Publio Virgilio Marone Adattamento a cura di
Simona Bonariva
Eneide Illustrazioni di
Marco Bregolato
CON AUDIOLIBRO I CLASSICI
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Coordinamento Redazione Impaginazione Copertina Illustrazioni
Maria Cristina Scalabrini, Alessia Vecchio Giulia Russo A come Ape Studio Sergio Rossi Marco Bregolato
Contenuti digitali Audiolibro
Sidecar Studio, Verona
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Publio Virgilio Marone
Eneide Adattamento di Simona Bonariva Illustrazioni di Marco Bregolato
Glossario e apparato didattico a cura di Giulia Russo
Regno dei Latini
Cuma Epiro
Scilla e Cariddi Trapani
Cartagine
Terra dei Ciclopi
Tracia
Troia
Isola di Delo Isole Strofadi
Creta
Note per chi legge Le parti di testo in colore blu indicano episodi particolarmente significativi e coinvolgenti. In fondo al volume, a pagina 89, è presente un Glossario dei personaggi e dei luoghi citati nel testo.
Inquadra il QR code e ascolta l’audio dell’Eneide
Libro 1 In un tempo molto lontano, quando ancora si combatteva con la spada e con lo scudo, un esercito greco andò a porre l’assedio alla città di Troia per riprendere Elena, la moglie del re greco Menelao, scappata con il principe troiano Paride, ma soprattutto per conquistare nuove terre e nuovi mari. Molti anni durò la guerra di Troia, finché i Greci ebbero la meglio e conquistarono e incendiarono la città. Un troiano, figlio di Anchise e della dea Venere, riuscì a fuggire tra le fiamme, portando il padre sulle spalle e il figlioletto per mano. Enea era il suo nome e questa è la sua storia.
Egli, scampato alla distruzione di Troia, riuscì a imbarcarsi con un gruppo di uomini alla volta dell’Italia, dove era destinato a fondare una nuova città, ma molte furono le sue disavventure a causa dell’odio che Giunone, la sposa di Giove, nutriva contro Troia e il suo popolo. Giunone, infatti, era stata più volte offesa dai Troiani, come quando il principe Paride aveva dato la mela con scritto “Alla più bella” a Venere anziché a lei, o quando aveva saputo che i discendenti dei Troiani erano destinati a sconfiggere Cartagine, la sua città prediletta. Giunone, per ostacolare Enea e i suoi, si recò all’isola Eolia, dove il dio Eolo, in un’immensa caverna, teneva incatenati i suoi venti. Qui giunta, gridò: – Eolo, ho un desiderio che solo tu puoi esaudire: quel che resta di un popolo che detesto sta attraversando il mar Tirreno per arrivare in terra italica. Ebbene, io ti chiedo di suscitare una tempesta tremenda, in modo che di loro non rimanga traccia. In cambio, ti darò in sposa la mia ninfa più bella. – Eccoti accontentata, mia regina! – disse Eolo e batté la lancia contro il fianco della caverna. A quel segnale, i venti si precipitarono fuori, lanciandosi verso il mare. Il cielo divenne color ferro, mentre la tempesta sollevava il mare in cavalloni alti come montagne.
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cavalloni: alte onde marine.
Nel buio squarciato dai fulmini crepitanti, i marinai gridavano disperati: molti finirono sbalzati in mare, altri rimasero schiacciati da ciò che rotolava sulle navi ondeggianti, tutti erano terrorizzati e piangevano, raccomandandosi agli dei. Ma ecco, il vento Aquilone si erge e strappa le vele, sollevando un’onda così alta che i marinai non vedono più il cielo sopra di loro. L’onda si abbatte, spezza i remi, afferra gli uomini scagliandoli lontano. Un altro vento alza tre navi e le lancia contro gli scogli, un altro ancora altre tre ne spinge verso una secca, coprendole di sabbia. Le ultime navi intanto si sfasciano, pochi uomini cercano di tenersi a galla aggrappati ai relitti. La flotta è distrutta. Ma tanto sconquasso non passò inosservato. Nettuno, il dio del mare, accorgendosi della burrasca, dalle scure profondità affiorò alla superficie adirato: – Chi osa portare scompiglio nel mio mare? Venti, tornate da Eolo e ditegli che può regnare sulla terra e nelle caverne dove avete casa, ma sul mare comando io! Mentre così parlava, il cielo cominciò a rischiararsi. Poi salì sul suo carro e percorse la superficie del mare, riportandola alla calma e aprendo una via sicura alle navi superstiti e malandate.
crepitanti: che fanno rumori secchi e continui. sconquasso: rovina, devastazione, disordine.
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Enea e i marinai sopravvissuti poterono così riprendere a navigare, dirigendosi verso le coste della Libia, dove buttarono le ancore. Solo sette navi si erano salvate e i Troiani, esausti, si gettarono sulla sabbia per riprendere fiato. Mentre gli altri accendevano un fuoco per asciugare le provviste, Enea scalò una rupe per scrutare il mare in cerca di altri sopravvissuti, ma non vide nessuno. Avvistò, però, un branco di cervi e ne abbatté sette con il suo arco. Tornato alla spiaggia, divise le prede tra i compagni e cercò di rincuorarli: – Amici, un’altra prova si è aggiunta alle tante che abbiamo già affrontato, ma questo non potrà fermarci. Andremo verso l’Italia e là, come è scritto nel cielo, rifonderemo il nostro regno. Dunque, piangiamo i nostri morti, ma non perdiamoci d’animo. I lamenti dei Troiani giunsero al cielo, a commuovere la dea Venere, loro protettrice e madre di Enea. – Padre, – disse la dea guardando Giove – quanto ancora i miei Troiani dovranno sopportare per l’ira di una dea? Non ci era stato promesso un grande destino, per compensare la perdita di Troia? – Non temere, figlia, il destino dei tuoi non è cambiato. Tu vedrai Enea fondare una nuova città, Lavinio, come è deciso dagli dei. Egli combatterà in Italia una gran guerra, regnerà per tre anni e, dopo di lui, suo figlio Ascanio per altri trenta, portando la capitale del regno da Lavinio ad Albalonga. Qui, i discendenti di Troia regneranno per trecento anni, fino a quando non nasceranno due gemelli, Romolo
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e Remo. Romolo riunirà il popolo sotto il suo comando e alzerà le mura di una città che chiamerà Roma. I suoi discendenti, i Romani, avranno un impero infinito e, armati di spada e di toga, domineranno il mondo. Da questa stirpe nascerà, dopo molto tempo, un condottiero chiamato Giulio Cesare, che spingerà i confini di Roma fino all’oceano e la sua fama fino alle stelle. Quanto a Enea, un giorno lo accoglierai in cielo, venerato come una divinità. Nel frattempo, la notte era passata e all’alba Enea andò a esplorare la terra su cui erano approdati. Mentre camminava in un bosco, incontrò Venere, travestita da cacciatrice. – Hai visto passare le mie sorelle, all’inseguimento di un cinghiale? – No, ma tu dimmi, ti prego, in quale terra mi trovo. – Questa è la Libia, e laggiù c’è Cartagine, su cui regna la bella Didone. Lunga è la sua storia e piena di sofferenza: il suo sposo era Sicheo, il più ricco tra i Fenici, ed erano felici insieme finché suo fratello non lo uccise. Didone allora fuggì, rubando l’oro di suo fratello e, arrivata su queste coste, comprò della terra e fondò Cartagine. E ora, dimmi tu chi sei. – Io sono Enea e vengo dalla città di Troia. Siamo partiti con venti navi, ma solo sette ne rimangono poiché molte sono state le nostre sfortune. – Qui sei il benvenuto e sono certa che la tua flotta non è distrutta, ma è al sicuro e i tuoi uomini salvi – poi si girò per andarsene e in quel momento rivelò il suo vero aspetto. Enea riconobbe la madre, ma lei
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era già andata avanti e quindi si mise a seguirla. Arrivò così in cima a una collina e da lì poté guardare l’operosa città di Cartagine. Il Troiano, protetto da una nebbia suscitata da Venere, scese fino alla città e camminò in mezzo ai Cartaginesi senza essere visto. Arrivò presso un tempio dedicato a Giunone dove, stupito e commosso, trovò rappresentate le scene della guerra di Troia e si vide raffigurato mentre combatteva contro i Greci. – Guarda qui – si disse – siamo famosi, questa forse sarà la nostra salvezza! Intanto, anche Didone era arrivata al tempio quando, a un tratto, si levarono delle grida e giunsero dei Troiani superstiti, che Enea aveva dato per morti. Tra loro uno disse: – O regina, ti imploro, abbi pietà di noi! Veniamo da Troia, siamo approdati qui per via di una tempesta, ma siamo diretti in Italia: lasciaci riparare le navi e al più presto ce ne andremo. – Prodi Troiani, chi non conosce la vostra storia? State tranquilli, vi aiuteremo a riparare le navi e a rimettervi in viaggio oppure, se vorrete fermarvi qui, sarete i benvenuti. Venere, allora, soffiò via la nebbia che avvolgeva Enea e rese il figlio più bello che mai per fare breccia nel cuore di Didone. Enea fece un passo avanti e disse: – Regina, ti sarò grato per sempre per la tua generosità! – poi tese le mani ai suoi compagni ritrovati e li salutò a uno a uno.
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Didone si alzò: – Poiché molto ho sofferto, ho imparato ad aiutare chi soffre. Venite, la mia casa è la vostra – così dicendo li guidò a palazzo, dove fece preparare un sontuoso banchetto. Enea mandò allora a chiamare il figlio Ascanio, rimasto alle navi, ma Venere decise di inviare al suo posto il figlio Cupido, il dio dell’amore, mutato nell’aspetto, in modo che trafiggesse con le sue frecce il cuore della regina. Così, mentre Cupido trasformato in Ascanio andava dalla regina, Venere addormentò il vero Ascanio e lo nascose in una grotta. Cupido, durante il banchetto, si sedette vicino a Didone e cominciò a poco a poco a cancellarle dal cuore il ricordo dell’amato marito, riempiendolo di amore per Enea. La regina, presa dai lacci amorosi, chiese a Enea di raccontare la storia della sua fuga e del viaggio, già durato sette anni. Ed Enea incominciò.
presa dai lacci amorosi: legata da un sentimento amoroso nei confronti di Enea.
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Libro 2
«Regina, tu mi chiedi di rinnovare il dolore rac-
contando come i Greci conquistarono Troia con un inganno. Dopo tanti combattimenti, infatti, gli assedianti stavano per cedere e andarsene quando, su suggerimento di Ulisse, costruirono un enorme cavallo di legno cavo all’interno. Finsero che fosse un dono agli dei per assicurarsi un viaggio tranquillo e, invece, nascosero nel suo ventre un gruppo di guerrieri, mentre gli altri facevano finta di partire e si nascondevano dietro a un’isola vicina. Vedendoli salpare, noi Troiani andammo alla spiaggia per ammirare quel dono straordinario. Alcuni volevano bruciarlo, perché era roba greca, ma i più volevano portarlo dentro la città come trofeo. Un sacerdote troiano, Laocoonte, si mise allora a gridare: – Pazzi! Questo cavallo certo cela un pericolo, diffidate dei Greci bugiardi e dei loro doni!
Ma, proprio in quel momento, uno sconosciuto venne trascinato in mezzo alla folla: faceva parte del piano e avrebbe dovuto convincerci, se ci fossimo mostrati dubbiosi circa il cavallo. Il giovane piangendo disse: – Sinone è il mio nome e non ho più una patria, perché sono fuggito dai miei compagni greci che Ulisse aveva convinto a sacrificarmi per garantire un tranquillo ritorno. Ora essi mi odiano come un traditore. Noi Troiani, commossi, gli credemmo e il nostro re Priamo gli disse: – Dimenticati di loro, qui sei il benvenuto. Ma, dimmi, che significa questo cavallo? – La dea Minerva si è adirata coi Greci che avevano rubato dal tempio qui vicino la sua statua. Così essi hanno deciso di partire e lasciare un cavallo come offerta alla dea, ma grande tanto da non entrare dalla porta di Troia. Se voi Troiani aveste portato il cavallo nella città, infatti, la protezione di Minerva sarebbe ricaduta su di voi, rendendovi invincibili.
Maledetto Sinone, falso e bugiardo! Là dove dieci anni di assedio non erano riusciti a conquistare Troia, poté la lingua ingannatrice di un greco senza onore. Per rinforzo alle sue bugie, avvenne un altro fatto straordinario: due enormi serpenti uscirono dal mare all’improvviso e, ondeggiando, puntarono su Laocoonte e i suoi due figli. I serpenti li presero nelle loro spire e contorcendosi li stritolarono a morte, andando poi ad arrotolarsi sotto la rocca di Minerva.
Convinti dunque che Laocoonte fosse stato punito per la sua incredulità, aprimmo un buco nelle mura per portare il cavallo dentro la città e festeggiammo la fine della guerra. E invece, appena calato il buio, le navi nascoste dietro all’isola tornarono alla spiaggia, mentre il vile Sinone faceva uscire i guerrieri dalla pancia del cavallo. Silenziosi e feroci, si avventarono sui Troiani pieni di vino e sonno, aprendo le porte della città ai loro compagni. I Greci entrarono in massa e si riversarono nelle strade, distruggendo tutto quello che trovavano. Io, nel sonno, quella notte ebbi un’apparizione: Ettore, l’eroico figlio di Priamo ucciso da Achille, il famoso guerriero greco, mi comparve davanti e mi disse: – Fuggi, Enea! I Greci sono qui e Troia è perduta, perché così vogliono gli dei. Prendi con te i sopravvissuti: per loro costruirai una nuova casa dopo aver viaggiato tanto per mare. Va’! Intanto, la città cadeva sotto i colpi degli invasori. Mi riscossi dal sonno, salii sul tetto e capii al primo sguardo: i nemici erano dappertutto e la città in preda alle fiamme. Mi armai in fretta e mi precipitai fuori per combattere cercando altri compagni a cui unirmi. Ci gettammo per le vie come un branco di lupi, trovando solo dolore e morte: o Troia, che triste fine ti è toccata! Incontrammo alcuni Greci, li uccidemmo fino all’ultimo e ci travestimmo coi loro elmi e scudi per poterne uccidere ancora. Ma ne trovammo troppi e ci schiacciarono: il cielo sa che io mi salvai solo
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perché così era destino, perché non risparmiai forze né colpi e mi esposi a tutti i pericoli. Ci dirigemmo al palazzo reale, dove infuriava una lotta tremenda. I Greci assaltavano le mura arrampicandosi sulle scale, mentre dall’alto i Troiani strappavano le pietre dai muri per tirarle di sotto. Il primo a entrare a palazzo fu Pirro, figlio di Achille: scintillante di ferocia, si lanciò nella sala mentre le donne correvano impazzite, cercando di portare in salvo i loro figli. Ecco, i Greci dilagano nelle stanze come un fiume in piena, uccidendo chiunque incontrino. Il re Priamo, benché vecchio e debole, prende le armi pronto a combattere, ma sua moglie gli grida: – Come puoi pensare che il tuo braccio ormai tremante possa fermare il nemico? Vieni presso questo altare, gli dei ci proteggeranno. Ma, in quel momento, uno dei loro figli viene trafitto da Pirro sotto i loro occhi. Priamo allora urla: – Gli dei puniscano un atto così empio, uccidere il figlio sotto lo sguardo del padre, non sei degno di tuo padre Achille! – Allora va’ tu stesso a dirglielo! – e così dicendo Pirro prende Priamo per i lunghi capelli e gli immerge la spada nel fianco.
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Io, che avevo visto la scena da lontano, impallidii: mi vennero in mente mio padre Anchise, a casa da solo, la mia sposa Creusa e mio figlio, il piccolo Ascanio. Mi girai per cercare i compagni ma non c’era più nessuno. Proprio allora vidi Elena, la causa della
nostra disgrazia, visto che i Greci ci attaccavano per via della sua fuga dal marito Menelao, o così almeno credevo. Stavo per avventarmi su di lei, quando mi apparve mia madre Venere e mi trattenne: – Perché ti lasci trascinare da un’inutile rabbia? Lascia stare Elena, non è per colpa sua che Troia è caduta, ma per volere degli dei. Se aguzzi la tua vista mortale vedrai che è Nettuno a scuotere le fondamenta della città e Giunone a infuriare per le strade. E ancora, è Minerva che espugna la rocca e lo stesso Giove che favorisce i Greci. Figlio, il tuo destino è salvarti da questa sciagura, fuggi e io ti proteggerò! Venere scomparve e, in un lampo, io vidi gli dei che si adoperavano per distruggere Troia: tutto era perduto, dunque! Corsi a casa mentre le frecce mi evitavano e le fiamme si aprivano: mia madre manteneva la sua parola. Ma quando chiesi a mio padre di fuggire con me, si rifiutò: – Come posso vivere, se Troia muore? – Se non vuoi venire, allora non andrò neanche io – gridai, pronto a riprendere il combattimento. Ma Creusa mi si gettò ai piedi, piangendo: – Dove vuoi andare ancora? Lascerai me e tuo figlio in balia dei nemici? – mentre così diceva, una fiamma si accese sulla testa di Ascanio, senza bruciare, come una carezza luminosa sui suoi capelli. Quale prodigio!
si adoperavano: si impegnavano. prodigio: fenomeno straordinario che non ha spiegazioni scientifiche.
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Anchise, convinto da questo miracolo, disse: – Questo mio nipote è destinato a grandi cose, dobbiamo portarlo in salvo! Verrò dovunque vogliate. – Padre, sali sulla mia schiena, il tuo peso mi sarà lieve. Tu, Ascanio, cammina di fianco a me e tu, Creusa, seguimi. Andiamo, presto! Mi avventurai così per le strade buie, sobbalzando a ogni rumore, tanto ero in pena per la vita dei miei cari. Quando sentii un rumore più vicino, presi a correre d’istinto, trascinando mio figlio con la mano ma, ahimè, senza pensare alla mia sposa: Creusa, compagna fedele e dolce, gli dei avversi ti hanno portato via da me quella notte! Quando me ne accorsi, tornai subito a cercarla. Vagai per le vie deserte rischiarate solo dal bagliore degli incendi, quando mi apparve la sua immagine, più grande di una figura umana. – Che vai cercando, marito mio? Ciò che accade è il volere degli dei, non puoi né devi opporti. Sei destinato a grandi imprese e una volta arrivato sul suolo italico troverai una moglie di sangue reale: non v’è posto per me in questo disegno. Va’, ora, solo ricordati di me nell’amore per nostro figlio. Poi sparì. Io tentai di trattenerla, di abbracciarla, ma era come prendere l’aria. Intanto, la notte era finita e rividi allora i miei compagni sopravvissuti, uomini, donne, bambini, una schiera che mi guardava pronta a seguirmi. Poiché la città era perduta e non c’era altro da fare, mi incamminai con il padre in spalla verso il mio destino.
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avversi: che si oppongono, contrari, ostili, sfavorevoli.
Libro 3
«Tutti noi superstiti ci rifugiammo in un bosco
vicino e lì costruimmo le navi per partire in cerca di un nuovo futuro. In primavera, furono pronte e prendemmo il mare, dirigendo le prue verso la vicina terra dei Traci, un tempo nostri alleati. Sbarcammo senza inconvenienti e decisi di costruire qui una città. Per guadagnare il favore degli dei, cercai su una collina dei rami di mirto per gli altari. Ne trovai un cespuglio ma, quando cercai di strappare un ramo, colò fuori un sangue nero e poi sentii una voce lamentosa che diceva: – Fuggi, Enea, da questo luogo maledetto! Io sono quel che resta di Polidoro, i Traci sleali mi hanno accolto, quando mio padre Priamo mi aveva inviato qui per proteggermi dalla guerra, ma una volta caduta Troia, mi hanno ucciso per fare piacere ai loro nuovi alleati greci. Inorridito da questo racconto, lasciai cadere il ramo, corsi dai miei e ordinai di dare una degna sepoltura a Polidoro e poi di lasciare quella terra di traditori. Dopo una navigazione tranquilla, approdammo all’isola di Delo, dove c’è un famoso oracolo del dio Apollo. Al porto ci venne incontro il re di quella terra, che ci accolse benevolmente, essendo amico di Anchise da molto tempo. Ci recammo poi al tempio del dio Apollo per interrogarlo. – Padre Apollo, dove troveremo una nuova casa? A queste parole, la terra sembrò tremare: era il dio che si rivelava.
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Una voce potente disse: – Forti Troiani, la terra da cui provenite vi vedrà tornare. Cercate l’antica madre! Là i discendenti di Enea domineranno uno spazio immenso di terra e di mare! Anchise allora gridò: – Ascoltate! C’è un’isola, sacra a Giove, chiamata Creta: quella è la primissima culla della nostra gente. Da Creta derivano i nostri usi, le cerimonie, le feste, tutto ciò che fa di noi quello che siamo. Dunque, andiamo, non ci vorranno più di tre giorni di navigazione. Partimmo subito e il viaggio fu facile e veloce. Arrivati sulla spiaggia di Creta, cominciammo a costruire le mura di una città. I miei compagni lavoravano lieti e fiduciosi, e tutto pareva andare per il meglio, quando un’aria malsana cominciò a soffiare su di noi una peste velenosa. Molti si ammalarono e morirono, e perfino la terra smise di dare i suoi frutti. Anchise, allora, consigliò di recarci ancora da Apollo per chiedere un nuovo oracolo. Ma quella notte mi apparvero in sogno i sacri dei protettori di Troia, le cui statuine avevo salvato dalle fiamme mentre fuggivo, e mi dissero: – Enea, Apollo ci manda a dirti che avete mal inteso le sue parole. Non qui vi aveva comandato di venire, ma in una terra chiamata Italia, dal nome del loro re. Da lì proviene il nostro antenato Dardano e lì dovrai stabilire la nostra nuova patria.
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Stupito da questa visione, andai a raccontarla ad Anchise. Egli prontamente disse: – Allora mi sono sbagliato! Presto, dirigiamoci là dove ci dicono gli dei.
Abbandonammo quindi anche Creta, mettendoci ancora per mare. Dopo non molto però, una tempesta si addensò sopra le nostre teste, oscurando il sole e precipitandoci in una notte fosca. Onde gigantesche e venti violenti sbatterono le nostre navi di qua e di là, risucchiandole in gorghi vorticosi e facendoci perdere la rotta. Per tre giorni vagammo sul mare e il quarto giorno scorgemmo finalmente una terra: erano le isole Strofadi. Sbarcati, vedemmo nei campi buoi e pecore e, spinti dalla fame, ne uccidemmo qualcuno per mangiare e fare offerte agli dei. Mentre stavamo banchettando, sentimmo un grande schiamazzo riempire l’aria all’improvviso. Dal monte vicino, ecco che calano su di noi i più orrendi mostri su cui uomo abbia posato il suo occhio. Corpo di uccello e testa di donna, le Arpie si avventano sui nostri tavoli imbrattandoli con le loro feci e afferrando coi loro artigli il nostro cibo.
fosca: di colore grigio scuro, cupa.
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Ci rifugiamo in un’ampia grotta vicina, ma di nuovo le Arpie riescono a raggiungerci. Ci nascondiamo allora tra l’erba alta e, al terzo attacco dei mostri, ingaggiamo una lotta furibonda, ma le loro schiene sono dure come ferro e non riusciamo a scalfirle. Alla fine, se ne vanno ma una di loro, Celeno, posata su una rupe ci grida: – Troiani prepotenti, venite a uccidere il nostro bestiame e a combatterci? Allora, ascoltate ciò che Apollo mi ha rivelato: arriverete in Italia, è vero, ma una volta là patirete una fame così terribile che sarete costretti a mangiare i tavoli. Poi volò via e noi restammo lì, ghiacciati. Avremmo voluto fare pace con le Arpie, onorarle con dei doni, ma erano sparite. Anchise, allora, invocò la protezione degli dei contro quella profezia funesta e comandò di partire in fretta per allontanarci da quel luogo a noi sfavorevole. Navigammo per giorni tra le isole greche, finché arrivammo nell’Epiro e scoprimmo che lì abitava un figlio di Priamo, Elèno, che aveva sposato Andromaca, la vedova di suo fratello Ettore. Impaziente di rivederli, corsi a cercarli appena sbarcato, e incontrai proprio Andromaca, che faceva sacrifici in onore del suo perduto Ettore. – Enea! Sei vero o sei un’apparizione? – mi chiese stupita.
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ingaggiamo: iniziamo un combattimento. funesta: disastrosa, tragica.
– Sono vivo e vero, ma dimmi: come sei arrivata qui? – risposi. – La mia storia è infelice come quella delle Troiane tirate a sorte tra i vincitori. Io toccai a Pirro, che mi tenne come schiava e madre dei suoi figli, fino a quando, per sposare una greca, non mi regalò al suo schiavo Elèno. Ma Pirro venne ucciso da un rivale in amore ed Elèno si ritrovò a ereditare una parte del regno. Egli costruì una piccola Troia in onore della nostra città natale e ora regna su di essa e su alcune città greche. Ma ora dimmi di te. Proprio allora arrivò Elèno e, riconoscendomi, mi venne incontro a braccia aperte, incredulo e commosso. Mi mostrò la sua città e io rividi la mia Troia riprodotta in piccolo, e altrettanto bella ai miei occhi pieni di lacrime. Per molti giorni restammo ospiti, ma io sentivo il richiamo del mio destino e chiesi a Elèno di esercitare per me la sua arte indovina. Egli profetizzò così: – O figlio di dea, sei destinato ad arrivare ma la strada è ancora molto lunga, prima dovrai attraversare mari e terre, visitare la Sicilia e perfino l’oltretomba. Saprai d’essere giunto quando un giorno, presso le rive di un fiume, vedrai una candida scrofa con trenta porcellini. Lì dovrai fondare la tua città, lì avrai riposo dalle tue fatiche. Non pensare alla triste profezia di Celeno, Apollo troverà il modo di aiutarti. Lascia ora queste terre e, quando sarai arrivato nel mare di Sicilia, dove le terre si avvicinano in uno stretto braccio di mare, tieni la sinistra. In questo stretto, infatti, scrofa: femmina del maiale.
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hanno casa due creature straordinarie: Cariddi a sinistra e Scilla a destra. Cariddi inghiotte i flutti dell’abisso e li rigetta verso l’altro per tre volte, all’infinito, mentre Scilla si nasconde in una caverna, da cui all’improvviso si sporge per trascinare le navi contro gli scogli. La metà superiore del suo corpo è di fanciulla, ma sotto ha il ventre di lupo e la coda di delfino. Stai alla larga da lei e potrai salvarti. Infine, ascolta questo consiglio: onora sempre Giunone, solo conquistando il suo favore arriverai in Italia vincitore. Quando avvisterai le coste italiche, sbarca a Cuma: là troverai la Sibilla, una potente indovina che ti descriverà i popoli d’Italia, le guerre future e come vincerle. Ora va’ e rendi di nuovo grande il nome dei Troiani. Detto questo, Elèno ci equipaggiò con tesori, armi, uomini e potemmo partire sfruttando venti favorevoli. Viaggiammo per due giorni, finché arrivammo in vista dell’Italia. – Italia, Italia! – gridarono le vedette e tutti esultammo per la gioia. Man mano che ci avvicinavamo alla Sicilia, sentivamo crescere il muggito immenso del mare agitato da Cariddi. Proprio allora, un cavallone ci prese e ci spinse ad altezza vertiginosa, per poi lanciarci verso il fondo sabbioso. Per tre volte vedemmo la spuma del mare bagnare le stelle, ma alla fine riuscimmo ad arrivare salvi alla terra dei Ciclopi.
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La spiaggia era tranquilla, ma poco distante il vulcano Etna mandava un rombo cupo, lanciando in alto globi infuocati e cenere ardente. Per tutta la notte
ascoltammo questi suoni spaventosi finché, all’alba, vedemmo un uomo avanzare verso di noi: era magro e curvo, coperto di stracci, con la barba e i capelli lunghi e sporchi. Subito capimmo che era Greco e lui capì che noi eravamo Troiani, ma lo stesso avanzò, supplicando: – O Troiani, ero tra quelli che assediavano le vostre mura, ma vi chiedo lo stesso di salvarmi o, se non potete, almeno di uccidermi! Tutto, pur di non restare in questo luogo maledetto. I miei compagni mi lasciarono qui quando riuscirono a fuggire e da allora vivo nel terrore dei Ciclopi. Ho visto il più grande di loro, Polifemo, uccidere e mangiare i miei compagni. Ma pagò caro il suo pasto, visto che l’astuto Ulisse lo fece ubriacare e poi con un palo appuntito accecò il suo unico occhio. Ma altri cento Ciclopi abitano questi luoghi, quindi fuggite più in fretta che potete e, vi supplico, portatemi con voi! Mentre così parlava, vedemmo Polifemo arrivare a enormi passi verso la spiaggia, circondato dalle sue pecore. In silenzio e in fretta tagliamo le funi e cominciamo a remare portando con noi il Greco, mentre Polifemo entra in acqua sollevando alti spruzzi e il mare profondo non gli arriva nemmeno al fianco. Quando si accorge che stiamo fuggendo, chiama gli altri Ciclopi che accorrono alla spiaggia, orrendo spettacolo, e ci guardano coi loro occhi solitari, rabbiosi e impotenti. Ma noi siamo già troppo lontani per poterci prendere, i giganti alzano lamenti al cielo mentre noi, con le vele gonfie di vento, siamo già in mare aperto.
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Costeggiammo la Sicilia a lungo, finché non arrivammo a Trapani dove, massima sventura, morì mio padre Anchise, dopo che lo avevo salvato da mille pericoli. Il dolore mi invase il cuore perché di tutte le disgrazie che avevo sopportato questa era per me la più terribile. Da Trapani proseguimmo il viaggio, ma ci colse una tempesta spaventosa che ci spinse fin qui, sulle vostre rive.
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Enea, dopo questo lunghissimo racconto, tacque, nel silenzio generale, mentre Didone lo guardava con occhi ormai infinitamente innamorati.
Libro 4 La bella regina, turbata dal veleno amoroso di Cupido, si confidò con sua sorella: – Cara Anna, non ho mai visto uno come Enea! Fiero, giusto, pio, afflitto da mille dolori e sciagure, sopporta tutto con animo fermo. Mi sono innamorata, riconosco i segni dell’antica fiamma! Eppure, ho giurato di non amare più nessuno dopo Sicheo. Anna la accarezzò: – A chi giova, sorella, il tuo sacrificio? Credi che importi a chi è ormai cenere? Oltretutto, il tuo regno è circondato da nemici e anche tuo fratello vuole vendicarsi della tua fuga. L’unione con un uomo forte e capace ti porterebbe solo benefici: con le armi dei Troiani, quanta gloria arriverà a noi Cartaginesi! Didone l’ascoltò con il cuore in tumulto: aveva ragione! Nei giorni seguenti il suo amore crebbe ancora: non mangiava, non dormiva, non pensava a nient’altro che a Enea. Di giorno lo conduceva a visitare le sue terre e di sera, durante il banchetto, gli chiedeva di raccontare ancora le sue avventure. Trascurava persino i suoi doveri di regina e quando Giunone vide a quale punto era giunta, infuriata, andò da Venere. – Sarai contenta d’aver vinto coi tuoi trucchi una povera donna mortale! Ma, ormai, non si può tornare indietro, quindi ti propongo un patto: Didone sposi Enea e noi potremo vegliare in armonia sui due popoli congiunti.
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Venere capì che l’intento di Giunone era di sottrarre Enea al suo destino, ma dovette rispondere: – Non posso rifiutare la proposta della regina degli dei, ma temo che Giove non voglia permetterlo. Tu sei la sua sposa, a te spetta convincerlo. – Di questo non darti pensiero. Quanto a Didone ed Enea, domani parteciperanno a una battuta di caccia. Mentre sono nei boschi scatenerò un temporale, disperdendo gli altri cacciatori, e farò in modo che loro due trovino riparo nella stessa grotta. Il resto verrà da sé.
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Il mattino dopo, un gruppo di giovani armati per la caccia uscì dalla città. Didone a cavallo li guidava ed Enea, alla testa dei cacciatori troiani, si offrì di farle da scorta. Una volta arrivati ai monti, però, un vento potente prese a soffiare, portando pioggia e grandine. Spaventati, i giovani cartaginesi e troiani si dispersero nei campi in cerca di riparo. Enea e Didone trovarono rifugio in una grotta, dove Didone confessò il suo amore e sposò Enea. Subito la notizia si sparse in tutta la Libia e così lo seppe anche il re Jarba, che era stato respinto da Didone poco tempo prima. Egli, folle di rabbia, invocò Giove: – O padre degli dei, guarda l’ingiustizia che si compie. Quella donna, che accolsi nelle mie terre, mi ha respinto per unirsi all’ultimo arrivato! Al sentire queste parole, Giove volse gli occhi a Cartagine e vide gli amanti. Quindi chiamò Mercurio e gli disse: – Va’, figlio, corri da Enea e digli che la smetta di perdere tempo: il mio volere è che parta subito.
Mercurio volò da Enea e gli disse: – Così, stai qui a oziare e dimentichi i tuoi doveri? Parti subito, è Giove che te lo comanda! Enea, turbato, fu preso dalla smania di partire, chiamò i suoi uomini e disse loro di tenersi pronti. Nel frattempo, avrebbe trovato un momento propizio per parlare a Didone. La regina, però, si accorse di quei preparativi e capì quello che Enea le aveva tenuto nascosto. Fuori di sé dal dolore, Didone corre da Enea e gli grida: – Perfido, pensavi di andartene di nascosto? Non ti fermava il nostro amore, il pensiero di lasciarmi? Per amor tuo ho trascurato il mio popolo e offeso i re vicini e tu mi lasci in balìa del fratello crudele e di tutti i miei nemici! La povera Didone si dispera, ma Enea la guarda con occhi fermi: – Non volevo partire in segreto, te lo avrei detto al momento opportuno. Se potessi vivere secondo il mio volere, sarei rimasto a Troia per ricostruire la città distrutta, ma devo obbedire agli dei che mi spingono verso la mia nuova patria. Questo è ora il mio più grande amore, il mio unico desiderio. Regina, non ti dimenticherò mai ma cessa questi lamenti: sono costretto a partire.
smania: agitazione, nervosismo. in balìa: soggetto a forze esterne.
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Didone lo ascoltò con occhi truci e alla fine disse: – Non sei figlio di dea, sei fatto piuttosto di dura pietra! Non ti ha commosso il mio pianto, non hai avuto nessuna pietà. E io, che ti ho ospitato e ho condiviso con te il mio regno! Basta! Parti pure, cerca la tua casa attraverso le onde: io verrò a perseguitarti quale spettro in ogni luogo e in ogni momento. Didone, con la voce rotta di pianto, svenne. Le sue schiave accorsero a prenderla e la adagiarono sul letto. Enea avrebbe forse voluto consolarla, ma si trattenne e affrettò i preparativi. Dall’alto di una torre del suo palazzo, Didone, rinvenuta, guardava verso il porto piangendo lacrime furiose. In un ultimo tentativo, chiese aiuto ad Anna: – Dolce sorella, va’ da Enea con questa preghiera: mi dia il tempo di abituarmi a questa perdita. Non che rinunci al suo futuro regno, non che onori le sue promesse, solo mi conceda un po’ di tempo ancora. Anna andò da Enea, ma egli non mutò parere: un dio gli chiudeva le orecchie e il cuore. Didone, sconvolta, andò allora al tempio per fare sacrifici agli dei, ma vide il vino mutarsi in sangue e sentì la voce di Sicheo che le rimproverava il suo tradimento. Smarrita e disperata, decise di togliersi la vita.
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truci: minacciosi.
Chiamò sua sorella: – Anna, ho trovato il modo di curare il mio cuore ferito. Chiederò a una potente strega di liberarmi da questo affanno. Tu intanto prepara un rogo e gettaci le armi di Enea e ogni ricordo di lui. Anna, che non immaginava che Didone stesse pensando di uccidersi, fece come le aveva chiesto. Scese la notte e Didone, in preda a cupi pensieri, non poteva dormire: “E adesso che cosa farò? Resterò qui circondata da nemici o partirò sola coi Troiani, abbandonando la mia gente? Come ho potuto fidarmi di quel bugiardo senza cuore?” così smaniava in preda a una furia cieca. Intanto Enea, sulla poppa della sua nave, fu visitato in sogno da Mercurio, che ancora lo spronò: – Affrettati a partire! Didone commetterà una pazzia e voi sarete in grave pericolo! Enea si riscosse e strappò al sonno i suoi compagni: – Svegliatevi, su, e sciogliete le vele, un dio mi impone di partire subito – così tutte le navi tagliarono le funi e diressero le prue verso il mare aperto.
Allo spuntar del giorno erano già a largo e Didone, vedendole lontane, si percosse il petto: – O Giove, lo straniero se ne va impunito? Ecco la pietà di uno che ha portato il padre in spalla, ecco la nobiltà del suo animo! Didone, povera illusa, solo ora te ne accorgi? Ah potenti dei, ascoltatemi: se il suo destino è fondare un nuovo regno, che debba lottare duramente per averlo, che combatta mille battaglie e veda morire i suoi! E voi, miei amati Cartaginesi, siate nemici dei Troiani: nessuna amicizia ci sia mai tra questi due popoli, nessun patto. Stirpe troiana, io ti maledico ora e per sempre!
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Così dicendo, Didone corse alla catasta del rogo, salì fino in cima e si trafisse il petto con la spada di Enea. Oh, tremenda sciagura! La funesta notizia si sparse in fretta, finché tutto il popolo lo seppe. Anna, sgomenta, corse attraverso la folla riversata nelle vie, graffiandosi il viso: – Sorella mia, per questo dunque volevi il rogo! Perché non me lo hai detto? Ti avrei trattenuta o mi sarei uccisa con te! Ora sei morta tu, e io e tutto il nostro popolo! Si arrampicò in cima alla catasta e prese il corpo della sorella tra le braccia, asciugando il sangue con la sua veste. Didone, che ancora respirava, per tre volte tentò di sollevarsi e tre volte ricadde all’indietro. La dea dell’oltretomba, Proserpina, infatti, non le aveva ancora strappato il capello che la teneva legata alla vita, perché si era uccisa di sua volontà. Allora Giunone, impietosita, inviò la sua messaggera, Iride, a liberarla. La dea arrivò in volo da lei con le sue penne sgargianti: – Questo capello porto alla regina dell’aldilà e sciolgo la tua anima dal corpo offeso. Strappò il capello e la vita di Didone svanì nel vento.
sgomenta: turbata, impaurita. il capello che la teneva legata alla vita: nell’antichità si pensava che ognuno avesse un capello “magico” che ci legava alla vita e che veniva strappato dalla dea dell’oltretomba al momento della morte.
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Libro 5 Intanto Enea da lontano guardava verso Cartagine e, quando vide le fiamme del rogo, sentì un oscuro presagio nel cuore. La navigazione procedette tranquilla, ma a un tratto fosche nubi cominciarono ad addensarsi. Allora Palinuro, il miglior timoniere della flotta troiana, gridò: – Enea, la tempesta è in arrivo e non possiamo tenere la rotta. Assecondiamo il vento e dirigiamoci verso le vicine coste di Sicilia. – Mi fido del tuo giudizio, guidaci verso un porto sicuro. So che siamo vicini a Trapani, la terra del troiano Aceste, dove poco più di un anno fa ho seppellito il padre Anchise. Quale terra potrebbe esserci più propizia? E infatti le navi, portate da un forte vento ora favorevole, toccarono terra senza difficoltà e Aceste scese alla spiaggia per accogliere gli amici. Il giorno seguente, Enea radunò i suoi e disse: – Cari compagni, è passato un anno da quando affidammo a questa terra le ceneri di mio padre. Celebriamo allora i riti funebri come lui meritava! Offriremo sacrifici alle nostre divinità protettrici e poi bandirò i giochi secondo la nostra tradizione: una regata di navi, una gara di corsa e di tiro con l’arco e incontri di lotta!
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bandirò: renderò noto con un avviso pubblico.
Quindi Enea andò verso la tomba di Anchise e versò due coppe di vino, due di latte e due di sangue, in mezzo a una gran folla. Mentre pregava, un serpente dorato uscì da sotto la tomba e la circondò con le sue spire attorcigliandosi sette volte, poi strisciò tra le coppe di vino e le altre offerte e, senza fare alcun male, si ritirò di nuovo sotto la tomba. Enea interpretò quel prodigio come un segno favorevole e proseguì i sacrifici. Dopo nove giorni, iniziarono le gare e venne molta gente anche dalle terre vicine per assistere ai giochi o prendervi parte. Terminate le gare e assegnati i premi, ci fu lo spettacolo di un finto combattimento a cavallo dei giovanissimi Siciliani e Troiani, tra i quali Ascanio, guardato da tutti con simpatia e ammirazione. Ma a quel punto Giunone, sempre ostile a Enea e ai suoi, inviò Iride dalle Troiane che, radunate su una spiaggia poco lontano, stavano celebrando anch’esse i riti funebri per Anchise. Iride, assunte le sembianze di una donna anziana, prese a istigarle così: – Povere noi, meglio sarebbe stato morire nella amata Troia, piuttosto che vagare verso una meta che non arriva mai. Già da otto anni viaggiamo di terra in terra, di pericolo in pericolo, e ancora l’Italia ci sfugge, beffarda. Qui però siamo le benvenute: perché non possiamo fermarci e fondare una nuova città? Io dico basta! Orsù, bruciamo le navi maledette! – così dicendo, prese un tizzone e lo scagliò verso le navi. tizzone: pezzo di legno o carbone che sta bruciando.
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Le donne la guardavano stupite, quando una di loro disse: – Questa non è una donna, guardate i suoi occhi e il suo vigore! Non può che essere una dea! A queste parole Iride si levò in volo, tracciando la scia dell’arcobaleno, e le Troiane, infiammate dal suo divino volere, cominciarono a scagliare verso le navi tizzoni e rami infuocati, prendendoli dagli altari. Dallo spiazzo delle gare, alcuni scorsero le fiamme. Ascanio per primo, in groppa al suo cavallo, corse alla spiaggia, gridando: – Che fate, donne? Che è questa follia? Con le navi state bruciando il nostro futuro! Anche Enea e gli altri accorsero, mentre le Troiane, sbollita dai loro cuori la furia instillata da Giunone, si disperdevano tra la spiaggia e i boschi, vergognandosi del loro gesto. Ma ahimè, troppo tardi! Le fiamme erano ormai molto alte.
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Enea, allora, alzò le mani al cielo: – O Giove, se ancora non odi tutti i Troiani, salva ti prego le navi dal fuoco, oppure manda subito un fulmine ad annientarmi! Il cielo si coprì all’improvviso di nubi nere e un rovescio enorme di acque riempì le navi, spegnendo ogni fiamma, salvandole tutte tranne quattro. Enea, felice di quell’intervento ma turbato, era indeciso sul da farsi. A questo punto, sarebbe stato meglio restare o partire? Un vecchio indovino, allora, gli diede un saggio consiglio: – Figlio di dea, tu devi seguire il tuo destino. Ma poiché hai perso delle navi e alcuni non potranno partire, lascia qui quelli che sono troppo stanchi, o deboli o vecchi. Qui saranno ben accolti e potranno fondare una nuova città.
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Quella notte Enea vide in sogno Anchise che gli disse: – Figlio, ascolta le parole dell’indovino. Porta in Italia i più forti, ma prima vieni a trovarmi nel mondo dei morti. Là ti condurrà la famosa sacerdotessa di Apollo, Sibilla, e là saprai ogni cosa del destino che ti aspetta. Così, nei giorni successivi, mentre alcuni riparavano le navi danneggiate, altri si misero a costruire la città per quelli che volevano restare. Quando furono pronti per partire, Venere andò da Nettuno: – Potente signore del mare, dopo tanti interventi divini a loro sfavore, i miei Troiani meritano un po’ di fortuna. Ti prego di farli arrivare sicuri alla terra loro promessa da tempo. Nettuno rispose: – Non temere, i tuoi protetti arriveranno sani e salvi, tutti tranne uno: questo è il pegno da pagare per assicurarsi un viaggio tranquillo. Le navi, con la protezione del dio, viaggiavano sicure sul mare liscio e lucente mentre la notte aveva già raggiunto metà della sua corsa. Il timoniere Palinuro stava sulla prua, scrutando il buio e tenendo la rotta, quando il Sonno scese a cercare proprio lui, l’innocente vittima designata. Palinuro lottò a lungo con il torpore che gli entrava nelle membra, facendolo alla fine scivolare nell’acqua. La flotta non rallentò il cammino, portata da Nettuno. Solo più tardi Enea si accorse che la nave era senza timoniere e, tra le lacrime, prese il timone gridando il nome del suo amico perduto.
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Libro 6 E così, grazie al sacrificio di Palinuro, le navi giunsero senza incidenti alla terra italica, vicino a Cuma. Enea, appena arrivato, si recò all’antro della Sibilla, come gli aveva indicato il suo amico Elèno e ripetuto Anchise in sogno. La Sibilla, ispirata dal dio Apollo, cominciò a dire: – Enea, le pene tue e dei tuoi non sono finite. Altre terribili guerre ti aspettano e dovrai affrontare un difensore del Lazio, figlio di dea e forte come Achille, e l’odio sempre vivo di Giunone. Dovrai cercare alleanze e chiedere aiuti, e la via della salvezza arriverà da una città greca. – Le nuove prove e fatiche non mi spaventano, ma ti supplico di accompagnarmi nell’oltretomba, vorrei visitare mio padre Anchise. Ti prego, abbi pietà di un figlio e di suo padre! – Solo pochi hanno osato tentare questa tremenda impresa. Entrare nel mondo dei morti è facile, ma molto più difficile è uscirne. Se davvero lo vuoi, devi prima fare due cose: trovare nella foresta un ramo d’oro da portare a Proserpina, regina dell’oltretomba, e dare degna sepoltura a un tuo compagno defunto. Solo allora potrai entrare, da vivo, nell’aldilà. Enea, turbato, uscì dalla caverna chiedendosi chi fosse il compagno a cui si riferiva la Sibilla. Mentre si avvicinava alla spiaggia, vide il corpo disteso di Miseno, il trombettiere che, con la sua arte, chiamava i soldati alla battaglia. Egli, suonando magistralmente
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una conchiglia, aveva suscitato la gelosia di un tritone che lo aveva travolto sugli scogli con un’onda, e ora i compagni lo piangevano sul lido. Enea comandò che si celebrasse il funerale e andò a procurare lui stesso la legna per la catasta funebre. Proprio allora due colombe inviate da Venere lo guidarono al ramo d’oro: Enea lo strappò, lo portò alla Sibilla e fece tutto ciò che lei comandava. Andarono insieme a un’immensa caverna e sacrificarono tori e agnelli neri per tutta la notte, invocando le divinità. Al mattino, la terra levò un suono cupo, gli alberi scossero le fronde e la Sibilla gridò: – Ora, Enea, devi mostrare il tuo coraggio. Seguimi! – e si lanciò dentro la caverna. Enea la seguì e si ritrovò immerso nella più completa oscurità. Subito incontrarono i primi tristi abitatori del regno dei morti: la Malattia e la Vecchiaia, e poi la Paura e la Fame e, poco più avanti, la Povertà e la Sofferenza e infine il Sonno, fratello della Morte. Di fronte c’erano la Guerra e la Discordia, e mostri incredibili dalle molte forme: c’erano i Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli, un gigante dalle cento braccia, la Chimera, parte donna e parte bestia, e l’Idra dalle molte teste. Enea sguainò la spada, ma la Sibilla lo fermò: – Fermo! Sono solo ombre e non possono farti del male. Andiamo, sento il rombo dell’Acheronte, il grande fiume infernale. E infatti, le acque di un fiume torbido di fango presto ribollirono davanti a loro. Un vecchio dagli occhi fiammeggianti stava in piedi su una barca,
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tritone: creatura mitologica, mezza uomo e mezza pesce.
mentre una folla di anime correva verso la riva. Tutti tendevano le mani, vecchi, giovani, donne, uomini, pregando di passare per primi. Il vecchio ne sceglieva alcuni e scacciava gli altri. – Perché alcuni passano e altri no? – chiese Enea. – I respinti sono i morti insepolti, perché prima di attraversare devono vagare in questi lidi per cento anni. E quello è Caronte, il traghettatore di anime. Enea scrutava nel buio, provando pena per quei poverini, quando riconobbe tra loro Palinuro. – Amico mio, come sei arrivato qui? – Un colpo di vento mi fece cadere dalla nave. Vagai per tre giorni nel mare salato e, quando finalmente toccai terra in Italia, degli uomini ostili mi uccisero, mentre cercavo di aggrapparmi agli scogli affilati, e lì mi abbandonarono. Ti prego, portami con te al di là di questo fiume! La Sibilla intervenne: – Tu ancora non puoi passare, ma sappi che presto le tue ossa avranno sepoltura nel luogo che per sempre porterà il tuo nome. Proseguirono verso il fiume quando Caronte, vedendoli arrivare, gridò: – Fermi! Non posso traghettare un vivo!
Al che la Sibilla rispose: – Costui è Enea e deve scendere tra i morti per trovare suo padre! Poi tirò fuori da sotto il mantello il ramo d’oro. Caronte, vedendolo, si calmò e li trasportò sull’altra riva. Qui, in una immensa caverna, era di guardia Cerbero, l’enorme cane a tre teste, che latrava rintronando l’aria. La Sibilla gli gettò una focaccia piena di sonnifero e quello cadde addormentato. Superata la soglia, sentirono i vagiti dei bambini morti appena nati e il pianto dei suicidi e, procedendo ancora, arrivarono ai Campi del Pianto, abitati dagli amanti consumati da un amore infelice. Tra quelle anime, Enea riconobbe Didone, e le si avvicinò: – Dolce regina, dunque erano vere le voci che ti davano per morta? Ti prego di credere che lasciai la tua casa costretto dagli dei e non per mia volontà. Aspetta, dove vai? Ascoltami! – ma Didone, abbassando gli occhi sdegnata, si rifugiò nel bosco, senza dire una parola. – Andiamo, ancora lungo è il cammino – disse la Sibilla. Arrivarono ai campi degli eroi di guerra, dove
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Sdegnata: con rabbia e disprezzo provocati da un’offesa.
incontrarono molti Troiani, che corsero incontro a Enea, stupiti di vederlo lì. Egli tutti li salutò, piangendo commosso, finché di nuovo la Sibilla lo richiamò. – Vedi laggiù quel bivio? A destra si va verso i Campi Elisi, dove siamo diretti, mentre a sinistra nel Tartaro, dove vivono i dannati, in eterno. Vieni, dobbiamo affrettarci. Là c’è la porta: lasciamo il ramo d’oro per Proserpina ed entriamo. Oltre la porta si apre davanti ai loro occhi una visione incantevole: boschi e campi avvolti di luce, un dolce paesaggio abitato da uomini intenti in piacevoli attività. Alcuni si esercitano nella lotta o altre gare sportive, qualcuno suona strumenti o canta, altri danzano insieme. Ci sono cavalli, carri e armi, tutto ciò che questi eroi amarono in vita. Alcuni siedono a un banchetto sull’erba, presso le rive di un fiume, dalle acque chiare e fresche. Sono gli uomini caduti combattendo per la patria, i sacerdoti giusti, i poeti, gli artisti e gli inventori. A quelle ombre si avvicinano con rispetto e la Sibilla chiede: – Anime nobili, diteci, dov’è il grande Anchise? – Superate quella collina laggiù e lo troverete. Anchise, nella conca verdeggiante, era intento a guardare le anime dei suoi futuri nipoti non ancora nati. Appena vide Enea, gli tese le mani, piangendo di gioia. – Finalmente sei giunto, ti ho tanto aspettato! – La tua ombra, tante volte vista in sogno, mi ha guidato, padre. Lasciati abbracciare! – così dicendo
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Enea per tre volte cercò di abbracciare l’ombra senza riuscirci. Poi si accorse di una grande folla che riempiva la conca, lungo le rive di un fiume e chiese: – Chi sono costoro? – Le anime che vedi lungo il fiume Lete sono di coloro il cui destino è di incarnarsi una seconda volta. Esse bevono l’acqua del fiume che cancella la memoria e dimenticano chi sono stati, pronti per una nuova vita. Ma vieni ora, desidero mostrarti i nostri discendenti. Quel giovane è Silvio, il tuo ultimo figlio, nato da te ormai anziano e da tua moglie Lavinia. Quelli di fianco a lui costruiranno città famose dove oggi sono prati e campagne. Più in là vedi Romolo, figlio del dio Marte, fondatore di quella Roma che estenderà il suo dominio su tutta la terra, circondando con le sue mura ben sette colli. Ed eccoli lì, i tuoi Romani! E tra loro il più grande di tutti, Cesare Augusto, che riporterà nel Lazio l’età dell’oro e innalzerà fino al cielo la fama del nostro popolo: è lui l’illustre discendente che ti è stato promesso. E vedo anche i re che si succederanno al trono nei primi tempi di Roma: guarda quanti sono i tuoi discendenti destinati a grandi imprese! Tutti vorrei elencarli, ma sono troppi e allora ti dirò solo che essi porteranno prosperità e pace nel mondo, governando con le armi, sì, ma anche con la legge e la giustizia. Enea tutti li guardava, pieno di commozione. Ancora a lungo il padre lo accompagnò nei Campi Elisi a conoscere i futuri eroi e le imprese che ancora lo attendevano, finché non giunse il momento di andare. Anchise guidò Enea e la Sibilla a una porta d’avorio dalla quale essi ritornarono nel mondo dei vivi.
Libro 7 Ritrovati i compagni e ringraziata la Sibilla, Enea diede ordine di ripartire. La notte era chiara e tiepida, mentre le navi passavano accanto alla terra di Circe, risuonante dei versi di tutti gli uomini che la maga aveva trasformato in lupi, cinghiali e orsi. Nettuno, temendo che anche i Troiani rimanessero intrappolati nei suoi incantesimi, riempì le vele di venti favorevoli e li portò lontani dal pericolo, finché Enea, guardando verso la costa, vide un bosco immenso, attraversato da un largo fiume tranquillo. Quella terra era il Lazio e il fiume era il Tevere. – Andiamo, prenderemo terra risalendo la corrente – disse con leggerezza, avendo nel cuore un buon presentimento. In questa terra, da lungo tempo governava in pace il re Latino. La sua unica figlia era Lavinia, che in molti avrebbero voluto come sposa e tra questi Turno, il principe dei Rutuli, una popolazione locale. Il giovane, figlio di dea e di bell’aspetto, era il favorito della madre di Lavinia, la regina Amata, che sperava di averlo come genero. Ma gli dei avevano altri progetti e li manifestarono attraverso un prodigio. Nel cortile del palazzo reale c’era un albero di alloro sacro, sul quale uno sciame di api si posò, pendendo dai rami come un grappolo compatto. Gli indovini allora fecero questa profezia: un eroe straniero sarebbe arrivato dalla stessa parte da cui erano giunte le api e avrebbe regnato sul
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paese. Di lì a poco accadde un altro fatto straordinario: mentre Lavinia accendeva gli altari con le fiaccole, parve prendere fuoco nei capelli e nelle vesti, senza però bruciare davvero. Gli indovini dissero che questo significava che Lavinia avrebbe avuto grandi onori e fama ma pagando il prezzo di una guerra dolorosa per il suo popolo.
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Suo padre, allarmato da questi segnali, si recò presso un vicino oracolo, che confermò la profezia: – O re, non dare tua figlia a un latino, verrà un genero straniero che porterà alle stelle il vostro nome con la sua discendenza. La notizia volò in fretta dappertutto cosicché, quando i Troiani imboccarono il Tevere, dappertutto era già arrivata la voce di un eroe straniero destinato a sposare Lavinia. Enea e i suoi, stanchi del viaggio, attraccarono lungo le rive erbose, per mangiare e riposare. Una volta mangiato tutto il cibo, poiché avevano ancora fame, mangiarono anche le tavole di pane su cui avevano appoggiato le pietanze, al che Ascanio disse scherzando: – Siamo così affamati che ci mangiamo anche i tavoli! Enea, nel sentirlo, rimase come folgorato: ecco che cosa intendeva l’Arpia Celeno con la sua profezia! Allora era questa la fine del lungo viaggio e questa la terra promessa! Commosso, disse: – Salve, o terra assegnataci dal destino, e benvenute, divinità protettrici di Troia, nella vostra nuova casa! Compagni, domani al sorgere del primo sole, visiteremo questo paese e i popoli
che lo abitano – poi versò il vino e offrì doni agli dei. Il giorno seguente, i Troiani esplorarono i dintorni ed Enea, avendo scoperto che gli abitanti erano i Latini e la loro capitale Laurento, inviò là cento ambasciatori coronati d’olivo, in segno di pace. Quindi, si mise al lavoro per fondare la nuova città: tracciò il contorno con un piccolo fosso, spianò l’area e fece elevare le prime costruzioni, circondandole con un muro di protezione. Intanto, gli ambasciatori erano arrivati a Laurento, dove il re Latino li accolse con benevolenza. – Benvenuti, Troiani, la vostra fama vi precede. Siamo felici di accogliervi, poiché siamo ospitali per natura e perché il vostro antenato Dardano è originario di queste terre ed è una delle divinità che onoriamo sui nostri altari. Cosa vi ha spinto qui, una tempesta o un errore di rotta? Un ambasciatore troiano rispose: – Non una tempesta né un errore, siamo venuti di proposito a cercare una nuova patria, come ha comandato Giove al nostro re, Enea. Non respingerci, ti prego, poiché veniamo in pace e secondo il volere degli dei. Mentre quello parlava, il re Latino ripensava alle parole dell’oracolo: ecco il genero straniero che avrebbe dato lustro alla sua stirpe! E allora lietamente disse: – Non vi respingo, Troiano, anzi, di’ a Enea di venire di persona, senza paura. Secondo una profezia, mia figlia Lavinia è destinata a essere sposa di un eroe straniero, e io penso che Enea sia quello.
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Giunone, vedendo dall’alto cielo la buona sorte dei Troiani, si infiamma di rabbia: – Ah, stirpe odiosa, che niente riesce ad abbattere! Ma la vedremo! Se l’aiuto degli dei del cielo non basta, solleverò l’inferno pur di nuocere a Enea. So che il Lazio sarà la sua casa e che alla fine sposerà Lavinia, ma farò di tutto per ritardare questo destino, con una guerra sanguinosa tra Troiani e Rutuli: Lavinia, questa sarà la tua dote di nozze! La dea, allora, chiama la spaventosa Aletto, una divinità infernale che, con le sue due sorelle, ha il compito di dare il tormento alle anime dannate. – Aletto, tu che puoi far combattere tra loro anche i fratelli e gli amici, tu che puoi seminare discordia e odio, scatena la guerra tra i due popoli e spargi ovunque disgrazie e dolore.
Aletto accolse l’invito e andò al palazzo di Laurento, nella stanza della regina Amata, prese un serpente dai propri capelli e glielo conficcò nel petto. Subito, il veleno dell’odio si impadronì della regina, che tentò di persuadere Latino a non dare in sposa sua figlia a uno sconosciuto. Poi, visto che le preghiere non servivano, Amata si mise a girare per la città urlando e smaniando. Tutte le madri della città, infiammate dal suo esempio, la seguirono abbandonando le case mentre Amata le incitava: – Orsù, voi che siete madri, unitevi a me, aiutatemi a proteggere mia figlia! – poi prese Lavinia e si nascose nel bosco, per sottrarla alle nozze straniere. Dopo aver portato tutto questo scompiglio nella città e nella casa di Latino, a notte fonda Aletto volò con le sue ali nere fino al palazzo reale nella capitale dei Rutuli, Ardea. Qui il principe Turno dormiva e Aletto, preso l’aspetto di una vecchia sacerdotessa di Giunone, gli apparve in sogno. – Turno, come puoi dormire mentre un predone venuto da fuori ti deruba della sposa e del regno a te promessi? Corri, va’ a reclamare ciò che è tuo di diritto, stermina i ladri troiani, proteggi il tuo popolo e i Latini! Questo mi manda a dirti Giunone! Turno, invece di ascoltarla, la prese in giro: – Sei vecchia e ti spaventi facilmente, non ho intenzione di fare nessuna guerra, lasciami in pace. A queste parole, Aletto si adirò e rivelò il suo mostruoso aspetto: – Dunque sarei una vecchia che si spaventa? Guardami, io sono colei che porta guerra e morte! – e scagliò verso Turno una fiaccola accesa.
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Turno, scosso da tremori e bagnato di sudore, si svegliò di soprassalto, poi balzò in piedi chiamando i giovani Rutuli alla battaglia: – Presto, corriamo a difendere l’Italia dagli invasori! I suoi compagni, eccitati dalle sue parole, accorsero entusiasti al richiamo di guerra. Compiuta anche questa impresa, Aletto tornò dai Troiani e vide Ascanio che era intento alla caccia. Nel bosco lì vicino vagava spesso un cervo allevato con amore da Silvia, la figlia di un pastore del re Latino. La perfida Aletto, sapendo che questo avrebbe provocato una profonda inimicizia tra i Troiani e i locali, portò i cani di Ascanio nella direzione del cervo, poi guidò la sua freccia a trafiggerne il petto. Il cervo, gravemente ferito, riuscì tuttavia a tornare a casa e Silvia quando lo vide pianse e si disperò. Suo padre, allora, chiamò i contadini da tutti i dintorni, li incitò ad armarsi di pali, scuri e forconi e li mise sulle tracce dell’incauto cacciatore. Quando i Troiani videro riunirsi questa schiera minacciosa, corsero a loro volta in soccorso di Ascanio e scoppiò una vera e propria battaglia. Mentre molti uomini cadevano da una parte e dall’altra, Aletto, trionfante, volò da Giunone. – Ho fatto quanto hai chiesto. Ora che i Troiani si sono macchiati di sangue italico, non sarà facile l’alleanza tra i due popoli. – Bene, Aletto, puoi tornare nella tua dimora, da qui in avanti ci penserò io.
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Intanto sulla terra, i contadini, raccolti i loro morti, andarono a lamentarsi dal re Latino. Mentre supplicavano il re di fare giustizia, arrivò Turno a incendiare ancora di più gli animi, sostenendo il suo diritto a sposare Lavinia, che gli era stata promessa, e la necessità di non mescolare il sangue latino con quello straniero. Si aggiunsero infine anche le madri, che erano tornate in città dai boschi dove si erano disperse, per reclamare a gran voce la guerra contro gli invasori. Il re Latino, vedendo che ormai una folle sete di sangue si era impadronita del suo intero popolo, gridò: – Stolti che siete! Le profezie erano chiare ma voi vi opponete al disegno del destino e sarete travolti dal sacrilegio di non rispettare la volontà degli dei! Quanto a me, sono troppo vecchio per impormi – e detto questo, si chiuse nel palazzo, rinunciando al potere. Poiché Latino si era rifiutato di dichiarare guerra ai Troiani e di aprire le porte del tempio consacrato a Marte, dio della guerra, Giunone in persona le aprì, spingendo i battenti rinforzati con stanghe di bronzo e imposte di ferro. Ecco, la pacifica Italia ora brucia: tutti si preparano a combattere, chi a piedi, chi a cavallo, affilano le scuri e lucidano gli scudi, forgiano elmi e corazze, ovunque risuonano le trombe di guerra. Da ogni parte accorrono guerrieri e re: sono tanti, come onde del mare, e la terra trema sotto i loro passi, forgiano: lavorano a caldo un metallo.
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ogni schiera armata in un modo diverso con spade ricurve o piccoli scudi, con elmi di sughero e spade di bronzo. Tra tutti svettava, per forza e statura, il principe Turno e, dopo di lui, la vergine guerriera Camilla, abituata alle spade e agli scudi più che al cucito, e veloce come il vento. Quando passò, tutti uscirono ad ammirarla, splendida nel suo mantello di porpora, e ammutolirono vedendo il suo portamento regale e fiero. L’Italia era in guerra.
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svettava: si notava per l’alta statura.
Libro 8 Mentre il Lazio correva ad armarsi, chiamando alleati da ogni regione vicina, tutta questa furia guerresca non sfuggì a Enea, angosciato dalla piega che avevano preso gli eventi. Avrebbe voluto stringere accordi e abitare in armonia coi popoli latini e invece doveva ancora affrontare fatica e dolore. Affranto, di notte andò sulla riva del Tevere e si accasciò a terra, per trovare un po’ di conforto nella calma bellezza della natura. Ed ecco, gli appare il dio Tevere con le sembianze di un vecchio, avvolto in un manto azzurro: – Enea, non avere paura, la tua patria è qui. Ora vedrai sulla riva una candida scrofa con trenta cuccioli: lì fonderai la tua nuova città. Ma prima devi cercare l’alleanza del popolo greco degli Arcadi e del loro re Evandro, che abitano non lontano da qui: essi sono sempre in guerra coi Latini, ti aiuteranno volentieri. Il dio scomparve tuffandosi nelle acque profonde ed Enea si risvegliò dal sonno, poi si inginocchiò per ringraziare e benedire il fiume. Quindi, fece allestire due navi e preparare gli uomini alla partenza. Mentre si affaccendavano così, videro spuntare dal folto una scrofa bianca seguita da trenta porcellini. Enea subito la spinse verso l’altare che aveva preparato e la sacrificò a Giunone. Finalmente poterono partire e il Tevere si appiattì sotto i loro remi, rendendo rapido il viaggio. Il giorno successivo arrivarono in vista della città di Evandro e approdarono lì vicino.
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Evandro, quel giorno, in un bosco di fronte alla città, insieme con suo figlio Pallante e altri compagni, stava onorando il grande eroe e semidio Ercole. Pallante, vedendo arrivare le barche cariche di uomini armati, corse loro incontro gridando: – Chi siete? Portate pace o guerra? Enea, alzando un ramo di olivo, rispose: – Siamo Troiani e siamo venuti a chiedere alleanza al re Evandro contro i Latini. – Allora sei un ospite gradito in casa di mio padre – Pallante strinse la mano a Enea e lo accompagnò dal re. Enea si inchinò: – Evandro, non ho paura a presentarmi a te che sei greco, perché sono stati gli dei a suggerirmelo. Poiché abbiamo un nemico comune, ti propongo un’alleanza. – So chi sei, o fortissimo tra i Troiani, poiché nel tuo volto riconosco i tratti del caro Anchise. Lo vidi quando venne con il re troiano Priamo a visitare mia sorella. Allora io ero giovanissimo, ma egli fu molto gentile con me e prima di partire mi donò la sua faretra e un mantello trapunto d’oro. Dammi la mano: già fatta è l’alleanza e domani potrai ripartire, certo del mio aiuto. Ma mentre sei qui, celebra con noi questa festa e siediti alla nostra mensa. Evandro fece sedere Enea al posto d’onore e, quando ebbero finito di mangiare, disse: – Ogni anno celebriamo Ercole perché gli dobbiamo eterna riconoscenza. Vedete quella roccia lassù? Là, nel
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faretra: astuccio per riporre le frecce dell’arco.
fianco della montagna, c’era la tana di Caco, un gigante mezzo uomo e mezza bestia, in grado di sputare fuoco dalla bocca. Egli portava distruzione e morte, ed era per noi una vera maledizione. Ma un giorno giunse qui Ercole, fiero di avere appena ucciso un gigante a tre teste e di essersi impossessato delle sue mandrie di tori e giovenche. Quando Caco vide quegli splendidi animali, rubò quattro tori e altrettante giovenche, facendoli camminare all’indietro fino alla sua caverna, per confondere le tracce. Quando al mattino Ercole radunò la mandria per riprendere il viaggio, gli animali si misero a muggire e in risposta si sentì una giovenca muggire dalla caverna di Caco. Ercole allora, infuriato, prese un grosso bastone e si precipitò verso il nascondiglio di Caco. Il gigante, impaurito, corse verso la caverna e spezzò la catena che teneva un enorme masso sospeso sopra l’entrata per chiudere l’ingresso. Ercole fece tre volte il giro della montagna per trovare un passaggio, poi salì sulla rupe che sovrastava la caverna e cominciò a scuoterne la cima fino a strapparla e a precipitarla di sotto. Il cielo rintronò di un boato pauroso: il fianco della montagna era aperto e la caverna di Caco esposta alla luce. Il gigante, per nascondersi, sputò fiamme e fumo tutto intorno, ma Ercole, balzato nel punto in cui il fumo era più denso, lo trovò, lo prese alla gola e strinse fino a soffocarlo. Così ci liberò da quel flagello e da allora noi lo onoriamo con questa festa – Evandro alzò il calice per brindare e tutti lo imitarono. Terminata giovenche: vacche giovani.
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la celebrazione del grande eroe, tornarono verso la città, mentre Evandro mostrava i luoghi e raccontava le gesta degli uomini del tempo andato. – Eccoci arrivati alla mia dimora. Ho fatto preparare per te un giaciglio di foglie e di pelle di leone, spero sarà confortevole. A domani.
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Mentre la notte avvolgeva la terra, Venere, preoccupata dalle minacce dei popoli italici, parlò al dio Vulcano nel loro letto nuziale.
– Marito mio, finché i Greci assediavano i Troiani non ho chiesto nulla, perché sapevo che era il loro destino. Ma ora Enea si è fermato nelle terre dei Latini su comando di Giove, perciò vengo a chiederti per mio figlio delle armi potenti, poiché potenti sono i suoi nemici! – Mia dolce Venere, sarai accontentata, egli avrà le migliori armi che mai uomo abbia posseduto. Riposò un poco tra le braccia della dea, poi, appena superata la metà della notte, corse alla sua isola, vicino alla Sicilia. Qui scese dal cielo nella caverna dei Ciclopi, che stavano lavorando per fabbricare i fulmini di Giove, il carro di Marte e l’armatura di Minerva. – Lasciate quello che state facendo, o Ciclopi, perché dobbiamo forgiare armi invincibili per un grande eroe! I Ciclopi si divisero i compiti e si misero subito all’opera. Mentre Vulcano e i suoi straordinari fabbri lavoravano a tutta forza, venne il mattino sul palazzo di Evandro che, di buon’ora, si recò con il figlio Pallante a trovare Enea. – Illustre Troiano, ho da offrirti forze modeste rispetto alla tua fama, ma posso procurarti come alleato un popolo valoroso. Non lontano da qui, infatti, si trova la città etrusca di Cere. Questa città fiorì per molto tempo in bellezza e potenza, finché non arrivò a opprimerla il tiranno Mesenzio. Poiché era sanguinario e spietato, il popolo gli si rivoltò e lo costrinse a fuggire. Mesenzio trovò rifugio presso i
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Rutuli, da Turno, che ancora lo ospita e lo protegge, mentre il popolo di Cere reclama il re scellerato, per mandarlo a morte. Ebbene, questi uomini pronti a combattere aspettano solo un condottiero… e puoi essere tu, Enea! Farò venire con te mio figlio Pallante con quattrocento Arcadi. Enea ascoltava Evandro, pensieroso e, proprio allora, Venere gli mandò un segno: in un cielo senza nubi, fece balenare un lampo e risuonare un tuono misto a un suono metallico. Tutti alzarono gli occhi e videro, oh meraviglia, una nuvola d’armi cozzanti! Enea ricordò la promessa materna: – È un segno di mia madre, Venere: mi aveva avvisato che mi avrebbe mandato attraverso l’aria la promessa delle invincibili armi di Vulcano. Ahi, che tributo di sangue dovranno pagare i popoli italici! Ma se vogliono la guerra, guerra avranno. Quando fu il momento di partire, Evandro abbracciò il figlio e gli disse tra le lacrime: – Se solo fossi forte come un tempo, andrei io a sfidare l’odioso Mesenzio, ma ormai sono troppo vecchio. E allora vi prego, divinità tutte, riportatemi mio figlio sano e salvo, ma se invece dovesse cadere sotto i colpi nemici, spezzate subito questa mia inutile vita! – tale era la sua commozione nel separarsi dal figlio, che svenne e i servi dovettero riportarlo nel palazzo a braccia. E così i cavalieri partirono, guidati da Enea e dagli altri capi troiani. Subito dietro cavalcava Pallante, splendente di gioventù e bellezza.
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Quando arrivarono a un bosco scuro presso un fiume, si fermarono per fare riposare i cavalli. Venere, vedendo il figlio sulla riva, scese da lui. – Eccoti i doni promessi, le armi forgiate dal dio Vulcano. Con queste potrai affrontare i Latini e il bellicoso Turno! – lo abbracciò e depose ai piedi di una quercia le armi più belle che Enea avesse mai visto. Egli ammirò ogni singolo pezzo, rigirò tra le mani il grande elmo dalla criniera che sembrava sprizzare fiamme, la corazza di bronzo rossiccio, la lunga lancia e lo scudo decorato con imprese di guerra e di pace, e si commosse perché capì che lì si raccontava la storia futura della sua gloriosa discendenza.
Libro 9 Giunone, intanto, vedendo Enea in viaggio per cercare alleanze, mandò la sua messaggera Iride da Turno, per avvisarlo: – Turno, approfitta di questa occasione. Enea è lontano, è il momento giusto per attaccare il campo troiano! Turno non perse tempo e guidò verso il campo nemico il suo esercito, simile a un grande fiume scintillante di oro e di bronzo. Le guardie troiane, vedendo una nube di polvere nera addensarsi all’orizzonte, diedero l’allarme e tutti i Troiani si ritirarono entro le mura e chiusero le porte. Turno, staccandosi dal resto dell’esercito, galoppò intorno alle mura, come il lupo intorno all’ovile, per trovare un punto debole. Finalmente vide la flotta troiana ancorata sulla riva del Tevere e corse a procurarsi del fuoco per tagliare ai nemici ogni via di fuga, imitato dai suoi compagni. Illuso! Non sapeva che quelle navi erano fatte con un legno sacro e che erano protette dagli dei! Giove in persona, infatti, aveva stabilito che quelle navi, al bisogno, si sarebbero trasformate in ninfe del mare. E così infatti avvenne: mentre i Rutuli lanciavano le torce, le navi immersero la prua scomparendo sott’acqua e riemersero in forma di fanciulle.
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Sia i Troiani sia i Rutuli rimasero sbigottiti davanti a questo prodigio, ma Turno gridò: – Questo è un segno divino a nostro favore, ai Troiani è tolta
ogni possibilità di fuggire verso il mare, li abbiamo in pugno! Ormai è sera, riposatevi, compagni, domani daremo battaglia! I Rutuli misero quindi un accampamento intorno alle mura e guardie dappertutto. Ma, col procedere della notte, molti impiegarono il tempo bevendo vino e allentando la sorveglianza. I Troiani, intanto, moltiplicarono le guardie e rinforzarono le porte. Di guardia alla stessa porta c’erano, tra gli altri, Niso ed Eurialo, due amici inseparabili, l’uno più maturo, l’altro più giovane. Niso, a un tratto, disse all’amico: – Enea deve sapere che cosa sta succedendo qui, voglio andare ad avvisarlo. – Hai ragione e io verrò con te. Così andarono da Ascanio per chiedere il permesso di andare entrambi. – Vi ringrazio, il vostro coraggio è speranza per tutti noi. Riportate qui Enea e ne avrete gloria ed enormi ricompense. Eurialo però chiese che Ascanio si occupasse di sua madre, in caso gli fosse successo qualcosa. – Tratterò tua madre come se fosse la mia! – disse Ascanio e lo abbracciò commosso. I due amici si avviarono nel buio verso i bivacchi nemici e lì trovarono molti uomini addormentati per la stanchezza o per il vino.
bivacchi: luoghi per la sosta notturna all’aperto di truppe o di gruppi di persone in viaggio.
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Mentre Eurialo sta di guardia, Niso silenzioso compie una strage tra i nemici. Poi anche Eurialo uccide nel sonno molti Latini, finché Niso lo chiama: – Andiamo, la luce del giorno si avvicina, non possiamo più perdere tempo. Prima di andare, però, Eurialo si mise l’elmo sfilato a un nemico: oh, non avrebbe dovuto! Quell’elmo, brillando alla luce della luna, rivelò la presenza dei due Troiani a un gruppo di Latini guidati dal guerriero Volcente, di ritorno da una ricognizione.
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ricognizione: nel linguaggio militare, esplorazione di una zona di guerra per raccogliere informazioni.
– Altolà, chi siete? – gridò Volcente ai due, che presero a correre verso il bosco. Niso, velocissimo, riuscì a raggiungere sentieri più nascosti, ma Eurialo restò indietro. Quando Niso se ne accorse, tornò a cercarlo e lo trovò circondato da uomini armati. Vedendo che lo stavano portando via, lanciò il suo giavellotto in mezzo al gruppo. Il colpo giunse a segno, abbattendo un latino e portando lo scompiglio tra gli altri. Niso tirò ancora, uccidendo un altro nemico. Volcente, allora, puntò la spada contro Eurialo, e Niso corse fuori dal bosco, gridando: – Sono io che ho tirato, uccidi me! Ma era troppo tardi! La spada aveva già squarciato il giovane petto di Eurialo e liberato la sua anima. Niso, pazzo di dolore e di rabbia, si gettò in mezzo ai nemici per raggiungere Volcente e lo colpì alla gola, per poi accasciarsi, ferito a morte, sul corpo del suo caro amico. I Latini presero le teste di Eurialo e Niso e le infilarono su due lunghe lance per mostrarle ai Troiani, mentre Turno e gli altri capi chiamavano i compagni alle armi e si preparavano all’attacco. I Troiani, affacciati alle mura, videro il triste spettacolo e la notizia si sparse per tutto il campo, arrivando anche alla madre di Eurialo. Ella corse in strada, strappandosi i capelli: – Ah, solo questo mi rendi di te, amato figlio? Dov’è la consolazione dei miei giavellotto: antica arma da lancio, formata da un’asta con una punta di metallo; usata nell’antichità per l’esercizio sportivo, oggi è impiegata nell’atletica leggera.
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ultimi anni? Dove hai lasciato il tuo povero corpo al quale non potrò dare degna sepoltura? Ascanio, turbato, la fece portare in casa, mentre fuori cominciava l’attacco. I Latini, in formazione a testuggine, puntarono sulle porte, mentre i Troiani, dall’alto, lanciavano macigni, finché non riuscirono a sfondarla con un gran schianto di scudi.
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testuggine: formazione dell’esercito in cui i soldati erano disposti formando un quadrato o un rettangolo. Gli uomini all’esterno tenevano gli scudi davanti a sé o a lato; quelli all’interno tenevano gli scudi sopra la testa. In questo modo si proteggevano dalle frecce nemiche.
La battaglia infuriava, molte vittime cadevano da una parte e dall’altra, non risparmiando né età, né nobiltà, né bellezza. Intanto, sotto le mura, lo sposo della sorella di Turno gridava insulti contro i Troiani, chiamandoli vigliacchi e perdenti. Ascanio, non tollerando quelle offese, incoccò una freccia e la scagliò, invocando Giove. Il padre degli dei lo ascoltò e diresse la freccia verso la testa del Rutulo, trafiggendolo a morte. – Eccoti servito: i Troiani rispondono così alle offese! I Troiani alzarono grida gioiose, rinfrancati dal gesto superbo, e ripresero a combattere con rinnovato vigore.
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Due enormi fratelli troiani, Pandaro e Bizia, di guardia alle porte, si sentirono così imbattibili da spalancarle, sfidando il nemico. Erano alti come abeti e coperti di ferro lucente, e si misero ai lati dei battenti come due torri. I Rutuli, vedendo la porta aperta, accorsero per entrare ma trovarono presto la morte o, i più fortunati, la fuga. Nel frattempo, giunse anche Turno e si abbatté sulla mischia come un tifone, falciando vite come spighe di grano. Poi, vedendo l’enorme Bizia che teneva occupati molti nemici, diresse verso di lui un colpo mortale. Bizia si accasciò e cadde, facendo rimbombare la terra e risuonare lo scudo. Davanti a quella scena, i Latini presero coraggio, mentre i Troiani furono colti dal terrore. Pandaro, vedendo il fratello morto e l’arrivo di numerosi nemici, spinse le porte con le spalle, chiudendo fuori molti dei suoi e molti mettendone in salvo dentro le mura. Ma non si accorse, ahimè, che anche Turno era rimasto dentro, come un lupo famelico tra le pecore spaventate! Subito i Troiani lo riconoscono e lo guardano con gli occhi sbarrati per la paura. Pandaro, appena lo vede, gli si getta contro e grida: – Sei nel posto sbagliato, Rutulo, perché da qui oggi non uscirai vivo! Turno ride tranquillo: – Colpisci pure per primo, ma sappi che hai davanti a te un guerriero invincibile! Pandaro tira con tutta la sua forza una lancia che, deviata da Giunone, si pianta in una porta e Turno grida: – Prova a scansare questo! – e cala la sua spada sulla fronte di Pandaro, uccidendolo.
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Vedendo a terra anche il fortissimo Pandaro, i Troiani si sbandarono terrorizzati, mentre Turno continuava la strage, finché uno dei capi troiani urlò: – Compagni, dove è finito il vostro valore? Un uomo può entrare da solo nel nostro campo e uscirne indenne? Non avete dunque pietà per la patria e vergogna di Enea? I Troiani, scossi da quelle parole, si ripresero e, in un fronte compatto, affrontarono Turno, spingendolo verso le mura. Egli, così incalzato, dovette indietreggiare: anche Giunone infatti, su ordine di Giove, lo aveva abbandonato. Ormai i colpi gli arrivavano da ogni parte, i nemici lo attaccavano senza dargli respiro. Stremato, si rese conto di non poter resistere più a lungo e si gettò nel Tevere con tutta l’armatura. Il fiume lo accolse benevolo e lo restituì ai compagni che, trepidanti, lo accolsero con gioia.
fronte: unione di forze per fronteggiare un nemico, un avversario o un pericolo.
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Libro 10 Mentre in terra succedevano queste cose, in cielo Giove convocò un’assemblea di tutti gli dei, nella sua reggia sull’Olimpo. – O divinità tutte, avevo proibito una guerra tra Latini e Troiani, perché sono stato disobbedito? Venere prese la parola: – Padre, lo vedi come i Rutuli, con Turno in testa, assaltano i miei Troiani: le loro difese non bastano più, si combatte sulle mura e i fossati traboccano di sangue. È dunque destino che i Troiani siano sempre assediati? Se Enea è venuto in Italia contro la tua volontà, allora paghi la sua colpa! Se invece sta solo seguendo il suo destino, perché adesso qualcuno ha potuto cambiare quanto era stato deciso? Non sono bastati il fuoco dei Greci, le tempeste in mare, le missioni di Iride e addirittura l’intervento dell’infernale Aletto? Giunone, piena di collera, intervenne nella discussione: – Quali missioni di Iride, quali decisioni cambiate? È colpa mia se Enea ha abbandonato i suoi per andare a cercare alleanze per una guerra che lui vuole combattere? E l’ho costretto io a pretendere una fanciulla già promessa in sposa? Tu hai sottratto tuo figlio ai Greci nascondendolo nella nebbia, hai trasformato le navi in ninfe, hai fatto di tutto per i tuoi Troiani e io, che sono la regina degli dei, non posso aiutare i miei Latini? Un mormorio percorse la divina assemblea, finché Giove prese la parola.
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– Speravo fosse possibile un patto di alleanza tra Latini e Troiani. Poiché vedo però che la vostra discordia non ha fine, non interverrò più in queste vicende. A ognuno dei contendenti porteranno disgrazia o fortuna solo le proprie imprese e il destino troverà la sua via per realizzarsi.
Sotto le mura del campo troiano, intanto, la guerra proseguiva. I Rutuli premevano contro le porte, massacrando i difensori, e i Troiani erano sempre più messi alle strette. Enea che nel frattempo, solcando le onde del mare, era arrivato da un re etrusco a chiedere e ottenere alleanza, si era subito rimesso in viaggio, forte di un grande esercito al suo comando.
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Quando scese la notte, un gruppo di ninfe venne incontro alla nave di Enea e una di loro disse: – Noi siamo la tua flotta, un tempo pini sacri, poi navi e ora ninfe, così trasformate per scampare al fuoco del terribile Turno. Siamo qui a dirti che tuo figlio è preso d’assalto dai Latini. Gli Etruschi e gli Arcadi sono corsi in suo aiuto, ma Turno è riuscito a tagliare loro la strada. Affrettati dunque, e guida questo tuo esercito alla battaglia! – detto ciò la ninfa scivolò verso la poppa e prese a spingere la nave, che filò sulle onde veloce come una freccia di Apollo, e così fecero le sue sorelle con le altre navi. All’alba, arrivarono in vista del campo troiano ed Enea alzò lo scudo per farsi riconoscere. Quando i suoi dall’alto delle mura lo avvistarono, gridarono di gioia, sentendo rinascere la speranza. Anche Turno, però, lo vide e subito decise di occupare la spiaggia, prima che i rinforzi potessero sbarcare. – Uomini, quello che tanto avete atteso è finalmente giunto: il giorno di uccidere. Corriamo alla spiaggia e cogliamo i nemici alla sprovvista, mentre sono ancora malfermi sulle gambe per il dondolio del mare. Andiamo su, la fortuna aiuta gli audaci! Intanto le navi erano approdate ed Enea stava gettando le passerelle dall’alta poppa: molti si calarono giù scivolando lungo i remi, altri saltarono, altri spinsero le navi fin sopra la sabbia. Turno nel frattempo era giunto alla spiaggia e stava schierando i suoi: squillarono le trombe e la battaglia ebbe inizio.
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audaci: che agiscono senza curarsi di rischi o pericoli.
Gli eserciti si scontrarono con atti di coraggio e valore da una parte e dall’altra. Enea inflisse al nemico molte perdite, abbattendo famosi guerrieri con infallibili colpi di giavellotto, ma poi giunse Messapo coi suoi focosi cavalli e per un lungo momento la battaglia fu in equilibrio. A un certo punto, però, i cavalieri arcadi, al comando di Pallante, costretti dal terreno accidentato a combattere a piedi, ebbero la peggio e si diedero a una fuga disordinata. Pallante, vedendoli scappare, li richiamò angosciato: – Compagni, dove fuggite? Per il nostro popolo, per il padre Evandro e per me, abbiate vergogna di affidarvi alle gambe! Questi nemici sono mortali come noi, combattiamoli! – così dicendo si gettò nella mischia e fece una strage. Gli Arcadi, vedendo il suo coraggio, tornarono indietro e di nuovo la battaglia divampò cruenta, mentre il sangue latino e quello troiano scorrevano sul terreno mescolati in un’unica sorte. Finché Turno, vedendo Pallante così valoroso, decise di affrontarlo, per farne il suo sommo trofeo. – Fermi! Lasciatemi Pallante! – grida. – Vorrei che suo padre fosse qui, a vedere la sua fine! Subito si fa il vuoto intorno e Pallante, mantenendo la calma, dice: – O principe, non minacciarmi. Che io rimanga ucciso o ti uccida, il mio nome avrà eterna gloria e mio padre sarà contento in ogni caso! – poi avanza e tira per primo la sua arma, invocando l’aiuto di Ercole. Ma il semidio, sentendolo dal cielo, sospira abbattuto: non può aiutarlo, Giove
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lo vieta. Il suo colpo quindi scalfisce appena la spalla di Turno, la cui lancia invece, tirata con forza smisurata, arriva con impeto irrefrenabile a bucare gli strati di cuoio e metallo dello scudo di Pallante, e poi la corazza e infine il petto da cui, in un soffio, vola via l’anima leggera. Invano Pallante cerca di strapparsi di dosso l’arma assassina: cade e, morendo, morde la terra con la bocca insanguinata. Turno, torreggiando sul suo corpo, grida: – Arcadi, riportate a Evandro il corpo di suo figlio per le onoranze funebri che gli concedo. Questa perdita è il prezzo che paga per aver aiutato Enea! – poi gli strappa dal fianco una cintura d’oro pesante, come trofeo. Gli Arcadi, in lacrime, recuperarono il corpo del principe e lo portarono via disteso sul suo scudo. Enea venne subito informato del tragico evento e, colto da tremendo furore, per arrivare a Turno cominciò a uccidere nemici alla cieca, persino quelli che si inginocchiavano e, implorando, gli abbracciavano le gambe: la sua rabbia gli aveva fatto dimenticare ogni umana pietà. Vedendo dal cielo questo immenso massacro, Giove disse a Giunone: – Non mi pare che i Troiani siano deboli e debbano solo contare sull’aiuto di Venere, come tu sostieni. – Marito mio, visto che le cose stanno volgendo al peggio per i miei, ti prego almeno di salvare Turno, è un uomo giusto e ti ha spesso offerto doni.
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torreggiando: dominando dall’alto, come una torre.
– Impossibile. Se invece vuoi solo ritardare la sua morte, questo posso concedertelo: portalo via dal campo di battaglia, almeno per ora. Giunone si calò subito in terra avvolta da una nube tempestosa. Arrivata presso il campo, rivestì di armi troiane un’ombra fatta di nebbia con la forma di Enea, imitandone il portamento e la voce, e la mandò a provocare Turno. Il principe rutulo, credendo fosse il vero Enea, gli tirò una lancia, l’ombra si voltò per fuggire e Turno si mise a inseguirla. Lì vicino, per caso, c’era una nave etrusca ormeggiata sul fiume con il ponte abbassato. Il fantasma di Enea corse nella nave per nascondersi e Turno dietro. Non appena fu salito però, Giunone ruppe l’ormeggio, trascinando la nave verso il mare. Allora il fantasma di Enea si dissolse e Turno, guardandosi intorno smarrito, levò le mani al cielo: – O Giove, che crudele inganno è mai questo? Perché hai voluto punirmi con una tale vergogna? Farmi abbandonare i compagni che riponevano ogni fiducia in me! Già li vedo darsi alla fuga, spauriti, già li vedo cadere ammucchiandosi sul terreno. Ah, potesse aprirsi la terra e inghiottirmi! Così Turno si disperava. Tentò più volte di uccidersi con la spada o gettarsi in mare per tornare a nuoto, ma sempre Giunone lo trattenne, mentre la nave filava a gran velocità fino alla città di Dauno, padre di Turno. Nel frattempo, la battaglia tra Troiani e Latini continuava, con perdite in egual misura nei due eserciti.
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Tra i tanti guerrieri valorosi, uno svettava per statura e ferocia: il tiranno Mesenzio, alleato di Turno, forte come una quercia e instancabile combattente. Enea andò verso di lui e Mesenzio lo aspettò a piè fermo, per scagliare poi un giavellotto con tutta la sua forza. L’asta colpì sibilando lo scudo di Enea forgiato da Vulcano e rimbalzò via. Enea scagliò l’asta a sua volta, trapassando lo scudo nemico e andando a ferire Mesenzio all’inguine. Vedendolo ferito, Lauso, suo figlio, si precipitò a difenderlo ma Enea, accecato dall’ira, non ebbe pietà nemmeno del giovane inesperto e gli affondò la spada nel petto. Intanto presso il fiume, Mesenzio lavava il sangue dalla ferita e chiedeva notizie del figlio. Quando glielo portarono sdraiato sullo scudo, urlò disperato: – Io avrei dovuto morire, non tu, mio unico bene! Presto, portate il mio cavallo: vendicherò l’amato figlio o morirò! – e, reggendosi a stento sul cavallo, si gettò nella mischia in cerca di Enea. Quando lo vide, gli cavalcò intorno lanciando i suoi micidiali giavellotti. Ma ancora una volta lo scudo di Vulcano protesse Enea fermando tutti i colpi finché egli, scegliendo a sua volta con cura il punto, scagliò una lancia proprio verso il cavallo. La bestia si impennò, rovesciandosi sul cavaliere e schiacciandolo. Enea, implacabile, volò su di lui con la spada sguainata e lo colpì alla gola. Mesenzio, con l’ultimo fiato, lo supplicò d’essere seppellito insieme al figlio, quindi spirò.
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Libro 11 Il mattino seguente, l’aurora illuminò il campo disseminato di corpi. Enea, vittorioso ma turbato da tanta morte, consolò i suoi mostrando le spoglie di Mesenzio: – Questo grande ostacolo è stato abbattuto, rinvigorite la vostra speranza: la vittoria ci sorride. Ma prima di continuare a combattere, dobbiamo dare la giusta sepoltura ai molti compagni caduti. E uno su tutti io voglio onorare, Pallante, che dovrò riportare, morto, al padre Evandro. Eppure, gli avevo promesso di riportarlo sano e salvo! Si formò un corteo funebre coi prigionieri, le armi e i cavalli conquistati in guerra e, in fondo, i guerrieri arcadi e troiani, con le lance rivolte a terra in segno di lutto. Enea guardò il corteo sfilare, poi tornò al campo, poiché erano arrivati gli ambasciatori latini a chiedere una tregua per seppellire i morti. – O Latini, perché avete rifiutato la nostra amicizia? Io sono giunto qui per volere degli dei e in pace, e voi invece avete voluto allearvi con Turno. Andate in pace, ora, date sepoltura ai vostri figli e fratelli caduti combattendo. Un ambasciatore, di nome Drance, da sempre avverso a Turno, disse: – Grande Enea, riporteremo le tue parole al re Latino e forse riusciremo a fartelo alleato. Turno combatta da solo le sue battaglie! Il corteo di Pallante era intanto arrivato a Laurento. Il popolo della città si riversò nelle strade per
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vederlo, quando Evandro, fuori di sé, arrivò di corsa e si gettò sul corpo del figlio, singhiozzando. – Non era questo, Pallante, il giorno che avrei voluto vedere! Ma almeno sei morto coprendoti di gloria. Troiani, andate e dite a Enea di vendicare questo mio amato figlio con la morte di Turno: questo solo chiedo.
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Poi sia i Troiani sia i Latini celebrarono i riti funebri per i loro caduti. Innumerevoli roghi vennero innalzati, bruciate le armi dei vincitori e dei vinti, e le campagne furono tutte illuminate dai bagliori guizzanti e coperte di denso fumo. All’alba del terzo giorno si spensero i fuochi e vennero tolte le ceneri, sepolte le ossa di cui i campi erano ancora disseminati. Nel palazzo di Latino, in molti cominciarono a dire che Turno avrebbe dovuto decidere la sua rivalità con Enea combattendo con lui, in duello. Poiché non era più possibile trovare altri alleati, il re Latino decise di convocare un’assemblea con tutti i principi latini per decidere il da farsi. – Cittadini, la nostra è una lotta senza speranza contro una stirpe invincibile. Allora io vi propongo di donare ai Troiani una terra vicina al Tevere e di chiamarli alleati, stabilendo con loro patti di convivenza pacifica. Manderemo cento ambasciatori da Enea, con doni e offerte di pace. Nel silenzio che seguì, prese la parola Drance: – Hai parlato saggiamente, Latino, ma per convincere Enea dovresti aggiungere l’offerta più preziosa: la mano di tua figlia. Solo così sarà stretta in modo
sicuro la pace tra i nostri popoli. Quanto a Turno, la smetta di trascinarci alla rovina, e si offra di affrontare Enea da solo. Turno, che era presente, esplose in un ruggito rabbioso: – Io ho arrossato l’intero Tevere di sangue nemico e ho provato in battaglia il mio valore. E tu, Drance, dov’eri mentre noi combattevamo? Ma sei troppo vigliacco per perdere tempo con te. Mi rivolgo invece a voi, principi: una sola battaglia persa e già ci vogliamo arrendere? Abbiamo ancora forze fresche e alleati potenti, abbiamo Camilla e i suoi Volsci, possiamo vincere! Ma se invece volete che io solo vada ad affrontare Enea, eccomi, sono pronto. Mentre così discutevano, arrivò la notizia che Enea stava muovendo l’attacco alla città. Turno, balzato in piedi, lasciò l’assemblea gridando ai suoi di prepararsi a combattere. Una frenesia colse tutti, corsero alle mura anche le donne e i bambini, il pericolo estremo chiamava ognuno alla lotta. Turno, ardente e furioso, andò incontro a Camilla. – Vergine valorosa, vanto d’Italia, Enea sta arrivando a porre l’assedio alla città: io gli sbarrerò la strada, tendendogli un agguato, tu affronta in campo aperto la cavalleria etrusca sua alleata. Mentre così si spartivano i compiti, la dea Diana, dal cielo, li guardava commossa. Chiamò Opi, una delle fanciulle divine del suo seguito, e le disse: – La mia amata Camilla sta andando incontro alla morte. vanto d’Italia: motivo di gloria o di orgoglio per l’Italia.
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Da tempo ho per lei un affetto speciale, da quando suo padre, fuggitivo, la scagliò legata a una lancia al di sopra di un fiume vorticoso per metterla in salvo dai colpi dei nemici, raccomandandola alla mia protezione. Poi l’allevò nei boschi e, ancora bambina, le consegnò arco e frecce e ne fece un’infallibile arciera e cacciatrice. In molti la chiesero in sposa, ma lei preferì serbarsi al mio culto, rifiutando tutte le offerte. Ecco: poiché è destinata a morire in questo scontro tu, Opi, dovrai vendicarla e uccidere chiunque l’avrà uccisa. L’armata troiana avanzava verso la città, riempiendo la campagna di lance puntate al cielo e strepito di zoccoli. Sul fronte contrario si presentarono Messapo, i cavalieri latini e l’ala guidata da Camilla. Le due cavallerie, giunte a poca distanza, si fermarono, poi, con un urlo poderoso, si lanciarono in avanti, spronando i cavalli. Lo scontro fu terribile, a flussi alterni gli uni e gli altri attaccavano e si ritiravano, avanzavano e retrocedevano, come le onde del mare in un moto costante. Ecco, ora i due schieramenti sono mescolati nella furia del combattimento, ogni uomo sceglie il suo avversario, non si risparmiano i colpi. In mezzo alla mischia trionfa Camilla, forte e coraggiosa, con un fianco scoperto per combattere meglio, come le
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strepito: insieme di rumori forti e confusi. ala: parte laterale di un esercito. poderoso: potente, forte.
Amazzoni. Intorno a lei si raccoglie il suo corpo di guardia, fatto di fanciulle italiche. Camilla abbatte molti guerrieri con impeto instancabile e Giove, vedendola combattere così, spinge un giovane etrusco di nome Arunte a passare all’azione. Egli si mette a seguire Camilla a distanza, aspettando il momento giusto per un colpo a sorpresa e, quando lei si distrae alla vista di un’armatura tutta d’oro, scaglia il suo giavellotto.
Amazzoni: antiche guerriere che combattevano prevalentemente a cavallo con archi, lance e spade a tracolla.
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La regina non si accorge del colpo in arrivo, il giavellotto le si conficca nel petto, lei cade in avanti sorretta dalle amorevoli braccia delle sue compagne. Poi tenta di strapparsi l’asta dal petto ma non ci riesce, tanto è affondata saldamente tra le costole. Prima che i suoi occhi si spengano nel gelo della morte, si aggrappa all’amica Acca e le sussurra: – Va’, amica mia, avvisa Turno che io muoio e che la difesa della città ora tocca a lui. Dall’alto cielo calò allora Opi per assolvere il suo compito: cercò Arunte, che si era dato a una fuga vigliacca e, quando lo vide, scagliò una delle sue rapide frecce, piantandogliela nel petto. Poi tornò nell’Olimpo.
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Intanto lo scontro tra gli eserciti si era fatto tremendo. I Troiani, con gli Etruschi e gli Arcadi, si lanciarono all’attacco con veemenza, mentre i Volsci, persa l’amata regina, sgomenti, si sbandavano nella fuga. I Troiani avanzarono come una marea inarrestabile, finché arrivarono davanti alla città di Laurento. Le porte si chiusero, ma molti Latini rimasero fuori a morire sotto gli occhi dei loro cari, che guardavano dall’alto delle mura. Mentre la città era presa d’assalto, Acca arrivò da Turno a dargli le cattive notizie: Camilla morta, i Volsci dispersi, Laurento sotto attacco. Turno abbandonò subito la sua posizione e tornò verso la piana davanti alla città, dove anche Enea si stava dirigendo. Si videro di lontano e avrebbero attaccato subito battaglia, se non fosse ormai scesa la sera. Posero allora il campo intorno alle mura, rimandando lo scontro all’indomani.
Libro 12 Turno, essendosi reso conto che i Troiani stavano prevalendo, andò a parlare con Latino. – O re, sono pronto a combattere contro Enea in duello. Basta spargere sangue latino, con il mio braccio scaraventerò quel Troiano all’inferno, oppure morirò conquistando una grande gloria. – Giovane coraggioso, aspetta. Ti avrei voluto come genero, ma non era scritto nel cielo che tu sposassi mia figlia. Ti prego, veniamo a patti coi Troiani e viviamo in pace: tu potrai trovare un’altra sposa degna del tuo valore. – Latino, non preoccuparti per me e lasciami conquistare la gloria anche a prezzo della vita. Affronterò quell’invasore, fosse l’ultima cosa che faccio. La regina Amata, che era presente, scoppiò in lacrime, ma Turno le disse: – Ti prego, non essere triste: seguirò il mio destino, qualunque esso sia! Poi si rivolse a un messaggero – Va’ da Enea e digli che domani, al sorgere del sole, riposino pure le armi dei Troiani e dei Rutuli, perché solo lui e io decideremo le sorti della guerra. Enea, lieto che la guerra potesse concludersi senza spargere altro sangue, accettò volentieri. L’indomani, i due eserciti si disposero intorno al campo delimitato per il duello, posando le armi e gli scudi, e tutti gli abitanti della città si affacciarono dalle mura, dai tetti e dalle torri per assistere al terribile spettacolo.
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Giunone, vedendo quei preparativi, chiamò la ninfa Giuturna, sorella di Turno: – Mia cara, ho protetto tuo fratello finché ho potuto, ora tocca a te. Fai ciò che è necessario, rompi anche i patti stabiliti tra Latini e Troiani se devi: io ti autorizzo a tutto. Sul campo intanto avanzavano i potenti: da una parte il re Latino, con una corona di raggi d’oro, e dietro di lui Turno, su una biga bianca, impugnando un giavellotto in ogni mano. Dall’altra parte Enea, splendido nelle sue armi forgiate da Vulcano, con Ascanio al suo fianco. Vennero allestiti gli altari per i sacrifici agli dei ed Enea annunciò ad altissima voce: – Se vincerà Turno, i Troiani si ritireranno nella città di Evandro e Ascanio se ne andrà per sempre da queste regioni. Se invece vincerò io, sposerò Lavinia e non pretenderò che i Latini obbediscano ai Troiani: i due popoli si uniranno in un’eterna alleanza alla pari. Io stabilirò i culti, il re Latino avrà il potere civile e militare e i Troiani costruiranno una nuova città chiamata Lavinia. Latino giurò a sua volta fedeltà a questo patto e fece portare le offerte agli altari. Giuturna, allora, prese le sembianze di un soldato, cominciò ad aggirarsi tra le file dei Rutuli per seminare dubbi e malcontento. – Dovremmo vergognarci di mandare il nostro principe da solo incontro alla morte. Eccoli là i Troiani,
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biga: carro a due ruote tirato da due cavalli, veniva usato per le corse e durante le guerre, poteva portare due persone.
gli Arcadi e gli Etruschi a noi ostili: ci fanno davvero così paura? Lasceremo morire Turno e diventeremo schiavi del superbo invasore? – a queste parole i Rutuli cominciarono a infiammarsi. Giuturna fece poi comparire in cielo un’aquila, che prese coi suoi artigli un cigno, ma dovette poi lasciarlo andare per l’attacco di uno stormo di uccelli. Vedendo ciò, un sacerdote rutulo gridò: – Il cielo ci manda un segno! Fratelli, difendiamo il nostro principe, scacciamo gli invasori! – così dicendo lanciò un giavellotto che andò a conficcarsi nel petto di un giovane arcade all’altro lato del campo, uccidendolo. Fu subito il caos: quelli che avevano posato le armi sull’erba le impugnarono da una parte e dall’altra e corsero allo scontro, assetati di sangue, travolgendo gli altari. La battaglia già infuriava e ancora Enea, sbigottito, gridava ai suoi: – Fermi, perché rompete i patti? Lasciate che combatta io, Turno mi è destinato! – mentre diceva così, fu raggiunto alla coscia da una freccia. Sorretto da Ascanio, tornò al campo mentre, furibondo, chiedeva di tornare subito a combattere, ma la freccia era troppo saldamente penetrata nei suoi muscoli e non si riusciva a toglierla. Il cielo era scuro di frecce e giavellotti, gli Italici incalzavano l’esercito troiano che, senza guida, era allo sbando. Venere, allora, vedendo l’ingiusta sorte toccata al figlio, avvolta in una nube nera, portò al vecchio medico che lo stava curando un rimedio portentoso, che subito fece cadere a terra la freccia e guarire la ferita. Enea balzò in piedi e uscì in campo aperto, seguito dagli altri capi troiani. La battaglia si riaccese
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violenta, ma Enea, come un leone affamato, si aggirava cercando solo Turno. Così Giuturna, assunto l’aspetto dell’auriga di Turno, si mise a guidare il suo carro portandolo sempre più lontano da Enea. E intanto il campo si copriva di corpi immobili o feriti, ahi, due popoli destinati a essere eterni alleati si massacravano senza pietà. O dei! O Giove! Perché questa tragedia? Finché Enea prese una decisione e gridò: – Compagni! A me! Attacchiamo la città, oggi la prenderemo e soggiogheremo il regno di Latino: per due volte hanno rotto i patti, ora saranno le armi a decidere le sorti! Così l’esercito si scagliò in un assalto brutale contro Laurento, mentre i cittadini erano atterriti, chi voleva arrendersi e aprire le porte, chi combattere fino alla fine. Ma un’altra tragedia si sommò a questa, già grande: la regina Amata, vedendo l’assalto e pensando che Turno fosse stato ucciso, si uccise. La notizia corse veloce per le strade, le donne urlavano e si strappavano i capelli, tutti erano avviliti e sgomenti e il re Latino, con le vesti lacere e il capo spettinato, si disperava dandosi tutte le colpe. Turno, da lontano, sentì alzarsi il lugubre lamento dalla città attaccata e capì che qualcosa di terribile era accaduto. Giuturna tentò ancora di portarlo lon-
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auriga: nell’antichità, guidatore del carro da guerra o del cocchio nelle gare ippiche. soggiogheremo: sottometteremo con la forza.
tano sul carro, ma egli le disse: – Sorella, da tempo ti ho riconosciuta: qualcuno ti ha mandata a salvarmi, ma ora basta. Dovrei fuggire e coprirmi di vergogna? Mai, non sarò mai vile e indegno dei miei antenati! È scritto che io debba affrontare Enea e così sarà! Saltò giù dal carro e corse verso le mura, gridando: – Basta, Rutuli! Fermi, Latini! Posate le armi, io solo dovrò combattere! – tutti lo sentirono, anche Enea, che lasciò subito quello che stava facendo per raggiungerlo. Calò il silenzio, ognuno, immobile, restò a guardare i due eroi fronteggiarsi a distanza.
Ecco, soppesano le aste robuste per lanciarle, poi le scagliano e si corrono incontro, urtano gli scudi, si scambiano colpi su colpi con grande fragore di spade. A un tratto la spada di Turno, calata sullo scudo di Enea, va in frantumi. Turno, disarmato, fugge ed Enea lo incalza, Turno invoca una spada ed Enea minaccia chiunque lo voglia aiutare. Dieci giri del campo fanno in questo modo, poi Enea lancia un’asta che si conficca in un tronco così a fondo che non riesce più a recuperarla. Intanto, la ninfa Giuturna, di nuovo con l’aspetto dell’auriga di Turno, gli tende la sua spada. Venere, a sua volta, strappa il giavellotto di Enea dal legno in cui era incastrato e lo porge al figlio, così i due, di nuovo armati, si fermano per affrontarsi.
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Dalle alte nubi Giove si affacciò con Giunone, per assistere agli eventi. – Dunque, moglie mia, perché ancora insisti? Eppure, lo sai che Enea è destinato al cielo, a essere venerato come una divinità, rassegnati. – E sia, solo perché questo è il tuo volere, altrimenti niente potrebbe fermarmi dal combattere a fianco dei Rutuli. Ma visto che così deve essere, almeno una cosa ti chiedo: cada il nome di Troia, resti quello del Lazio e dei re latini, e sia la stirpe italica e romana a rimanere gloriosa nei secoli. – Te lo concedo volentieri: gli Italici conserveranno la lingua e i costumi dei loro padri e il loro nome rimarrà quello che è. Dalla fusione dei due popoli ne nascerà uno solo, forte e devoto a te più che a qualsiasi altra divinità.
Giunone, finalmente soddisfatta, sorrise. Giove, allora, inviò a Giuturna una delle Furie, terribili divinità infernali, per dirle di smettere di aiutare il fratello. Poi la Furia, assunto l’aspetto di una civetta, svolazzò intorno a Turno, sbattendo più volte contro il suo scudo. Ed ecco, uno strano torpore invade Turno, i capelli gli si drizzano, la voce gli muore in gola. Enea avanza feroce: – Perché indugi? Ora che non scappi più, è giunto il momento di combattere! Turno scuote il capo gravemente: – Non sei tu a spaventarmi, Enea, ma Giove in persona, che mi manda funesti presagi di morte. Detto questo, si china e solleva un enorme macigno per scagliarlo contro Enea: ma sente che le ginocchia si piegano e la mano trema. Il masso non arriva al bersaglio, la Furia non lo consente, nessun colpo di Turno può più andare a segno, ormai. Il principe, allora, abbandonato e impotente, per la prima volta sente crescere la paura. Enea, implacabile, lancia la sua asta che, sibilando, si pianta nella coscia di Turno. Il grande eroe piega il ginocchio e cade a terra. I Rutuli balzano in piedi e riempiono l’aria di un boato. Turno alza la testa e guarda Enea negli occhi: – Non rinnego nulla di quello che ho fatto, ma ti chiedo di restituirmi al caro padre Dauno: poiché hai già vinto tutto non andare oltre, ti supplico!
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Enea, turbato, trattiene il colpo, sta per risparmiare la vita al grande guerriero, quando vede sulla sua spalla la cinta di Pallante. Un fiotto di rabbia allora oscura la vista del Troiano: – Osi supplicarmi tu che indossi come trofei le spoglie dei miei amici? Ecco, questo è per Pallante! – e gli affonda la spada nel petto. Il corpo di Turno si distende, rigido, nel freddo della morte e la sua anima, sdegnata, cala nel mondo dei morti.
Glossario Personaggi
A
C
D
E
Achille: eroe greco, protagonista dell’Iliade. Uccide Ettore. Amata: moglie del re Latino e madre di Lavinia. Anchise: padre di Enea. Andromaca: moglie di Ettore e poi di Elèno. Anna: sorella di Didone. Apollo: dio del sole, della musica e della poesia. Arpie: creature mostruose, rappresentate come uccelli con il volto di donna. Ascanio: figlio di Enea e Creusa. Camilla: principessa dei Volsci, guerriera alleata dei Latini. Cariddi: mostro che risucchia in un vortice i naviganti nello stretto di Messina. Caronte: traghettatore infernale delle anime attraverso il fiume Acheronte. Celeno: una delle Arpie. Attacca i Troiani durante un banchetto. Cerbero: mostruoso cane a tre teste, guardiano del mondo dei morti. Ciclopi: giganti con un solo occhio in mezzo alla fronte. Creusa: prima moglie di Enea. Cupido: dio dell’amore, figlio di Venere. Fa innamorare Didone di Enea. Dardano: capostipite della famiglia di Priamo, antenato di Enea. Dauno: padre di Turno. Diana: dea dei boschi. Didone: regina di Cartagine, innamorata di Enea. Elena: regina della città greca di Sparta, scappa con il principe troiano Paride. Suo marito, il re Menelao, per riprenderla dichiara guerra alla città di Troia. Elèno: indovino guerriero, figlio di Priamo e marito di Andromaca. Enea: eroe troiano, figlio di Anchise e della dea Venere.
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G I L M
N O P
S 90
Eolo: dio dei venti. Ostacola Enea. Ercole: eroe greco celebre per la sua immensa forza. Ettore: principe troiano, figlio del re Priamo e fratello di Paride. Eurialo: eroe troiano, amico di Niso. Evandro: re del popolo degli Arcadi, alleato di Enea. Giove: re degli dei, marito della dea Giunone. Giunone: divinità da sempre avversaria ai Troiani e quindi anche a Enea. Giuturna: ninfa, sorella di Turno. Iride: messaggera di Giunone. Laocoonte: sacerdote troiano. Latino: re del popolo dei Latini e padre di Lavinia. Lavinia: figlia del re Latino, futura sposa di Enea. Marte: dio della guerra. Menelao: re di Sparta e marito di Elena. Mercurio: messaggero degli dei. Mesenzio: re della città etrusca di Cere, famoso per la sua crudeltà. Alleato di Turno. Messapo: alleato di Turno. Minerva: dea della sapienza, nemica dei Troiani. Nettuno: dio delle acque e del mare. Niso: eroe troiano, amico di Eurialo. Opi: una delle ninfe della dea Diana. Palinuro: timoniere della flotta di Enea. Pallante: amico e alleato di Enea, figlio del re Evandro. Paride: principe troiano che scatena la guerra di Troia. Polifemo: ciclope accecato da Ulisse. Pirro: figlio di Achille. Priamo: ultimo re di Troia, padre di Ettore, Paride ed Elèno. Proserpina: dea dell’oltretomba. Scilla: mostro marino dal corpo di donna e dalle gambe tentacolari con teste di cane, viveva nello stretto di Messina. Sibilla: sacerdotessa di Apollo. Accompagna Enea nel mondo dei morti e gli predice il suo futuro.
T U V
Sicheo: marito di Didone. Sinone: soldato greco che mente ai Troiani per indurli a portare dentro la loro città un cavallo di legno pieno di guerrieri armati. Turno: re del popolo dei Rutuli, nemico di Enea. Promesso sposo di Lavinia. Ulisse: astuto e ingegnoso eroe greco. Ideatore del cavallo di Troia e protagonista dell’Odissea. Venere: dea dell’amore e della bellezza. Madre di Enea, sua protettrice. Vulcano: dio del fuoco e dei vulcani, forgiatore di armi e gioielli. Luoghi Ardea: città del Lazio, capitale del regno dei Rutuli. Cuma: città campana dov’era situato l’antro della Sibilla di Apollo. Epiro: regione della Grecia nordoccidentale. Isola di Delo: isola dell’arcipelago greco. Isola Eolia: isola nei pressi della Sicilia, in cui dimora Eolo. Isole Strofadi: isole greche del mar Ionio. Laurento: antica città del Lazio vicino alla foce del Tevere. Libia: stato nordafricano affacciato sul mar Mediterraneo. Terra dei Traci: zona sudorientale della penisola balcanica. Troia: antica città sul mar Nero, patria di Enea, distrutta dai Greci dopo un assedio di dieci anni. Popoli Arcadi: popolo che abitava la regione meridionale della penisola greca. Italici: antichi popoli che abitavano la penisola italica. Latini: antico popolo che abitava il Lazio, poi sottomessi ai Romani. Volsci: antico popolo italico che abitava nella zona del Lazio meridionale.
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Qualcosa in più Publio Virgilio Marone nasce nel 70 a.C. vicino a Mantova; morirà a soli 51 anni, nel 19 a.C., a Brindisi. È considerato tra i più grandi poeti romani. La sua opera più celebre è l’Eneide, un poema epico in cui racconta la storia di Enea, principe di Troia, figlio di Anchise e della dea Venere, che, dopo la distruzione della sua città, scappa nel Lazio. Qui Enea fonda una città e una stirpe destinate a dominare il mondo: da lui infatti discenderà Romolo, fondatore di Roma. Virgilio racconta la storia di Enea per celebrare l’origine di Roma e l’imperatore Cesare Augusto. L’Eneide è stata scritta da Virgilio in versi. In questo libro, però, le vicende di Enea sono state riscritte in prosa (cioè non in versi poetici). Inoltre, i momenti più drammatici e significativi sono stati evidenziati nel testo con un colore diverso e usando il tempo presente dei verbi (invece che il passato remoto).
Alla scoperta dei segreti del testo 1. Colora di verde i personaggi alleati di Enea e di arancione gli avversari. Camilla
Dauno
Niso
Eurialo
Giunone
Turno
Messapo
Minerva
Palinuro
Venere
Pallante
2. Virgilio dedica il poema a uno dei discendenti di Enea che il padre Anchise nomina nel loro incontro nel regno dell’oltretomba (Libro 6). Chi è?
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A. B.
Romolo Cesare Augusto
C. D.
Giulio Cesare Cerbero
Comprensione Libro 1 3. Perché Giunone ostacola le imprese di Enea e dei Troiani? A. B. C. D.
Perché non sopportava che fossero protetti da Venere. Perché avrebbero distrutto Cartagine. Perché era stata offesa più volte da loro. Perché erano scappati dai Greci.
Libri 2 e 3 4. Chi è il narratore di questi libri? A. B.
Didone Virgilio
C. D.
Sinone Enea
5. Che cosa viene narrato in questi due libri? A. B. C. D.
Tutta la guerra di Troia. La storia d’amore tra Enea e Didone. Gli anni in viaggio dopo la fuga da Troia. La lotta tra Ulisse e Polifemo.
Libro 4 6. Leggi le frasi e completale: coniuga i verbi tra parentesi. • Se Enea ......................................................... (rimanere) a Cartagine, non ...................................................................... (compiere) il suo destino. • Se Enea non ...................................................................... (costringere) dal volere degli dei, ....................................................................................... (rimanere) a Troia per ricostruirla.
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Libro 7 7. Il re Latino riceve delle profezie dagli indovini, a seguito di due eventi: quali? A. B. C. D.
I capelli e le vesti di Lavinia presero fuoco. Nettuno aveva aiutato i Troiani. Uno sciame di api si posò su un albero sacro. Enea e i suoi erano affamatissimi.
8. Per creare discordia, Giunone chiama Aletto. Chi è la persona a cui si rivolge per prima Aletto? A. B.
Il re Latino. La regina Amata.
C. D.
Il principe Turno. Ascanio.
Libri 8 e 9 9. Collega ogni parola al suo sinonimo e contrario. SINONIMI
CONTRARI
affamato
approdare
disadorno
decorato
famelico
salpare
giungere
trapunto
fortuna
rincuorare
flagello
sazio
disgrazia
rinfrancare
demoralizzare
Libro 12 10.Tra chi avviene la battaglia finale? A. B. C. D.
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Tra gli eserciti dei Latini e dei Troiani. Tra Giunone e Venere. Tra Enea e Turno. Tra gli eserciti dei Greci e dei Troiani.
• Chi vince? ....................................................................................................................
6
11. Osserva la carta. Numera le tappe di Enea dalla partenza da Troia (1).
95
1
Indice
96
5
Libro 1
12
Libro 2
19
Libro 3
27
Libro 4
34
Libro 5
39
Libro 6
45
Libro 7
53
Libro 8
60
Libro 9
68
Libro 10
75
Libro 11
81
Libro 12
89
Glossario
92
Qualcosa in più Alla scoperta dei segreti del testo
93
Comprensione