IO, LUCREZIO
L
di Giulio Guidorizzi
a mia giovinezza si svolse in un’epoca tremenda: anni di guerre civili tra i seguaci di Mario e di Silla, migliaia e migliaia di morti, stragi, saccheggi, ferocia. Sembrava che gli uomini stessero mostrando l’aspetto più crudele e bestiale della loro natura, sembrava che lo Stato fosse un unico accampamento. Per fortuna non crebbi a Roma, dove la folla era preda di passioni violente e nella politica non vi era più giustizia. In Campania, dove abitavo, la vita era certo incomparabilmente più bella, su quel mare meraviglioso e con quel clima dolce; lì gli aristocratici romani avevano costruito splendide ville, a Napoli, Ercolano, Pompei, Baia. Era un luogo di delizie. In mezzo a tanto sangue uno come me, che non apparteneva all’aristocrazia, né era interessato alla politica e all’oratoria, trovò la sua stella polare. Quando scrissi più tardi il mio poema, trovai un’immagine che esprimeva perfettamente il mio stato d’animo quando iniziai a vivere una nuova esistenza: è bello, dalla terraferma, vedere il mare sconvolto dalle tempeste e sapere che tu invece sei in un luogo tranquillo, dove le ondate non possono travolgerti: non perché sia un piacere assistere alla sventura degli altri, ma perché sai che tu almeno ne sei privo. Fu lì, in Campania, che trovai la mia soluzione. Nelle ville degli aristocratici, infatti, si vedevano comparire dei Greci venuti dall’Oriente, i filosofi epicurei; alcu-
ni di loro divennero amici e maestri dei grandi signori romani. Uno di loro si chiamava Filodemo ed era nato in Palestina; era anche poeta, ma soprattutto filosofo. Portò con sé la sua biblioteca che finì per cedere a un grande signore romano, Pisone, che possedeva una villa meravigliosa a Ercolano. Dalle sue lezioni, e da quelle di altri filosofi epicurei, scoprii il pensiero dell’uomo che aveva liberato l’umanità dalle sue paure ancestrali e le aveva indicato la via della felicità: solo dall’assenza dei terrori e delle passioni che attanagliano l’anima viene la tranquillità di spirito che può rendere bella la vita, pur breve, di un essere umano. Quest’uomo si chiamava Epicuro ed era vissuto ad Atene; i suoi seguaci non volevano prendere il potere, o conquistare onori, bensì cercare la verità attraverso la conoscenza della natura e di se stessi e in questo trovare la pace. Epicuro, non Achille o Ulisse, divenne il mio eroe: lui sì che ebbe il coraggio di opporsi alla religio e alla superstitio, e aprire le porte sulla conoscenza della natura, andando (così mi venne poi da scrivere) oltre le infiammate mura del mondo, flammantia moenia mundi, per capire com’è fatta la natura dell’universo. Il mio animo era naturalmente portato alla poesia; così ebbi l’idea di provare a rendere questa filosofia in versi latini, e scelsi lo stesso titolo che Epicuro in greco aveva dato alla sua opera principale, Sulla natura, e il mio s’intitolò De rerum natura. Fu un’impresa difficilissima che prese tutta la mia vita: dovevo non solo comprendere sino in fondo le parole di Epicuro, ma renderle in una lingua come la mia, che non aveva le parole adatte per trasmettere queste idee nuove. Mi arrovellavo per notti intere e stavo sino all’alba a riflettere: i versi mi venivano in sogno e la mattina li scrivevo, esametro dopo esametro. Così tutta la mia vita fu dedicata a quest’ideale, perché altri miei concittadini potessero conoscere il pensiero di Epicuro.
9 LA FELICITÀ DEL
SAPIENTE: LUCREZIO
1 Una figura misteriosa
VIDEO
Lucrezio
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Lucrezio è probabilmente la figura più misteriosa di tutta letteratura latina. Visse durante la terribile epoca delle guerre civili, quando il sangue scorreva a fiumi, eppure quasi nulla di quegli eventi tragici e decisivi filtra nella sola opera da lui composta: il poema di argomento filosofico De rerum natura. L’unico accenno alla realtà storica si trova quando il poeta, rivolgendosi al dedicatario della sua opera Gaio Memmio (» p. 175), parla di «un’epoca ingiusta per la patria» (De rerum natura I, 41) e prega la dea Venere di concedere la pace al popolo romano.
… e dedicata alla filosofia
La Roma storica è, dunque, praticamente assente dai versi di Lucrezio. Seguendo i princìpi dell’epicureismo (che predicava un’esistenza appartata, » p. 166), quasi certamente Lucrezio si isolò dalla crudele realtà del suo tempo per dedicarsi interamente alla filosofia, la sola via, a suo parere, mediante la quale tutta l’umanità, non una fazione o un’altra, poteva accedere alla conoscenza della natura.
Il silenzio dei contemporanei
Come Lucrezio tace su Roma, così Roma tace su Lucrezio. Sappiamo che si chiamava Tito e che il cognomen era Caro. L’unico riferimento nei contemporanei si trova in una lettera di Cicerone al fratello Quinto, scritta nel febbraio del 54 a.C. (» Dicono di Lucrezio, p. 187), in cui l’oratore dice di avere letto il poema di Lucrezio e di averlo molto apprezzato; allora il poeta era forse morto da poco.
Le notizie biografiche
Tra i testimoni di epoca successiva, invece, si registra quanto di lui scrive san Girolamo nel Chronicon (fine IV secolo d.C.; » Dicono di Lucrezio, p. 186): Tito Lucrezio nacque nel 94 a.C. (in realtà la sua nascita va spostata a poco prima); impazzì per un filtro d’amore che gli era stato somministrato e, dopo avere scritto i suoi versi «negli intervalli di lucidità» (per intervalla insaniae), morì suicida («di sua mano») all’età di 44 anni.
IL TEMPO
GLI EVENTI STORICI LA VITA DI LUCREZIO
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Fine della guerra civile tra mariani e sillani
Filodemo di Gadara a Ercolano
Primo triumvirato
Inizio della guerra civile tra Cesare e Pompeo
82 a.C.
75 a.C.
60 a.C.
49 a.C.
96/94 a.C.
55 a.C. ca.
54 a.C.
Nasce
Muore
Cicerone scrive al fratello Quinto di aver letto il De rerum natura
1 Una figura misteriosa
Un’altra informazione la ricaviamo dal grammatico del IV secolo d.C. Elio Donato (Vita Vergili, 6; » Dicono di Lucrezio, p. 186) – il quale sostiene che Lucrezio morì lo stesso giorno in cui Virgilio assunse la toga virile, nell’anno del secondo consolato di Pompeo e Crasso. La data che così si ricava è il 15 ottobre del 55 a.C., ma essa non coincide con quella indicata da san Girolamo. I dati in nostro possesso sono dunque pochi e difformi; è però probabile che la vita di Lucrezio vada collocata tra il 96 e il 55 a.C. I più mettono in dubbio le informazioni di Girolamo sulla follia e il suicidio, ed è in effetti strano che un destino così tragico sia sfuggito all’attenzione dei contemporanei. È più probabile che il cristiano Girolamo, o le sue fonti, intendessero screditare Lucrezio, perché seguace di una corrente filosofica che considerava la realtà come derivata dalla materia (e quindi non creata da un dio) e che negava l’immortalità dell’anima e l’esistenza di una vita dopo la morte.
I dubbi sulla biografia
Comunque stiano le cose, Lucrezio è un autore di straordinaria e originale grandezza. Fu però un genio isolato: non sono note le sue frequentazioni e il suo retroterra culturale, non fece scuola e la sua figura sembra una specie di roccia solitaria stagliata nell’orizzonte, anche se fu letto e ammirato per tutta l’epoca antica.
Un genio isolato
ESPOSIZIONE ORALE Lucrezio e il suo tempo Ripassa il paragrafo 1 svolgendo le seguenti attività (max. 5 minuti).
• Inquadra il De rerum natura nel suo contesto storico.
• Riassumi le informazioni
a noi giunte sulla vita di Lucrezio e spiega perché alcune in particolare sono oggi ritenute poco attendibili.
La prima pagina del De rerum natura di Lucrezio, in un manoscritto del 1483.
LO SPAZIO
PRESENTAZIONE
Lucrezio 1 Lucrezio nasce forse in Campania, dove, negli stessi
anni, si sta diffondendo l’epicureismo
2
1 2
In Grecia nasce e si sviluppa l’epicureismo
Guarda la presentazione per ripassare la vita di Lucrezio.
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
VIDEO
Lucrezio, De rerum natura
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Liberare gli uomini dalle paure: il De rerum natura
2 Un poeta filosofo: il De rerum natura 2.1 Lo scopo dell’opera Questa vita schiva e misteriosa fu illuminata da una grande passione: la filosofia epicurea, di cui Lucrezio divenne il cantore latino per eccellenza. Epicuro era vissuto fra il IV e il III secolo a.C. ad Atene, dove aveva fondato una delle più importanti scuole filosofiche del tempo. Quando le classi colte romane cominciarono a cercare maestri in Grecia, anche i filosofi epicurei aprirono scuole a Roma (» p. 166). Furono, però, accolti con diffidenza; Epicuro, infatti, criticava le forme della religione tradizionale (superstitiones, le chiama Lucrezio) e questo non poteva che suscitare lo sdegno dei tradizionalisti. Tuttavia, nell’epoca di Cesare e Cicerone l’epicureismo era ormai accettato nella buona società romana: si può dire anzi che, durante tutto il I secolo a.C., era diventata la filosofia ‘di moda’ presso alcuni ambienti dell’aristocrazia più colta. L’epicureismo – e dunque Lucrezio – si proponeva di liberare gli uomini dalle paure, aprendo orizzonti mentali nuovi, e questo certo poteva suscitare interesse in una società in grande fermento culturale com’era quella della Roma del I secolo a.C. Per divulgare le idee di Epicuro, Lucrezio compose un poema in sei libri, per un totale di 7415 esametri, il De rerum natura («La natura delle cose»), che costituisce anche la più ampia sintesi della filosofia epicurea a noi pervenuta. Il titolo riprende quello dell’opera principale di Epicuro, il trattato in trentasette libri Sulla natura, del quale restano pochi frammenti.
2.2 La struttura e i contenuti La struttura chiara e sistematica
Rovine della Casa del mosaico di Nettuno e Anfitrite (che si riconosce sulla destra) a Ercolano: la città campana fu un importante centro dell’epicureismo in Italia.
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Il De rerum natura fu scritto da Lucrezio probabilmente negli ultimi anni della sua vita e, malgrado non abbia avuto la revisione finale a causa della morte dell’autore, mostra una struttura sistematica, organizzato com’è in tre coppie di libri (diadi), ciascuna dedicata a un diverso aspetto dell’epicureismo: la fisica (lo studio della natura e dei princìpi che la regolano, libri I e II), l’antropologia (lo studio dell’uomo, libri III e IV) e la cosmologia (lo studio dell’universo e dei fenomeni fisici, libri V e VI).
2 Un poeta filosofo: il De rerum natura
Il poeta dedica la sua opera al nobile e colto intellettuale (così lo definì Cicerone) Gaio Memmio, probabilmente il suo protettore. L’opera inizia con un meraviglioso inno a Venere T2 , che celebra la forza della natura generatrice, e si chiude con la descrizione di un drammatico episodio, la peste in Atene T10 . In questi due passi, quindi, Lucrezio canta la glorificazione della vita e l’inevitabilità della morte: il corso naturale delle cose, che si rinnovano e si distruggono in un ciclo che si ripete all’infinito.
Il proemio e la cornice dell’opera
La prima coppia di libri (I e II) è dedicata alla fisica. Si discute dell’organizzazione della materia nell’universo, degli atomi (dal greco átomos, lett. «indivisibile», sono le particelle elementari che compongono la sostanza fondamentale del mondo), del vuoto e dell’eternità della materia, in cui niente nasce dal nulla e niente finisce nel nulla.
Il libro I: gli atomi
Nel libro II è descritto il moto degli atomi all’interno della materia e dello spazio, che secondo Lucrezio non hanno limiti, ma sono infiniti – un’idea che anticipa singolarmente la teoria di Albert Einstein. Non avendo alcun vincolo di movimento gli atomi si incontrano, si urtano, si compongono e si disaggregano nello spazio senza sosta. Questi incontri avvengono in modo casuale: gli atomi, che normalmente compiono un movimento di caduta in linea retta, talvolta deviano dalla loro traiettoria e si scontrano, spinti da una deviazione spontanea e casuale che Lucrezio chiama clinamen («deviazione»). Nella visione epicurea l’universo risulta quindi un grande organismo vivente che si ordina da solo, secondo le leggi materiali che la natura stessa impone, senza essere creato o influenzato da nessuna forza divina.
Il libro II: le leggi dell’universo
Dentro l’infinito universo esiste però un ente microscopico, l’essere umano, che, pur essendo un provvisorio aggregato di atomi, deve sì accettare le grandi leggi a cui ogni cosa è sottoposta, ma può essere padrone di raggiungere l’unico bene che gli è concesso: la «felicità». L’unica risposta, dice Lucrezio, l’unica felicità che possiamo conseguire è l’atarassia, cioè il «non farsi turbare» dalle passioni e dalle paure, nella comprensione che questo è il massimo che ognuno può fare per se stesso e per il mondo, nel breve tempo della vita. Preliminare al raggiungimento dell’atarassia è la condizione di aponia, ovvero l’«assenza di dolore fisico», che si ottiene assolvendo, nel modo più semplice possibile, ai bisogni base del corpo umano: non avere freddo, non avere fame, non avere sete. Come scrive Lucrezio nel proemio al libro II, infatti: «Non vedi che la natura umana non reclama altro per sé se non che il dolore sia assente, separato dal corpo… Pertanto vediamo che al corpo umano bastano veramente poche cose, tutto ciò che elimini il dolore e può anche offrire molti piaceri» (II, vv. 16-22).
La felicità è la liberazione da passioni e paure
Nella seconda sezione (libri III e IV) dall’infinito dell’universo si passa al microcosmo umano. Ciò che caratterizza l’uomo, secondo Epicuro, è l’anima, ma l’anima non è immortale, essendo anch’essa fatta di atomi: come il corpo, come il resto della materia, essa si disgrega e si ricompone in forme nuove.
Il libro III: l’anima
Ne consegue (ed è questo il punto che soprattutto caratterizza la filosofia di Epicuro) che temere la morte e le punizioni dell’oltretomba è follia, come pure voler prolungare la vita all’infinito T6 , qui o altrove, immaginando un aldilà: la vita è solo qui e ora. La morte (aveva detto Epicuro) non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando la morte c’è noi non ci siamo più. Tutti lamentano la bellezza della vita che la morte ci strapperà, la fine di ogni gioia, i figli e le persone care che non si vedranno più – dice Lucrezio (III, vv. 894-901) – ma non aggiungono l’unica cosa che conta: il rimpianto di queste cose non continuerà a esistere senza di noi.
Temere la morte è follia
HUB LIBRARY Dal libro II del De rerum natura puoi leggere due brani.
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
Il libro IV: la teoria della conoscenza
Nel libro IV Lucrezio illustra poi il processo della conoscenza: dai corpi si staccano sottilissime membrane costituite da atomi, chiamate simulacra, che, conservando le sembianze dei corpi da cui si sono staccate, raggiungono gli organi di senso. La teoria dei simulacra spiega anche il fenomeno dei sogni T7 – che, secondo la dottrina epicurea, non sono altro che persistenze delle esperienze vissute durante la veglia – e quello della passione amorosa T8 , suscitata da simulacra attraenti e piacevoli.
Il libro V: la cosmologia
L’ultima coppia di libri (V-VI) tratta dell’origine del mondo, dei fenomeni naturali e dell’evoluzione dell’umanità. Lucrezio spiega la ragione scientifica che sta alla base del moto degli astri, dei fulmini, delle stagioni e di ogni altro fenomeno naturale dell’universo. Nel farlo, dimostra che anche la Terra, come tutto, è costituita da atomi e, quindi, è mortale: un giorno la materia di cui è composta si annienterà, e tutto tornerà alla materia primordiale, aprendo un nuovo ciclo di vita.Tutto ciò accade senza la guida o la spinta di una divinità: gli dèi infatti (dice Lucrezio, seguendo Epicuro) esistono di certo, ma non si occupano del mondo, non l’hanno creato né tanto meno l’hanno creato per l’uomo. Essi vivono in uno spazio tra cielo e terra (gli intermundia), paghi di se stessi e indifferenti a tutto.
L’‘evoluzione della specie’…
Nella parte finale del libro V Lucrezio racconta come ha avuto origine la vita sulla Terra e le tappe dell’evoluzione dell’umanità. Seguendo come sempre gli insegnamenti di Epicuro, egli sostiene che gli esseri viventi sono nati grazie alla presenza di particolari condizioni atmosferiche, come il calore e l’umidità del terreno, e in seguito si sono evoluti reagendo alle condizioni offerte dall’ambiente circostante: alcuni si sono adattati e sono sopravvissuti (con la forza, come i leoni, o con l’astuzia, come le volpi), altri sono stati sopraffatti e si sono estinti. Un’intuizione che in un certo senso anticipa di molti secoli la teoria evoluzionista del naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882).
… e lo sviluppo della civiltà
Alla teoria sull’evoluzione della specie segue un resoconto sulle origini del genere umano e sullo sviluppo della civiltà. Lucrezio racconta la vita delle primitive società umane, la quale sotto la spinta di quelli che Epicuro definisce bisogni naturali e necessari (cioè la fame, la sete, l’istinto alla sopravvivenza) e, talvolta, del caso, si sviluppò da una condizione originaria quasi ferina. In seguito fu scoperto il fuoco, fu inventato il linguaggio, furono scoperte le tecniche e le arti, nacquero le istituzioni, le leggi e le forme politiche. Ma non tutti i progressi furono positivi: il desiderio di soddisfare bisogni non naturali né necessari (come la ricerca di gloria e ricchezze) condusse gli uomini anche all’avidità, alla brama di potere, alla guerra, a passioni distruttive T9 . Infine, la paura di fronte a fenomeni naturali e visioni notturne apparentemente inspiegabili fece nascere negli uomini l’idea dell’esistenza degli dèi e, dunque, la religione.
Il libro VI e la peste di Atene
Il libro VI, infine, è tutto dedicato ai fenomeni naturali, e si chiude con il drammatico episodio dell’epidemia di peste che nel 430 a.C. colpì la città di Atene T10 . È molto suggestivo che Lucrezio termini il suo poema con questo catastrofico resoconto e che lo faccia tessendo una sorta di legame con l’inizio dell’opera: tutto si crea, tutto si distrugge; Venere fa nascere la vita, una pestilenza la annienta. La natura, con la sua forza cieca, interviene a distruggere il mondo così come è intervenuta creandolo.
ESPOSIZIONE ORALE
L’epicureismo e il De rerum natura di Lucrezio
Esponi il contenuto del paragrafo 2 in un discorso (max. 7 minuti) che tocchi i seguenti punti.
• L’epicureismo a Roma e il proposito principale della filosofia epicurea
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• La struttura e i temi principali del De rerum natura • Il dedicatario, l’inizio e la conclusione del poema
2 Un poeta filosofo: il De rerum natura
Il contenuto del De rerum natura Materia
Libro
Argomento
Insegnamento filosofico
Fisica
Libro I
• Proemio: inno a Venere • Teoria degli atomi: la materia è composta
• Nell’universo nulla si crea e nulla si
• Gli atomi si si aggregano e disaggregano
• Gli uomini devono accettare che ogni
• L’uomo è caratterizzato dall’anima • L’anima, come tutta la materia, è costituita
• Temere la morte è insensato, perché
• Teoria dei simulacra: la conoscenza
• I sogni, come le pulsioni erotiche, sono
• Origine della vita sulla Terra e tappe
• Le credenze religiose sono una creazione
• Descrizione dei fenomeni naturali regolati
• Ogni cosa è destinata a nascere e morire
da particelle elementari, dette atomi
Libro II
nello spazio infinito a causa del clinamen (principio di deviazione spontanea e casuale)
Antropologia (microcosmo uomo)
Libro III
da atomi e quindi è mortale
Libro IV
avviene per un processo meccanico (membrane sottili si staccano dai corpi conservandone le sembianze e raggiungono gli organi di senso)
Cosmologia (origine e fine del mondo)
Libro V
dell’evoluzione dell’umanità
Libro VI
da norme materiali • La peste di Atene
distrugge, ma tutto si trasforma secondo leggi materiali cosa è sottoposta alle leggi della natura e sforzarsi di raggiungere la felicità, cioè l’assenza di turbamenti (atarassia) essa è la fine di tutto e nessun destino ultraterreno ci attende (se c’è la morte non ci siamo noi e viceversa) persistenze di immagini viste durante il giorno e non sono quindi frutto di meccanismi irrazionali
dell’uomo per spiegare fenomeni apparentemente irrazionali • Gli dèi esistono, ma sono indifferenti rispetto al mondo e alle vicende umane in un ciclo che si ripete all’infinito
Venere marina scortata da amorini, affresco della Casa di Venere a Pompei, I secolo a.C.-I secolo d.C. È con un inno alla dea che si apre il De rerum natura di Lucrezio.
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GENERI: MODELLI E SVILUPPI PRESENTAZIONE
Il poema didascalico
LA POESIA DIDASCALICA, DALL’ANTICHITÀ ALL’ETÀ MODERNA MODELLI In Grecia: Esiodo
In Grecia: i poeti ellenistici
La poesia didascalica, nelle letterature grecoromane, ha inizio con la figura di Esiodo, che visse tra l’VIII e il VII secolo a.C., il primo autore la cui personalità abbia carattere storico e che ci abbia lasciato notizie autobiografiche. Noto per un poema mitologico sull’origine dell’universo, degli dèi e degli uomini che lo popolano (la Teogonia), Esiodo compose anche il primo poema propriamente didascalico della tradizione greca, Le opere e i giorni: in quest’opera, egli descrive in versi la successione delle stagioni e dei principali lavori agricoli che si alternano nel corso di un anno e offre inoltre consigli sulla navigazione e sulle buone norme di vita quotidiana per una coesistenza serena in comunità. A differenza di Omero, Esiodo vuole insegnare e giovare agli uomini, con un sentimento più concreto e immediato del suo illustre precedessore.
Poco praticata in epoca classica, la poesia didascalica tornò a fiorire nella letteratura greca di età ellenistica. Particolarmente fortunata in questo filone fu l’opera del poeta Arato di Soli (315-240 a.C.), autore di un poema noto come Fenomeni e dedicato alla descrizione delle costellazioni del cielo e delle loro influenze sia sulle attività, sia sul destino degli uomini. Molto attivo in questo genere, e particolarmente fortunato nell’antichità, fu anche il poeta Nicandro di Colofone (III-II secolo a.C.): fu autore di ventuno poemi didascalici, che però ci sono noti soltanto da citazioni o notizie indirette. La fortuna del genere didascalico proseguì a lungo in ambito ellenistico: nel II secolo d.C. il poeta Oppiano di Anazarbo compose un poemetto didascalico in greco dedicato alle varie specie di pesci e alla pesca (intitolato Halieutica).
SVILUPPI A Roma: la poesia astronomica All’epoca di Lucrezio e nei decenni immediatamente successivi, il gusto per la poesia ellenistica greca in generale aveva favorito la diffusione anche dei poemi didascalici che abbiamo appena menzionato. I Fenomeni di Arato, in particolare, furono tradotti e rielaborati due volte in latino: una prima volta da Cicerone (106-43 a.C.), che compose un’ope-
IL POEMA DIDASCALICO: DALLA GRECIA ALL’ETÀ MODERNA
• Esiodo
LINEA DEL TEMPO
VIII-VII secolo a.C. GRECIA
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• Arato • Nicandro • Oppiano III-II secolo a.C.
ra intitolata Aratea (dal nome del poeta greco a cui si ispirava); e una seconda da Germanico (15 a.C.-19 d.C.), un nipote adottivo di Augusto e suo erede designato, che compose un libro di Phaenomena traducendo Arato e, in certi punti, correggendone le affermazioni. Degli Aratea di Cicerone ci restano pochi frammenti, grazie a citazioni indirette, mentre di Germanico si sono preservati oltre settecento versi. Poesia astronomica • Aratea di Cicerone • Phaenomena di Germanico • Georgiche di Virgilio
Precetti letterari e consigli d’amore • Ars poetica di Orazio • Halieutica, Ars amatoria, Medicamina faciei feminae e Remedia amoris di Ovidio
I secolo a.C. - I secolo d.C. ROMA
9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
A Roma: i lavori dei campi e sul mare L’opera didascalica probabilmente più celebre della letteratura latina è rappresentata dalle Georgiche di Virgilio (70-19 a.C.), un poemetto in cui la descrizione della vita agreste e l’esposizione di precetti legati ai lavori dei campi si inserisce in una più ampia adesione al programma culturale augusteo. L’interesse per la poesia didascalica di argomento scientifico caratterizzò anche la produzione di Ovidio (43 a.C.-8 d.C.): a lui si attribuiva un poemetto intitolato Halieutica, dedicato alla classificazione dei pesci e all’arte della pesca. Questo specifico filone di poesia didascalica ebbe fortuna anche nei secoli successivi: nel IV secolo d.C., Ausonio vi attingerà per proporre un ampio catalogo di pesci nel suo poemetto, Mosella, dedicato alla descrizione del fiume omonimo.
A Roma: precetti letterari e consigli d’amore La poesia didascalica, tuttavia, non si occupò esclusivamente di argomenti tecnico-scientifici. Una particolare declinazione di questo genere proponeva al lettore, in versi, riflessioni e precetti di natura critico-letteraria: celebre in questo filone è la cosiddetta Ars poetica di Orazio (65-8 a.C.), un’epistola in versi che offre una rassegna di opere e generi letterari, enucleando di volta in volta i precetti e le peculiarità della composizione poetica. Un’ulteriore, originale declinazione della poesia didascalica può inoltre essere riconosciuta nelle opere elegiache di Ovidio: nell’Ars amatoria («L’arte di amare»), infatti, il poeta espone una singolare precettistica, volta a insegnare a uomini e donne del suo tempo come vivere una passione d’amore lontana dalla morale istituzionale; nei Medicamina faciei femineae («I cosmetici delle donne»), prescrive vere e proprie ricette per prodotti di cosmesi femminile; e nei
Tesoretto di Brunetto Latini 1200 MEDIOEVO
Divina Commedia di Dante Alighieri 1300
Remedia amoris («I rimedi d’amore») istruisce il lettore a resistere all’amore o a liberarsene.
In Italia: il Medioevo La produzione didascalica greco-romana continuò a evolversi nel Medioevo, nella forma della poesia enciclopedica allegorica. Esempio in tal senso può essere considerato il Tesoretto di Brunetto Latini (1220-1294 circa), ma un approccio didascalico si può riconoscere anche nella Divina Commedia di Dante Alighieri, che nel viaggio oltremondano compendia il sapere teologico, filosofico e scientifico del suo tempo.
In Italia: l’età moderna Il Rinascimento proseguì la tradizione di poesia didascalica ereditata dall’antichità e dal Medioevo, alla luce anche dei classici latini che gli umanisti avevano riscoperto. Nel Cinquecento fiorì la produzione di opere didascaliche di ispirazione virgiliana. Relativamente trascurato nel Seicento, il genere tornò in auge nel Settecento: un esempio celebre è Il giorno di Giuseppe Parini (1729-1799), in cui l’esposizione dei costumi dell’aristocrazia milanese del tempo offre lo spunto per una pungente critica sociale. Alla poesia didascalica ricorse anche il cardinale francese Melchior de Polignac (1661-1741), in una risposta polemica proprio a Lucrezio: in un poema latino in nove libri, intitolato AntiLucretius sive de Deo et natura («L’anti-Lucrezio, ovvero su Dio e la natura»), il cardinale confutava da una prospettiva cristiana le tesi epicuree e atomistiche esposte nel poema lucreziano; l’Anti-Lucretius fu pubblicato postumo nel 1748, e poi tradotto in italiano dall’abate Francesco Maria Ricci. Tra Settecento e Ottocento, tuttavia, la tradizione della poesia didascalica si esaurì: questo genere, ormai, non rispondeva più a pieno né all’approccio scientifico postilluminista, né alla sensibilità della poetica romantica.
In Italia • Il Giorno di Giuseppe Parini
In Francia • Anti-Lucretius di Melchior de Polignac
1700 ILLUMINISMO
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COLLEGAMENTI
SCIENZE
L’ATOMISMO: DA DEMOCRITO ALLA FUSIONE NUCLEARE Le origini della teoria I filosofi greci Leucippo e Democrito (V-IV secolo a.C.) furono i primi ad avere l’intuizione che la materia potesse essere scomposta in tante parti sempre più piccole, fino ad arrivare a corpuscoli invisibili che costituiscono le unità minime da cui è formato ogni corpo, vivente e non. Chiamarono le minuscole particelle oltre le quali non è più possibile alcuna scomposizione ‘atomi’, proprio per sottolineare questa loro caratteristica di indivisibilità. La parola greca átomos, infatti, è formata da un alfa privativo e dalla radice del verbo témnō, «tagliare». Dunque un atomo è letteralmente un ente «in-tagliabile», «in-divisibile». Tra il III e il II secolo a.C. la teoria atomistica fu ripresa dal filosofo greco Epicuro e successivamente trovò un potente canale di diffusione nel poema di Lucrezio, il De rerum natura. Il poeta latino se ne occupò estesamente nei primi due libri della sua opera, quelli dedicati alla fisica.
La struttura dell’atomo In età moderna un decisivo passo in avanti nella teoria atomistica fu compiuto dal fisico danese Niels Bohr (1885-1962). Già prima degli studi di Bohr si era scoperto che l’atomo non era propriamente indivisibile, perché al suo interno potevano essere individuate alcune sottoparticelle, dette ‘subatomiche’, che gli antichi non avevano contemplato: un nucleo, composto da neutroni con carica neutra e protoni con carica positiva, e degli elettroni che ruotano attorno al nucleo e sono carichi negativamente.
I l modello atomico di Bohr.
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Bohr mostrò che queste particelle con carica negativa, gli elettroni, descrivevano orbite ben precise nel loro movimento intorno al nucleo e che, se eccitate, compivano dei salti verso le orbite più esterne, per poi tornare in un secondo momento alle orbite più interne sprigionando energia sotto forma di luce.
Le applicazioni pratiche Gli sviluppi successivi spostarono l’attenzione dallo studio della struttura dell’atomo ai procedimenti che potevano sfruttare le caratteristiche degli atomi di certi elementi per sprigionare energia. Il nome del fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer (1904-1967) è tristemente legato ad uno dei momenti più drammatici della seconda guerra mondiale. Oppenheimer insieme ad alcuni dei fisici più brillanti del suo tempo – compreso l’italiano Enrico Fermi (1901-1954) – fu coinvolto nel ‘Progetto Manhattan’, che, in una folle corsa tra chi per primo avesse progettato l’arma più letale, riuscì a produrre le due bombe atomiche che gli USA sganciarono sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945. Il meccanismo su cui si basava l’ordigno era quello della fissione: il nucleo di un atomo di un elemento chimico pesante, per esempio l’uranio-235, viene bombardato con un neutrone provocando la sua divisione in due nuclei più leggeri. Tale processo libera una grande quantità di energia, che cresce esponenzialmente quando, come nel caso della bomba atomica, si innesca una reazione a catena che provoca la fissione di altri nuclei di uranio. Dopo le pagine buie di cui l’atomo è stato involontariamente protagonista nel secolo scorso, oggi la crisi energetica ha reindirizzato gli sforzi della ricerca scientifica verso lo studio di procedimenti che continuino a sfruttare l’interazione di particelle atomiche ma siano al contempo sicuri e non producano rifiuti radioattivi. Gli scienziati hanno capito che questo obiettivo si può raggiungere abbandonando la fissione per la fusione, cioè facendo in modo che due nuclei, anziché dividersi, si uniscano in un elemento più pesante.
2 Un poeta filosofo: il De rerum natura
2.3 La polemica contro la religione e la figura di Epicuro L’originalità – e anche la grandezza – di Lucrezio è immediatamente evidente nel De rerum natura: essa consiste nel fatto che il poeta trovò un modo assolutamente particolare di unire la complessità del pensiero filosofico di Epicuro alla forza visionaria del suo linguaggio poetico. Anche nei momenti in cui il discorso scientifico si fa difficile, oscuro, all’opacità del linguaggio tecnico Lucrezio riesce a sostituire immagini o squarci di grande suggestione poetica.
L’unione tra pensiero filosofico e poesia
Il De rerum natura contiene un’interpretazione complessiva non solo della natura, ma anche della storia dell’umanità e della sua lotta contro le paure più irrazionali. Uno dei temi fondamentali del poema è infatti la polemica contro la religio, che per Lucrezio non è altro che «superstizione», fatta di pratiche assurde e di un modo di pensare che allontana gli uomini dalla ricerca del vero. Accade persino che in nome della religio, per obbedire a una profezia, un padre sacrifichi la propria figlia sopra un altare, come avvenne alla giovane Ifigenia, fatta uccidere da suo padre Agamennone T4 . La religio, dunque, terrorizza, rende ciechi, minaccia: ma ecco che un semplice uomo – Epicuro – osa guardarla in faccia e metterla in fuga.
La polemica con la religione
Il De rerum natura racconta l’eterna lotta della ragione contro la paura e l’ignoranza a cui la religio condanna gli uomini, e, in alcuni passaggi, sembra pensato da Lucrezio come un poema epico. Come i poemi epici, per esempio, si apre con un’invocazione a una divinità, e, come nei poemi epici, anche qui c’è un eroe: Epicuro. Agli occhi di Lucrezio Epicuro è un eroe-filosofo, non un eroe-guerriero. È impavido come Achille o Enea, ma il suo è un eroismo di tipo del tutto nuovo: è l’eroismo della ragione che insegna a non avere false illusioni.
Un’opera pensata come un poema epico
Il sacrificio di Ifigenia, in un affresco pompeiano dalla Casa del poeta tragico.
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
Epicuro, personaggio ‘epico’
All’inizio del poema Lucrezio descrive il suo eroe con i toni tipici dell’epica: la storia degli uomini – dice – trascorreva oppressa da una pesante superstizione (religio) «che mostrava la sua testa dalle regioni del cielo» (I, v. 64), e gravava sui mortali come un orribile e minaccioso orco. Ma ecco che un greco osò guardare in faccia questo mostro e fissare gli occhi nei suoi. Tanto più la superstizione era minacciosa, tanto più egli la sfidò, facendo appello al coraggio del suo animo per spezzare le porte che chiudevano agli uomini la conoscenza della natura.
L’impresa di Epicuro
La superstitio crollò ai piedi di Epicuro (e dunque di Lucrezio) come un nemico trafitto, e il filosofo scoprì quali sono le leggi che regolano la natura. Egli compì questo viaggio per primo, aprendo una porta per tutta l’umanità, e non tenne questa conoscenza per sé, ma tornò indietro e ne fece dono agli uomini. Questa, per Lucrezio, è in realtà la più grande e più bella impresa di Epicuro.
La superstitio, il nemico da sconfiggere
Questo racconto, che si trova all’inizio del poema, esprime quello che è forse il tema fondamentale di tutta l’opera: la lotta della ragione e della scienza contro la superstitio, la battaglia dei filosofi e degli scienziati contro coloro che volevano far rimanere gli uomini nell’ignoranza e nella paura. Per Lucrezio, infatti, tutto ciò che si raccoglie sotto la categoria di religio è il nemico da sconfiggere. Del resto, la fede negli dèi non nacque con l’uomo – e in questo Lucrezio anticipa idee sviluppate dagli antropologi europei di fine Ottocento –, ma ebbe origine dal fatto che gli uomini erano incapaci di comprendere la realtà dei fenomeni e ne diedero un’interpretazione mitica, attribuendoli a forze invisibili. Sognavano e vedevano figure ignote: da questi sogni nacque la credenza negli dèi. ESPOSIZIONE ORALE
L’epicureismo lucreziano
Completa la mappa concettuale e rispondi: secondo l’epicureismo, che cos’è la morte e come si raggiunge la felicità?
MORTE
FELICITÀ è
è
disgregazione di � ����������� e corpo
aponia
���������������
che annulla
cioè
cioè
ogni cosa
assenza di dolore � ����������
assenza di turbamenti
PRESENTAZIONE
Lucrezio, De rerum natura
Guarda la presentazione sul De rerum natura.
perché
e si raggiunge eliminando
essere morti = ���������� essere nati
������������ illusori (per es. lusso, ambizioni politiche) grazie a
forza della �������������
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L’EVOLUZIONISMO TRA SCIENZA E ANTROPOLOGIA Lucrezio e l’origine della vita sulla Terra Nella parte finale del libro V del De rerum natura Lucrezio ricostruisce, riprendendo le idee di Epicuro, l’origine della vita sulla Terra e la storia dell’uomo. Il filosofo non fa alcun riferimento all’azione creatrice delle divinità, ma spiega come gli esseri viventi si siano formati grazie a particolari circostanze (il terreno umido o il calore, per esempio); di questi esseri viventi, poi, nel corso del tempo, alcune specie si erano adattate all’ambiente («i leoni con la forza, le volpi con l’astuzia»), mentre altre non erano sopravvissute, vittime di quelle più forti, «finché la natura ridusse quella specie alla morte» (De rerum natura V, v. 877).
Charles Darwin e l’evoluzione della specie Colpisce la somiglianza tra queste idee, illustrate prima della nascita di Cristo, e ciò che il 24 novembre 1859 il naturalista e antropologo inglese Charles Darwin pubblicò, sconvolgendo non solo il mondo scientifico ma anche il più comune modo di pensare, nel saggio L’origine della specie. Dopo anni passati nelle isole del Sud America a studiare infinite varietà di organismi viventi, infatti, Darwin sostenne, in base alle sue osservazioni, che gli esseri viventi non sono stati creati così come sono da un’entità divina, ma sono il frutto di un processo spontaneo di evoluzione determinato dalla loro capacità di adattamento all’ambiente naturale in cui vivono: è la cosiddetta ‘selezione naturale’.
L’evoluzionismo culturale Pochi decenni dopo la pubblicazione de L’origine della specie, le idee darwiniane avevano superato i confini degli studi naturalistici. Ben presto, infatti, l’idea che sia in atto da sempre un processo evolutivo (considerato sinonimo di miglioramento) non fu più circoscritta al mondo naturale, ma venne applicata anche alla società e alla cultura umana. Si riconobbe l’esistenza di popoli, considerati selvaggi, la cui
cultura ‘primitiva’ non era altro che una forma embrionale, e quindi imperfetta e rudimentale, della cultura dell’Occidente civilizzato. Rifacendosi al modello evoluzionista darwiniano, i primi etnologi inglesi e americani tentarono di ricostruire il cammino evolutivo della civiltà umana attraverso lo studio della cultura delle popolazioni selvagge: nacque così il cosiddetto ‘evoluzionismo culturale’.
COLLEGAMENTI
ANTROPOLOGIA
Edward Burnett Tylor: il valore della cultura Il primo a interessarsi della cosiddetta ‘cultura primitiva’ fu l’inglese Edward Burnett Tylor che, con la pubblicazione del saggio Cultura primitiva nel 1871, sancì la nascita dell’antropologia culturale. La cultura, secondo Tylor, «è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». Eppure, la cultura dei popoli selvaggi da lui studiati in Messico e a Cuba era ben altra cosa rispetto alla cultura dell’Inghilterra puritana: sulla scia delle teorie darwiniane, Tylor credette dunque che il pensiero dei primitivi fosse un relitto del passato nello sviluppo del pensiero umano, uno stadio evolutivo inferiore.
I limiti dell’evoluzionismo culturale Il più grande limite dell’evoluzionismo culturale è la totale assenza, quando si studia una civiltà diversa dalla propria, di una prospettiva relativistica. Tylor, infatti, definiva primitiva, con un’innegabile connotazione negativa, la cultura di popoli con un sistema di valori e credenze diverso dal proprio. La sua è una prospettiva etnocentrica, cioè volta a giudicare la società, la cultura e la storia di un popolo diverso da quello a cui si appartiene secondo i valori propri di quest’ultimo, che è utilizzato come unico punto di riferimento dell’analisi. Si tratta dunque di una visione che disprezza i popoli diversi dal proprio, considerati inferiori, e ne legittima la sottomissione.
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COLLEGAMENTI
PSICOLOGIA
L’ANTIDEPRESSIVO DI LUCREZIO La depressione Delle fatiche e delle difficoltà che hanno sempre caratterizzato il vivere umano fa parte anche quella che oggi definiamo ‘depressione’ e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità descriveva, nel 2017, come «un disturbo caratterizzato da una tristezza persistente e dalla perdita di interesse nelle attività solitamente piacevoli, accompagnata da una difficoltà nello svolgere le attività quotidiane, che dura per almeno due settimane». Ovviamente nell’antichità i termini e le categorie usate per parlare di depressione erano diversi, ma i sintomi – per esempio, la perdita di energia, l’irrequietezza, l’ansia, la riduzione di concentrazione – erano in larga parte gli stessi, come ha ben dimostrato Donatella Puliga nel suo libro La depressione è una dea. I Romani e il male oscuro (2017).
La malinconia greca Il viaggio attraverso il malessere interiore antico compiuto dalla professoressa Puliga inizia in Grecia, dove le scoperte della scuola medica nata nel V secolo a.C. attorno alla figura di Ippocrate di Cos condussero alla formulazione di una teoria fisiologica secondo la quale la depressione si originava da uno squilibrio nella produzione dei quattro umori – il sangue, la flegma, la bile gialla e la bile nera – che comportava una presenza eccessiva nel corpo del più tetro dei liquidi, la bile nera. I Greci chiamarono questo stato melancholia, che è parola composta dall’aggettivo melas, «nero», e dal sostantivo chole, «bile», da cui derivano i termini moderni ‘melanconia’ e ‘malinconia’.
La morte in vita dei Romani I Romani in parte ereditarono questa concezione e in parte ne svilupparono una autonoma, in cui il male non era prodotto da un’alterazione dei processi interiori ma arrivava dall’esterno, da una divinità femminile chiamata Murcia che aveva il potere di colpire l’animo e renderlo fiacco e privo di ogni spirito vitale. Per i Romani, insomma, il male di vivere corrispondeva a una perdita delle funzioni vitali, a una vera e propria morte in vita, a un processo di disgre-
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gazione del quale vengono sottolineati anche gli aspetti sgradevoli e repellenti.
Il male oscuro a Roma Partendo da questa concezione, vari autori latini hanno affrontato il tema della depressione declinandolo in modi diversi e accentuando ora questo ora quel sintomo, anche a seconda delle condizioni storiche in cui si trovarono a vivere. Celebre è, per esempio, il caso di Orazio (65 a.C.-8 a.C.), che, per descrivere il senso di smania accompagnato da indolenza e paralisi dell’azione caratteristica della società del suo tempo, coniò l’espressione strenua inertia (letteralmente «torpore smanioso»). Non sono molti gli scrittori, tuttavia, che si preoccuparono non solo di offrire una descrizione efficace del male oscuro, ma anche di proporre un modo per sconfiggerlo. Tra i tentativi in tal senso va sicuramente ricordato quello di Lucrezio.
Il rimedio proposto da Lucrezio Il grande poeta del De rerum natura, infatti, se da una parte compie una lucida analisi dell’angoscia del vivere, riconducendola soprattutto a un senso di oppressione e di peso dall’altra elabora una teoria che spiega i motivi per cui gli uomini si ammalano di questo soffocante sconforto, e formula una conseguente soluzione. La proposta di Lucrezio è semplice e ben inquadrata nel suo sistema filosofico: è la paura della morte e di quello che potrebbe accadere dopo la morte a corrodere l’animo delle persone e a impedire loro di vivere serenamente, perché essa è la madre di tutte le altre paure, persino di quelle che spingono a rifiutare la vita. Il timore di morire è tuttavia irrazionale e va respinto, perché Epicuro ha insegnato che l’anima, come il corpo, è destinata a disgregarsi, senza approdare in nessun al di là, e che quando ci sarà la morte noi non ci saremo, per cui non ne dovremo subire gli effetti in alcun modo. L’‘antidepressivo’ di Lucrezio, è, in ultima analisi, lo studio della natura e della filosofia, il liberarsi di false credenze che ci fanno stare male per avvicinarci alla verità, che per il poeta coincide, ovviamente, con il pensiero di Epicuro.
3 La lingua e lo stile
3 La lingua e lo stile 3.1 L’originalità di Lucrezio Il De rerum natura s’inserisce nella tradizione del poema didascalico, tuttavia l’importanza e la novità dell’opera di Lucrezio risiedono nella sua capacità di superare i modelli, non solo latini, ma anche e soprattutto greci. Nelle opere didascaliche la vera sfida artistica è mantenere equilibrio tra il contenuto dotto (filosofico o scientifico che sia) e la capacità di versificare per trasformare una materia arida in un’opera d’arte e al tempo stesso in un’opera utile a molti: se così è, allora possiamo ben dire che Lucrezio vinse questa sfida su tutti i fronti.
La novità di Lucrezio
Lucrezio, infatti, interrompe la sua trattazione con digressioni, esempi, racconti, e in questo modo varia continuamente il tono del discorso teorico, che altrimenti sarebbe inevitabilmente piatto. Tale processo risulta di enorme importanza nella storia della letteratura latina; esso aprirà infatti la via a una lunga tradizione che, a partire, pochi decenni più tardi, dalle Georgiche di Virgilio, attraverserà tutta la storia della civiltà romana.
Un’originale tecnica narrativa
3.2 La lingua di Lucrezio L’esigenza di Lucrezio fu di adattare la lingua latina all’esattezza del pensiero filosofico di Epicuro, esigenza di cui egli si mostra consapevole, quando parla della «povertà della lingua patria», con cui è costretto a misurarsi (all’incirca nello stesso periodo, Cicerone stava facendo la stessa cosa con le sue volgarizzazioni in prosa della filosofia greca, » p. 298).
La «povertà della lingua patria»
Il linguaggio di Lucrezio ha qualcosa di geniale e nello stesso tempo di faticoso: termini tecnici della filosofia greca, reinventati in latino (semina, «atomi»; simulacra, «immagini»; inane, «vuoto» e simili), sono mescolati a parole e immagini grandiose, e danno così vita a uno stile assolutamente particolare e inimitabile, arcaico e moderno nello stesso tempo.
Il grande lavoro linguistico
Per certi aspetti, Lucrezio è legato a forme tradizionali: usa spesso, per esempio, l’antico genitivo in -ai anziché in -ae (patriai, non patriae). Soprattutto, adotta largamente vocaboli del linguaggio poetico arcaico, come quello di Ennio (» p. 30), in particolare nell’uso di parole e aggettivi composti, che, nella sua scrittura visionaria sono potenti e suggestivi e nello stesso tempo solenni: il mare è navigerum, «portatore di navi»; la terra frugiferens, «donatrice di messi»; il pesce squamiger, «portatore di squame».
Il linguaggio arcaicizzante
A dire la verità, lo stile di Lucrezio è fuori dal tempo, dato che nessun autore latino, né prima né dopo, scrisse come scriveva Lucrezio. Il poeta, d’altronde, era perfettamente cosciente di inventare qualcosa di nuovo e mai prima tentato: «io cammino in luoghi sacri alle Pieridi [alle Muse] dove nessuna orma si posò mai prima» (I, vv. 926-927), scrive pieno di orgoglio a proposito della sua impresa. Il suo stile, in cui trova espressione un’eccezionale profondità di pensiero, si accosta a ciò che per gli antichi era lo «stile sublime»: qualcosa di vertiginosamente alto e potente ma anche difficile. I suoi esametri sono densi e un po’ rigidi (specialmente in rapporto alla successiva, raffinatissima, poesia dell’epoca augustea), ma hanno una loro inimitabile forza.
Lo stile sublime
ESPOSIZIONE ORALE
BIBLIOGRAFIA
Il linguaggio lucreziano
Esponi il contenuto del paragrafo 2 in un discorso (max. 7 minuti) che tocchi i seguenti punti.
• Quale difficoltà linguistica deve affrontare Lucrezio nella stesura del De rerum natura? Come la supera? • Quali forme tradizionali sono caratteristiche del linguaggio poetico lucreziano? 185
D I C O N O D I LUCREZIO BIOGRAFIA Della vita di Lucrezio ci sono giunte pochissime notizie, per altro discordanti tra loro e provenienti da scrittori cristiani, che erano ostili all’epicureismo lucreziano e quindi molto probabilmente erano intenzionati a presentare l’autore in una luce negativa. A tal fine proiettano sulla sua vita idee e concetti desunti dalla sua opera, su tutti l’amore come furor. La fonte principale è san Girolamo (IV- V secolo d.C.) F1 il quale, nella sua cronologia universale intitolata Chronicon, riferisce che il poeta nacque intorno all’anno 94 a.C. e morì suicida all’età di quarantaquattro anni, ovvero nel 50 a.C. Nella sua Vita Vergilii, però, Elio Donato racconta che Virgilio prese la toga virile nel 55 a.C., proprio nell’anno della morte di Lucrezio F2 , quindi cinque anni prima rispetto alla datazione fornita da San Girolamo. Profilo di un busto marmoreo di Epicuro, oggi conservato ai Musei Capitolini (Roma).
F1 Lucrezio pazzo d’amore Titus Lucretius poeta nascitur. Qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.
Nasce il poeta Tito Lucrezio, che in seguito, impazzito per effetto di un filtro d’amore, dopo aver scritto negli intervalli di lucidità dalla follia alcuni libri, che poi Cicerone rivide per la pubblicazione, si uccise di propria mano all’età di 44 anni. [san Girolamo, Chronicon, a. Abr. 1923 = 94 a.C.]
F2 Lucrezio e Virgilio Initia aetatis Cremonae egit usque ad virilem togam, quam XV[II] anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, evenitque ut eo ipso die Lucretius poeta decederet.
[Virgilio] trascorse a Cremona gli inizi della sua giovinezza, fino alla toga virile, che assunse a 17 [15?] anni, sotto quegli stessi consoli [Pompeo e Crasso] sotto i quali era nato – che rivestivano il consolato per la seconda volta: e nel medesimo giorno accadde che il poeta Lucrezio morì. [Elio Donato, Vita Vergili, 6]
IL GIUDIZIO DEGLI ANTICHI I pochi contemporanei che citano Lucrezio esprimono una valutazione positiva della sua poesia e del suo impegno filosofico e dottrinario. Da san Girolamo apprendiamo, come abbiamo letto in F1 , che l’opera di Lucrezio fu revisionata e pubblicata da Cicerone, il quale, nonostante l’ostilità nei confronti dell’epicureismo, riconobbe il grande talento del poeta F3 . In età augustea Vitruvio ricorda la forza di Lucrezio nel rappresentare la grandiosità della natura F4 e Ovidio lo omaggia con un elogio altissimo F5 . Come abbiamo visto, Lucrezio continua a essere letto e tramandato anche in epoca cristiana. Tuttavia, secondo gli autori cristiani egli rappresenta il portavoce di un pensiero da smentire e contestare punto per punto. Lo scrittore Lattanzio (III-IV secolo d.C.), per esempio, critica le posizioni di Lucrezio, considerandolo un pazzo visionario F6 ; F7 .
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
F3 Un poeta con talento e tecnica Lucreti poemata ut scribis ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis. sed cum veneris.
I poemi di Lucrezio – come scrivi – mostrano la luce di un grande talento, ma anche una grande tecnica letteraria. Ma ne parleremo quando verrai. [Cicerone, Ad Quintum fratrem II, 9, 3]
F4 Il poeta della natura Item plures post nostram memoriam nascentes cum Lucretio videbuntur velut coram de rerum natura disputare.
Così anche a tanti delle generazioni successive alle nostre sembrerà di discutere con Lucrezio, come se fosse davanti a loro, sulla natura. [Vitruvio, De architectura IX, praef. 17]
F5 Fama eterna Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti, exitio terras cum dabit una dies.
I carmi del sublime Lucrezio periranno allora, quando un giorno solo porterà alla distruzione delle terre. [Ovidio, Amores I, 15, vv. 23 s.]
F6 Le menzogne di Lucrezio Relligionum animos nodis exsolvere pergo, ut ait Lucretius, qui quidem hoc efficere non poterat, quia nihil veri afferebat. Nostrum est hoc officium, qui et verum Deum asserimus, et falsos refutamus.
Tento di liberare gli animi dai nodi della superstizione, come dice Lucrezio, che in realtà non era stato in grado di farlo, poiché nulla di vero affermava. Questo è il compito di noi cristiani che proclamiamo il vero Dio e rifiutiamo quelli falsi. [Lattanzio, Divinae Institutiones I, 16]
F7 Le follie di Lucrezio Non possum hoc loco teneri quominus Epicuri stultitiam rursum coarguam: illius enim sunt omnia quae delirat Lucretius.
Non posso qui trattenermi dal dimostrare nuovamente la stupidità di Epicuro: da lui derivano infatti tutte le follie di Lucrezio. [Lattanzio, De opificio Dei 6, 1]
ORA TOCCA A TE 1. Quali uniche informazioni possiamo desumere dalle fonti antiche circa la biografia di Lucrezio? 2. In quali termini san Girolamo sembra essere stato influenzato dal giudizio di Lattanzio? 3. Perché gli autori cristiani contrastano fortemente l’epicureismo lucreziano?
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PER FISSARE I CONCETTI MAPPA
LUCREZIO (94-50 a.C.)
Ripassa l’opera e lo stile di Lucrezio. Puoi anche personalizzare la mappa. compone il
De rerum natura
che è un
poema didascalico in esametri
in sei libri organizzati in
tre diadi
• libri I-II: la fisica • libri III-IV: l’antropologia • libri V-VI: la cosmologia
in cui espone ed esalta i
princìpi della filosofia epicurea
come
• l’atomismo: la realtà
e il suo divenire sono formati e determinati dagli atomi e dalle leggi materiali dell’universo • la materialità e la mortalità dell’anima • la necessità per chi vuole essere felice di non lasciarsi turbare (atarassia) • l’indifferenza degli dèi alle vicende umane
per liberare gli uomini da
• paura della morte • paura degli dèi e dell’oltretomba
• superstizioni della religio
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in uno
stile sublime
caratterizzato da
• forza visionaria del linguaggio
• linguaggio poetico arcaico
• neologismi • tecnicismi
LUCREZIO
Antologia TESTO MODELLO
T1 | L I | La povertà della lingua latina non scoraggia Lucrezio (De rerum natura I, 136-145)
1▪ De rerum natura I-II: la fisica T2 | L I | L’inizio del poema: l’inno a Venere (De rerum natura I, vv. 1-43) T3 | L I | Epicuro, il nuovo eroe (De rerum natura I, vv. 62-79) T4 | I | Gli orrori della superstizione: il sacrificio di Ifigenia (De rerum natura I, vv. 80-101) T5 | L I | L’epicureismo: una medicina addolcita dalla poesia (De rerum natura I, vv. 921-950)
2▪ De rerum natura III-IV: l’antropologia (il microcosmo uomo) T6 | I | Il discorso della Natura (De rerum natura III, vv. 931-971) T7 | I | I sogni (De rerum natura IV, vv. 962-986; 1007-1025) T8 | I | L’amore, passione pericolosa (De rerum natura IV, vv. 1052-1120)
3▪ De rerum natura V-VI: la cosmologia (l’origine e la fine del mondo) T9 | I | La storia dell’uomo: l’accidentata via verso la civiltà (De rerum natura V, vv. 1105-1116; 1120-1160)
T10 | I | La peste di Atene (De rerum natura VI, vv. 1230-1286)
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TESTO MODELLO T1 L
I
La povertà della lingua latina non scoraggia Lucrezio (De rerum natura I, 136-145)
HUB LIBRARY Dal libro I del De rerum natura puoi leggere anche anche altri brani, tra cui Il compito di Lucrezio: fugare le paure di Memmio (I, vv. 102-145).
Prima di entrare nel vivo della trattazione dei temi filosofici oggetto del suo poema, Lucrezio si sofferma sul significato, sulla finalità della sua missione e sulle sfide che dovrà affrontare per esprimere una dottrina filosofica per lui salvifica, quella epicurea. Ciò comporta la creazione di uno stile poetico nuovo e il superamento dei limiti linguistici del latino. Pur consapevole di questa difficoltà, il poeta dichiara la sua incrollabile volontà di render chiara una materia oscura, sostenuta dal sentimento di amicizia che lo lega al dedicatario dell’opera. METRO: esametri
PERCHÉ È UN TESTO MODELLO? Nel testo sono evidenziati i temi chiave e i principali tratti di lingua e stile di Lucrezio.
TEMI
La patrii sermonis egestas: la lingua latina ha un lessico filosofico povero e ciò rende arduo e laborioso il compito di Lucrezio, che per primo si cimenta nell’impresa di chiarire in latino complesse teorie greche
Il valore dell’amicitia: considerata da Epicuro il piacere (voluptas) più grande e dolce, è associata qui dal poeta al rapporto con il suo patrono Gaio Memmio, di cui esalta la virtus
LINGUA E STILE
La polarità luce/tenebre: l’osservazione della natura e la dottrina epicurea hanno finalmente dissipato l’oscurità dell’ignoranza e della superstizione. Oscuri sono anche i concetti filosofici e i fenomeni naturali, sui quali la poesia lucreziana si propone di gettar luce
• Uno stile sublime e fuori dal tempo, che trasmette al lettore quel piacere e quel senso di vertigine, di cui Lucrezio ha fatto esperienza nel suo incontro con la filosofia epicurea • Il lessico legato alla tradizione: forme e vocaboli tipici del linguaggio poetico arcaico
PERCHÉ CI PARLA ANCORA? Il contatto con culture diverse e con concetti nuovi porta all’esplorazione dei confini di una lingua: in questo passo Lucrezio riflette sulla difficoltà dell’impresa di esprimere in latino concetti filosofici fino a quel momento veicolati dalla lingua greca. Il poeta si rivolge quindi al proprio interlocutore offrendogli il frutto dei suoi duri sacrifici, volti a portare alla luce idee che fino ad allora restavano sepolte nell’oscurità dell’ignoranza. Rifletti su come oggi la scoperta di nuove tecnologie solleciti un rinnovamento della lingua, facendo almeno cinque esempi riguardanti principalmente l’italiano.
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ANTOLOGIA Testo modello
TESTO ITALIANO
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Né mi sfugge nell’animo che è difficile spiegare le oscure scoperte dei Greci con versi latini, soprattutto perché bisogna esporre molte questioni con nuove parole per la povertà della lingua e la novità degli argomenti; tuttavia il tuo valore e il piacere sperato della dolce amicizia mi spingono a sopportare qualsivoglia fatica e mi inducono a star sveglio nelle notti serene cercando con quali parole e con quale poesia infine io possa aprire alla tua mente splendenti lampi di luce con cui tu possa vedere a fondo le cose nascoste.
TEMI
[Trad. di A. Benzi]
La difficoltà dell’impresa Lucrezio sottolinea spesso nel corso del poema che la sua missione è difficile. La filosofia epicurea è dura da spiegare (difficile inlustrare, v. 137): la difficoltà è data dalla complessità degli argomenti trattati e dalla severità degli insegnamenti, che inducono a percorrere una strada sì di salvezza, ma anche molto aspra. Emerge poi una difficoltà ulteriore, che è sua personale: la necessità di creare una nuova lingua poetica, capace di superare la povertà della lingua latina, che non dispone ancora di un lessico filosofico adeguato. L’omaggio a Memmio In questo passo Lucrezio combina un concetto tipicamente romano, la virtus, con uno greco, l’amicitia come condivisione dell’ideale di saggezza epicureo. L’espressione si riferisce a Gaio Memmio, il dedicatario dell’opera (I, 26; T2 ), un personaggio discusso su cui la critica ha opinioni contrastanti. Si trattava in ogni caso di un intellettuale e politico filellenico in cui probabilmente il poeta aveva trovato protezione e un orecchio propenso ad accogliere il messaggio nuovo dei suoi versi. Lo scopo di tanta fatica La materia del De rerum natura è la dottrina epicurea, di origine greca. Lucrezio la definisce obscura reperta («oscure scoperte», v. 136 del testo in latino): si tratta di un immenso tesoro «ritrovato» (reperta) grazie alla riflessione razionale che ha ‘illuminato’ ciò che era prima «oscuro». L’opposizione tra luce-tenebre è il concetto cardine del De rerum natura. La filosofia epicurea deve illuminare le menti liberandole dall’oscurità dell’ignoranza, della superstizione e degli inutili timori. La dottrina viene significativamente indicata con l’espressione clara... lumina («splendenti lampi di luce», v. 144): essa è l’unica che può dare luce alla difficile comprensione della natura (res... occultas).
TESTO LATINO
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Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta difficile inlustrare Latinis versibus esse, multa novis verbis praesertim cum sit agendum propter egestatem linguae et rerum novitatem; sed tua me virtus tamen et sperata voluptas suavis amicitiae quemvis efferre laborem suadet et inducit noctes vigilare serenas quaerentem dictis quibus et quo carmine demum clara tuae possim praepandere lumina menti, res quibus occultas penitus convisere possis.
LINGUA E STILE Uno stile sublime Gli arcaismi sono senz’altro uno degli elementi più evidenti che contribuiscono a elevare lo stile del poema lucreziano: in questo passo, per esempio, si riscontrano, al v. 136, il locativo animi («nell’animo»), frequente nel latino arcaico, e il termine Graiorum, equivalente al classico Graecorum. Anche figure retoriche come l’iperbato allontanano il linguaggio dal solco dell’ordinario e permettono a Lucrezio di sottolineare una sfumatura (come il contrasto ego/tu al v. 140 tua me virtus) o di evidenziare un’espressione ricercata, come al v. 142 noctes vigilare serenas (dove noctes serenas va probabilmente inteso come accusativo interno di vigilare, piuttosto che, più banalmente, come accusativo di durata).
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
1▪ De rerum natura I-II: la fisica I primi due libri del poema lucreziano possono essere designati come ‘diade degli atomi’, i princìpi primi dei corpi, le cui leggi e moti regolano ogni aspetto dei fenomeni naturali. Dopo aver invocato nel proemio la dea Venere, allegoria della natura generatrice T2 , Lucrezio espone la teoria di Epicuro, di cui si professa ammirato seguace T3 , e contrappone polemicamente questa visione alla tradizionale fede negli dèi, che degenera in forme di superstizione aspramente criticate dal poeta T4 . Oltre che delle difficoltà, soprattutto linguistiche T1 , Lucrezio è consapevole anche della problematica costituita dal fatto di far accettare ai lettori del suo poema il vero ma ‘amaro’ messaggio di Epicuro.
T2 L
LESSICO
PULSIONI E VOLONTÀ
• voluptas (piacere) • cupide (bramosamente)
I
L’inizio del poema: l’inno a Venere (De rerum natura I, vv. 1-43)
Il De rerum natura si apre con un solenne inno alla dea Venere, la divinità a cui la famiglia di Gaio Memmio, dedicatario del poema, era devota. Quella di Lucrezio non è la Venere onorata nei templi di Roma, ma rappresenta piuttosto un’allegoria o un simbolo: quello della forza generativa della natura, della grande e misteriosa energia che fa rinnovare ogni essere vivente in un perenne ciclo di cambiamento; la divinità che diffonde serenità e pace ovunque. Arriva Venere e la terra si popola di fiori, il mare si riempie di navi, le nubi si dileguano. Arriva Venere e, di fronte a lei e al suo potere, soccombe anche Marte, incarnazione della violenza distruttiva della guerra. METRO: esametri
voluptas | piacere Il sostantivo deriva dalla radice indoeuropea *uel(«desiderare»), da cui discendono anche alcune voci del verbo latino (irregolare) volo, vis, volui, velle, «volere», «desiderare». Indica sia il piacere fisico, o la soddisfazione del medesimo, sia il piacere spirituale, o anche intellettuale, e l’intrattenimento, sia infine la personificazione stessa del «piacere», inteso nelle sue connotazioni assolute (v. 1).
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Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, alma 1 Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis 2: te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus Madre degli Eneadi 1, voluttà degli uomini e degli dèi, alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo popoli il mare solcato da navi e la terra feconda di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma, e una volta sbocciata può vedere la luce del sole: te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire le nubi del cielo, per te la terra industriosa
L 1. alma: è aggettivo etimologicamente con-
nesso con il verbo alo («nutrire», «alimentare»), riferito alla dea Venere in quanto principio di vita (alludono alla stessa sfera
semantica genetrix, v. 1, e concelebras, v. 4). 2. Aeneadum… solis: il periodo è privo di un verbo reggente: dall’invocazione iniziale viene fatta dipendere la relativa introdotta
dal pronome quae, ripetuto in anafora, il cui verbo è concelebras (lett. «riempi di vita»), e da questa dipende a sua volta la causale quoniam concipitur visitque.
I 1. Il patronimico indica i Romani, in quanto discendenti di Enea, il quale, secondo tradizione, è figlio della dea Venere e del mortale Anchise.
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summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum. Nam simul ac species patefactast 3 verna diei et reserata viget genitabilis aura favoni, aeriae primum volucres te, diva, tuumque significant initum perculsae corda tua vi. Inde ferae pecudes persultant pabula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. Denique per maria ac montis fluviosque rapacis frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per pectora amorem efficis ut cupide generatim saecla 4 propagent. Quae quoniam rerum naturam sola gubernas nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo 5 scribendis versibus esse, quos ego de rerum natura pangere conor
cupide | bramosamente L’avverbio deriva dal sostantivo cupido, -inis, che individua anzitutto l’impulso passionale e istintivo e sottolinea la visceralità e la fisicità dello stimolo. Valori simili si presentano anche nel verbo cupio, che significa «desiderare» in modo appassionato, «bramare», «agognare», ed è spesso impiegato in situazioni afferenti alla sfera sentimentale.
suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare 2, e il cielo placato risplende di luce diffusa. Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, e libero prende vigore il soffio del fecondo Zefiro 3, per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea, e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale. Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio, e guadano i rapidi fiumi: così, prigioniero al tuo incanto, ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo. 4 E infine per mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi, nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure, a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore, fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le stirpi 5. Poiché tu solamente governi la natura delle cose, e nulla senza di te può sorgere alle divine ragioni della luce, nulla senza te prodursi di lieto e di amabile, desidero di averti compagna nello scrivere i versi che intendo comporre sulla natura di tutte le cose,
L 3. patefactast: forma sincopata per patefac-
4. saecla: è forma sincopata per saecula. 5. te sociam… rebus: da studeo (che ha per soggetto un ego sottinteso, ossia la persona del poeta) dipende l’infinitiva te sociam… esse e da questa una prima relativa, quos… co-
nor, dalla quale è retta una seconda relativa, quem… voluisti. Ego (Lucrezio stesso) e tu (la dea), soggetti, sottolineano l’importanza del poeta e quella della dea, i due ‘protagonisti’ del proemio (» la Guida alla lettura, p.195).
I 2. La metafora del sorriso della superficie del
ra da ovest. 4. La potenza dell’attrattiva esercitata da Venere su tutti gli animali è sottolineata dai verbi sequitur e capta, che ne sono gli effetti (gli animali la seguono e ne sono catturati), e inducere, l’azione da lei esercitata di condurli.
5. L’espressione «secondo le stirpi» (in latino generatim), spesso usata da Lucrezio, ha un significato importante sotto il profilo della filosofia epicurea, in quanto fa riferimento al fatto che le specie viventi si perpetuano mantenendo ciascuna le proprie caratteristiche.
ta est (da patefio, passivo di patefacio, «spalancare, svelare») è una proposizione temporale in rapporto di anteriorità con la reggente (il cui verbo è significant). mare, che evoca l’immagine dell’incresparsi delle onde, rimanda anche all’idea della fecondità, idea di cui tutto il proemio è intriso (vedi anche nota 1 al testo latino). 3. Lo Zefiro è un vento tiepido che spi-
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Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem6. Effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant; nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reicit aeterno devictus vulnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circumfusa super, suavis ex ore loquellas funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo nec Memmi clara propago talibus in rebus communi desse saluti. per la prole di Memmio 6 diletta, che sempre tu, o dea, volesti eccellesse di tutti i pregi adornata. Tanto più concedi, o dea, eterna grazia ai miei detti. E fa’ che intanto le feroci opere della guerra per tutti i mari e le terre riposino sopite. Infatti tu sola7 puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, poiché le crudeli azioni guerresche governa Marte possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, vinto dall’eterna ferita d’amore, e così mirandoti con il tornito collo reclino, in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi, e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino.8 Quando egli, o divina, riposa sul tuo corpo santo, riversandoti su di lui effondi dalle labbra soavi parole, e chiedi, o gloriosa, una placida pace per i Romani. Poiché io non posso compiere la mia opera in un’epoca avversa alla patria, né l’illustre stirpe di Memmio può mancare in tale discrimine alla salvezza comune. [Trad. di L. Canali]
L 6. leporem: già impiegato al v. 15 nel si-
que, quasi equivalente a voluptas), lepos si riferisce qui alla grazia che promana dalla
poesia e che Venere può dunque concedere a Lucrezio.
I 6. Viene qui menzionato per la prima volta,
presiedere alla conservazione della natura. 8. L’immagine di Marte con il capo rovesciato all’indietro nel grembo di Venere potrebbe essere ispirata a qualche opera d’arte antica. Nonostante fosse naturale e piuttosto frequente la contrapposizione fra Marte, dio della guerra, e Venere, dea dell’amore e della pace, l’antitesi fra le espressioni riferi-
te al dio («crudeli azioni guerresche», v. 32, «possente in armi», v. 33) e quelle indicanti l’effetto esercitato su di lui dalla dea (tra cui, in particolare, «vinto dall’eterna ferita d’amore», v. 34) esaltano il carattere paradossale della situazione, con il dio della guerra che soccombe alla forza della dea dell’amore e riposa al suo fianco.
gnificato di «attrazione amorosa» (e, dun-
mediante il patronimico grecizzante Memmiadae, «prole di Memmio», il dedicatario del poema: Gaio Memmio, tribuno della plebe nel 66 a.C. e pretore nel 58 a.C. 7. L’aggettivo «sola» rivendica il ruolo insostituibile di Venere nel garantire la tranquillità e la pace, così come, al v. 21, nel
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ANTOLOGIA 1 De rerum natura I-II: la fisica
GUIDA ALLA LETTURA La struttura del proemio Il proemio del De rerum natura sembra richiamare le caratteristiche e la struttura tipiche degli inni cletici (cioè di invocazione) alle divinità, molto comuni nella cultura greca e poi latina. Essi si componevano di: • una prima sezione, in cui si enumeravano azioni, comportamenti e poteri della divinità; • una parte dedicata all’elogio vero e proprio del dio; • infine, una precisa richiesta (di aiuto, protezione o altro) espressa da chi pronunciava l’inno. Un proemio innovativo Nel caso di Lucrezio, tuttavia,
accanto all’evidente richiamo alla tradizione, emergono intenti diversi. La dea Venere solo in parte è descritta come una divinità tradizionale dell’Olimpo: il suo consueto ruolo di dea dell’amore e dell’istinto sessuale acquista qui un respiro straordinario, trasformato piuttosto in una potenza cosmica che vivifica il mare, la terra e tutti gli esseri viventi, suscitando in essi l’impulso a procreare. Venere è potenza rasserenatrice, capace di cancellare le guerre (questo il senso dei versi dedicati all’amplesso con Marte), di offrire pace e serenità, ma anche dispensatrice di gioia, bellezza e grazia. E un unico termine, voluptas, contenuto nel primo verso, sembra racchiudere tutte queste funzioni attribuite alla dea, che diviene così il simbolo del piacere epicureo sotto tutti i suoi aspetti.
Il poeta e la dea A Venere, soprattutto in virtù del suo potere di donare grazia e bellezza, il poeta domanda aiuto per l’opera che si accinge a comporre, ma anche pace e tranquillità per chi dovrà fruirne: per il dedicatario del poema, Gaio Memmio, e per tutti i Romani di cui la dea è definita in apertura del poema genetrix, «progenitrice». Un elemento tradizionale come l’invocazione del poeta alla divinità (generalmente le Muse) acquista qui caratteri originali: Lucrezio, invocando la dea come socia, ossia «alleata» (il che non equivale affatto a ispiratrice), manifesta un atteggiamento ben diverso da quello che si coglie nell’epos tradizionale, dove il poeta nulla può senza l’ispirazione divina. Lucrezio affianca il proprio ruolo a quello della dea.
Uno stile raffinato e sublime La descrizione dell’arrivo della dea (vv. 1-9), della sua potenza (vv. 10-20) e la richiesta d’aiuto (vv. 21-43), unita al quadro dell’amplesso fra Venere e Marte, sono espressi solennemente sia attraverso le scelte lessicali (termini ricercati, arcaismi, utilizzo di perifrasi, nessi formulari) sia attraverso l’accurata disposizione dei termini (anafore, anastrofi, enjambements) e gli accostamenti fonetici (in particolare, allitterazioni). Ciò si verifica in tutto il proemio: • vv. 1-5 nell’incipit, reso solenne dall’anafora di quae al v. 3; nella ricercatezza degli aggettivi composti (cfr. v. 3, navigerum, da navis + gero, e frugiferentis, da frux + fero); nella clausola (cioè nella parte finale di verso) lumina solis (v. 5), che contiene una metafora di ascendenza enniana, e ancor prima omerica. • vv. 6-8 i vv. 6-8 sono impreziositi da un’anafora (te… te… te al v. 6; tibi… tibi ai vv. 7-8) e dal poliptoto del pronome personale (i medesimi te e tibi) che richiamano l’attenzione sulla dea invocata dal poeta e sul poeta stesso. L’aggettivo daedala (v. 7) riferito a tellus, è un grecismo (da dàidalos). Sia aequor sia pontus (pressoché sinonimi) sono termini di uso prevalentemente poetico: usati insieme (aequora ponti, v. 8) formano una sorta di nesso formulare al pari di labentia signa (v. 2) e daedala tellus (v. 7). • vv. 9-13 l’uso di una perifrasi come species verna diei (lett. «l’aspetto primaverile del giorno», v. 10) per indicare la primavera (come al v. 29, l’altisonante fera moenera militiai per indicare la guerra) concorre a mantenere teso e solenne il tono del proemio. • vv. 14-34 all’immagine degli animali che saltano (v. 14 persultant) dà vigore anche la scelta fonetica dell’allitterazione pecudes persultant pabula. Nella parte conclusiva del proemio l’antitesi fra le espressioni riferite a Marte (belli fera moenera, v. 32, armipotens, v. 33) e quelle indicanti l’effetto esercitato su di lui da Venere (tra cui devictus vulnere amoris, v. 34) esalta il carattere paradossale della situazione, con il dio della guerra che soggiace alla forza della dea dell’amore.
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Suddividi il testo in sezioni secondo le partizioni dell’inno cletico indicate nella Guida alla lettura. 2. Che cosa chiede Lucrezio a Venere? 3. A chi è dedicata l’opera?
Riflessione e interpretazione 4. Nella concezione epicurea gli dèi sono disinteressati alle vicende dei mortali e del mondo. Come spieghi la scelta di Lucrezio di aprire la sua opera proprio con l’invocazione a una divinità?
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
T3 L
I
Epicuro, il nuovo eroe (De rerum natura I, vv. 62-79)
L’encomio di Epicuro contenuto in questi versi (il primo dei quattro presenti nel De rerum natura) ricorda da vicino, sia nei contenuti sia nella struttura, gli elogi dei condottieri valorosi e degli eroi dell’epica. Di fronte alla drammatica immagine della vita umana che giace a terra oppressa e calpestata dalla religio, che dall’alto grava sugli uomini spaventandoli come un mostro gigantesco, si erge la figura eroica di colui che per primo osò ribellarsi e sfidarla con il proprio coraggio e con il vigore della propria ratio. Epicuro arriva così a capovolgere il rapporto di forza e ad abbattere a sua volta la religio, decretando la vittoria per gli uomini, finalmente liberi di superare gli angusti confini imposti dalla sua prevaricazione. METRO: esametri
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Humana ante oculos foede cum vita iaceret in terris oppressa gravi sub religione, quae caput a caeli regionibus ostendebat horribili super aspectu mortalibus instans, primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra; quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti murmure 1 compressit caelum, sed eo magis acrem inritat animi virtutem, effringere ut arta naturae primus portarum claustra cupiret. Ergo vivida vis animi pervicit et extra processit longe flammantia moenia mundi Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto incombendo dall’alto sugli uomini, per primo 1 un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro: non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono il fiero valore dell’animo, così che volle infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo. E dunque trionfò la vivida forza del suo animo e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo 2,
L 1. minitanti… murmure: numerose so-
terazioni fama… fulmina (v. 68), minitanti… murmure (vv. 68-69, a cui si aggiunge
anche l’onomatopea in murmur), e ancora primus… portarum (v. 71).
I 1. L’insistenza sul primato di Epicuro è riba-
le porte serrate della natura per svelare i loro segreti agli uomini, fino a quel momento vittime della paura, delle credenze assurde e dei riti crudeli imposti dalla religio. 2. Lucrezio sembra alludere all’immagine,
già presente nella filosofia orfica e pitagorica, dell’involucro di fuoco che circonda l’universo; per Epicuro tuttavia l’universo è infinito e oltre l’involucro fiammeggiante esso si estende illimitatamente.
no le figure di suono: per esempio, le allit-
dita dall’anafora di «per primo» (vv. 66, 67, 71). Il filosofo greco è presentato come un salvatore dell’umanità: non solo un eroe, ma addirittura un titano, una figura che spezza
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atque omne immensum peragravit mente animoque, unde refert nobis victor 2 quid possit oriri, quid nequeat, finita potestas denique cuique quanam sit ratione atque alte terminus haerens. Quare religio pedibus subiecta vicissim opteritur, nos exaequat victoria caelo.
e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta 3 sotto i nostri piedi la superstizione è calpestata, e la vittoria ci eguaglia al cielo 4. [Trad. di L. Canali]
L 2. vis… victor: si noti la terminologia mi-
refert, victor; il filosofo, come un generale vittorioso, riporta il suo bottino, che è
costituito dalla conoscenza delle leggi della natura.
I 3. La religio calpestata (in latino subiecta
4. L’espressione non solo sottolinea il trionfo degli uomini sulla religio, ma addirittura quasi prospetta un’identificazione con gli dèi, grazie alla perfetta atarassia (il «non
farsi turbare») che gli uomini possono raggiungere una volta liberati di tutte le paure prodotte dalla religio.
litare impiegata ai vv. 72-75: vis, pervicit, pedibus, v. 78) rovescia l’immagine iniziale della vita umana schiacciata dal peso della religio (oppressa gravi sub religione, v. 63).
GUIDA ALLA LETTURA Concetti filosofici, espressi con la potenza della poesia Il primo elogio di Epicuro, e in particolare i vv.
62-71, sono un ottimo esempio della capacità di Lucrezio di fondere contenuti filosofici e potenza espressiva della parola. In effetti alcuni dei concetti epicurei presenti in questo passo, qui di seguito elencati, vengono esposti con un’attenzione quasi ossessiva per la forma poetica. È come se Lucrezio volesse tradurre la dottrina in immagine potente, attraverso forme linguistiche di grande efficacia. • La religio esercita un potere opprimente sugli uomini. Per dirlo, Lucrezio utilizza il participio oppressa (v. 63, da opprimo, richiamato anche al v. 69 da compressit, composto del medesimo verbo premo) che si riferisce alla vita umana (v. 62, humana vita), a cui si oppone
instans (v. 65, da insto), l’azione esercitata dalla religio. Notevoli sono anche le espressioni gravi sub religione e horribili aspectu, che sottolineano l’oppressione e la paura prodotte dalla religio sugli uomini. • Epicuro è l’eroe che ha avuto il coraggio di sfidare la religio. Per dirlo, Lucrezio utilizza le espressioni tollere contra (v. 66), est ausus (perfetto di audeo, v. 67), obsistere contra (v. 67); quest’ultima, con l’avverbio contra, crea un’epifora (ovvero la ripetizione di una parola a fine verso) con il verso precedente. • Il filosofo greco fu il primo a intraprendere e a vincere la battaglia contro la religio: per sottolinearlo, Lucrezio utilizza le forme primum (v. 66), primusque (v. 67), primus (v. 71), che sottolineano il primato di Epicuro.
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Che cosa ha fatto Epicuro di straordinario, secondo Lucrezio? 2. Che cos’è la religio e come viene rappresentata? 3. In che modo gli uomini possono liberarsi dall’oppressione della religio?
Confronto 4. In un testo (max. 7 righe) traccia un confronto tra la figura dell’eroe, per come viene rappresentato di solito nei poemi epici, e l’Epicuro descritto da Lucrezio. Quali caratteri hanno in comune? Per quali aspetti invece si differenziano?
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T4 I
Gli orrori della superstizione: il sacrificio di Ifigenia (De rerum natura I, vv. 80-101)
Posta immediatamente dopo l’elogio tributato da Lucrezio a Epicuro nel libro I T3 , la storia del sacrificio di Ifigenia (la giovane figlia di Agamennone immolata, su suggerimento dell’indovino Calcante, per placare l’ira della dea Artemide e propiziare così la partenza della flotta greca diretta a Troia) è scelta come drammatico exemplum mitico. Il racconto è funzionale a documentare, secondo Lucrezio, l’oppressione esercitata dalla religio sulla vita degli uomini e le azioni empie a cui essa, per paura, può spingerli. In apertura, il poeta invita il destinatario del poema a non credere di accostarsi a una dottrina empia (come frequentemente era considerata la dottrina epicurea), ma, rovesciando l’accusa, afferma che empia è piuttosto la religio. DIZIONARIO DI MITOLOGIA
Ifigenia
Come si chiama la madre di Ifigenia?
[80] Qui un timore mi prende, che forse tu creda d’essere iniziato ai princìpi di un’empia dottrina e di metterti sulla via della colpa. Invece proprio essa, la religione, generò più volte atti scellerati ed empi, come in Aulide 1 l’ara della vergine Trivia 2 [85] macchiarono turpemente con sangue d’Ifianassa 3 gli eletti duci dei Danai 4, il fiore degli eroi. Non appena la benda avvolta alle nitide chiome virginee in liste eguali le ricadde su entrambe le guance, e come s’accorse che mesto stava innanzi all’altare suo padre [90] e accanto a lui i sacerdoti celavano il ferro e al vederla apparire la sua gente non teneva il pianto, muta per il terrore si abbatteva a terra piegandosi sulle ginocchia. Né alla misera poteva giovare in un tale momento l’aver dato per prima al re il nome di padre. [95] Sollevata da mani d’uomini 5 e tutta tremante fu condotta all’altare, non perché una volta compiuto il sacro rito solenne, potesse essere scortata per via dal luminoso Imeneo 6, ma affinché pura impuramente 7, nel giorno promesso alle nozze, cadesse vittima dolente colpita dal padre, [100] e così fosse data alla flotta felice e fausta partenza. Tanto grandi delitti ha potuto ispirare la religione. 8 [Trad. di A. Fellin]
1. L’Aulide è la regione della Grecia centrale, più precisamente della Beozia, da cui la flotta greca partì per la spedizione contro Troia. 2. L’epiteto Trivia è qui riferito ad Artemide (Diana, per i Romani). Secondo una delle varianti del mito la dea, offesa da Agamennone, impedì la partenza per Troia all’esercito acheo radunato in Aulide. L’indovino Calcante, interpellato in proposito, rivelò ad Agamennone che soltanto con il sacrificio della sua giovane figlia la collera divina si sarebbe placata e la partenza avrebbe avuto luogo. 3. Ifianassa è una variante del nome Ifigenia. 4. Danai (o Achei o Argivi) è il nome con
cui si designano i Greci della coalizione che compì la spedizione contro Troia. 5. Il termine indica qui i soldati che conducono Ifigenia al sacrificio, ma richiama, per contrasto, i giovani che nel rito nuziale romano sollevavano la sposa al momento del suo ingresso nella nuova casa. Al rito nuziale riportano, del resto, anche l’uso del verbo «condurre» (in latino deducta est; la deductio era propriamente l’accompagnamento della sposa alla casa del marito) e il riferimento all’Imeneo, il canto intonato durante il corteo nuziale che accompagnava la sposa a casa dello sposo (» nota 6).
6. Il nome Imeneo designa al medesimo tempo il dio che guida il canto nuziale e il canto nuziale stesso, che veniva intonato durante il corteo che accompagnava le nozze. 7. L’espressione riecheggia in chiave evidentemente sarcastica la tradizionale formula augurale romana quod bonum faustum felix fortunatumque sit, lett. «che riesca bene, abbia favore e fortuna». 8. Il verso, che chiude con incisiva brevità l’episodio, riprende il messaggio iniziale: a causa della religio si sono spesso commesse azioni empie e scellerate.
GUIDA ALLA LETTURA Un exemplum di empietà Lucrezio incastona nell’introduzione del suo poema didascalico, subito dopo l’elogio ispirato di Epicuro, una gemma di vivida bellezza, che muova gli ascoltatori a reagire contro la detestata religio: la scena del sacrificio di Ifigenia. Si tratta di un’ekphrasis,
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cioè di una descrizione che potrebbe trarre spunto da una rappresentazione iconografica: Cicerone e Plinio ricordano un famoso quadro del pittore greco Timante su questo soggetto; a Pompei nella casa del poeta tragico è stato altresì rinvenuto un dipinto che ricorda il testo lucreziano
ANTOLOGIA 1 De rerum natura I-II: la fisica
(vv. 95-96 nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras / deductast). Tuttavia, rispetto a un pittore, il poeta ha il vantaggio di poter descrivere anche il momento immediatamente precedente al sacrificio, che Lucrezio coglie in tutta la sua ricchezza psicologica: infatti, Ifigenia è rappresentata in piedi di fronte all’altare, mentre si rende conto, osservando il contegno mesto del padre, la presenza dei sacerdoti e le lacrime dei concittadini presenti, che è stata portata lì non per convenire a nozze, ma per esser brutalmente sacrificata. In quell’istante le ginocchia le tremano per la paura e cade a terra senza parole (v. 92 muta metu). Lo smarrimento della vergine occupa la scena e trasforma Ifigenia in un’icona memorabile.
La religio per i Romani Tantum religio potuit suadere malorum, «Tanto grandi delitti ha potuto ispirare la religione»: così Lucrezio sancisce al v. 101, a proposito del sacrificio di Ifigenia. Ma che cos’era la religio per i Romani? Il termine religio, onis si differenzia in modo significativo dal nostro ‘religione’: indica anzitutto uno «scrupolo» e può essere impiegato sia in ambiti laici sia in contesti associati al culto degli dèi, o genericamente alla sfera divina. Molto probabilmente la religio individua l’esito di una azione di *religere (il verbo non è attestato), cioè di tornare a «raccogliere» (legere), effettuare «di nuovo» (re-) una selezione, riconsiderando un’azione o una situazione proprio per l’insorgenza di un timore o di uno scrupolo.
Il potere della poesia Il fortissimo contrasto tra la purezza di Ifigenia e l’empietà del sacrificio è riassunto nell’espressione altamente pregnante casta inceste (v. 98): un esempio della solenne elaborazione formale di questo brano, ricco di allitterazioni, arcaismi e, in generale, caratterizzato da uno stile sublime. La spiccata vocazione letteraria dell’exemplum di Ifigenia, supportata da modelli illustri (in primis la tragedia greca), si propone una chiara finalità didascalica: dimostrare l’insensatezza della religio e la superiorità della filosofia epicurea. Già Empedocle aveva polemizzato contro i sacrifici, offrendo probabilmente un precedente dottrinale importante per questo brano di Lucrezio. Eppure, rispetto a Epicuro e allo stesso Empedocle, il poeta latino opera decisamente una svolta, impiegando la poesia come mezzo potentissimo per coinvolgere emotivamente il lettore. Il paradosso lucreziano consiste dunque nella trasposizione di forme e immagini tradizionali (il mito e i modelli letterari e artistici ad esso connessi) in una poesia didascalica volta a sfatare con decisione alcune idee a loro volta tradizionali, come appunto la religio.
La superstitio per i Romani Lo «scrupolo» sotteso alla religio, del resto, non ammette alcuna sovrapposizione alla sfera della superstitio, termine connesso al verbo supersto (composto da super e sto), che significa «stare sopra», soprattutto nel senso di «stare al di là», ossia «persistere oltre il superamento di qualcosa»: da questo verbo deriva anche l’aggettivo superstitiosus, «indovino», come colui che è in grado di parlare di una cosa come se ne avesse avuta conoscenza diretta, come cioè se ne fosse stato ‘testimone’. La parola superstitio, onis, quindi, individuava una facoltà di questo genere ed era associata (soprattutto in origine) alle presunte doti profetiche di indovini e maghi. Proprio questa associazione, del resto, deve aver contribuito alla svalutazione del termine e alla sua cristallizzazione in senso negativo: è probabile, in altri termini, che il disprezzo solitamente nutrito dai Romani nei confronti dei maghi e delle pratiche divinatorie non inserite nei riti della religione ufficiale abbia agevolato lo slittamento del termine superstitio ai significati di «credenza» priva di supporto, «superstizione» o anche «culto» religioso non conforme alla religione istituzionale.
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Sintetizza in un breve testo (max. 3 righe) il contenuto della scena descritta. 2. Per quale motivo Lucrezio ha raccontato questo mito? Seleziona una delle seguenti risposte e motiva per iscritto la tua scelta con opportuni riferimenti al testo. a. Per elogiare la religio. b. Per esaltare il sacrificio a cui è disposto un padre virtuoso. c. Per dimostrare il grado di empietà a cui la religione tradizionale può spingere gli uomini. d. Per conferire dignità poetica alla sua opera.
Riflessione e interpretazione 3. Secondo te, la scelta del mito di Ifigenia come exemplum degli orrori a cui può portare la religio è efficace? Per quali motivi? Confronto 4. Il sacrificio di Ifigenia è un tema trattato anche da altri autori classici: scegli un testo tra quelli di seguito indicati e, dopo averlo letto o aver cercato su di esso informazioni in biblioteca o su internet, elabora un testo in cui evidenzi analogie e differenze con i versi lucreziani. • Eschilo, Agamennone, vv. 184-287 • Ovidio, Metamorfosi XII, vv. 27-38
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COLLEGAMENTI
ANTROPOLOGIA
IL VITELLINO DI LUCREZIO: SACRIFICI ANIMALI E VEGETARIANISMO Lucrezio e l’orrore per sacrifici umani e animali Lucrezio biasima tanto l’orrore del sacrificio umano (» T4 ) quanto l’uccisione di animali come offerta sopra gli altari. Lo dimostra un noto brano del De rerum natura (II, vv. 352-366): un vitello cade ucciso in un tempio, mentre la madre disperata vaga per i pascoli cercando la sua creatura, che non c’è più. Un altro esempio di empietà crudele della religio. Il tema toccato dal poeta è però più che una polemica antireligiosa; è una riflessione sul rapporto tra uomo e animale e sulla dieta carnea. Un tema che investe problemi di natura non solo religiosa, ma anche antropologica e psicologica.
La storia del sacrificio animale Qui facciamo un salto all’indietro, collocandoci agli albori della specie umana; l’animale-uomo infatti discende da un tipo particolare di scimmia, una scimmia cacciatrice, a differenza delle altre che continuarono a essere vegetariane. In questa evoluzione sta il nocciolo della differenza tra l’uomo (o l’ominide) e gli altri primati. Quando la scimmia-uomo incominciò a cacciare, si trasformò, se si può dire così, da scimmia pacifica in scimmia-assassina. Se ci spingiamo molto in avanti quando l’uomo diventa uomo, Neanderthalensis o Sapiens, troviamo le prime attestazioni di un atto che si compirà sempre poi, nelle civiltà antiche: l’uccisione rituale di un animale. Reperti fossili, come ritrovamenti di crani animali disposti circolarmente intorno ai resti di un falò, dimostrano che l’uomo non solo cacciava e mangiava le prede, ma istituiva con loro un rapporto rituale.
Lo scopo del sacrificio animale Lo storico delle religioni Walter Burkert, in un libro fondamentale (Homo necans), ha delineato una teoria sulle origini del sacrificio animale: poiché il cacciatore avverte un legame con gli animali, che sente simili a sé, e tuttavia li uc-
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cide, il senso di colpa che ne deriva lo spinge a ricostituire la vita strappata alla natura sacralizzando la vittima. Una vita è stata soppressa, un’altra viene restituita: l’animale è stato ucciso, ma la sua vita è stata offerta agli dèi. L’atto crudele diventa così un atto religioso. Di fatto, l’offerta di animali alla divinità era una pratica universalmente diffusa nelle civiltà antiche: Ebrei, Fenici, Mesopotamici, Greci compivano in forme diverse lo stesso atto. Si sgozza l’animale su un altare come offerta; la divinità si ciba del fumo e del grasso, e soprattutto dell’atto di sottomissione dell’uomo; gli uomini mangiano la carne della vittima, liberi dal senso di avere compiuto un atto crudele. Il paradosso è che la vittima è sacra, ma è sacra proprio in quanto viene uccisa. È ciò che l’antropologo Réné Girard chiama «violenza sacrificale», cioè un tipo speciale di violenza, che si può definire ‘violenza sacra’.
Le correnti religiose contrarie al sacrificio Già nella Grecia arcaica esistevano però correnti religiose che combattevano il sacrificio cruento e predicavano una dieta vegetariana. Tali furono gli Orfici (cioè i seguaci di Orfeo) e i Pitagorici (i seguaci di Pitagora), che vietavano l’uccisione di animali perché a loro giudizio in ogni animale vi è un’anima. Queste correnti ebbero lunga vita nell’antichità, pur rimanendo minoritarie; ne è prova il trattato del filosofo neoplatonico Porfirio Sull’astinenza dal mangiare la carne, che propagandava il vegetarianismo (III secolo d.C.). Uccidere animali per alcuni era colpevole; tanto più (dice Lucrezio) se lo fanno gli orribili vates («sacerdoti») per incatenare l’uomo alla superstizione. Vi fu quindi chi praticava sacrifici incruenti, cioè di prodotti della terra che venivano offerti agli dèi. «Il bue che supplica accanto all’altare, o Zeus celeste, mugghia per salvarsi la vita» scriveva il poeta greco Meleagro (Antologia Palatina IX, v. 453). Perché ucciderlo per nutrirsi, quando ci si può sfamare diversamente?
ANTOLOGIA 1 De rerum natura I-II: la fisica
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I
L’epicureismo: una medicina addolcita dalla poesia (De rerum natura I, vv. 921-950)
Prima di concludere il primo libro trattando il tema dell’infinità dell’universo, Lucrezio apre una digressione sul significato della propria missione poetica: veicolare attraverso la grazia e la piacevolezza (lepos) dell’espressione artistica un messaggio filosofico complesso e utile per liberarsi dai limiti imposti dalla religio. Il poeta è come un medico, che cerca di somministrare ai bambini una medicina dal sapore amaro, cospargendo di miele gli orli del bicchiere. L’originalità di questa visione è orgogliosamente proclamata da Lucrezio, che afferma di percorrere una via non battuta prima, mosso dalla speranza di gloria e dal dolce amore per le Muse. METRO: esametri
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Nunc age, quod super est cognosce et clarius audi. Nec me animi 1 fallit quam sint obscura; sed acri percussit thyrso laudis spes magna meum cor et simul incussit suavem mi in pectus amorem Musarum, quo nunc instinctus mente vigenti avia 2 Pieridum 3 peragro loca nullius ante trita solo. Iuvat integros accedere fontis 4 atque haurire iuvatque novos decerpere flores insignemque meo capiti petere inde coronam, unde prius nulli velarint tempora Musae; primum quod magnis doceo de rebus et artis religionum animum nodis 5 exsolvere pergo, deinde quod obscura de re tam lucida 6 pango carmina musaeo contingens cuncta lepore.
LESSICO
BUIO E LUCE
• obscura (oscuri) • lucida (chiari)
obscura | oscura
E ora impara ciò che rimane e ascolta un canto più chiaro. Non sfugge al mio animo quanto il tema sia oscuro; ma una grande speranza di gloria ha colpito il mio cuore con la punta del tirso 1 e ha infuso nel mio petto un dolce amore [925] delle Muse; stimolato da questo amore, ora percorro con mente fervida i luoghi impervi delle Pieridi, mai calcati prima da orma umana. Mi piace accostarmi a fonti intatte e bere, mi piace cogliere fiori nuovi e con essi formare per il mio capo una corona gloriosa, [930] con cui mai prima ad alcuno le Muse abbiano cinto le tempie; in primo luogo perché insegno grandi verità e mi impegno a sciogliere l’animo dagli stretti nodi della superstizione, poi perché su una materia così oscura compongo versi tanto chiari, diffondendo su tutto la grazia della poesia. L 1. animi: forma arcaica (caso locativo).
2. avia: l’aggettivo, all’accusativo neutro plurale (concordato con loca) significa «lontani dalla strada». Già il poeta ellenistico Callimaco aveva paragonato la propria scelta poetica a un sentiero non battuto dai carri.
3. Pieridum: le Muse sono dette «Pieridi» (Pierides) dal nome della regione in Macedonia dove sarebbero state generate. 4. fontis: accusativo plurale di tipo arcaico per fontes. 5. nodis: con questo termine Lucrezio allude a una delle etimologie che i latini for-
L’aggettivo obscurus, a, um, «oscuro, tenebroso» deriva dalla radice indoeuropea *skeu, «coprire», in riferimento al cielo. Si tratta della stessa radice da cui deriva l’inglese sky, «cielo».
lucida | chiari L’aggettivo lucidus, a, um, «luminoso, splendente, chiaro» è un derivato del sostantivo lux, lucis, «luce». In entrambi si riscontra la radice indoeuropea *leuk/*luk da cui deriva anche il greco leukόs, «bianco».
nivano di religio, da religare («legare»). 6. obscura… lucida: nota l’opposizione istituita tra l’oscurità della materia (obscura de re) e la luminosità della poesia (lucida carmina). Il contrasto tra le tenebre e la luce è un Leitmotiv (cioè un tema fondamentale) dell’opera di Lucrezio; » T1 .
I 1. Il tirso, un bastone sormontato da foglie d’edera e di vite, era un attributo di Dioniso: con questo riferimento Lucrezio dimostra di accogliere la concezione della poesia come invasamento divino professata dai filosofi greci (in particolare da Platone nello Ione).
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Id quoque enim non ab nulla ratione videtur; sed veluti pueris absinthia taetra medentes 7 cum dare conantur, prius oras pocula circum contingunt mellis dulci flavoque liquore, ut puerorum aetas inprovida ludificetur labrorum tenus, interea perpotet amarum absinthi laticem deceptaque non capiatur 8, sed potius tali facto recreata valescat, sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur tristior esse quibus non est tractata, retroque volgus abhorret ab hac, volui tibi suaviloquenti 9 carmine Pierio rationem exponere nostram et quasi musaeo dulci contingere melle, si tibi forte animum tali ratione tenere versibus in nostris possem, dum perspicis omnem naturam rerum, qua constet compta figura. [935] E anche questo non sembra senza ragione; ma come i medici 2 , quando cercano
di somministrare ai bambini l’assenzio amaro, prima cospargono gli orli della coppa con il dolce e biondo liquido del miele, perché l’età ingenua dei fanciulli sia ingannata [940] fino alle labbra, e intanto inghiotta la bevanda amara dell’assenzio e così circuita non ne riceva danno, ma piuttosto guarita in tal modo riacquisti le forze, così io ora, poiché questa dottrina appare perlopiù troppo ardua a chi non l’ha approfondita, [945] e la moltitudine rifugge da essa, ho voluto esporla con il canto suadente delle Pieridi, e, per così dire, cospargerla con il dolce miele delle Muse, per cercare di guadagnare in tal modo la tua attenzione per i nostri versi, finché tu penetri [950] tutta la natura delle cose e comprenda da quale forma sia composta e regolata. [Trad. di L. Piazzi]
L 7. medentes: l’uso di questo participio (da medeor,
«curare») è preferito, per ragioni metriche, al termine più comune (medicus). 8. deceptaque non capiatur: figura etimologica e gioco di parole tra decipere («ingannare», da de e capere) e capere («prendere», «catturare»). 9. suaviloquenti: tipico composto lucreziano formato da suavis («dolce») e loquens (participio di loquor, «dico»); per un altro esempio di aggettivo composto » T2 ; I, v. 3: frugiferentis.
I 2. Lucrezio riprende un paragone presente nelle Leggi di Platone, secondo cui i giovani a cui la poesia può trasmettere insegnamenti utili allo Stato ideale sono come ammalati a cui si cerca di fornire ciò che fa loro bene mediante cibi e bevande gradevoli.
Busto bronzeo proveniente dalla Villa dei papiri di Ercolano, solitamente interpretato come ritratto del filosofo greco Democrito.
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ANTOLOGIA 2 De rerum natura III-IV: l’antropologia (il microcosmo uomo)
GUIDA ALLA LETTURA Una ripetizione non casuale I versi 926-950 del libro I si ritrovano anche nel libro IV (vv. 1-25) con qualche variazione (sostanzialmente è l’ultimo verso ad essere differente): questa ripetizione ha fatto sorgere il sospetto che in uno dei due luoghi del poema i versi non fossero genuini. Tuttavia, in entrambi i casi si possono addurre buone ragioni per provarne l’autenticità. In particolare, per il libro IV va tenuto presente che i versi considerati costituiscono un ‘proemio al mezzo’, secondo la definizione dello studioso Gian Biagio Conte: un secondo proemio posto a metà dell’opera, che contiene una professione di poetica. Questa scelta corrisponderebbe a una pratica alessandrina e trova conferma nell’opera del poeta augusteo Virgilio (in particolare nelle Georgiche, fortemente influenzate da Lucrezio).
Lucrezio, Epicuro e la poetica alessandrina In questo passo Lucrezio si richiama ad alcuni motivi letterari cari alla poetica alessandrina: in particolare, il vanto dell’originalità è motivato dalla circostanza che per la prima volta ardui concetti della filosofia epicurea siano esposti in versi latini T1 . Per questo Lucrezio si può considerare quasi un ‘nuovo’ Epicuro, che usa la poesia come strumento pedagogico, capace di rendere gradevoli temi difficili: da qui l’efficace immagine della poesia come miele che addolcisce ai bambini la medicina amara. Un famoso riecheggiamento di quest’immagine si trova nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso (I, ottava 3: «Così a l’egro [malato] fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato intanto ei beve / e da l’inganno sua vita riceve»).
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Per quali motivi Lucrezio merita una gloria che le Muse non concessero a nessuno prima di lui? 2. Nel paragone lucreziano i bambini vengono ingannati a fin di bene: perché?
6. Quale figura retorica osservi nelle espressioni pocula circum (v. 937) e labrorum tenus (v. 940)? 7. Quale forma espressiva ha scelto Lucrezio per rendere più accessibile e assimilabile dall’uomo comune la dottrina epicurea?
Riflessione e interpretazione 3. Che tipo di proposizione è quam sint obscura (v. 922)? 4. Che funzione hanno gli infiniti accedere… atque haurire, decerpere… petere retti da iuvat (vv. 927-929)? 5. Che forma è velarint (v. 930)? Come mai qui sono usati questo modo e questo tempo verbale?
Confronto 8. Secondo Epicuro, la poesia è un piacere non necessario. Ti sembra che l’opinione di Lucrezio coincida con quella del filosofo o che, in questo caso specifico, il poeta si discosti dalle idee del maestro? Argomenta la tua risposta con precisi riferimenti al testo (max. 10 righe).
2▪ De rerum natura III-IV: l’antropologia (il microcosmo uomo) Nella seconda diade dell’opera Lucrezio illustra la natura dell’animo e dell’anima e si sofferma sul processo della conoscenza. Le considerazioni svolte si basano sulla teoria atomistica esposta nei primi due libri: infatti, anche l’anima è costituita di atomi, che al sopraggiungere della morte si disgregano. D’altra parte, quando l’anima è colpita da aggregati di atomi che si staccano dalla superficie dei corpi (i simulacra), allora hanno luogo la sensazione e la conoscenza. Il tema della mortalità dell’anima è centrale nel libro III, dove appare chiaro l’intento etico di Lucrezio: dimostrare l’insensatezza del timore della morte e indicare agli uomini una via razionale per congedarsi serenamente dalla vita T6 . Nel libro IV Lucrezio illustra la difficile teoria dei simulacra, che spiega anche la genesi dei sogni T7 e dell’amore che viene rappresentato come una folle passione che provoca insoddisfazione e dolore T8 . 203
9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
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HUB LIBRARY Dal libro III del De rerum natura puoi leggere anche altri brani, tra cui Perché non bisogna temere la morte (III, vv. 425-444).
Il discorso della Natura (De rerum natura III, vv. 931-971)
Dopo avere dimostrato, nel corso del libro III, che temere la morte è insensato, Lucrezio sostiene, ancora con argomenti della filosofia epicurea, che la vita non deve essere rimpianta quando giunge il momento di morire. Il discorso ora si anima e assume il tono di una diatriba, cioè quella forma di argomentazione filosofica su temi etici e morali (sviluppata particolarmente dalla corrente filosofica dei cinici), che può manifestarsi come un’aspra polemica condotta contro qualcosa o qualcuno con gli strumenti della satira o dell’ironia. Infatti, Lucrezio dà la parola alla Natura in persona, che con piglio severo rimprovera gli uomini perché si lamentano della morte. Non importa che si sia giovani o vecchi, che si abbia avuto una vita felice o infelice, la legge di natura richiede che tutte le cose si rinnovino l’una dall’altra.
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Se infine la natura a un tratto cominciasse a parlare 1 e muovesse rimprovero a uno di noi in questo modo: «Che cosa ti sta così a cuore, o mortale, che indulgi in modo eccessivo al dolore, e piangi e lamenti la morte? Se infatti la vita trascorsa finora ti è stata gradita, e se tutte le gioie, quasi accolte in un’urna incrinata 2, non fluirono via, né si persero ormai divenute sgradevoli, perché non ti allontani come commensale sazio 3 della vita e a cuore sereno non prendi, o stolto, un sicuro riposo? Se invece tutto ciò che hai goduto è perito e dissolto nel nulla, e la vita ti è in uggia, perché cerchi ancora di aggiungere ciò che avrà triste fine, a sua volta, e un ingrato tramonto totale, e piuttosto non poni fine alla vita e ai tuoi affanni? Tutto quanto difatti io escogiti e possa inventare che ti piaccia, non serve: le cose sono sempre le stesse. Se il tuo corpo non è oramai putrido di anni, e le tue membra stremate non languono, le cose tuttavia restano sempre le stesse. Durasse la tua vita sino a vincere tutte le stirpi, o anche piuttosto non dovessi morire giammai 4»; che cosa rispondiamo 5, se non che la natura rivolge un’accusa legittima ed espone una causa fondata 6? Se uno ormai carico d’anni e vecchio decrepito geme e misero lamenta oltre il giusto il destino della morte, la natura non avrebbe ragione di gridare e di insultarlo più cruda?
1. Inizia qui il discorso con cui la Natura si rivolge all’uomo. Lucrezio si serve di una figura retorica, la prosopopea, per cui s’immagina che una forza astratta o un personaggio assente prenda la parola e rivolga un discorso o un ammonimento a un ipotetico ascoltatore. 2. L’espressione latina (pertusum quasi in vas), qui tradotta «quasi in un’urna incrinata», indica per l’esattezza un vaso bucato e richiama la mitica immagine delle Danaidi, le giovani figlie del sovrano di Argo Danao
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(esplicitamente citate da Lucrezio in un successivo passo di questo stesso libro), condannate agli Inferi a versare acqua in vasi bucati. 3. L’immagine metaforica del convitato sazio (plenus conviva nel testo latino) e, dunque, della vita come banchetto, ha probabilmente origini nella diatriba filosofica stoico-cinica e sarà utilizzata anche da Orazio e da Seneca. 4. Come diceva Epicuro, nella Lettera a Meneceo, il timore della morte non si scaccia aggiungendo ipotetici anni d’immorta-
lità agli anni della vita, ma con la retta conoscenza della natura. 5. Interessante è l’impiego della I persona plurale («rispondiamo»): il poeta mostra di sentirsi chiamato in causa dagli aspri rimproveri della Natura non meno di tutti gli altri uomini. 6. Il tono severo e inquisitore della Natura è rimarcato dalle parole di Lucrezio, attinte al lessico giuridico («accusa legittima», iustam litem, e «causa fondata», veram causam).
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«Via le lagrime, vecchio furfante 7, frena i tuoi lagni. Già, goduto ogni bene della vita, il tuo corpo marcisce. Ma poiché tu desideri sempre ciò che è lungi da te e non ti curi di ciò che è presente 8, la vita ti sfugge imperfetta e ingrata, e inattesa la morte si arresta accanto al tuo capo già prima che sazio e appagato tu possa allontanarti dal mondo. Ma ora abbandona ogni cosa che più non si addica ai tuoi anni, e sereno arrenditi ai tuoi anni: è destino». Giusta accusa, io credo, rimprovero e biasimo giusti 9. Cede sempre il suo posto l’antico estromesso dal nuovo, ed è legge che tutte le cose si rinnovino l’una dall’altra; né alcuno discende giammai nell’abisso tenebroso del Tartaro. Occorre materia perché crescano le stirpi future 10, che pure, trascorsa la vita, seguiranno la stessa tua sorte e, non meno di quelle perite già prima di te, periranno. Così mai cesserà di prodursi una cosa dall’altra: la vita non è data in possesso ad alcuno, ma in uso a noi tutti 11. [Trad. di L. Canali]
7. Nel testo latino Lucrezio usa un termine raro, baratro, così chiosato da un commentatore tardoantico di Orazio: baratrones, qui bona sua lacerant, idest in baratrum mittunt («baratrones sono detti coloro che dilapidano i propri beni, cioè li gettano in un burrone»). 8. È il canone epicureo della felicità, rias-
sunto poi dall’oraziano carpe diem: la vita è qui e ora, e va vissuta nella sua pienezza. 9. Nuovamente Lucrezio utilizza termini giuridici, quasi a sottolineare che la Natura con i suoi rimproveri muove all’uomo ‘una sorta di processo’. 10. Dato che la materia dell’universo è fat-
ta di atomi, la dissoluzione di un corpo vivente comporta che si liberi una quantità di materia che si ricomporrà in nuovi esseri viventi, secondo un ciclo destinato a non interrompersi mai. 11. La conclusione è una sententia, topos (motivo ricorrente) della letteratura latina.
GUIDA ALLA LETTURA L’uso della prosopopea Il discorso della Natura è una prosopopea (» nota 1). Un esempio famoso dell’uso di tale figura retorica, nella letteratura greca, è quello del Critone di Platone, in cui le Leggi di Atene prendono voce e parlano a Socrate in carcere, dimostrandogli che bisogna obbedire alle leggi, anche quando sembrano ingiuste, perché sono loro che proteggono e fondano la vita civile. Spesso le personificazioni – come qui – si trovano alla fine di un ragionamento, e tendono a rendere solenne ed esemplare un’argomentazione, trasferendola dal piano soggettivo a quello alto e definitivo dei valori astratti: un altro celebre esempio è di Cicerone, nelle Catilinarie, quando immagina che la Patria in forma di figura umana si rivolga a Catilina e lo rimproveri, sdegnata, perché ha congiurato contro di lei (Catilinarie I, 17-19). Il Dialogo della Natura e di un islandese La ripresa più celebre della prosopopea lucreziana si deve a Giacomo Leopardi (1798-1837). In una delle sue più famose Operette morali, Leopardi immagina che un islandese,
giunto ai confini del mondo, incontri la Natura personificata. In forma di donna, severa e maestosa, la Natura tiene un discorso dai toni che richiamano questo passo lucreziano: «Immaginavi tu forse – dice la Natura – che il mondo fosse fatto per causa vostra?» e poi «Tu mostri di non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, e alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento» (Dialogo della Natura e di un islandese). Queste parole sembrano davvero tratte da Lucrezio: la vita non deve essere rimpianta quando si sta per morire, non solo perché la morte non provoca alcun dolore, ma soprattutto perché la sua esistenza è giusta e giustificata: è infatti una ragione grande e universale, non un rimpianto particolare, che spiega l’esistenza stessa della morte, ed è la vita stessa. 205
9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
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HUB LIBRARY Dal libro IV del De rerum natura puoi leggere anche altri brani, tra cui Il proemio al mezzo (IV, 1-25).
I sogni (De rerum natura IV, vv. 962-986; 1007-1025)
La sezione dedicata ai sogni costituisce uno sviluppo e un approfondimento del discorso che Lucrezio sta svolgendo a proposito dei simulacra. Le membrane sottilissime che si staccano dai corpi riproducendone le fattezze sono alla base delle sensazioni e, per l’appunto, anche dell’esperienza onirica. Per Lucrezio dunque i sogni non hanno nulla di profetico né di misterioso, non sono ammonimenti inviati dagli dèi all’uomo, né messaggi provenienti dall’aldilà, come gli antichi comunemente ritenevano. I sogni sono semplici persistenze delle esperienze vissute durante la veglia, continuazione e riproduzione di sensazioni già provate o di esperienze abituali.
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L’attività a cui ciascuno è legato e si applica, o le cose sulle quali abbiamo 1 molto indugiato e meditato fino a tenervi di continuo la mente protesa, sembrano spesso comparirci tali e quali nei sogni: gli avvocati s’illudono di discutere processi e di legiferare, i condottieri credono di combattere ed entrare nella mischia, i marinai d’ingaggiare una protratta contesa coi venti, io di attendere a quest’opera e d’indagare senza tregua la natura, e di esporla, una volta scoperta, nel linguaggio dei padri. Così le altre attività e arti paiono spesso tenere l’animo degli uomini imprigionato nell’illusione dei sogni. E quanti per molti giorni di seguito furono assidui e intenti spettatori di ludi, vediamo che spesso, quando ormai cessarono di goderne coi sensi, conservano tuttavia dischiusi nella mente altri varchi, per i quali possono penetrare i medesimi simulacri dello spettacolo. E così per molti giorni quelle consuete visioni passano davanti agli occhi in modo che anche da desti sembra loro di vedere i danzatori muovere le flessuose membra e di accogliere con le orecchie il limpido suono della cetra e gli umani accenti delle corde, e di vedere la stessa folla assisa, e insieme lo splendore dei vari ornamenti della scena. 2 Fino a tal segno importano le inclinazioni e il diletto, e i diversi impegni a cui sogliono dedicarsi non solo gli uomini, ma tutti gli esseri animati. […] 3 Anche le menti degli uomini 4, che nei loro ingenti moti producono grandi imprese, spesso le compiono anche in sogno: i re combattono, cadono prigionieri, provocano battaglie, e nel loro stesso letto gridano come se qualcuno li sgozzasse.
1. L’utilizzo della I persona plurale, che così include anche le azioni di Lucrezio nelle vicende umane di cui si parla, crea un senso di solidale vicinanza con i lettori. 2. Lucrezio passa in rassegna alcune tra le più consuete forme di intrattenimento presso gli antichi Romani: giochi gladiatori («lu-
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di»), danza, musica e spettacoli teatrali. 3. Nei vv. 987-1006, qui omessi, Lucrezio introduce una serie di esempi ricavati dall’osservazione del mondo animale per dimostrare che le attività a cui ogni essere vivente si dedica durante la giornata si ripresentano durante la notte nei sogni.
4. Dopo la digressione sui sogni degli animali, riprende il discorso sugli uomini. Gli esempi si fanno però di segno negativo: paura, dolore, sensi di colpa e bisogni corporei si impongono agli uomini con effetti anche indecorosi.
ANTOLOGIA 2 De rerum natura III-IV: l’antropologia (il microcosmo uomo)
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Molti si dibattono, emettono gemiti di dolore, e come se fossero sbranati dai morsi d’una pantera o d’un feroce leone, riempiono tutte le stanze di urli laceranti. 5 Molti svelano nel sonno gravi segreti, e spesso sono essi stessi gli accusatori d’una propria colpa. Molti affrontano la morte. Molti 6, come se da un’alta montagna precipitassero a terra con tutto il peso del corpo, sussultano di terrore, e dal sonno, quasi dissennati, ritornano a stento in sé sconvolti da una corporea tempesta. Parimenti l’assetato si sofferma presso un corso d’acqua o un’amena sorgente, e gli sembra di trangugiare tutto il ruscello. Spesso dignitose persone, se avvolte nel sonno credono di alzare la veste davanti a una latrina o a un vaso, spargono il liquido filtrato da tutto il corpo e ne sono bagnate le coltri babilonesi di magnifico splendore. [Trad. di L. Canali]
5. I termini di paragone utilizzati per esprimere l’esperienza onirica si fanno sempre più paurosi, come, per esempio, nei vv. 1016-1017,
«come se da un’alta montagna precipitassero a terra». 6. L’anafora di «Molti» ai vv. 1011-1016
esprime con efficacia il crescendo di tensione che anima questi versi in cui trovano spazio sogni carichi di angoscia.
GUIDA ALLA LETTURA La struttura del testo I versi dedicati ai sogni e alla
spiegazione della loro reale natura occupano una parte significativa del libro IV. Lucrezio struttura con particolare attenzione il suo ragionamento, dividendolo in sezioni ben precise. L’andamento si fa ordinato e ricco di efficaci esemplificazioni: • la prima sezione (vv. 962-986) spiega che i sogni sono strettamente collegati ad attività, inclinazioni ed esperienze quotidiane; • segue una breve digressione (qui omessa) sui sogni degli animali (vv. 987-1006), anch’essi proseguimento delle attività diurne; • poi la sequenza degli esempi dei sogni umani riprende
(vv. 1007-1025) con ritmo incalzante, in un crescendo di angoscia che mostra come l’esistenza degli uomini, anche nel sonno, sia turbata da ansie di ogni genere. La partecipazione emotiva di Lucrezio Da sogni che rivelano turbamenti legati alle grandi imprese, alle ambizioni, al desiderio di affermazione si passa progressivamente a sogni che esprimono tutto il condizionamento esercitato sull’uomo dal corpo e dalle sue funzioni. E, ancora una volta, il poeta sembra dar voce con personale partecipazione alle ansie e ai tormenti degli uomini. Comunque si voglia interpretare ciò, non vi è dubbio che la serenità promessa dall’adesione all’epicureismo non è una conquista facile.
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Che cosa sono i sogni secondo la dottrina epicurea? 2. Quali sono le illusioni citate da Lucrezio che affannano gli uomini in sogno? 3. Per mezzo di quale figura retorica Lucrezio esprime l’intensificarsi dell’angoscia dovuta agli incubi ai vv. 1011-1019?
Confronto 4. Confronta la teoria epicurea dei sogni, ripresa da Lucrezio in questi versi, con quella proposta dal neurologo, psicanalista e filosofo austriaco Sigmund Freud (1856-1939) nella sua opera L’interpretazione dei sogni, soffermandoti in particolare sulla distinzione operata da Freud tra ‘contenuto manifesto’ e ‘contenuto latente’ del sogno.
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
T8 I
L’amore, passione pericolosa (De rerum natura IV, vv. 1052-1120)
Nel libro IV Lucrezio espone la teoria epicurea dei simulacra, che spiega il fenomeno dei sogni (vv. 962-1025). Contigua e complementare a quella sui sogni è la sezione dedicata all’amore: Lucrezio passa da un argomento (i sogni) all’altro (l’amore) nel giro di pochi versi senza soluzione di continuità, collegando al sogno erotico (che chiude l’ampia sequenza dedicata ai sogni) il tema della passione amorosa, descritta, fin dal suo primo apparire, come una «brama mostruosa» (dira libido, v. 1046). Chi ne è vittima ha l’«animo ferito d’amore» (mens… saucia amore, v. 1048), mentre una «tacita brama» (muta cupido, v. 1057) gli fa presagire il piacere dell’unione sessuale e lo spinge a cercare di congiungersi con la creatura che ha suscitato in lui il desiderio. Ma se rivolto esclusivamente a una persona, l’amore si trasforma in dolore, perché la natura impedisce che la fiamma della passione possa essere estinta e il desiderio soddisfatto: «amore è l’unica cosa nella quale più è grande il possesso, / più il cuore arde d’un desiderio feroce» (vv. 1089-1090).
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immagine | simulacrum Per Lucrezio i simulacra sono immagini che provengono da tutto ciò che ci circonda e colpiscono i nostri organi di senso: di qui le sensazioni e la conoscenza. La parola deriva dal verbo simulare, «imitare», a sua volta connessa con l’aggettivo similis, e, «simile».
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Così dunque chi riceve la ferita dai dardi di Venere 1, siano essi scagliati dalle femminee membra d’un fanciullo, o da donna che irradi amore da tutto il corpo 2, si protende verso la creatura da cui è ferito e arde di congiungersi a lei, e di versare in quel corpo l’umore del proprio corpo. Infatti la tacita brama presagisce il piacere. Questa è Venere a noi; di qui il nome d’amore, di qui prima stillarono dolcissime gocce nel cuore, e a vicenda successe la gelida pena; se infatti è lontano chi ami, ti è accanto l’immagine del suo volto, ti aleggia alle orecchie il suo nome soave 3. Ma conviene che tali fantasmi si fuggano, che si ricusi ogni alimento d’amore, ad altro il pensiero si volga, e il seme raccolto si eiaculi in casuali amplessi 4, né lo si serbi, una volta filtrato, a un amore esclusivo, futura pena a se stessi e sicuro travaglio. Brucia l’intima piaga a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra, se non confondi l’antico dolore con nuove ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori, o ad altro tu possa rivolgere i moti dell’animo.
1. La ferita prodotta dai dardi di Venere, ossia, fuor di metafora, l’insorgere del desiderio amoroso, rimanda a un tema ricorrente della poesia sia greca sia romana: il topos dell’amore come ferita, documentato fin dalla lirica arcaica greca (» p. 231) e presente a Roma nei componimenti dei poetae novi (» pp. 222 ss.), in Catullo (» p. 225 ss.) e nell’elegia erotica. 2. Come si vede, non viene fatta distinzione fra amore omosessuale ed eterosessuale: entrambi provocano la medesima ferita
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nell’animo ed espongono gli innamorati alle medesime forti sofferenze. 3. L’immagine dell’amato che, anche quando è lontano, permane negli occhi dell’innamorato, costituisce un dato dell’esperienza comune. Lucrezio ne dà una descrizione che è insieme poetica e filosofica. Questa immagine (Lucrezio impiega per designarla il termine simulacra) si spiega infatti come una persistenza materiale che si prolunga anche oltre la presenza della persona amata. Qualcosa di simile
accade per le attività ripetutamente praticate durante il giorno, che si imprimono nella mente dando luogo di notte ai sogni nei quali il sognatore crede di continuare a svolgerle. 4. Il soddisfacimento del desiderio sessuale non è negato, purché sia raggiunto attraverso casuali amplessi (l’espressione scelta da Lucrezio è corpora quaeque) e non riservato a un amore esclusivo (unius amore). Il medesimo concetto viene ribadito poco più avanti, ai vv. 1073-1074.
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Non perde il frutto di Venere chi evita amore, ne deliba piuttosto le gioie e ne schiva gli affanni. La voluttà è più limpida ai savi che ai miseri dissennati. Infatti proprio nel momento del pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l’ardore degli amanti che non sanno di cosa prima godere con gli occhi e le mani. Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, poiché il piacere non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto, qualunque sia, da cui sorgono i germi di quella furia. Attenua appena il tormento Venere nell’atto d’amore, mitiga il morso, cui è mista, la gioia dei sensi. In ciò è la speranza, che dalla forma corporea medesima, fonte del nostro ardore, possa anche essere estinta la fiamma. Ma che ciò avvenga la natura nega recisa; amore è l’unica cosa nella quale più è grande il possesso, più il cuore arde d’un desiderio feroce. Il cibo e l’acqua sono assorbiti dagli organi, e poiché possono occupare certe sedi nei corpi, si sazia perciò facilmente il desiderio di quelli. Ma dell’umano sembiante, d’un leggiadro incarnato nulla penetra in noi da godere, se non diafane immagini, misera speranza che spesso è rapita dal vento 5. Come in sogno un assetato che cerchi di bere, e bevanda non trovi che estingua nelle sue membra l’arsura, ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento, o immerso in un rapido fiume ne beva, ma la sete non plachi, così in amore Venere con miraggi illude gli amanti che non sanno appagarsi mirando le svelate forme, né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra, irrequieti vagando per l’intera superficie del corpo 6. Quando infine con le membra avvinte godono del fiore della giovinezza, e già il corpo presagisce il piacere, e Venere è sul punto di riversare il seme nel campo femmineo, comprimono avidamente i petti, confondono la saliva nelle bocche, e ansimano mordendosi a vicenda le labbra; invano, perché nulla possono distaccare dalla persona amata, né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell’altro corpo. Infatti talvolta sembrano voler fare ciò e ingaggiare una lotta: a tal punto si serrano cupidamente nella stretta di Venere, finché le membra, stremate dall’intensità del piacere, si struggono. Infine quando il piacere raccolto si effonde dai nervi,
5. Lucrezio osserva che fame e sete – necessità fisiche naturali – possono essere soddisfatte senza alcuna difficoltà perché il cibo e l’acqua, penetrando nel corpo, hanno sedi precise in cui essere assorbiti. Il desiderio
d’amore, invece, dato che penetra nel corpo attraverso esilissimi simulacra (simulacra tenuia, vv. 1095-1096), non riesce mai a trovare piena soddisfazione e suscita una speranza sempre frustrata.
6. L’ampia similitudine fra l’assetato, che sogna di bere senza riuscire a dissetarsi, e gli amanti, perennemente inappagati e irrequieti, pone in evidenza il carattere illusorio della passione amorosa.
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per un po’ si produce una breve pausa dell’ardore, poi torna la medesima rabbia, di nuovo quella smania li assale, mentre gli amanti vorrebbero sapere che cosa desiderano, e non riescono a trovare un rimedio che plachi il tormento: in tale incertezza si consumano per una piaga segreta 7. [Trad. di L. Canali]
7. Nella descrizione dell’amplesso Lucrezio ricorre a immagini ed espressioni abbastanza crude, volte più a sottolineare il tormento di cui gli amanti sono vittime che il piacere derivante dall’esperienza ses-
suale: la loro foga è assimilata a una lotta (v. 1112, «sembrano ingaggiare una lotta», certare videntur), essi si stringono avidamente, ansimano e si mordono a vicenda le labbra ma il piacere che ottengono in-
terrompe solamente per poco la loro sofferenza. Ben presto ritornano in loro una rabbia e una smania (v. 1117, rabies et furor) a cui non riescono in nessun modo a trovare rimedio.
GUIDA ALLA LETTURA Il contesto Nell’ambito della teoria dei simulacra trattata da Lucrezio nel libro IV del De rerum natura, trova spazio anche un ampio discorso sulla passione amorosa, che ne occupa l’ultima parte. Al termine della sezione dedicata ai sogni, e precisamente a partire dal sogno erotico, che è stimolato dall’accorrere di simulacra piacevoli e desiderabili, Lucrezio spiega gli aspetti fisiologici del desiderio sessuale e le sue manifestazioni fisiche per poi passare a descrivere la passione amorosa nei suoi aspetti psicologici e patologici, secondo l’immagine tradizionale (ampiamente documentata dalla poesia greca e romana) dell’amore come ferita e come follia. I danni dell’amore e i consigli della filosofia Per Epi-
curo il desiderio sessuale, in quanto naturale, può essere soddisfatto, se pur con misura; diversamente stanno le cose per la relazione amorosa esclusiva e stabile, che preclude ogni serenità e che deve essere pertanto assolutamente evitata. Questa è anche l’opinione di Lucrezio, il quale auspica (vv. 1063-1067) che il naturale desiderio sessuale trovi sfogo occasionale e non venga alimentato da un amore esclusivo, foriero di inutili sofferenze. Tuttavia in Lucrezio la distinzione fra la sfera esclusivamente sessuale e quella amorosa sembra in alcuni passaggi farsi più sfumata. Per Lucrezio, infatti, il desiderio fisico (Venus egli lo chiama)
con molta facilità si trasforma in passione, in ossessione, in sofferenza, ossia in qualcosa che deve essere assolutamente evitato da chi aspiri a eliminare dalla propria vita ogni fonte di turbamento. Gli amanti sono vinti da una smania inestinguibile, da una brama continua, da un sentimento di rabbia che deriva dal non poter possedere appieno la persona amata; la loro vita è dunque un tormento, cui si aggiungono i danni economici e professionali (derivanti dal fatto di essersi lasciati travolgere dalla passione) e le gelosie provocate dalla persona amata. La partecipazione del poeta L’osservazione della realtà e gli esempi letterari offerti dai poeti che descrivevano la schiavitù d’amore non mancavano certo di offrire conferma e alimento a questa visione negativa del fenomeno da parte di Lucrezio, il quale tuttavia, come spesso accade nel corso del poema, sembra andare oltre il suo intento didattico per abbandonarsi talvolta a descrizioni cariche d’ansia e sofferenza, come è in questo caso la descrizione dell’amplesso. D’altra parte, questa ambivalenza si riscontra ogniqualvolta l’argomento è costituito da passioni o esperienze che sono fonte di profondo coinvolgimento per gli uomini e che proprio per questo motivo generano una dipendenza e sviano dalla conquista di quella serenità che è l’obiettivo ultimo di ciascuno, anche del poeta.
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Secondo Lucrezio, quali effetti produce negli amanti stabili la passione amorosa? 2. Quale rimedio viene suggerito contro i danni che l’amore può provocare?
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Analisi della lingua e dello stile 3. Le conseguenze della passione amorosa sono descritte mediante termini che rimandano a due visioni negative dell’amore, che lo identificano rispettivamente con il fuoco e con una ferita. Sottolinea i termini che appartengono al primo campo semantico e cerchia quelli pertinenti al secondo. 4. Nel testo Lucrezio si serve di una similitudine per chiarire l’insoddisfazione che inevitabilmente prova chi ama. In quali versi si trova?
ANTOLOGIA 3 De rerum natura V-VI: la cosmologia (l’origine e la fine del mondo)
3▪ De rerum natura V-VI: la cosmologia (l’origine e la fine del mondo) Nell’ultima diade dell’opera la prospettiva si allarga, fino ad abbracciare il mondo intero e i fenomeni naturali. Anche quando dedica spazio al tema della nascita e dell’evoluzione dell’umanità T9 , Lucrezio intende, ancora una volta, liberare gli uomini dal timore della morte e degli dèi. Analogamente, nel libro VI la rivelazione delle cause vere dei fenomeni naturali viene indicata come rimedio contro la religio. L’opera si conclude con un finale drammatico T10 , che rappresenta la forza distruttrice della natura, di cui la peste di Atene fornisce un’esemplare manifestazione.
T9 I
La storia dell’uomo: l’accidentata via verso la civiltà (De rerum natura V, vv. 1105-1116; 1120-1160)
L’invenzione del fuoco e del linguaggio segnano il passaggio dalla vita primitiva a quella organizzata in una struttura sociale. Lucrezio ripercorre alcune delle tappe salienti dell’evoluzione dell’umanità: dai primi re, che fondarono il proprio potere prima sulla prestanza fisica e poi sulla ricchezza (vv. 1108-1116), all’introduzione delle leggi e delle prime magistrature (vv. 1143-1151), che sostituirono la giustizia alla violenza della vendetta. La caduta dei re suggerisce a Lucrezio una riflessione sull’instabilità della fortuna basata sulla ricchezza e sull’ambizione e gli consente di ribadire il punto di vista epicureo: una vita sobria e serena è la vera ricchezza dell’uomo (vv. 1117-1119) e un tranquillo obbedire è da preferire alle insidie del potere (vv. 1129-30). 1105
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Ogni giorno di più chi eccelleva per ingegno e vigore d’animo, insegnava a mutare il tenore di vita del passato, in virtù delle nuove scoperte e dell’uso del fuoco. I re cominciarono a fondare città e stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a se stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, della bellezza e dell’ingegno di ognuno; erano molto pregiati il bell’aspetto e il vigore. Più tardi si scoprirono il piacere della ricchezza e l’oro, che sottrasse facilmente la gloria ai forti e ai belli, poiché coloro che nascono di membra robuste e avvenenti, per lo più seguono comunque il corteggio del ricco. […] Ma gli uomini vollero se stessi famosi e potenti, affinché la fortuna durasse su solide basi, e ricchi potessero trascorrere una placida vita; invano, poiché mentre combattono per giungere al sommo della gloria, essi stessi si rendono insidioso il cammino, e l’invidia, come il fulmine, talora li schianta e li abbatte con onta dalla vetta giù nel buio del Tartaro; poiché ai colpi dell’invidia 1, come a quelli del fulmine, di solito ardono i vertici e ogni cosa che sovrasti le altre; così che un tranquillo obbedire è assai meglio dell’ansia
HUB LIBRARY Dal libro V del De rerum natura puoi leggere anche altri brani, tra cui Le impossibili creature del mito: i Centauri, Scilla, la Chimera (V, vv. 878-924) e L’origine del linguaggio (V, vv. 1028-1033; 1056-1090).
1. La ripetizione della parola invidia al principio del v. 1126 e del v. 1131 ha probabilmente causato la caduta e successiva trasposizione dei vv. 1131-1132, ripristinati nella loro sede corretta dall’editore lucreziano H.A. Munro (diversamente il filologo inglese R. Bentley proponeva di espungerli).
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di avere in pugno il potere e di reggere il regno. Lascia dunque che si affannino invano e sudino sangue coloro che lottano sull’angusto sentiero dell’ambizione, poiché sanno per bocca d’altri e dirigono il loro desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; né questo accade e accadrà più di quanto è accaduto in passato. Dunque, uccisi i monarchi, giacevano abbattuti l’antica maestà dei troni e gli scettri superbi, e la nobile insegna della fronte sovrana piangeva cruenta sotto i piedi del volgo il grande onore perduto: si calpesta infatti con gioia ciò che prima si è troppo temuto. E intanto le cose tornavano al fondo del disordine, mentre ognuno cercava potere e dominio personali. In seguito alcuni degli uomini insegnarono a creare magistrati, fondando il diritto affinché accettassero di obbedire alle leggi. Infatti il genere umano, stremato dal vivere con violenza, languiva nell’odio; perciò tanto più di buon grado si sottomise spontaneamente alle leggi e alla rigorosa giustizia. Poiché ciascuno nell’ira meditava vendette più crudeli di quanto sia ora concesso da giuste leggi, agli uomini spiacque trascorrere la vita nella violenza. Da allora il timore delle pene macchiò le gioie della vita. La violenza e l’offesa irretiscono ognuno, e per lo più ricadono su quegli da cui sono sorte; né è facile che abbia vita tranquilla e serena chi viola con le sue azioni i comuni patti di pace. Anche se riesce a ingannare tutti gli dèi e gli uomini, non deve sperare che la sua colpa resti per sempre segreta; si narra di molti che parlando spesso nel sonno o in preda a un delirio febbrile smascherarono se stessi e rivelarono le loro malefatte a lungo celate.
[Trad. di L. Canali]
GUIDA ALLA LETTURA L’insegnamento della storia Nel passato Lucrezio individua le radici di quelle paure e quei condizionamenti (come l’ambizione) che pregiudicano l’esistenza dell’uomo anche al suo tempo e, in un’ottica pessimistica, continueranno a farlo in futuro (v. 1135). Per Epicuro, infatti, l’avidità di ricchezza nasce dalla paura che possano mancare i mezzi di sussistenza. D’altra parte, l’ambizione del potere ha come origine la paura di esser deboli e indifesi. Queste paure irragionevoli espongono l’uomo a inutili ansie e a pericoli maggiori di quelli paventati. Lucrezio menziona l’invidia (vv. 1126 ss.), che, come un fulmine, abbatte proprio chi sovrasta gli altri: così sono stati calpestati i temuti re (vv. 1136-1140).
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La genesi delle leggi Uno stadio fondamentale della storia della civiltà umana, oltre alla fondazione delle città e all’ascesa e caduta dei re, è l’introduzione delle leggi e delle magistrature. In questo passo Lucrezio ne riconduce l’origine all’utilitas, ovvero alla scelta dei cittadini di sottrarsi alla violenza della vendetta privata, sottomettendosi spontaneamente alla giustizia. Da allora una nuova paura, «il timore delle pene» (v. 1151) perseguita gli uomini. Con fine analisi psicologica, il poeta descrive il tormento di chi nasconde una colpa segreta e, pur avendo ingannato gli dèi e uomini, non riesce a sfuggire alla condanna del proprio subconscio che riaffiora nel sonno o nel delirio della febbre (vv. 1156-1160).
ANTOLOGIA 3 De rerum natura V-VI: la cosmologia (l’origine e la fine del mondo)
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Perché la ricerca della ricchezza si impose come obiettivo principale della vita degli uomini? Qual è la vera ricchezza secondo Epicuro (qui riecheggiato da Lucrezio)? 2. Perché, secondo te, il sentiero dell’ambizione è definito da Lucrezio «angusto» (v. 1130)? Analisi 3. Al v. 1129 il nesso «sudino sangue» (sanguine sudent, v. 1129) si ritrova anche in italiano nell’espressione ‘sudare sangue’: quale figura retorica lega le due parole? 4. In questi versi è presente un’epanalessi, ossia la ripetizione di una o più parole nella stessa frase: cerchiala.
Riflessione e approfondimento 5. La teoria della giustizia lucreziana ed epicurea presuppone un ‘contratto sociale’ ante litteram (la definizione moderna di questo concetto fu coniata dal filosofo inglese Hobbes nel XVII secolo). La giustizia, in quest’ottica, consiste nell’accordo tra gli uomini di non aggredire e non essere aggrediti. Rifletti sui vantaggi del contratto sociale (per es. elaborazione di un senso di appartenenza, accesso al supporto della comunità, presenza di legami sociali solidi). La società occidentale moderna, basata sull’individualismo, secondo te è sempre disposta ad aderire al contratto sociale? O in alcuni casi si assiste a una sua violazione? Scrivi sul tema un breve testo (max. 10 righe).
T10 La peste di Atene I
EDUCAZIONE CIVICA
(De rerum natura VI, vv. 1230-1286)
Nell’anno 430 a.C. la città di Atene, al colmo della sua potenza, fu colpita da una terribile pestilenza che ne decimò la popolazione. Questo flagello fu descritto dallo storico greco del V secolo a.C. Tucidide (La Guerra del Peloponneso II, 47-52) di cui Lucrezio segue dettagliatamente il racconto, al punto che in certi passi la sua è una vera e propria traduzione. Lucrezio, tuttavia, a differenza della sua fonte, tende a un resoconto più drammatico dei fatti e, soprattutto, persegue un diverso fine, non storico, bensì filosofico, in coerenza con gli intenti del suo poema.
È possibile prevenire le pandemie?
[1230] Ma una cosa fra tutte, degna di pietà più profonda, era causa d’affanno: quando ciascuno si vedeva colpito dal morbo, come se fosse condannato a morte, smarrendosi d’animo giaceva con il cuore afflitto, e volgendo lo sguardo alla prossima fine 1, là dove si trovava esalava l’anima. [1235] Giacché in nessun momento cessava d’apprendersi dall’uno all’altro il contagio del morbo insaziabile, come fra pecore lanose o mandrie bovine. E questo più d’ogni cosa accumulava morte su morte. Quanti evitavano di far visita ai familiari malati, [1240] troppo avidi di vita e timorosi della morte, li puniva poco più tardi con morte brutta e crudele, soli, privi d’aiuto, l’assenza di cure che uccide 2 . Ma quelli ch’eran pronti ad assistere, se ne andavano 3 per il contagio e la fatica, a cui allora li costringeva il pudore [1245] e il supplice richiamo degli infermi misto a una voce di pianto. Erano dunque tutti i migliori a incontrare questo genere di morte. *4 e l’uno sull’altro, gareggiando nel seppellire la folla dei loro morti: tornavano stanchi di lacrime e di dolore; quasi tutti poi si buttavano sul letto per l’angoscia. [1250] Non si poteva trovare nessuno, che il morbo o la morte o il lutto non colpissero in un tale momento. 5 1. L’espressione indica l’angoscia del malato che si aspetta di morire non appena colpito dalla malattia. 2. Lucrezio usa il participio mactans (da macto), verbo usato di solito per il sacrificio (» I, v. 99 a proposito di Ifigenia, T4 ), che arricchisce di un significato quasi religioso la morte delle vittime di peste.
3. Se per raccontare della morte di chi si è mostrato egoista Lucrezio usa un tono moralista, per indicare la morte di quanti si sono spesi generosamente ricorre all’eufemismo «andavano» e a espressioni che rivelano il suo giudizio positivo sulla loro condotta. 4. La maggior parte degli editori ammette, fra il v. 1246 e il v. 1247, la presenza di una
lacuna, motivo per cui la traduzione del v. 1247 risulta incompleta. 5. Il patetismo del contenuto di questi versi esprime con efficacia l’accumularsi dei cadaveri (o, forse, di coloro che desiderano seppellirli), il senso di sfinimento e dissoluzione, e della dolorosa sollecitazione che non risparmia nessuno.
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E ormai languiva ogni pastore, ogni guardiano di armenti e chi reggeva il curvo aratro col braccio robusto e stipati nel fondo delle capanne giacevano [1255] i corpi, dalla misera e dal male dati in preda alla morte. Sui bambini esanimi si vedevano talvolta i corpi inanimati dei genitori, e all’apposto talora sulle madri e sui padri i figli esalare la vita. In non piccola parte quel dolore affluiva nella città dai campi: [1260] lo portava la folla languente dei campagnoli, già contagiata raccogliendosi qui da ogni parte. Gremivano tutti i luoghi e le case: tanto più nella calura, così serrati, a mucchi li accatastava la morte. Molti corpi abbattuti dalla sete per via [1265] e rotolati vicino ai getti delle fontane giacevano stesi, mozzato il respiro dalla troppa dolcezza dell’acqua 6; e in gran numero si vedevano ovunque, offerte agli sguardi nei luoghi pubblici e per le vie, membra estenuate di corpi malvivi, ispide di lordura e coperte di stracci, [1270] perire nel sudiciume del corpo, ridotte pelle e ossa, già quasi sepolte da orribili piaghe e dalla sporcizia 7. Tutti i sacrari degli dèi la morte aveva riempiti di corpi esanimi, e i templi dei celesti rimanevano ovunque ingombri di cadaveri: [1275] li avevano affollati di ospiti i guardiani dei santuari. 8 Ché ormai non si faceva gran conto della religione né della potenza divina: soverchiava il dolore presente. Né più si osservava nella città il rito di sepoltura con cui prima quel popolo sempre usava celebrare le esequie; [1280] ora, tutto sbigottito, trepidava, e ciascuno, [composti] come poteva i suoi morti, tristemente li seppelliva. E a molti atti orrendi li spinsero l’urgenza e il bisogno. I propri congiunti sui roghi accatastati per altri deponevano con grande clamore [1285] e cacciavano sotto le fiaccole, sovente rissando fra il sangue pur di non abbandonare quei corpi. 9 [Trad. di. A. Fellin, con adattamenti]
6. Come poco prima per indicare l’ammassarsi dei cadaveri, così anche qui Lucrezio ricorre a un ridondante accumulo di termini per indicare l’abbandono dei corpi («abbattuti», «rotolati», «stesi»). Con l’espressione «dalla troppa dolcezza dell’acqua» Lucrezio intende dire che la sete inestinguibile ha indotto i malati a bere in modo eccessivo fino a morirne.
7. I versi insistono sulla sporcizia in cui gli uomini muoiono, sottolineando in un crescendo espressionistico l’abbrutimento fisico dovuto alla malattia. 8. Lucrezio ribadisce la presenza dei cadaveri nei luoghi sacri, ormai destituiti di qualunque significato. 9. Il tentativo di usurpare i roghi altrui e la rissa attorno ai cadaveri sono il segno
estremo del degrado morale e umano prodotto dalla malattia. Con questi versi termina il poema così come è giunto a noi. Non sappiamo se fosse proprio con questo affresco di morte e devastazione che Lucrezio intendeva chiudere il poema; di certo, la peste di Atene è il perfetto paradigma negativo di tutto ciò contro cui l’epicureismo combatte.
GUIDA ALLA LETTURA La fonte tucididea La descrizione dell’epidemia diffusasi ad Atene nel 430 a.C., comunemente denominata peste (ma di cui in realtà si ignora l’esatta natura, anche se molto probabilmente si trattava di morbillo), dei suoi sintomi, della sua diffusione, degli effetti psicologici e sociali da essa prodotti fu oggetto di un rigoroso resoconto storiografico da parte dello storico greco Tucidide, che fu testimone degli eventi e venne egli stesso contagiato dal morbo. Il racconto tucidideo, estremamente preciso e asciutto, descrive soprattutto i fatti e i loro risvolti politici ed etici. Il fine principale dello storico era infatti lasciare un utile insegnamento per il futuro. Gli intenti di Lucrezio Lucrezio, sotto molti aspetti, segue fedelmente la fonte tucididea, ma per altri versi se
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ne discosta, rivelando intenzioni assai differenti. L’ampia sezione dedicata alla peste di Atene, che conclude il libro VI del De rerum natura, rientra infatti nel più generale discorso sui fenomeni naturali e sulle malattie svolto all’interno dell’ultimo libro del poema. In quest’ottica, l’epidemia che decimò la popolazione di Atene è anzitutto il prodotto di un addensamento casuale (e non certo di origine divina) di atomi nocivi che, spostandosi nell’aria, diffondono il contagio. Come Tucidide, Lucrezio individua la provenienza del contagio in regioni lontane (l’Egitto), e presenta in maniera estremamente dettagliata i sintomi e le manifestazioni fisiche della malattia, facendo poi loro seguire la descrizione delle reazioni psicologiche dei malati e del venir meno del rispetto di regole prima ritenute inviolabili.
ANTOLOGIA 3 De rerum natura V-VI: la cosmologia (l’origine e la fine del mondo)
Una descrizione espressionistica Lucrezio accentua il patetismo delle situazioni drammatizzando e ampliando la descrizione della degradazione fisica, ma soprattutto di quella psicologica dovuta alla malattia. A tratti egli sembra ricercare un effetto addirittura espressionistico: ciò avviene per esempio quando insiste sull’abbandono dei corpi e sulla sporcizia delle membra o quando indugia sulla descrizione dei mucchi di cadaveri di genitori e figli o, ancora, quando presenta la dissacrante scena delle risse che si accendono per conquistare un posto sulle pire per i propri cadaveri. L’accumulazione dei termini, la ripetizione dei medesimi concetti, l’insistente uso di allitterazioni accrescono il patetismo delle situazioni descritte.
La peste come paradigma di irrazionalità Non bisogna dimenticare, infatti, che Lucrezio, attraverso la divulgazione scientifica, persegue l’intento di far conoscere a tutti la vera natura delle cose, per eliminare le paure inutili e rendere possibile il raggiungimento della serenità. Proprio la peste diviene così eccellente esempio del sovvertimento di ogni regola e dell’estrema degradazione a cui può giungere l’uomo quando si trovi preda delle paure irrazionali nei confronti del dolore e della morte. E, ancora una volta, Lucrezio mostra con la forza della sua poesia l’assenza di ogni prospettiva provvidenziale o, semplicemente, religiosa: addirittura, la devastazione della malattia e il dolore hanno la meglio sulla religio che, sopraffatta, non è in grado né di far paura né di offrire conforto all’uomo.
ANALIZZA IL TESTO Comprensione 1. Elenca i sintomi della malattia identificati da Lucrezio, distinguendo quelli fisici da quelli psicologici.
la positività del messaggio epicureo. Rifletti ed esponi in un breve testo (max. 10 righe) le tue considerazioni su ottimismo e pessimismo in Lucrezio.
Riflessione e interpretazione 2. L’Atene descritta da Lucrezio appare come un vero e proprio trionfo della morte, che, per la sua collocazione alla fine del poema, richiama per antitesi l’inno a Venere all’inizio del libro I T2 . Secondo alcuni studiosi, il fatto che l’opera si concluda con un quadro così drammatico e tetro supporta la tesi di un pessimismo di base di Lucrezio che contraddice anche in altre parti del poema
Confronto 3. Tucidide nella Guerra del Peloponneso scrive: «Io dirò di che genere essa (sott. la peste) sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta» (II, 48, trad. di C. Moreschi). La descrizione della peste di Atene ha lo stesso ruolo anche in Lucrezio?
LABORATORIO DI EDUCAZIONE CIVICA Argomentazione e discussione 1. È possibile prevenire le pandemie? Nel biennio 2020-2022 la comunità globale ha fronteggiato l’insorgenza e il divampare della pandemia da CoViD-19, che, oltre a causare innumerevoli decessi e infezioni, ha profondamente influenzato lo stile di vita di tutti. Quarantena, lockdown, distanziamento sociale, chiusura delle scuole sono state tra le misure più drastiche adottate dai governi per ridurre i rischi di contagio. La società è stata colta del tutto impreparata dalla pandemia, che ha esercitato un fortissimo impatto psicologico soprattutto sui più deboli e sui più giovani. Eppure, non si trattava certo della prima occasione in cui l’umanità si trovava di fronte a simili problematiche: nel testo appena letto, Lucrezio, descrivendo gli effetti devastanti della peste sulla società ateniese mette in luce come spesso essa comportasse un deterioramento dei rapporti interpersonali. In vista di un nuovo fenomeno pandemico, è lecito domandarsi se sia possibile elaborare delle strategie per migliorare la reazione della popolazione e in generale la risposta delle strutture socio-politiche a un evento così traumatico. Dividete la classe in due gruppi, ciascuno dei quali presenterà degli argomenti per difendere una delle seguenti posizioni. • Punto di vista ‘ottimista’: si possono fermare le epidemie prima che diventino pandemie; in altre parole, si può fare in modo, attuando delle poderose misure di prevenzione, che il CoViD-19 sia l’ultima pandemia della storia. • Punto di vista ‘realista‘: bisogna imparare a convivere con le pandemie, accettandone le conseguenze e rafforzando le personali capacità di resilienza; solo così se ne potranno ridurre gli effetti non solo psicologici ma anche fisiologici.
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PER RIPASSARE AUDIO
L’AUTORE Tito Lucrezio Caro nasce nel 94 a.C. e muore tra il 55 e il 50 a.C.; manca qualsiasi altra informazione sulla sua vita. L’unica opera di Lucrezio è il De rerum natura («La natura delle cose»), un poema didascalico in esametri che espone i princìpi della filosofia di Epicuro e riprende i temi esaminati nel trattato epicureo Sulla natura.
Ascolta la sintesi audio.
L’OPERA La struttura del De rerum natura ricorda quella di un poema epico: l’opera inizia con un’invocazione a una divinità (l’inno a Venere) e finisce con la descrizione drammatica della peste di Atene (simbolo dell’inevitabilità della morte nel ciclo materialistico dell’universo). Lucrezio inoltre celebra il filosofo Epicuro come un eroe presentandolo come l’incarnazione della ragione che vince la superstizione (religio). Epicuro, infatti, libera i mortali dalla paura degli dèi e della religione e rivela loro le leggi immutabili che regolano la natura. L’opera è suddivisa in sei libri organizzati in tre coppie (chiamate anche diadi), ciascuna dedicata a un diverso aspetto dell’epicureismo: • libri I-II: la fisica. Si tratta dell’organizzazione della materia, della sua eternità e degli atomi, che si aggregano in un ciclo infinito secondo le leggi materiali dell’universo (tra cui il clinamen, cioè la deviazione spontanea e casuale degli atomi dalla traiettoria del loro movimento di caduta in linea retta) e senza l’intervento di forze divine. Anche l’uomo deve sottostare a queste leggi non facendosi turbare da passioni o paure (atarassia); • libri III-IV: l’antropologia. Dimostrando che l’anima umana è fatta di atomi che si disgregano e si ricompongono in forme sempre nuove, Lucrezio cerca di liberare gli uomini dalla paura della morte e dell’oltretomba e dalle superstizioni della religio istituzionale. Illustra inoltre il processo della conoscenza (teoria dei simulacra); • libri V-VI: la cosmologia. Sono illustrati l’origine del mondo e la sua caducità, la nascita e l’evoluzione dell’umanità (spinta da necessità materiali), le cause di una serie di fenomeni naturali. La Terra è intesa come un qualsiasi essere vivente, destinato a morire e rinascere in un continuo ciclo di materia. La visione di Lucrezio esclude ogni intervento degli dèi nelle vicende del mondo: gli dèi esistono, ma vivono negli intermundia senza curarsi del mondo e degli uomini. LA LINGUA E LO STILE Lucrezio impiega molte parole della poesia latina di età arcaica (per esempio, gli aggettivi composti e il genitivo singolare in -ai) e della nuova lingua della filosofia, fatta di tecnicismi della tradizione greca reinventati in latino (per esempio, semina, «atomi»; simulacra, «immagini»; inane, «vuoto»). Il suo stile è sublime: la forza visionaria del linguaggio poetico di Lucrezio trasforma una materia arida in un’opera d’arte bella e al tempo stesso utile per l’umanità.
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PER VERIFICARE CONOSCENZE E COMPETENZE RIPASSA
HUB TEST
1. Completa i testi.
• Il De rerum natura è un poema ................................... in versi ................................... suddiviso
in ................ libri raggruppati in ................................... coppie (o .................................) che illustrano fenomeni di dimensioni a mano a mano più ampie: i primi due libri trattano della fisica e dell’organizzazione della materia nell’...................................; i secondi due del microcosmo ................................... (antropologia) e gli ultimi due dell’origine del ................................... (cosmologia). • Lucrezio esalta la scienza come liberatrice dalla ................................... che è ignoranza ed errore. Ed è appunto questo il fine principale dell’opera: liberare l’uomo dalla paura degli ................................... e della .................................., dall’ignoranza dei .................................. naturali, dalle passioni.
Svolgi gli esercizi autocorrettivi.
2. Completa la tabella, definendo o spiegando ciascun concetto chiave della poetica di Lucrezio. Concetti chiave
Spiegazione
Religio
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Clinamen
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Atarassia
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Felicità
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Paura della morte
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3. Rispondi. a. Quale funzione attribuisce Lucrezio alla poesia? b. Quale concetto esprime Lucrezio attraverso l’episodio mitico del sacrificio di Ifigenia? c. Qual è la concezione dell’amore che Lucrezio esprime nel libro IV? d. Come vivevano gli uomini primitivi secondo Lucrezio? E come si è evoluta, nella sua concezione, l’umanità?
CONFRONTA E APPROFONDISCI 4. Dopo aver letto T10 , confrontalo con il seguente passo di Tucidide (51,4-52 passim): è una parte della celebre descrizione della pestilenza che colpì Atene nel 431 a.C. In un breve testo (max. 10 righe) indica i principali punti di somiglianza e di differenza tra i due autori, soffermandoti in particolare su:
• il comportamento dei malati; • come si diffonde il contagio; • le conseguenze morali e sociali dell’epidemia. [51, 4] Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come le pecore: questo provocava il maggior numero di morti. […] [52, 1] Oltre al male già esistente li opprimeva anche l’afflusso di gente dalla campagna nella città; ciò affliggeva maggiormente coloro che erano arrivati da fuori. [4] Tutte le usanze che avevano seguito in precedenza per le sepolture furono sconvolte; e seppellivano i corpi ciascuno come poteva. E molti ricorrevano a modi vergognosi di sepoltura, per mancanza delle attrezzature necessarie poiché avevano già avuto parecchi morti in famiglia: mettevano il cadavere del proprio morto su una pira altrui, anticipando quelli che l’avevano costruita, e poi l’accendevano. Altri gettavano il morto che stavano portando sopra un altro che bruciava, e poi se ne andavano. [Trad. di G. Donini]
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PER PREPARARSI ALL’ESAME DI STATO IL TESTO ARGOMENTATIVO
Non bisogna temere la morte In un fortunato saggio che ricostruisce le vicende della riscoperta del De rerum natura nel Quattrocento, il critico statunitense Stephen Greenblatt dedica un intero capitolo, intitolato «Come stanno le cose», a una spiegazione chiara e sintetica dei fondamenti dell’epicureismo. Qui di seguito sono riportati i princìpi alla base di una delle «quattro medicine» messe a disposizione dalla filosofia epicurea per la liberazione dalle paure e per il conseguimento della felicità: la vanità della paura della morte.
L’anima muore. L’anima umana è fatta dello stesso materiale che compone il corpo. Il fatto che non riusciamo fisicamente a individuarla in un organo particolare significa solo che è formata da particelle troppo piccole, intrecciate attraverso le vene, la carne e i tendini. I nostri strumenti non sono abbastanza precisi per pesare l’anima: al momento della morte, essa si dissolve, «come quando l’aroma caro a Bacco è svanito o quando si è diffuso nell’aria soave profumo d’unguento» (3, 221-222). Non crediamo che il vino o il profumo contenga un’anima misteriosa, solo che l’olezzo consista di elementi materiali impercettibili, troppo minuscoli per misurarli. Lo stesso dicasi per lo spirito umano: è formato da elementi infinitesimali, nascosti nei recessi più segreti del corpo. Quando questo muore – ossia quando la sua materia si disperde – l’anima, che fa parte del corpo, muore a sua volta. L’aldilà non esiste. Gli esseri umani si consolano e si tormentano con il pensiero che qualcosa li attenda dopo la morte. O raccoglieranno fiori per l’eternità in un giardino paradisiaco dove non soffiano mai venti freddi oppure saranno condotti dinanzi a un giudice severo che li condannerà per i loro peccati a un’infelicità perenne (che, misteriosamente, impone loro di avere una pelle sensibile al calore e un’avversione per il freddo, la fame, la sete e simili). Una volta compreso che l’anima muore con il corpo, tuttavia, si capisce anche che non possono esserci punizioni o ricompense postume. La vita su questa terra è l’unica cosa di cui gli esseri umani dispongano. La morte non è nulla per noi. Quando si muore – quando le particelle che si sono unite per creare e sostenere l’essere umano si dissolvono – non c’è piacere né dolore, né desiderio né paura. Coloro che piangono i defunti, scrive Lucrezio, si torcono angosciosamente le mani dicendo: «Né correranno a te incontro i tuoi dolci figli, per strappare i tuoi baci, né ti toccheranno il cuore di muta dolcezza» (3, 895-898). Dimenticano però di aggiungere: «E il rimpianto per queste cose non continua a esistere, insieme con te». (S. Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea, Rizzoli, Milano 2012)
COMPRENSIONE E ANALISI 1. In che modo i tre princìpi enunciati da Greenblatt sono collegati l’uno all’altro? 2. Quale fra i tre blocchetti di testo qui presentati spiega perché, secondo la filosofia epicurea, gli uomini non devono temere che siano loro inflitte punizioni dopo la morte?
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PRODUZIONE 3. Tenendo presente ciò che hai studiato nel capitolo e facendo puntuali riferimenti al testo che hai appena letto, elabora in un breve testo (max. 10 righe) un confronto tra la diversa concezione di ciò che aspetta gli uomini dopo la morte in Lucrezio e nei due maggiori autori antichi a te noti, Omero e Virgilio.
PER PREPARARSI ALL’ESAME DI STATO
IL COLLOQUIO INTERDISCIPLINARE
Dalla peste di Atene alle pandemie odierne «… in nessun momento cessava d’apprendersi dall’uno all’altro il contagio del morbo insaziabile, come fra pecore lanose e mandrie bovine. E questo più di ogni cosa accumulava morte su morte.» (Lucrezio, De rerum natura VI, vv. 1235-1238)
BACHECA
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Una devastazione improvvisa I quattro versi qui riportati sono tratti dalla celebre descrizione lucreziana della peste di Atene del 430 a.C. Lucrezio riprende il tema e certamente trae ispirazione dalla Guerra del Peloponneso di Tucidide; rispetto al suo modello, però, esaspera gli aspetti patetici e la drammaticità delle scene descritte. L’intera storia dell’uomo è stata ed è caratterizzata da epidemie e pandemie, che più volte lo hanno messo di fronte alla terribile realtà di una morte rapida e dilagante. Le epidemie sono state oggetto di approfondite ricerche, ma anche di opere d’arte in vari campi: oltre all’indagine scientifica, che ha recentemente sottolineato le responsabilità dell’uomo stesso nel diffondersi dei virus, vi sono rappresentazioni narrativo-filosofiche come quella nel romanzo La peste di Albert Camus, immaginari tentativi di evasione come nel caso del Decameron di Giovanni Boccaccio e resoconti condotti a partire dai documenti, come quello compiuto da Daniel Defoe, sino ad arrivare all’incredibile potenza rappresentativa dell’arte figurativa del pittore fiammingo Pieter Bruegel. A partire dalla rappresentazione lucreziana della peste di Atene, costruisci un’esposizione orale interdisciplinare che tenga conto dei documenti proposti.
LETTERATURA ITALIANA Tra realtà e finzione Intorno al 1350, buona parte dell’Europa fu sconvolta da un’epidemia di peste nera che causò la morte di milioni di uomini e donne. In questo contesto lo scrittore Giovanni Boccaccio (1313-1375) ambienta il suo Decameron (1353), raccolta delle novelle idealmente raccontate in dieci giorni da un gruppo di giovani radunatisi nella campagna fuori Firenze per sfuggire alla pestilenza.
LETTERATURA INGLESE Un mondo irriconoscibile La peste di Londra (1722) è il romanzo storico attraverso cui lo scrittore e giornalista inglese Daniel Defoe (1660-1731) descrive la peste che dilagò a Londra nel 1665 e nella quale, proprio come nelle epidemie di oggi, un grande pericolo era rappresentato dai malati cosiddetti ‘asintomatici’.
E erano alcuni, i quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno, o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. (G. Boccaccio, Decameron) In verità l’infezione non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane. I malati erano riconosciuti per tali, stavano nei loro letti e ognuno aveva modo di guardarsi da loro. Ma molte altre persone avevano preso il contagio e lo maturavano nel sangue senza mostrarlo in alcun modo, e anzi senza saperlo essi stessi. (D. Defoe, La peste di Londra)
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9 LA FELICITÀ DEL SAPIENTE: LUCREZIO
FILOSOFIA L’essere umano davanti alla tragedia Albert Camus (1913-1960) è stato un filosofo, scrittore e drammaturgo francese che ha cercato di indagare e raccontare la complessa condizione dell’uomo immerso nelle tensioni del Novecento. Nel romanzo La peste (1947), egli immagina il dilagare di un’epidemia nella città algerina di Orano e, oltre a descriverne le terribili conseguenze, sfrutta la straordinarietà della peste per analizzare in profondità la natura umana e le sue reazioni di fronte a un evento così tragico.
SCIENZE Le nostre responsabilità Le epidemie si trasformano spesso in eventi disastrosi per ragioni legate alle azioni dell’uomo. Negli ultimi tempi, in particolare, l’impatto della specie umana sull’ecosistema terrestre ha provocato il diffondersi di virus e batteri solitamente distanti dall’uomo, come ben riassunto dallo scrittore statunitense David Quammen (1948), nel suo libro Spillover (2012), dedicato alle epidemie.
STORIA DELL’ARTE La sconfitta della speranza È una vera e propria apocalisse quella che il pittore olandese Pieter Bruegel (1525-1569) ritrae nel Trionfo della Morte (1562 ca.), dipinto in cui viene raffigurata la più completa vittoria della morte sull’uomo e non solo. È infatti tutta la realtà a essere colta nel momento della sua completa distruzione: gli uomini cercano invano di fuggire o sono trasformati in teschi, mentre gli alberi non sono che tronchi inceneriti dagli incendi, sotto un cielo oscuro e minaccioso.
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I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. […] Quando scoppia una guerra, la gente dice: ‘Non durerà, è cosa troppo stupida’. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. (A. Camus, La peste) Quindi prima di reagire in modo calmo o isterico, con intelligenza o stupidamente, dovremmo conoscere almeno le basi teoriche e le dinamiche di quel che è in gioco. Dovremmo sapere che le recenti epidemie di nuove zoonosi [malattie trasmesse dagli animali agli uomini], oltre alla riproposizione e alla diffusione di altre già viste, fanno parte di un quadro generale più vasto, creato dal genere umano. Dovremmo renderci conto che sono conseguenze di nostre azioni, non accidenti che ci capitano tra capo e collo. Dovremmo capire che alcune situazioni da noi generate sembrano praticamente inevitabili, ma altre sono ancora controllabili. (D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle epidemie)