsi vedere dal figlio picchiettò l’indice della mano destra sull’orecchio. Un gesto inequivocabile che ridusse l’orgoglio del mio vecchio a un mucchio di macerie. Il sordomuto e suo padre uscirono dalla birreria un attimo prima che Mussolini concludesse il suo concerto. La birreria si scrollò di dosso ogni responsabilità sociale e riprese le consuete attività ludiche e di intrattenimento. Papà era distrutto. Pareva l’unico reduce di una guerra invisibile, avvolto in un silenzio spaventoso. Pensai di dover fare qualcosa per tirarlo su, per fargli capire che in fondo ciò che gli era accaduto era solo frutto del caso, non aveva significati simbolici. Mi animai di buona volontà e, con uno sforzo, cercai di acchiappare la scia delle parole dette a quel tavolo. «Papà…». «Che diavolo vuoi?». «Cos’è che fa la proprietà privata?». Il mio vecchio mi guardò afflitto. Pochi secondi che durarono un’eternità. «Cammina, va là, che la mamma ci aspetta». sospirò, alla fine, regalandomi un insperato sorriso.


12 sabato 18 luglio 2009 l’Adige

IL RACCONTO

13 l’Adige

sabato 18 luglio 2009

Sabato 12 agosto 1944, alle 5 del mattino

Si scatena la furia tedesca

Malga Zonta 1944 La solitudine di chi guarda le stelle

S

abato, 12 agosto 1944. Nella notte i tedeschi circondano le malghe dopo il Passo Coe, tra il Veneto e il Trentino, nel territorio di Folgaria. Verso le cinque del mattino comincia il rastrellamento con il raduno e l’identificazione delle persone presenti in detto territorio. Poco dopo i soldati fanno irruzione nella Malga Zonta. Dopo una breve sparatoria, durante la quale trovano la morte alcuni tedeschi, i partigiani, occupanti il primo piano dell’abitazione, escono e vengono allineati sotto la tettoia della porcilaia (foto sopra e a sinistra, in alto). Verranno fucilati poche ore dopo.

Mi misi davanti alle assi della porta e rimasi in attesa L’avevo capito che lì si nascondeva qualcuno Solo non riuscivo a capire le ragioni di tanta reticenza da parte dei malgari

Pino Loperfido

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e stelle erano ancora tutte lì. Come ogni notte, alzai gli occhi al cielo e compii rapidi calcoli, aiutandomi con le braccia, come se davvero potessi avere la certezza che gli astri luccicanti fossero gli stessi della notte prima. «Sempre col naso per aria, tu», mi rimbrottò il nonno. È vero, c’era qualcosa nella volta luminescente che mi attirava. Non era solo lo spettacolo coreografico ad affascinarmi, o il desiderio di scoprirci il volto della mia mamma, ma la convinzione che le stelle avessero qualcosa di importante da comunicarmi. Qualcosa che aveva a che fare con il mio futuro. E quando si hanno nove anni, si sa, di futuro ce n’è in abbondanza là davanti. L’odore di sterco e di paglia mi accolse con l’usuale decisione. Dalle stelle alle stalle il passo era breve nelle giornate di un apprendista malgaro. Anche se era curioso chiamarle giornate, quando cominciavano alle quattro del mattino. Presi il mio sgabello a una gamba e mi posizionai davanti alla prima vacca. Prima di tutto si cominciava con il pulire la mammella. Il nonno diceva che bisogna farlo bene e poi asciugare anche meglio, con dei panni molto puliti. Una volta avevo saltato il passaggio e lui si era arrabbiato come una bestia. Era diventato talmente rosso che temetti potesse scoppiare da un momento all’altro. La mungitura non era un gioco. Era un lavoro serio, da uomini veri. L’operazione andava fatta in breve tempo, sei sette minuti. Otto al massimo. Durante il tempo della mungitura nel locale non dovevano verificarsi rumori, o cambiamenti repentini di temperatura, l’animale doveva essere tranquillo, non subire maltrattamenti, altrimenti chiudeva i rubinetti e addio latte. Nessuno parlava. Solo il rumore dei secchi e del latte che vi veniva versato riecheggiava tra le pareti della stalla. Come sempre faceva un gran caldo là dentro. Il miracolo che avevo tra le mani non riusciva quasi mai a contrastare la sonnolenza che tendeva a riportarmi verso il mondo dei sogni. Ogni tanto la testa mi cadeva in avanti. Sbattevo contro il corpo dell’animale e venivo destato

immediatamente dai suoi rimbrotti.

S

vuotai il mio bottino liquido nel secchio e mi accinsi a mungere un’altra vacca, quando il nonno mi mandò a prendere una certa caldera rimasta di fuori. Il passaggio dalla calura della stalla al freddo notturno mi sferzò. Lanciai un’occhiata alla valle là sotto, al paese e ai prati tutt’attorno. Tutto taceva. La gran pace gonfiava il cuore di una sensazione simile alla speranza. Era difficile credere che a poca distanza da lì, c’era gente che ancora si sparava addosso e giocava alla guerra. L’abbraccio della natura aveva davvero la possenza e la totalità dell’abbraccio materno, lo stesso potere di farti dimenticare tutto il resto, di ridurre la paura al rango di sciocchezza. Afferrai la caldera, ma la riposi un attimo dopo. In cucina doveva essere avanzata un po’ di polenta dalla sera prima. Non mi sarebbe dispiaciuto mandarne giù un boccone. Così, tenendo d’occhio l’ingresso della stalla dalla finestra, lasciandomi guidare dal languore della fame, mi sedetti e tirai il fiato, addentando l’informe agglomerato giallo. «Un minuto» giurai a me stesso. Il nonno non si sarebbe accorto di nulla. A me il sapore della polenta rafferma ricordava sempre la mamma. Se ad ogni ricordo ci leghi un odore o un sapore è più difficile che possa improvvisamente svanire. Il nonno, ad esempio, che si scorda un sacco di cose, non la voleva mica capire questa cosa qui. Ogni volta che provavo a spiegargliela lui mi urlava che chi nasce malgaro non muore filosofo.

U

na ciotola che cade sul pavimento, uno scarpone, un colpo di tosse. Due o tre furono le ipotesi che lì per lì formulai per dare una spiegazione al rumore sordo che quasi mi aveva fatto andare di traverso l’ultimo boccone. Mi rizzai in piedi e salii le scale. Erano oramai alcuni giorni che mi sembrava di avvertire delle strane presenze lassù. Il nonno e gli altri malgari parevano non sentire nulla. Mi avevano dato più volte del visionario, prospettando punizioni indicibili se solo avessi continuato

a menarla con quella storia. Ma la mia curiosità era più forte di ogni possibile sua conseguenza. Mi misi davanti alle assi della porta e rimasi in attesa. Ho nove anni, è vero, ma non sono certo un cretino. L’avevo capito che lì si nascondeva qualcuno. Solo non riuscivo a capire le ragioni di tanta reticenza da parte dei malgari. Le ragioni dei grandi poggiano su codici che noi bambini possiamo solo intuire. L’urlo sguaiato del nonno perforò il cristallo del silenzio. Mi precipitai giù per le scale, afferrando al volo la caldera, e mi presentai davanti a lui. Una delle fortune di avere un nonno come padre era che i suoi riflessi sono estremamente lenti. Così quando provava a darmi un calcio ci metteva talmente tanto che io avevo tutto il tempo di scansarmi e magari fargli anche uno sberleffo. Mi accusò di aver mangiato, ma io negai. È la regola principe di noi bambini: negare, negare, negare. Lui infilò una serie di improperi che si sciolsero in un mezzo sorriso finale. Avevo vinto. Mi passai una mano sulla bocca e mi accorsi di avere un pezzetto di polenta sulla guancia. Ripresi il mio sgabello e riattaccai a massaggiare mammelle e a spillare latte, con il pensiero fisso a quel piano di sopra e ai suoi misteriosi abitatori.

Q

costellazioni e le galassie lontane, avvertivo uno strano peso sullo stomaco, un grumo di angoscia che mi teneva all’erta. Non fu difficile dedurre a cosa fosse dovuto tutto ciò. Il secondo piano della malga. Non riuscivo a togliermi dalla testa che là sopra ci fosse qualcuno. Uomini o forse donne di cui il nonno e gli altri malgari fingevano di ignorare la presenza, non facendo caso alla miriade di piccoli segnali che provenivano da lassù. Il rumore del latte che finiva nel secchio mi ricordò il suono di una stoffa che si lacera. La stalla era il teatro dell’usuale convegno mattutino e io uno degli attori che, imperterrito, continua a restare sul palco nonostante si sia reso conto, già da un po’, che gli spettatori altro non sono che una mandria di catatonici bovini. Che senso aveva tutto ciò? Tra noi e le stelle c’era una distanza enorme, eppure io le potevo sentire vicine, quasi

uando al mattino mi svegliavano per la mungitura, facevo sempre molta fatica a lasciare il mondo dei sogni. Era una specie di trauma. Come se qualcuno, ogni volta, mi riempisse di botte senza nemmeno toccarmi. «Sempre col naso per aria, tu», mi rimbrottò il nonno. Lo spettacolo della volta celeste ripagava ampiamente dello sforzo della levataccia. Tuttavia quel mattino percepii un insano malessere. C’è, infatti, in ogni forma del piacere un retrogusto sgradevole, una prerogativa del male che mina in maniera invisibile quel benessere. Una briciola di disagio che ti impedisce di godere pienamente di ciò che hai davanti agli occhi, sotto ai denti o tra le mani. Quella notte, perdendomi tra le

I disegni in queste pagine sono di Giordano Pacenza; nelle foto, a destra il partigiano Bruno Viola, trucidato a Malga Zonta; sopra, Germano Baron, comandante della brigata «Pasubiana» operativa nella zona

toccarle con mano. Peccato che nessuno in quella stalla volesse dividere con me questi pensieri. Troppo intenti nel lavoro, si perdevano in parole colme di banalità o in un silenzio innaturale. Troppo innaturale per un essere che ha facoltà di parola e di raziocinio. Salendo le scale, provai un misto di curiosità e di paura. In quello stanzone poteva esserci qualcuno che come me aveva voglia di parlare delle stelle, qualcuno disposto a spendere un po’ del suo tempo con un bambino di nove anni. Un’anima buona disposta a fondere la propria solitudine con un’altra, generando una compagnia. Abbassai la maniglia tutto tremante e infilai la testa tra l’uscio e la porta. Il rumore di mille respiri mi colse quasi di sorpresa. Il riflesso della luna mi restituiva i profili di alcuni volti trasfigurati dal sonno,

Sabato prossimo, Innsbruck 1904

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n queste pagine il quarto racconto di Pino Loperfido; racconti che ci accompagneranno lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. L’imperdonabile colpa di essere felici: la morte è sempre un argomento difficile da proporre al proprio fratello maggiore. Il prezzo salato di chi viene al mondo: le acrobazie mentali di un soldato negli istanti che precedono la fucilazione del condannato. Il destino aveva una voce di bimba: la fede nel trascendente a volte fa brutti scherzi. E dove è finita quella bimba dai riccioli biondi?

Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza magica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dal mistero, s’intitoleranno «La volta che le bombe suonarono Bach» e «Ogni giorno è la festa del papà».

la linea dei corpi distesi sugli scomodi giacigli. Feci un passo dentro lo stanzone. Inavvertitamente toccai qualcosa con un piede. Era un oggetto metallico, dalla forma allungata, che il buio mi impediva di riconoscere. Mi chinai per tastarlo. Le dita percorsero un sottile cilindro, quindi una specie di rullo, quindi una levetta. Mi rizzai in piedi in preda al terrore. Non avevo mai toccato un fucile prima di allora. Sapevo che si trattava di un’arma micidiale, capace di fare molto male, di uccidere addirittura. La voce mi colse sul punto di ritornare sui miei passi. Era roca e bassa. Il suono di una tromba arrugginita. «Non aver paura» mi disse l’uomo. Individuai l’angolo da dove provenivano le parole. Era avvolto nell’oscurità più totale. Il lampo di un fiammifero mi mostrò all’improvviso le sue fattezze. Aveva la barba da fare. Gli occhi incavati. Una lunga cicatrice su una guancia. Si accese la sigaretta, poi la fiamma si spense e di lui rimase visibile solo la brace: un puntino rosso nel nero della notte. «Avvicinati» mi disse ancora l’uomo. Avevo paura. Ma aver scoperto il segreto della malga mi dava forza, mi faceva sentire grande. Ero riuscito a risolvere il mistero e l’avevo fatto da solo. Una volta abituati all’oscurità, gli occhi iniziarono a fornirmi maggiori dettagli del mio interlocutore. Mi parve più vecchio di quanto avevo immaginato. Mi guardava con un’aria compassionevole, scuotendo a tratti il capo e sorridendo, come se non si capacitasse di ritrovarsi un bambino tra i piedi, in quel posto, a quell’ora della notte. Il suo alito sapeva di grappa e di sigarette. «Che ci fai qui?» mi domandò. Fui tentato di girargli la domanda. Che diavolo ci faceva lui, piuttosto, nella malga del nonno, con tutta quella gente e i fucili. In ogni caso mi limitai a dargli una risposta diligente, come credo si aspettasse da me. «Mungo le vacche» sussurrai con la voce che mi andava e veniva. Il sorriso dell’uomo si allargò di molto. Le rughe sul suo volto si moltiplicarono. Cominciò a frugare in uno zaino con una mano sola. L’altra la teneva sotto alla coperta. Poi decise di aiutarsi anche con quella, allora si liberò di quanto, fino a quel momento, doveva aver tenuto in pugno: una rivoltella. Me la appoggiò proprio sotto al naso, sul letto di paglia. La guardai come si può guardare un insetto velenoso. Alla fine, l’uomo tirò fuori qualcosa. Era un pezzo di carta. Una fotografia un po’ sbiadita. Allungò il braccio per mostrarmela, invitandomi anzi a prenderla tra le mani per osservarla meglio. Una donna con un grande grembiule bianco teneva per mano un bambino che poteva avere la mia età. La voce del nonno riecheggiò nel cortile. Urlò talmente il mio nome che si produsse anche una leggera eco, giù lungo il sentiero che porta a valle. Feci per correre di sotto, ma l’uomo mi afferrò per un braccio. «Si chiama come te» mi disse

riferendosi al bambino della fotografia. «Gli piacciono le stelle?» domandai. L’uomo sorrise, questa volta lo fece rumorosamente. Si mise una mano sulla bocca, per non svegliare gli altri. Io però aspettavo una risposta. Va bene che lo facevo ridere, ma quello era ciò che mi interessava sapere. Tuttavia non avevo più tempo. Dovevo tornare di sotto e pensare ad una scusa convincente da fornire al nonno.

L’

odore di sterco e di paglia si mischiarono alle battute ed ai rimbrotti dei malgari. Li ascoltai senza battere ciglio. Il segreto che avevo appena scoperto mi dava una grande dignità, mi faceva sentire grande. Sapevo chi c’era lassù, dei fucili e tutto il resto. Non ero più l’ultima ruota del carro. Massaggiai la mammella e cominciai a mungere con foga. Col pensiero ripercorsi ogni istante della mia piccola avventura, vagliando ogni movimento, alla ricerca di particolari magari perduti lungo la strada dei pensieri. L’uomo non aveva risposto alla mia domanda. Il bambino della foto si chiamava come me, ma non ero riuscito a scoprire se anche a lui piacevano le stelle. Ripensando al breve dialogo di poco prima, provai una sorta di nostalgia. La disponibilità di quello e la sua attenzione nei miei confronti mi avevano riportato alla mente certi tratti del carattere della mamma. Era come se in quella soffitta lercia io avessi appena parlato con lei e non con uno sconosciuto bandito con la pistola in mano. Con la scusa di svuotare il secchio, mi avventurai nuovamente fuori dalla stalla. Non ci avrei messo che un secondo. In fondo quell’uomo doveva solo dirmi un sì oppure un no. Poi sarei tornato al mio sgabello. Ma quando fui al centro del cortile, qualcosa mi inchiodò al terreno, impedendomi di proseguire in un senso o nell’altro. I rumori provenivano dal sentiero. La fioca luce dell’alba mi presentò una scena inaspettata. I soldati tedeschi procedevano spediti nella mia direzione, sbraitando parole incomprensibili, oscure bestemmie fatte di vocali e consonanti strane. In un secondo mi furono accanto. Uno di loro mi spintonò, facendomi perdere l’equilibrio. Il secchio mi si rovesciò. Guardai desolato il piccolo lago bianco che si perdeva lentamente nel terreno. Il nonno e gli altri uscirono dalla stalla: sulle facce le mille domande di chi non sa spiegarsi più nulla. Lo scambio di battute fu violento. I tedeschi agitavano i mitra nemmeno fossero ventagli contro la calura. La disfida ebbe termine, quando il nonno, con un’espressione terribile alzò il braccio verso il secondo piano della malga, puntando il dito sullo stanzone dove ero stato poco prima. I soldati corsero su per le scale, urlando come animali. Come ruggiti di una bestia feroce, riecheggiarono i primi spari. Alzai lo sguardo verso il cielo. La luce aveva dipinto ogni cosa del suo chiarore. Le stelle non c’erano già più.


10 sabato 1 agosto 2009 l’Adige

IL RACCONTO

11 l’Adige

sabato 1 agosto 2009

Martedì 20 febbraio 1810: la fucilazione a Mantova

L’esecuzione di Andreas Hofer

Il prezzo salato di chi viene al mondo

M

artedì, 20 febbraio 1810. Il ribelle Andreas Hofer viene portato davanti al plotone d’esecuzione verso il bastione Ceresa della caserma della cittadella a Mantova. Le sue ultime parole si ritiene siano state: «Franz, Franz, questo lo devo a te!», con ciò riferendosi a Francesco I, dal 1804 imperatore austriaco, che era passato dalla parte di Napoleone. Verrà anche riferito tuttavia che Hofer abbia esclamato, dopo che la prima salva sparata dal plotone d’esecuzione aveva mancato il bersaglio: «Ah, come sparate male!».

La nostalgia era un dolore concreto, legato al colore dei muri, alla forma del tetto, a Michelle, ma soprattutto alla piccola Andrea Non era dunque quell’anelito indefinito che alcuni poeti avevano avuto la ventura di cantare

qualcuno, da qualche parte, volente o nolente, dovrà pagare. Dunque ci era arrivato alla fine. L’avere afferrato la verità tutto da solo, in così poco tempo, non lo meravigliò nemmeno un poco.

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Pino Loperfido

C’

erano diversi odori che gli riportavano alla mente la sua casa. Il profumo della terra bagnata quando pioveva in estate, ad esempio. Gli effluvi dell’erba appena tagliata. Oppure la fragranza della legna che scoppiettava nel camino. Ma su tutto, l’essenza sublime della pelle di quell’amore di bambina: un misto di fragola, resina e fiori. Da quando era venuta al mondo, Xavier non aveva avuto molte occasioni per stare con lei. Anzi. Cinque mesi dopo la sua nascita, era dovuto partire. La nostalgia era un dolore concreto, legato al colore dei muri, alla forma del tetto, a Michelle, ma soprattutto alla piccola Andrea. Non era dunque quell’anelito indefinito che alcuni poeti avevano avuto la ventura di cantare, bensì il ricordo di quei giorni di felicità trascorsi al focolare domestico. Eppure, prima di partire per l’Italia, Xavier, pur apprezzando la vita di casa, si era abbandonato più volte a strani scatti nervosi. Una battuta della moglie, ad esempio, mal digerita. O addirittura il pianto notturno della piccola gli avevano urtato i nervi, facendogli perdere la calma proverbiale per la quale era conosciuto un po’ da tutti nel circondario. Ora, acquartierato in un paese sconosciuto, con un fucile in mano, capiva che la nostalgia è rendersi conto che le cose non erano insopportabili come potevano essere sembrate allora. E poi c’era dell’altro. La nascita della figlia aveva acceso nell’animo di Xavier tutta una serie di considerazioni sulla vita e sulla morte. Soprattutto sulla seconda. Trovava che il comportamento dell’uomo a suo riguardo era veramente sorprendente. Una sorta di follia collettiva. In altri termini, tutti sapevano che dovevano morire e non si preoccupavano affatto di quello che li aspettava, come se fosse un problema secondario. Come aveva letto in un libro: «Il mondo è come un una grande sala da macello, in cui ognuno sa che dovrà essere sgozzato e nel frattempo che fa? Gioca a carte». La Rivoluzione era stata per lui una festa, un riprendersi dall’esistenza

ciò che fin dall’inizio gli era spettato di diritto: il libero arbitrio. Sbarazzarsi una volta per tutte dell’idea di un Dio incombente era stato liberatorio, tuttavia aveva lasciato in Xavier le scorie di un risentimento. Un po’ come avviene quando si è costretti, dal caso o dalla prepotenza altrui, ad accettare spiegazioni che non ci convincono appieno. Il disagio era sopportabile a patto che non si affrontassero i temi fondamentali della vita e della morte. Una volta spazzato Dio sotto al tappeto, i due concetti erano stati privati di ogni senso. Ma, al contrario di sua moglie e di molti dei suoi commilitoni, Xavier non riusciva ad addomesticare il disagio che gli scorrazzava nell’anima. Tra le diverse convinzioni che si erano fatte largo in lui, ce n’era una particolarmente ardita, ma non per questo meno credibile di altre. Riguardava il mistero della vita ed il suo significato. Dove andava ricercato, ad esempio, il senso della venuta al mondo della piccola Andrea? Il miracolo di un’esistenza che prima non c’era e che forse nascondeva un prezzo, un debito da saldare. Come ogni cosa bella, anche la nascita di un figlio doveva avere una contropartita. Non sapere quale essa fosse era il

cruccio di Xavier, il pesante fardello che si trascinava dietro da diversi mesi. A volte si dava dello sciocco. Vedeva i commilitoni divertirsi e sorridere alle banalità dell’esistenza e si domandava se non era il caso di piantarla lì con tutti quei problemi immaginari. Ma qualcosa, dentro, gli diceva che così facendo avrebbe commesso un errore.

I

quattro chili del moschetto Charleville pesavano come quattro quintali, se solo Xavier si avventurava a fare certi pensieri. Mentre scopriva lo scodellino porta polvere da sparo del fucile, si contrinse a non dirigere lo sguardo davanti a sé. Sapeva di avere il condannato davanti, ne percepiva il respiro affannoso, l’odore della paura, tuttavia aveva deciso: avrebbe sollevato gli occhi solo un attimo prima di tirare il grilletto. Lo stesso non poteva fare a meno di riflettere sullo strano malessere che lo attraversava. Uccidere quell’uomo era un diritto sancito dalla guerra e della legge. Quell’Andreas Hofer si era macchiato di crimini indicibili, quali la ribellione e la cospirazione. Era sicuro di stare facendo la cosa giusta, ma togliere la vita a qualcuno era disumano al di là di

A sinistra e sopra, nella foto grande, Andreas Hofer e la sua «avventura» rievocati dai disegni di Giordano Pacenza, illustratore trentino che si occupa di grafica e illustrazione editoriale

tutto. Motivi e giustificazioni venivano dopo. C’era nella sottile angoscia che lo attraversava, inquadrato nel plotone d’esecuzione, la prova dei misteriosi codici custoditi dall’anima che accomunavano sentimenti come la paura, la nostalgia e l’amore in un afflato che puntava dritto verso il cielo. Tutto ciò cozzava, però, con gli ideali della Rivoluzione. Strideva con i dettami di quella follia collettiva. Perché il cielo era vuoto. Napoleone stesso lo aveva spiegato ai suoi soldati. La guerra doveva alimentare se stessa. Bisognava strappare al nemico tutto il necessario, ad esempio le ricchezze che li attendevano in Italia. Xavier tolse una cartuccia dalla giberna, strappandola con i denti. Estrasse la pallottola e la tenne in bocca. Alle orecchie giungeva flebile la voce del prete che stava

confessando l’imputato. Tra le molte parole mozzicate, Xavier ne colse alcune, portate dal vento che soffiava verso il plotone: «misericordia», ad esempio. Ancora, «paradiso», seguito da uno dei numerosi «Gesù Cristo». Quanto era ingannevole la sua coscienza di soldato che lo spingeva a commuoversi per i termini di una fede sconosciuta, così come era capace di versare lacrime al pensiero della sua piccola Andrea, del miracolo di quell’inerme esistenza, della fragilità di una creatura tanto dolce e innocente. Tenero papà, al lavoro in una terra straniera, quello che versò un po’ di polvere nera nell’apposito scodellino, richiudendolo subito dopo. Quindi mise il moschetto in posizione verticale e versò nella canna la polvere restante. Infilò con un dito l’involucro nella bocca della canna, comprimendola con la

bacchetta sfilata dal fucile. Non volendo, Xavier guardò il condannato. Si trattò di un attimo. Un lampo che però gli permise di cogliere alcuni tratti di quell’uomo. Le folte ciglia, la barba fluente, le labbra inarcate nell’inconfondibile curva della preghiera. La fierezza e la dignità dell’Hofer avevano una corporeità. Erano quasi palpabili, attraversavano l’aria come un fluido misterioso. Nonostante fosse cosciente di stare vivendo i suoi ultimi istanti, quell’uomo conservava l’aspetto esteriore di un cercatore della verità. Dai suoi occhi traspariva la curiosità di chi è ansioso di dare una forma al grande avvenire che lo attende. Fu studiando quello sguardo, diretto proprio verso di lui, che Xavier capì come la morte di quell’uomo poteva riscattare in qualche maniera la nascita della piccola Andrea. Il prezzo di chi viene al mondo che prima o poi

avier sfilò la bacchetta dalla canna e vi sputò la palla che già da un po’ teneva nella bocca. Un sapore metallico gli aveva corrotto le papille gustative. Era dunque quello il sapore della morte. La morte che, con il suo moschetto, stava per dare. Infilò nuovamente la bacchetta nella canna e compresse la palla. Quindi portò finalmente il fucile in posizione di sparo. Armò il cane. Respirò forte e prese la mira, se così si poteva definire quella sorta di calcolo approssimativo che teneva conto del forte rinculo che faceva immancabilmente alzare la canna nel momento dello sparo. Xavier decise di concentrarsi sugli stivali dell’Hofer. Ne seguì le curve, ne valutò perfino la fattura, giudicandoli opera di un discreto artigiano. Si avventurò in una loro valutazione, cercando di capire quanto potevano essere costati a quel delinquente. L’ordine di fuoco arrivò improvviso. Un gesto istintivo degli indici fece scattare i grilletti. La grande nuvola generata dalla combustione della polvere da sparo oscurò la visuale per qualche secondo. Xavier rimase immobile a fissare il terreno davanti a sé, in attesa di udire il tonfo del corpo del condannato. Ma non percepì nulla. Un silenzio generale avvolse il plotone. Allora, alzò gli occhi e vide Hofer accucciato sulle gambe, con un’espressione di sorpresa sul volto, come se si stesse domandando se fosse davvero

Sabato la storia di una bimba

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n queste pagine il sesto racconto di Pino Loperfido che accompagnerà i lettori con le sue prove narrative lungo tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Il destino aveva una voce di bimba: la fede nel trascendente a volte fa brutti scherzi. E dove è finita quella bimba dai riccioli biondi? Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza magica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato. Giusto dietro la curva del cuore:

seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. Gli ultimi due racconti, ancora avvolti dal mistero, s’intitoleranno La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di sè nella tragedia della guerra, tra arte e distruzione. e Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio.

tutta lì la morte. Poco dopo si rese conto di essere ancora vivo, nonostante la scarica di piombo, allora fece un commento sarcastico sulla mira del plotone. Fosse stato presente Napoleone, li avrebbe fatti fucilare tutti. Nessuno aveva colpito il condannato. L’imprecisione dei moschetti non era una scusante per soldati tanto esperti, che si affrettarono a ricaricare. Non era un’operazione semplice. I più esperti ci potevano impiegare anche venti secondi. Non volendo, portando di nuovo il fucile in posizione di tiro, Xavier incrociò ancora lo sguardo dell’Hofer. L’empatia che sembrava legarli lo spaventò più dell’assassinio che, mira permettendo, stava ora per commettere. Il sentimento che lo sconvolgeva aveva qualcosa a che fare con la bontà e con la bellezza. Qualcosa a che fare con Dio. La seconda raffica fece cadere il condannato, ferendolo gravemente. Il vento gelido che attraversava la contrada miscelò i suoi lamenti con il pianto di un neonato che, in una casa là vicino, doveva essere stato svegliato dal frastuono dei colpi. Xavier vi riconobbe i cari accenti della figlioletta. Provò un’immensa nostalgia che mutò, presto, in una sorta di dolore consolatorio, come quando l’attesa di una catastrofe sconvolge quasi più della catastrofe stessa, per cui quando essa giunge davvero è sollievo quello che si prova. Nulla più. La quiete del poter ricominciare a pensare ad un domani.

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strano, perché quando il caporale diede il colpo di grazia al condannato, il pianto del misterioso neonato improvvisamente cessò. Come un segnale. Era come se la morte del terrorista tirolese avesse chiuso alcune partite ancora aperte. I misteriosi percorsi della pietà e della redenzione accompagnarono Xavier nel suo ritorno in caserma. Due settimane dopo il pugnale di uno studente bresciano lo trafiggerà, nei pressi di Verona, durante una banale lite in un’affollata birreria. Sentendo il freddo della lama entro di sé, prima di abbandonarsi ai flutti del trapasso, Xavier coglierà i confini del suo errore. Perché si renderà conto che a riscattare la nascita della piccola Andrea non era stato chiamato un oscuro brigante a lui sconosciuto, bensì proprio colui che ne deteneva la paternità: lui stesso. Una consapevolezza che lo rasserenò, lo assolse dai suoi mille peccati di soldato e lo accompagnò nel tortuoso cammino verso il Destino, che ebbe inizio solo pochi istanti dopo.


IL RACCONTO

8 sabato 15 agosto 2009 l’Adige

9 l’Adige

sabato 15 agosto 2009

Giovedì 10 giugno 1909: la visita al prete «imbroglione»

Quando Mussolini andò a Susà

I bambini tiravano sassi nella palude Facevano a gara a chi arrivava più lontano Tullio Oss era un bel ragazzo e osservava quei ragazzini dalla sua bottega di bottaio sul limitare dello Spiazzo delle Oche

Il destino aveva una voce di bimba

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iovedì 10 giugno 1909. Il cronista anticlericale Benito Mussolini (nella foto sopra immortalato ad Ala, nel 1909, con alcuni compagni socialisti), si reca a piedi da Trento a Susà di Pergine per un reportage su Rosa Broll. È costei la sposa segreta di un prete, don Antonio Prudel, che la costringe ad impersonare lo scomodo ruolo di Santa. L’infido curato organizza finte apparizioni, sudorazioni di sangue a cui i contadini del posto credono puntualmente, organizzando anche numerosi pellegrinaggi.

Pino Loperfido

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bambini tiravano sassi nella palude. Facevano a gara a chi arrivava più lontano. Un gioco, certo, ma in un certo senso era pure un’arte perché in certe cose o ci eri portato oppure no. Non era così semplice. Innanzitutto si sceglieva il sasso giusto: né troppo leggero né troppo pesante, di pietra liscia da poterlo impugnare più facilmente. Si tirava il braccio all’indietro sollevando la gamba sinistra e poi, individuato il «bersaglio», si faceva scattare il braccio come una molla. Il sasso volava sulla riva, sulle prime canne e piombava con un rumore sordo nell’acqua sporca e immobile. Ne scaturiva un piccolo zampillo e poi dei cerchi concentrici che, però, faticavano ad aprirsi in mezzo a tutta quella vegetazione. Tullio Oss aveva a quel tempo venticinque anni, era un bel ragazzo biondo e pieno di salute. Osservava quei ragazzini dalla sua bottega di bottaio che era proprio sul limitare dello Spiazzo delle Oche. Quella piazzetta segnava il termine delle paludi che partivano dal Lago di Caldonazzo e si diramavano senza regola in ogni direzione. Prima di mettersi a fabbricare botti, gli Oss erano stati canòpi, ossia minatori. Un mestiere duro e malpagato che li costringeva ad infilarsi per poche lire nella fitta di rete di cunicoli, gallerie, pozzi che a guisa di una gigantesca ragnatela sotterranea percorrevano il Perginese, la Valsugana, la Valle dei Mocheni, fino al Monte Calisio. Era stato Marcello, il papà di Tullio, a dire basta. Approfittando del fatto che i fratelli di sua moglie Aurora erano bottai in Val di Cembra, aveva aperto una bottega a Pergine. Così, per sua fortuna, Tullio poteva lavorare all’aria aperta e avere la soddisfazione di essere un artigiano molto ricercato. Il suo era un mestiere assai utile. La botte, infatti, era utilizzabile non solo per il vino, ma pure per i crauti ed altre cibarie a lunga conservazione. Dal padre e dagli zii materni, il ragazzo aveva imparato la perizia che richiede la fabbricazione di questi panciuti contenitori. «Olà, Tullio. Sono pronte quelle

mie due botticelle? M’avevi detto di passare oggi». «Sior Federico, mi dispiace. La prossima settimana mi arriverà il legno da San Martino. Sa com’è, con i crauti bisogna stare attenti, è una faccenda delicata; il legno deve essere quello giusto». «Già. Però che sia fra sette giorni. I miei cavoli non possono aspettare di più». «Non si preoccupi. Sarà fatto». Tullio riprese a battere con il mazzuolo sui cerchi. Erano colpi precisi, dati d’istinto senza dover prendere la mira o fare troppi calcoli. Nel frattempo la mente vagava come una rondine, saltellando tra preoccupazioni e pensieri lieti. Pochi questi ultimi, sempre in abbondanza le prime.

I

l campanile di Santa Maria batté le dodici. Tullio tirò su un secchio di acqua dal pozzo e si sciacquò le mani. Poi salì lungo la scala di legno esterna che portava di sopra. Appoggiò il grembiule sulla spalliera della sedia e con un filo di cotone tagliò la polenta in quattro parti talmente uguali che nemmeno misurando sarebbe stato possibile fare meglio. Il ragazzo afferrò la sua razione e la pose con le mani nella scodella in legno, ricoprendola, poi, con una cucchiaiata di fagioli bollenti. Non poteva, il Tullio, non pensare alla bella Franca che stava per dargli un bambino, e se ne stava al piano di sopra, sprofondata in un letto. Forse questa era la volta buona. Pareva essersi accanito il cielo che già per ben tre volte aveva negato alla coppia la consolazione di una discendenza. La sua vita sarebbe cambiata. Certo avrebbe continuato a lavorare nella bottega del padre, ma sarebbe stato felice perché indipendente, con una casa propria e la Franca accanto. Gli pesava, infatti, dover ancora obbedire ai suoi a venticinque anni. Non che non lo ritenesse giusto. Anzi. Per lui onorare la madre e il padre era il primo dovere per un figlio. Però la casa sullo Spiazzo de le Oche era piccolina: una sola stanza per mangiare, dormire e fare tutto il resto era poco anche per uno che si accontenta di poco.

Non perse tempo Marcello a caricare su un carretto tutti gli attrezzi necessari. Sapeva già da tempo di questo importante lavoro, ma fino ad allora si era trattato solo di voci, chiacchiere a cui si può credere come non credere. Adesso, però, la cosa si era verificata. Marcello avrebbe dato il meglio di sé per fare un buon lavoro nel minor tempo possibile. Se il barone fosse stato soddisfatto gli avrebbe potuto chiedere, oltre al denaro, di poter tenere a battesimo il nipotino che sarebbe venuto. La strada che da Pergine conduceva al palazzotto era erta, circondata a destra e a manca da una folta vegetazione di caducifoglie, latifoglie, tigli, aceri silvestri e castagni. Padre e figlio non dissero una parola per tutto il tragitto. Erano emozionati. Per la prima volta salivano a Susà a casa del barone. Evidentemente la fama dei due artigiani, della loro bravura, si era diffusa a macchia d’olio e, vox populi, era giunta all’orecchio dei signori. Marcello si fermò. Cercò di recuperare il fiato. «Non sono più un ragazzino» disse detergendosi la fronte con uno straccio. «Non sei nemmeno un vecchio» lo

canzonò il figlio. «Chi l’avrebbe mai detto che il barone in persona...». «Una grazia del Signore». «Ave Maria, gratia plena…» i due pregarono per qualche minuto. La riconoscenza alla Madonna – tutta Pergine era molto devota a Maria – attraverso la preghiera rincuorò i due, intimoriti. Che Tullio non stesse pregando per motivi lavorativi, lo si capiva dalla ruga che come un graffio gli percorreva la fronte. Era più scavata. L’angoscia per la maternità traballante della moglie non lo lasciava tranquillo. E gli faceva rabbia non poter fare nulla. Avesse potuto esorcizzare a colpi di martello quel dolore, sarebbe stato in grado di fabbricare botti per tutto il Tirolo. Gli parve irriverente rivolgersi direttamente al padreterno senza nemmeno un sacerdote come intermediario, facendo

A sinistra e sopra, nella foto grande, i protagonisti del racconto rievocati dai disegni di Giordano Pacenza, illustratore trentino che si occupa di grafica e illustrazione editoriale. A destra, botti e il centro storico di Pergine

orgogliosamente a meno della potenza evocatrice di un tempio. Tuttavia lo fece lo stesso, pur senza riuscire ad articolare pensieri di senso compiuto. Quel cielo vuoto, così azzurro, senza nemmeno l’ombra di un angelo, gli pareva fatto di niente. Dov’era dunque il congresso dei santi? Dietro quale nuvola si nascondeva la sagoma del Divino?

L

Benito Mussolini da giovane; in alto, a sinistra, veduta di Susà e il castello di Pergine

a gabbia di domande venne spazzata via dalla voce di una bambina che se ne stava seduta sulla strada a tracciare segni sulla sabbia del selciato. Poteva avere sei o sette anni. Un ciuffo biondo le cadeva sugli occhi. Indossava un vestitino bianco La piazzetta di Susà era deserta. I due artigiani non avevano un’idea precisa di dove fosse l’abitazione del committente. Così si rivolsero alla fanciulla.

«Abita qui il barone?» La bimba sollevò gli occhi chiarissimi e sorrise. «No» disse «qui ci sta la Santa». Lo sguardo di Tullio si illuminò. Come un cielo, dopo il temporale, dimenticati tuoni e fulmini, si apre in mille fessure lasciando filtrare aguzzi raggi di sole; così come quei bagliori inaspettati rasserenano l’anima di chi si era rabbuiato alla mercé del maltempo, allo stesso modo la sosta davanti alla casa di quella donna sciolse l’angoscia del ragazzo in uno strano sentimento di speranza frammista a paura. La Santa aveva già compiuto diversi prodigi. In molti la veneravano e le domandavano grazie e intercessioni. Doveva essere quello uno dei modi attraverso il quale Dio arrivava agli uomini. Un pensiero lo tentò. Pochi gradini lo separavano da questa persona straordinaria.

Sabato una storia dal treno

I

n queste pagine il settimo racconto di Pino Loperfido che accompagnerà i lettori tutta l’estate, ogni sabato. Ecco i titoli dei prossimi e una succinta anticipazione dell’autore. Il bambino che guardava gli alberi volare: il treno, esperienza magica per un bimbo. Anche se è appena stato sfollato. Giusto dietro la curva del cuore: seguire il proprio cuore o i propri ideali? Per i due fidanzatini, persi nella notte bianca, è difficile decidere. Anche vinto il nemico è qualcuno: sbirciando dalla finestra l’arrivo

del terrorista. La scoperta della sua inaspettata umanità. La volta che le bombe suonarono Bach: L’esperienza del dono di sé nella tragedia della guerra, tra arte e distruzione.Ogni giorno è la festa del papà: quell’uomo è un mito per milioni di italiani, ma è mio padre. Solo mio. Pino Loperfido ha pubblicato «Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis» (2001), «Caro Alcide» (2003) e il romanzo «Teroldego» (2005). Alla fine di settembre uscirà il nuovo romanzo «Le meccaniche dell’infelicità», come i precedenti edito da Curcu & Genovese.

Decise di tentare. La sua più che fede era una speranza molto egoistica, le sue preghiere somigliavano così tanto ad una transazione commerciale: tu mi fai questa grazia ed io… Già, cosa avrebbe potuto dare in cambio di un miracolo? «Non si può salire adesso» disse la bimba alzandosi in piedi. «Che vuoi fare?» domandò Marcello al figliolo, intuendo il suo proposito. Così sistemò le botti sotto ad un vòlto e, a braccia conserte, si sedette su una di esse. «Perché non si può salire?» domandò Tullio alla bimba. Quella scoppiò in una fragorosa risata. Per un attimo, il ragazzo pensò a quanto poco di umano ci fosse, in fondo, in un’azione come il ridere. «Ci sta il giornalista. Le sta a fare tante di quelle domande…». Un giornalista? La sorpresa fu enorme. Tullio avrebbe trovato più normale trovarsi di fronte ad un negus dell’Africa nera. Ad una Santa si domandano grazie non data di nascita e paternità. «E chi è questo giornalista?», insistette il ragazzo. «Boh, e che ne so? È venuto da Trento. Mi pare che si chiama Mussolini o qualcosa del genere». In quell’istante la porta si spalancò. Un uomo vestito di nero, con una forte stempiatura, gli occhi sporgenti ne uscì con il cappello in mano, profondendosi in lunghi ringraziamenti. Quando ebbe disceso le scale si trovò faccia a faccia con il Tullio. Lo squadrò da capo a piedi. «Avanti il prossimo» urlacchiò con uno strano accento squillante, vagamente militaresco.

I

l ragazzo invidiò la serenità del giornalista. Dunque faceva questo effetto trovarsi a tu per tu con la Santa. Gli effetti di venerabilità, probità, integrità, illibatezza e ogni altro aspetto della soprannaturale bontà divina erano dunque in grado di vincere ogni prevaricazione del male. Anche questo Mussolini – se davvero si chiamava così – aveva subito il benefico influsso della santità. Bastava osservarne il volto illuminato da cui traspariva una profonda sensazione di pace e di soddisfazione. Presto sarebbe toccato anche a lui. Prostrato avrebbe scongiurato la Santa di esaudire il suo desiderio, di far cessare le ambasce della sua amata moglie, di concedere loro finalmente l’immensa gioia di abbracciare il primogenito. Pensò a quanto era fortunato nel poter usufruire di una tale opportunità. In fondo era stato un segno del destino. Trovarsi casualmente sulla rotta della Santa proprio mentre la sua Franca aveva tanto bisogno di un aiuto del cielo. Salendo i pochi gradini che portavano in casa, Tullio provò ad immaginare la scena che si sarebbe trovato davanti, tuttavia non fu in grado di fissare in mente nulla di definito. Vaghi cori angelici, tabernacoli viventi, nubi di incenso, fiori in quantità. Ed invece, ciò che i suoi occhi videro fu una stamberga sporca e disordinata, impestata da sinistri

effluvi non proprio celestiali. La Santa stava seduta in maniera scomposta, con i capelli arruffati ed un’aria molto trasandata. Le ciabatte era rotte e la gonna rappezzata. Ciononostante, Tullio si inginocchiò senza sapere bene cosa dire. Ma a parlare fu la donna. E ciò che le uscì di bocca fu quanto di più cattivo le corde vocali di un essere umano siano in grado di produrre. Con la forza di un tornado, la bestemmia sospinse Tullio sulla soglia e quindi giù per le scale. Annichilito, il ragazzo lanciò uno sguardo lungo la strada che conduceva al paese. A circa un centinaio di metri, vide di spalle quel giornalista baldanzoso diretto a valle incrociare un’altra figura che, agile e leggera, stava correndo verso Susà. Tullio interrogò con lo sguardo suo padre e poi decise di prorogare l’appuntamento con la delusione ancora di qualche attimo. Giusto il tempo di capire chi fosse colui che a perdifiato pareva dirigersi proprio verso i due artigiani. Si trattava di un giovincello che, nonostante la corsa in salita, non tradì alcuna fatica né ansimare. Un viso sconosciuto, troppo sconosciuto per un paese di così poche anime dove tutta la gioventù si poteva comodamente passare in rassegna durante i divertimenti nello Spiazzo delle Oche. «Corri Tullio, la Franca ha partorito. È un maschio!» «Come è possibile? Ma non è ancora il tempo e poi… Lei come sta?». «Sta bene. Ti sta aspettando». Tullio era troppo agitato e felice per fare alcune ovvie considerazioni. Ad esempio, come faceva quel ragazzo a conoscere il suo nome? Che farne delle botti? Lasciare solo Marcello a completare la consegna o riportarle indietro? Nulla era più importante di sua moglie. Era padre, santo cielo. Quel bimbo benedetto era nato. Il miracolo era dunque avvenuto anche senza… A proposito. Aveva fatto solo pochi metri, quando si arrestò di colpo e si voltò. Distratto dalla comparsa del giornalista e da quanto ne era seguito non aveva più fatto caso alla bambina vestita di bianco incontrata poco prima. Nel senso che non l’aveva più vista. Ma che importava, adesso. Bisognava solo correre, ora. Fino a farsi scoppiare i polmoni, se necessario. Un passo dietro l’altro, con disciplina, facendo appello ai magazzini di energia che si nascondevano nei muscoli. Il fruscio del vento si mescolava al sibilo che le orecchie producevano nello sforzo della corsa. Curiose note musicali, il suono delle mille canne di un organo nel quale era possibile intercettare l’armonia e l’accento di certi fonemi impossibili di cui sono capaci i bambini. Già, proprio una voce di bimba che lo incitava a correre ancora più veloce verso il miracolo. Per un attimo, Tullio vi scorse gli accenti di quella bambina. Poi fu sopraffatto dalla gioia e non vi prestò più alcuna attenzione.


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