SCOPRIRE E CAPIRE IL MONDO 353
22 FEBBRAIO 2022 MARZO 2022 € 4,90 IN ITALIA
1992 - 2022 TRENT’ANNI DI FOCUS GUARDANDO AVANTI
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IN QUESTO NUMERO. PASSATO, PRESENTE E FUTURO DEL BUCO DELL’OZONO
BRRRR COME CAMBIANO I GENI DI CHI VIVE AL FREDDO
IL
MISTERO DELLA
GRAV TÀ
Gli interrogativi ancora aperti sulla forza che tutto muove e che ha plasmato l'Universo. E come sarebbe la vita sulla Terra se fosse stata minore?
PISTA! A BORDO DEI BOLIDI CHE NON HANNO PILOTA
VIRUS PERCHÉ IL CORPO REGGE TANTI VACCINI NUMERO DOPPIO CON
DOMANDE&RISPOSTE
353 MARZO 2022
www.focus.it
Scoprire e capire il mondo PRISMA
12 I cani distinguono le lingue 14 Le bolle indistruttibili 17 I tatuaggi in numeri 18 Facciamo spazio 21 Onde tempestose 24 Il sonoro della montagna
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Perché gli spaghetti si piegano nell’acqua calda?
Il “senso della saliva” per i bambini
dossier Fisica ROMPICAPO CHIAMATO 30 UN GRAVITÀ
Tra tutte le forze della natura, è quella che ci è più familiare. Eppure non è bastato il genio di Einstein per svelarne tutti i segreti.
SUO TIRA E MOLLA CON 36 ILL’UNIVERSO
La forza di gravità crea le stelle e i pianeti, li
46 QUANTI VACCINI POSSIAMO TOLLERARE medicina
muove ovunque e ne determina l’evoluzione. A volte sembra trascurabile, altre invincibile. Ma nel cosmo è presente ovunque.
LA VITA FOSSE NATA SU UN 40 SE PIANETA PIÙ LEGGERO...
In un corpo celeste con massa marziana, piante e animali si svilupperebbero in altezza. E nel cielo ci sarebbero soltanto grandi volatori.
MULTIMEDIA
Di fronte al moltiplicarsi delle vaccinazioni per Covid-19, ci si chiede se il nostro corpo regga. La risposta è sì.
DALL’ETÀ PEDIATRICA: 50 VACCINAZIONI CHE COSA CI DICONO I NUMERI cifrario
Scopri video, audio, timelapse e tanti altri contenuti.
L’adesione ai vaccini mostra forti differenze regionali.
MATEMATICA DEI MOSCERINI 52 LA (E DEGLI STORNI) scienza
Un gruppo di scienziati indaga l’ordine nascosto nel comportamento collettivo di alcuni uccelli e insetti.
56 OPERAZIONE CENSIMENTO animali
INQUADRA IL QR CODE
Pagine animate Animazioni, video, audio... Potete fruire di tanti contenuti aggiuntivi grazie ai QR Code, nelle pagine dove troverete l’icona Focus+. Basta inquadrare il QR Code con la fotocamera attiva (se si usa un iPhone o un iPad), oppure usando Google Lens o una qualsiasi app per la scansione di QR Code (se si ha uno smartphone o un tablet Android). Se invece siete al computer, andate alla pagina del nostro sito, all’indirizzo web segnalato.
Ogni anno, un esercito armato di cannocchiali conta gli uccelli delle zone umide. Per studiarli e tutelarli.
In copertina: Foto portante: Shutterstock; dall’alto: Shutterstock; Indy autonomous challenge; Getty Images.
Focus | 3
D&R Speciale 138 NATURA 140 ECONOMIA 142 SALUTE 144 SOCIETÀ 146 ARTE E CULTURA 148 CIBO
122 ANIMALI 126 TECNOLOGIA 128 SCIENZA 130 AMORE E SESSO 132 STORIA 136 TE LO DICE...
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Vetture a guida autonoma in gara a Las Vegas
150 SPORT 152 UNIVERSO 154 PSICHE
92 BOLIDI SENZA PILOTA tecnologia
Si è svolta la prima competizione tra auto da gara in cui le vetture non erano telecomandate ma programmate per muoversi (e vincere) in autonomia.
96 FOTO DI FAMIGLIA IN UN ESTERNO animali
Una fotografa ha immortalato la vita di un gruppo di scoiattoli di terra che vivono in un deserto americano.
102 SU LA MASCHERA antropologia
Riecco il Carnevale. Ma l’idea di celare il volto dietro un volto finto ha radici che affondano nei millenni.
MIE MICROARMI CHE VIAGGIANO 106 LE NEL CORPO A CACCIA DI TUMORI medicina
60 TECNO ARCHEOLOGIA archeologia
Georadar, impulsi laser, droni, satelliti... Gli indagatori del passato hanno a disposizione nuovi strumenti.
68 BRRR... CHE CALDO genetica
Perché le popolazioni che vivono al Polo Nord non soffrono il freddo? Merito dei cambiamenti genetici.
È ANCHE UNA QUESTIONE 73 RESISTERE MENTALE corpo umano
I risultati di un esperimento eccezionale: che cosa succede quando si finisce in un lago ghiacciato.
75 COME STA L’OZONO
focus next 30 / ieri, oggi, domani
A 33 anni dal Protocollo di Montreal, lo strato di gas che ci protegge dai raggi ultravioletti è in recupero. Ma non bisogna abbassare la guardia.
84 ALLE RADICI DEL DISGUSTO comportamento
Perché un cibo che fa schifo ad alcuni può essere una vera prelibatezza per altri? Dipende dalle esperienze personali (e dalle papille gustative).
4 | Focus
Intervista al pioniere della nanomedicina, che racconta in un libro le strade tortuose della vita e della scienza, verso la cura dei tumori più letali.
112 PERCHÉ CI PIACE L’HORROR comportamento
I film “del terrore” ci aiutano a riconoscere i pericoli (ma senza correrli davvero). E per questo il nostro cervello ne è così attratto.
RUBRICHE
9 L’oblò 110 Tipi italiani 158 Academy 165 MyFocus 171 Cartellone 176 Giochi
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Il modello interattivo della Dallara AV-21.
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GARA IN SCIA Le vetture del Politecnico di Milano e dell’Università di Monaco nella sfida finale a Las Vegas lo scorso gennaio.
Bolidi senza pilota di Marco Consoli
N
el 2015, alla fiera dell’high-tech più famosa del mondo, il Consumer Electronic Show (Ces) di Las Vegas, l’amministratore delegato della Ford, Mark Fields, ipotizzava che nel 2020 avremmo avuto auto a guida autonoma. Non è andata così, perché affidare a un computer freni, acceleratore e volante è più complicato di quanto sembrasse qualche anno fa. Ma a raggiungere quell’obiettivo potrebbero aiutare alcuni ricercatori italiani: il 7 gennaio scorso, infatti, sul Las Vegas Motor Speedway, il team PoliMove creato dal Politecnico di Milano con il supporto dell’Università dell’Alabama ha vinto l’Indy Autonomous Challenge, il primo testa a testa mai realizzato tra auto senza pilota di Formula Indy, la più popolare categoria di auto da corsa degli Stati Uniti. In quella occasione PoliMove, con la Dallara AV-21, vettura scelta per tutti i team (v. pag. seguente), ha raggiunto i 278 km/h. CORSA A INSEGUIMENTO «Dopo il successo del Darpa Grand Challenge nel 2004 e del Darpa Urban Challenge nel 2007, competizioni ideate dal dipartimento della Difesa americano per creare veicoli senza pilota in grado di muoversi rispettivamente nel deserto e nel traffico, abbiamo lanciato questa gara su pista per far cimentare gli atenei più prestigiosi del mondo con una sfida: far progredire più rapidamente la tecnologia per la guida autonoma», spiega Paul Mitchell, presidente di Energy Systems Network, l’ente organizzatore. «Perché se un’auto riesce a superare in sicurezza i 250 km/h può andare in autostrada, a velocità più basse, e avere tempi di reazione ancora inferiori di fronte agli imprevisti del traffico». L’evento di gennaio è stato il punto di arrivo di un percorso iniziato con una simulazione al computer, in cui i team universitari hanno provato i propri algoritmi su auto virtuali, per passare poi in pista lo scorso ottobre in una gara sul giro veloce (vinta dal team tedesco Tum della Technische Universität di Monaco di Baviera) e infine al più recente testa a testa: «Il format prevede un difendente, che va a una velocità costante, e un attaccante che deve sorpassarlo», spiega Mitchell. «Quando entrambe le vetture hanno eseguito la manovra, si aumenta progressivamente la velocità, di 5 miglia orarie alla volta (circa 8 km/h, ndr), finché uno dei due non Focus | 93
Indy Autonomous Challenge
Si è svolta la prima competizione tra auto da gara del tutto autonome. In cui le vetture non erano telecomandate ma programmate per scegliere in autonomia le mosse vincenti.
DALLARA AV-21
1 RADAR. I tre radar in dotazione identificano con massima accuratezza posizione e velocità degli altri veicoli in pista.
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2 1 6
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5 2 1
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2. TELECAMERE. Con una risoluzione di 2.064x1.544 pixel individuano con precisione la traiettoria del veicolo precedente, lavorando a 37,6 fotogrammi al secondo.
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MOTORE. È un propulsore turbo della Honda da 388 HP e del peso di 726 kg. Con la vettura PoliMove ha stabilito il record di velocità a guida autonoma: 283,18 km/h.
4. COMANDI. Al posto del pilota c’è un sistema di controlli automatizzati del tipo drive-by-wire che trasferisce ogni decisione a sterzo, acceleratore e freno.
5. COMPUTER. Il supercomputer di bordo deve elaborare milioni di dati in millisecondi ed essere resistente a calore e vibrazioni.
Grazie a queste nuove tecnologie, la velocità nelle gare di auto potrebbe arrivare fino a 480 chilometri l’ora riesce a sorpassare l’altro o esce di pista». Dopo una serie di eliminatorie tra nove vetture in rappresentanza di 19 Università di tutto il mondo, nella finale l’auto di PoliMove l’ha spuntata su quella di Tum, vincendo anche un premio di 150.000 dollari. LE TECNOLOGIE DI BORDO Ma come si fa a programmare un’auto da corsa in modo che faccia tutto da sola? «Un pilota in carne e ossa compie varie azioni: conosce la posizione della propria auto in pista, individua l’avversario, pensa al sorpasso e lo effettua. Gli algoritmi devono eseguire le stesse operazioni: localizzare la propria vettura, percepire l’auto concorrente, pianificare una manovra e portarla a termine agendo sui comandi», spiega Sergio Savaresi, professore di controlli automatici del Politecnico di Milano, a capo del team italiano vincitore. «Naturalmente i quattro livelli di software che sovraintendono queste quattro azioni devono agire in armonia tra loro, perché se il planning prevede una manovra impossibile, il tracking che deve inseguire la traiettoria per compierla va in crisi». A rendere possibile il controllo del software sulla vettura è l’hardware a bordo, uguale per tutti: telecamere, Gps, radar, Lidar (uno strumento che utilizza un impulso laser per rilevare le distanze), computer, tecnologie di trasmissione dati oltre che sistemi di controllo automatizzati. «Sviluppando il software spingiamo al limite l’hardware scoprendone i limiti», dice Savaresi. «Per esempio, se un Lidar ha un refresh di 94 | Focus
3. GPS. Le antenne sono fondamentali per capire il posizionamento della vettura in pista, con margini di errore di 1 centimetro e 0,1 gradi di angolazione.
6. LIDAR. Grazie alla tecnologia laser, individuano oggetti a 360 gradi fino a una distanza di 500 metri con un margine di errore di 1 centimetro.
10 hertz, cioè fornisce 10 immagini al secondo, a 50 km/h sarà efficace, perché identifica gli oggetti mentre l’auto si sposta di 1,3 metri, ma a 270 l’ora lo farà ogni 7,5 metri, troppo per evitare un incidente. Ecco perché l’hardware oggi in dotazione alle auto comuni con guida assistita non sarebbe utilizzabile». Ogni team, però, elabora strategie diverse di programmazione, come spiega Phillip Karle, ricercatore e team leader della Tum: «Per esempio, per identificare l’altro veicolo si può usare il radar, che opera a più lungo raggio e riconosce con precisione la velocità ma è meno efficace nell’individuare la traiettoria, oppure la telecamera, che fa esattamente l’opposto. La sfida nel creare questi algoritmi è capire quando utilizzare un sensore o un altro, per esempio radar e Lidar, che al buio sono imbattibili rispetto alla telecamera, o come combinarne l’utilizzo». LA GUIDA UMANA È DIFFICILE DA RIPRODURRE La ricaduta di queste ricerche sarà sulle vetture che guidiamo ogni giorno. «Tra 20 o 30 anni si passerà dalle grandi auto private a combustibile fossile di oggi a vetture elettriche piccole e in condivisione. A spingere questa trasformazione sarà la guida autonoma», dice Savarese, che nel suo ateneo dirige il gruppo di lavoro Move, già all’opera per grandi case automobilistiche. «La guida è forse uno dei comportamenti umani più difficili da automatizzare e in questo il motorsport ci aiuta, perché possiamo sperimentare in un ambiente controllato e con pochi rischi». «Anche perché ci possono essere influenze esterne
come l’azione del vento oppure dati incompleti da elaborare», aggiunge Karle, «senza contare le altre vetture in pista». Tanto che nella gara finale proprio l’auto di Tum, mentre stava inseguendo l’altra a 241 km/h, è uscita di pista. «L’auto di PoliMove ci aveva appena superato quando i sensori hanno percepito degli oggetti fantasma, ordinando all’impianto frenante di evitarli. Così la vettura è andata fuori pista. Un episodio che dimostra lo sforzo di evitare gli impatti in gara ma anche, in prospettiva, con le auto comuni nel traffico. E con queste tecnologie in caso di incidente sarà anche più semplice ricostruire l’accaduto».
ELETTRONICA E SOFTWARE In alto e qui sotto, un membro del team PoliMove del Politecnico di Milano al lavoro sulla vettura e ai monitor di controllo. Qui sopra, una rappresentazione del modo in cui il Lidar della macchina rileva lo spazio circostante la vettura stessa.
Indy Autonomous Challenge
IN FUTURO, IN GARA ANCHE AUTO VIRTUALI Queste ricerche cambieranno lo sport? In futuro avremo gare con auto senza pilota? «Per decenni le tecnologie arrivate sulle nostre auto, come le sospensioni attive o l’iniezione elettronica, provenivano dal mondo delle gare», dice Savaresi. «Ma in anni più recenti molte automatizzazioni come Abs, controllo della trazione o della stabilità, non sono state oggetto di ricerca, per non dare troppo aiuto al pilota in gara, e il settore delle corse ha perso il proprio ruolo di faro nell’esplorare l’evoluzione tecnologica. Così però non poteva continuare: infatti è arrivata la Formula E, in cui si compete con auto elettriche, e la Formula 1 ha già un piano per rendere le sue auto ibride. Competizioni come l’Indy Autonomous Challenge vanno nella direzione di portare sempre più l’intelligenza artificiale nelle corse automobilistiche. Secondo me, tra le possibili combinazioni in cui la vettura o il pilota sono reali oppure simulati, la più interessante è quella in cui i team avranno due vetture in pista: una guidata da un essere umano e l’altra da algoritmi. Anche se per arrivarci forse ci sarà un passaggio intermedio in cui un pilota guida un’auto vera e l’IA ne guida una simulata, che il pilota vede comunque in pista grazie a un casco con realtà aumentata». «Non stiamo cercando di creare una competizione di gare sportive a guida autonoma», conclude Mitchell, «ma usiamo le corse come piattaforma per testare le tecnologie e mostrarle in modo divertente. Le velocità nella storia delle corse sono aumentate fino a raggiungere un limite di circa 380 km/h. Queste nuove tecnologie potranno spingere i piloti fino a 480 km/h. E solo così, con sistemi intelligenti che per esempio intervengono quando bisogna prendere decisioni troppo rapide per un essere umano, si potrà garantire l’incolumità di chi gareggia e portare gli sport dei motori nel futuro».
comportamento
Perché ci piace l’ 112 | Focus
Everett Collection/MondadoriPortfolio
di Elena Meli
DUE VERI CULT Come si fa ad avere paura di un buffo pagliaccio? Il celebre It tratto dal romanzo di Stephen King dimostra che si può, eccome! Sopra, una immagine dal thriller Il silenzio degli innocenti.
I
«
l suo personaggio era così realistico che quando stavo con lui vedevo il cannibale. E lo lasciai», così ha dichiarato poche settimane fa la conduttrice televisiva Martha Steward, che aveva una relazione con l’attore Anthony Hopkins proprio nel periodo delle riprese del thriller Il silenzio degli innocenti. Una delle migliori recensioni al film mai formulate, probabilmente. Del resto la pensava così anche Eli Roth, regista cult di horror, che si sentì molto gratificato per lo svenimento di uno spettatore durante la proiezione del suo The green Inferno, pellicola in cui raccontava con dovizia di particolari splatter le peripezie di un gruppo di ragazzi in mano a una tribù di cannibali. Va detto che nel 1973 nelle sale dove si proiettava L’esorcista c’era chi vomitava, e qualche anno fa in India un 65enne pare sia morto (letteralmente) di paura per un attacco di cuore mentre guardava The Conjuring 2. Vedere un horror insomma può non essere una passeggiata, eppure gli amanti del brivido sono tanti. Viene da chiedersi se siano tutti masochisti o se ci sia qualche ragione per cui saltare sulla sedia dopo un colpo di scena ci attragga irresistibilmente. NON UCCIDE, MA RINFORZA Anche i ricercatori se lo sono chiesto e dal 2010 esiste perfino una rivista scientifica, Horror Studies, che si occupa proprio di capire che cosa ci sia sotto questa apparentemente “insana” ma assai diffusa passione per la paura: stando a una ricerca di Mathias Clasen, direttore del Recreational Fear Lab dell’Università di Aarhus in Danimarca, oltre la metà delle persone ama il genere e nell’80 per cento dei casi vuole che il film faccia proprio accapponare la pelle e battere i denti dal terrore. Secondo Clasen, si tratta di una fascinazione evolutivamente utile perché ha consentito ai nostri antenati di imparare a conoscere i pericoli restandone in realtà a distanza. L’horror soddisfa lo stesso istinto e il maestro indiscusso del genere, Stephen King, lo aveva intuito già all’età di dieci anni, quando teneva un quaderno su Charles Starkweather, serial killer in azione durante l’infanzia dello scrittore: quando la madre gli chiese preoccupata perché lo facesse, lui rispose che era per saper riconoscere un assassino, se lo avesse incontrato, e così tenersene alla larga o scappare a gambe levate. «I film horror ci permettono di esplorare situazioni inedite, potenzialmente pericolose, e monitorare la nostra risposta emotiva e comportamentale: in altri termini, ci preparano alla vita aumentando la capacità di sopravvivenza», commenta Emanuele Castano del Dipartimento di psicologia e scienze cognitive dell’Università di Trento. «Ovviamente non in senso letterale: è alquanto improbabile essere inseguiti da uno psicopatico con un’ascia, ma assaporare il terrore in un contesto protetto ci aiuta a capire questa emozione e quindi a gestirla. Ciò che non ci uccide, insomma, ci rinforza». Per di più la visione dei film spesso avviene con amici o con la famiglia e condividere la fifa può rafforzare i legami di gruppo, ma anche aiutare ulteriormente a contenere l’angoscia, tanto che un po’ a sorpresa proprio i più ansiosi potrebbero trarre particolare giovamento dagli horror. Lo ha suggerito di recente Coltan Scrivner dell’Università di Chicago (Usa), dimostrando che queste pellicole consentono a chi soffre di un disturbo d’ansia di sperimentare emozioni negative a “dosi” controllate, diventando così più resilienti e capaci di affrontare gli stress della vita reale. Focus | 113
Warner Bros/Courtesy Everett Collection/Mondadori Portfolio
I film “del terrore” ci aiutano a riconoscere i pericoli (ma senza correrli davvero). E per questo il nostro cervello ne è così attratto.
Film spazzatura? Mica tanto: gli horror potenziano i globuli bianchi e fanno superare i traumi
Quando vediamo un film ci rilassiamo e il cervello “spegne” le aree motorie. Davanti a un horror però è probabile saltare sulla sedia o perfino urlare: l’effetto sorpresa della paura innesca l’istinto primitivo di sopravvivenza e prevale la reazione immediata, come se ci scordassimo di essere al sicuro, spaparanzati sul divano. Il cervello, nei pochi millisecondi che impiega a capire che il colpo di scena pauroso non è reale, invia un segnale d’allarme al corpo: la scarica di adrenalina si traduce in un incremento dei battiti del cuore, un aumento della sudorazione (ancora più evidente in chi è più empatico, stando a una ricerca australiana) e nella contrazione dei muscoli, per essere pronti alla fuga. A volte basta anche solo un rumore: l’horror è stato definito come il genere cinematografico più legato al suono e spesso la paura dipende proprio dal sapiente uso della colonna sonora. Senza, l’effetto non sarebbe lo stesso: John Carpenter ha raccontato che la proiezione del suo Halloween senza sonoro non impaurì nessuno dei produttori.
114 | Focus
SGUARDI L’espressione dei personaggi, che indica una personalità inattesa è uno degli ingredienti più inquietanti degli horror, come ne L’esorcista (a sinistra) o in Shining (sotto).
United Archives GmbH/Alamy/IPA
L’IMPORTANZA DEI SUONI
FINALE CURATIVO In generale, poi, il trionfo dell’eroe provoca emozioni positive che bilanciano il ribrezzo e il terrore provati fino a quel momento: dopo le scariche di adrenalina delle volte in cui si è balzati sulla sedia e l’attivazione intensa delle aree cerebrali per l’elaborazione delle emozioni, il cervello viene “inondato” di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori connessi a sensazioni piacevoli e alla gratificazione. «Sembra che gli appassionati, poi, non provino emozioni negative vedendo un horror o almeno che le provino in contemporanea al piacere», aggiunge Castano. «I novizi invece hanno soprattutto paura, a meno che durante la visione non si ricordi loro che si tratta di un contesto fittizio: ciò suggerisce che la passione per l’horror sia un gusto acquisito, per il quale serve una certa preparazione». C’è però chi proprio non vuole saperne e di fronte a un horror si tappa occhi e orecchie: gli amanti del brivido hanno in effetti caratteristiche peculiari ed è stato tracciato un loro identikit.
Ronald Grant Archive/Mary Evan/Mondadori Portfolio
GUARDARE LA MORTE Un vantaggio emerso anche durante la pandemia, stando a un’altra ricerca di Mathias Clasen, è che, a prescindere dalla presenza o meno di ansia, gli amanti dell’horror se la stanno cavando meglio e sono stati meno stressati, perfino nei periodi più bui di lockdown, perché «hanno già visto il mondo in tumulto nei film sugli zombie e simili, ed è come se fossero più preparati alle crisi: si sono sentiti meno sopraffatti e hanno mostrato più capacità di reazione rispetto a chi rifugge i film “di paura”», racconta Clasen. Peraltro, vivere il terrore sapendo che non è reale sembrerebbe utile pure a livello fisico, visto che secondo uno studio dell’Università di Coventry, nel Regno Unito, vedere un film horror attiva i globuli bianchi nel sangue migliorando la loro capacità di risposta in caso di infezioni: il sistema immunitario entra in allerta per difenderci meglio. I vantaggi di queste pellicole solitamente bistrattate dalla critica non finiscono qui, perché, come aggiunge Castano, «non ci si sente mai così vivi come quando guardiamo la morte in faccia: i film dell’orrore potrebbero perciò aiutarci a tenere a bada la nostra ansia esistenziale». Castano ha studiato gli effetti del cinema sulla capacità di rappresentare la mente altrui e ipotizzare quindi pensieri e sentimenti dell’altro, scoprendo che i film d’autore la facilitano mentre i blockbuster hollywoodiani no. E i film dell’orrore? «Di solito lasciano poco spazio all’immaginazione e questo non aiuta, ma è possibile che alcuni, specialmente i meno cruenti, possano allenarci a
capire la mente altrui. E comprendere che cosa sta pensando uno psicopatico, magari anticipandone l’azione, potrebbe rivelarsi utile». Si torna insomma all’horror come palestra della paura, l’emozione che più aiuta alla sopravvivenza. Se il finale è ottimista, poi, può essere anche un mezzo per superare esperienze drammatiche, come dimostra una ricerca di Morgan Podraza della Ohio State University (Usa) secondo cui vedere sullo schermo un personaggio che trionfa sul “mostro” è un modo per ritrovare speranza nella vita reale: in particolare le ragazze che hanno la meglio sul male (di solito dopo essersi cacciate nei guai per tutto il tempo, compiendo scelte contro ogni più basilare logica) sarebbero di grande aiuto a chi ha vissuto veri traumi, che tramite lo schermo si possono elaborare e quindi superare meglio.
EFFETTI COLLATERALI Siamo sicuri però che l’unico effetto collaterale di Halloween e compagnia sia solo dormire con luce accesa qualche volta, non sentirsi a proprio agio con i clown per colpa di It o al massimo abbandonare l’idea di un campeggio nei boschi dopo aver visto The Blair Witch Project, come è emerso da una ricerca di Joanne Cantor dell’Università del Wisconsin (Usa)? Non è che assistere sullo schermo a violenze di ogni tipo ci fa venir voglia di andare in ufficio con un’accetta in borsa per liberarci dell’odiato capo? «Essere esposti alla violenza desensibilizza, ovvero può aumentare la tolleranza alla violenza nella società o la probabilità che diventi una nostra risposta in certe situazioni», risponde Castano. «Tuttavia questo avviene di più se c’è un ruolo attivo e una identificazione, come può succedere in alcuni videogiochi: negli horror le situazioni sono così esagerate e surreali che identificarsi è difficile, non credo che uno spettatore possa trasformarsi in “mostro”».
TRE TIPI DI APPASSIONATI IN QUALE VI RICONOSCETE? Coltan Scrivner dell’Università di Chicago ha identificato tre diversi tipi di appassionati di horror in base alle loro reazioni alle proiezioni. I DROGATI DI ADRENALINA. Amano l’eccitazione e le sensazioni provocate dalla visione degli horror e la stimolazione intensa della paura li mette di buonumore. I “NOCCHE BIANCHE”. Non provano emozioni positive durante la visione ma ammettono di imparare qualcosa su se stessi, come la loro risposta allo stress o la “dose” di paura tollerabile. I “FRONTEGGIATORI DELL’OSCURITÀ”. Pensano che gli horror possano aiutare ad affrontare le paure e a conoscere il mondo per come è, adattandovisi meglio; a differenza dei “nocche bianche”, il film lascia loro anche emozioni positive. SENZA SPERANZA Un’immagine di The Blair Witch Project, storia di tre ragazzi catturati e uccisi in un bosco maledetto.
DISPREZZATI DAI CRITICI, MA AMATI DAL PUBBLICO Pochi generi cinematografici dividono fra chi è appassionato e chi non riesce neppure a vederne qualche minuto come l’horror: una dicotomia presente pure sul mercato, visto che si tratta di film quasi mai acclamati dai critici, ma che spesso sbancano al botteghino. Sollecitano emozioni primitive come paura, ansia, disgusto e per questo non sono amati dai cinefili: appena sei sono stati candidati all’Oscar e solo uno l’ha vinto (Il silenzio degli innocenti, più un thriller che un horror standard), tuttavia a fronte di produzioni spesso economiche non si contano gli incassi stellari, come i 700 milioni di dollari di It, costato appena 35 milioni. Il primo horror? Secondo Neil Martin della Regent’s University di Londra, che di recente ha raccolto tutti gli studi su ciò che ci succede guardando pellicole paurose, risale al 1895 quando i fratelli Lumière girarono L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat: «A dar credito ai racconti dell’epoca, gli spettatori furono terrorizzati dal treno temendo che uscisse dallo schermo, tale era la novità del cinema», dice Martin.
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Innanzitutto sono leggermente più spesso uomini, ma non sono solo ragazzini, sebbene l’“appetito” per l’horror abbia un picco durante l’adolescenza. «È il periodo in cui è massima la ricerca di sensazioni forti, che è un poco più preponderante negli uomini e dopo i 30 anni tende a diminuire: il carattere inusuale, sorprendente ed “estremo” degli horror li rende attraenti per queste persone», conferma Castano. «Questi film poi interessano di più a chi ha maggiore apertura mentale verso la novità, ma la correlazione potrebbe dipendere dalla presenza frequente di elementi paranormali o eventi insoliti nelle pellicole. Non ci sono prove, invece, che vederli serva per purificarci e liberarci da emozioni negative, né sembra plausibile la lettura psicanalitica per cui i film dell’orrore permetterebbero di confrontarsi con istinti e bisogni repressi, perché è improbabile che una larga fetta dell’umanità voglia sventrare i suoi simili o vederli perseguitati dai fantasmi».
Domande Risposte INSERT SPECIA O LE!
LA SCIENZA IN PILLOLE AMORE E SESSO COSA C’ENTRA L’OLFATTO CON L’INFEDELTÀ?
CIBO PERCHÉ IL CAPPELLO DA CHEF HA LE PIEGHE? ANIMALI L’ALCOLISMO È UN PROBLEMA ANCHE PER LE API?
IN QUALI PARTI DEL CORPO SENTIAMO LE EMOZIONI? TE LO DICE MASSIMO LA RUBRICA DI MASSIMO CANNOLETTA, IL CAMPIONE DEI QUIZ TV
SOCIETÀ IN QUALI CITTÀ SI DORME PEGGIO NEL MONDO? SALUTE SI PUÒ PREDIRE L’INSORGERE DELL’ALZHEIMER?
(Esclusa la felicità che si avverte dappertutto)
UNIVERSO COME SI COSTRUISCE UN’ASTRONAVE LUNGA 1 CHILOMETRO?
TECNOLOGIA QUALI SONO LE AUTO PIÙ VELOCI DI SEMPRE?
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NATURA CHE COS’È “L’ALBERO DELLA MORTE”?
INDICE PAGINE ANIMALI 122 • TECNOLOGIA 126 • SCIENZA 128 • AMORE E SESSO 130 • STORIA 132 • TE LO DICE MASSIMO 136 • NATURA 138 • ECONOMIA 140 • SALUTE 142 • SOCIETÀ 144 • ARTE E CULTURA 146 • CIBO 148 • SPORT 150 • UNIVERSO 152 • PSICHE 154
ANIMALI
PERCHÉ SI SONO ESTINTI I MAMMUT?
ALCUNI PASCOLAVANO ANCORA IN SIBERIA, MENTRE GLI EGIZI COSTRUIVANO LE PIRAMIDI. POI SONO SCOMPARSI, MA NON (SOLTANTO) A CAUSA NOSTRA.
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i pensava che i mammut si fossero estinti (per la maggior parte circa 10.000 anni fa) perché cacciati dell’uomo. Ora una ricerca dell’Università di Cambridge (Uk) ha scoperto il vero motivo: quando il clima è diventato più caldo e umido e il ghiaccio ha iniziato a sciogliersi, si sono formati nuovi laghi, fiumi e paludi. L’ecosistema è cambiato e la biomassa della vegetazione si è ridotta, tanto da non bastare più a sostenere l’alimentazione di mandrie di mammut. Al posto delle praterie sono cresciute le piante tipiche delle zone umide, di cui questi mammiferi non si nutrivano. L’ALTROIERI. La ricerca, su Nature, è arrivata a queste conclusioni analizzando il Dna dei resti di piante e animali raccolti nei siti dell’Artico dove erano stati trovati diversi resti di mammut, che erano diffusi in tutti i continenti tranne l’Australia e il Sud America. Le prime civiltà hanno convissuto con le ultime popolazioni per almeno 2.000 anni: gli ultimi esemplari, in un’isola dell’Artico, pascolavano quando furono costruite le piramidi. La loro scomparsa è l’ultima grande storia di estinzione naturale. Vito Tartamella
uardare “come è fatto dentro” un animale molto raro, anche se ormai morto, comporta un bel po’ di danni all’esemplare, che invece deve rimanere il più possibile integro per essere studiato dai naturalisti. È questo il problema che si è posto con una nuova specie di polpo abissale, il Grimpoteuthis imperator (nella foto a fianco), detto “Dumbo imperatore” perché dotato di due grandi “pinne” simili a orecchie ai lati della testa che lo fanno somigliare al celebre elefantino della Disney. Il polpo era lungo 30 cm ed è inevitabilmente morto non appena è stato pescato, visto che non è in grado di vivere nelle acque superficiali. SCANSIONI 3D. I ricercatori dell’Università di Bonn (Germania) sono riusciti a descrivere anche la fisionomia interna di questo rarissimo mollusco, che vive a oltre 4.000 metri di profondità nel Pacifico del Nord, “guardando attraverso il suo corpo”. Trattandosi di un esemplare unico di una nuova specie era infatti importante per i ricercatori descriverne gli organi interni senza distruggerlo. La sua anatomia è stata così studiata con la risonanza magnetica, realizzando scansioni 3D dell’animale che poi hanno formato una copia digitale del mollusco, oggi conservato al Museum für Naturkunde di Berlino (Germania), a disposizione di tutti gli scienziati del mondo. R.P.
© Alexander Ziegler
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Come si scopre l’anatomia di un animale raro?
AMORE E SESSO
COSA C’ENTRA L’OLFATTO CON L’INFEDELTÀ? DIVERSE RICERCHE DIMOSTRANO CHE GLI ODORI DEL CORPO SONO COLLEGATI AL COMPORTAMENTO SESSUALE E ALLA FEDELTÀ DI COPPIA. ECCO COME.
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are che c’entri non poco. Che gli odori del corpo siano connessi al comportamento sessuale lo avevano già stabilito varie ricerche, constatando, per esempio, quanto sia rilassante ed eccitante per una persona sentire l’odore di una maglietta indossata dall’amato partner. Ed era stato anche scoperto che le persone che più facilmente provano disgusto sono anche quelle meno propense all’infedeltà. DI CHE ODORE SEI? Adesso, l’endocrinologo Antonio Aversa, della Università Magna Graecia di Catanzaro, ha condotto una ricerca che mette in connessione le precedenti scoperte. Come riportato su Archives of Sexual Behavior, i ricercatori hanno misurato l’acutezza dell’odorato di 1.107 italiani, e raccolto informazioni sulla loro facilità a disgustarsi e sulla loro vita sessuale. È risultato che chi aveva un buon olfatto era sia più incline a provare disgusto sia meno propenso a essere infedele. Perché? Perché avere un “buon naso” favorisce la percezione degli odori non consueti provenienti dalle persone diverse dal partner, il che può suscitare un inconscio disgusto (che è una forma di difesa contro possibili fonti di infezione) all’idea di avere contatti intimi con loro. Insomma: se ci tenete alla fedeltà nei rapporti, sceglietevi partner con un fine odorato da sommelier.
PROFUMO DI DONNA L’odore del partner è importante per le relazioni sessuali.
Alex Saragosa
Perché i peli pubici sono ricci? A monte di questa curiosa caratteristica del nostro corpo, riscontrabile sia nelle donne sia negli uomini, vi è la particolare forma dei follicoli piliferi che si trovano nell’area pubica. Quanto al motivo primordiale di questa morfologia, secondo gli esperti è da ricercare nel fatto che i peli ricci, assai più di quelli lisci, tendono a trattenere il sudore corporeo il quale, mischiato alla flora batterica, crea un odore unico per ogni persona, utile in natura ad attirare potenziali partner sessuali (vedi articolo qui sopra)
in quanto trasmette preziose informazioni, peraltro di tipo inconscio, circa il patrimonio genetico di un determinato individuo. Oltre a funzionare come una sorta di ancestrale “richiamo” sessuale olfattivo (nonché visivo), i peli pubici ricci, folti e resistenti, rivestono anche una funzione protettiva delle nostre parti intime. Essi possono infatti assorbire eventuali urti nonché limitare l’attrito durante l’atto sessuale, con buona pace dei maniaci della depilazione totale. M.L.
L’amore è una molecola?
Science Photo Library/Agf
Ovviamente no, però quando si ama il nostro organismo produce una quantità elevata di 2-feniletilammina (PEA), nota come “molecola dell’amore”. Tale sostanza alcaloide (contenuta nel cioccolato, nel vino e in alcuni formaggi) causa nel corpo effetti simili a quelli prodotti dalle anfetamine, in quanto agisce sui medesimi recettori, stimolando la produzione di dopamina. La prima fase dell’amore è quella associata all’attrazione sessuale, quando l’organismo reagisce producendo elevate quantità di testosterone. La seconda è l’innamoramento, durante il quale il corpo manifesta euforia, energia e sudorazione eccessiva. Nella terza, si sviluppa l’attaccamento: qui entra in gioco la 2-feniletilammina, prodotta dal cervello assieme all’ossitocina (nella donna) e alla vasopressina (nell’uomo), ormoni che rafforzano il legame e la memoria emotiva. S.V.
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Gli uomini con la pancia piacciono di più?
a qualità della relazione ne risente, al punto che sale il rischio di lasciarsi. Questo però vale solo se è l’uomo a non gradire gli amici della partner, non viceversa. Emerge da uno studio di sei università Usa, coordinato dall’Adelphi University, in cui quasi 400 coppie eterosessuali sono state seguite nei primi 16 anni di matrimonio, e alla fine dei quali il 46,1% delle coppie era separato o divorziato. I ricercatori le hanno intervistate periodicamente ponendo domande come: “Tua moglie/marito ha amici che preferiresti non frequentasse?” e “Quanto spesso, nell’ultimo anno, pensi che ciò che la/il tua/o coniuge ha fatto, con o per i suoi amici, abbia interferito con la tua vita matrimoniale?”. GELOSIA. Analizzando i dati, si è concluso che le probabilità di rottura aumentano se lui non apprezza gli amici di lei ma non se, invece, è lei a disapprovare gli amici di lui. Per i ricercatori, una possibile spiegazione è che gli uomini sentono di più l’interferenza degli amici della moglie e quindi ne sono più gelosi: più spesso gli uomini vivono la moglie come unica confidente intima mentre le donne sono più propense a discutere di questioni personali, problemi coniugali compresi, con le amiche e gli amici. M.Z.
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Cosa accade se non piacciono gli amici del partner?
Con buona pace dei maniaci della palestra, le donne considerano più attraenti gli uomini con un po’ di pancia rispetto a quelli con la classica “tartaruga”. È quanto emerge da numerose ricerche, tra cui un sondaggio condotto nel 2021 dalla nota app di appuntamenti Dating. com. L’indagine in questione ha coinvolto circa 2.000 partecipanti, rilevando che solo il 15% preferiva uomini con il fisico scolpito, mentre il 20% non dava alcuna importanza all’aspetto esteriore nella scelta del partner. Al contrario, ad andare per la maggiore erano i maschi più “rotondi”. Il motivo? Secondo uno studio pubblicato sulla rivista medica Advances in Chronic Kidney Disease, tale attrazione potrebbe essere legata a ragioni evoluzionistiche: migliaia di anni fa, i cacciatori-raccoglitori che erano in grado di immagazzinare più facilmente il grasso corporeo avevano un vantaggio evolutivo e per questo diventavano partner più ambiti per procreare. Le tracce di questa istintiva attrazione paiono dunque persistere ancora oggi. M.M.
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CIBO
Quante olive ci sono in una bottiglia da 1 litro d’olio extravergine?
In collaborazione con FICO, il Parco del cibo di Bologna
Circa 3.600. Infatti, il prodotto ottenuto corrisponde al 15-18% del peso della materia prima. Questo risultato può variare in modo sensibile in quanto è legato ad alcuni fattori: calibro dei frutti, varietà dell’oliva, epoca di raccolta, andamento climatico, annata, area di coltivazione, sistema di estrazione. La fase perfetta per la raccolta delle olive è l’invaiatura, cioè la fase di maturazione in cui avviene il viraggio dal verde intenso a una colorazione finale che varia a seconda della cultivar (la varietà agraria). Raccogliendo le olive a maturazione iniziale si ottiene un olio dal sapore fruttato, più amaro e piccante perché più ricco di polifenoli e salutare in quanto carico di proprietà antiossidanti. L’olio Evo (Extra Vergine di Oliva) è un ingrediente insostituibile sulle nostre tavole e un potente alleato di bellezza e salute. Nella classificazione degli olii troviamo l’olio extravergine (con acidità inferiore allo 0,8%), l’olio vergine (con acidità fino al 2%) e l’olio lampante (un tempo utilizzato nelle lampade) molto acido e sgradevole. Una curiosità? Al parco del cibo di Bologna puoi camminare sotto olive giganti che pendono dal cielo e incontrare la ricostruzione di due titaniche bottiglie d’olio, inclinate esattamente come le famose torri bolognesi. www.fico.it
PERCHÉ IL CAPPELLO DA CHEF HA LE PIEGHE? LA TRADIZIONE LEGA IL NUMERO DI PIEGHE ALL’ABILITÀ DEL CUOCO. IN PARTICOLARE NELLA PREPARAZIONE DELLE UOVA.
Quanto cibo sprechiamo davvero? 148 | Focus
Siamo più virtuosi di quanto crediamo, almeno stando ai risultati di uno studio dell’Osservatorio sprechi alimentari del Crea (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) che per la prima volta ha indagato, su un campione di oltre mille famiglie italiane seguite per tre anni, quanto cibo buttiamo davvero nella spazzatura e quanto questo ci costi. I dati mostrano che tutte le settimane ogni famiglia spreca appena 350 grammi di cibarie per un valore di circa un euro, pari al 4% del peso e del costo degli acquisti alimentari settimanali. I ricercatori sottolineano che tutto il cibo cotto in genere viene
RIDERE FA VENIRE FAME?
Alberto Cammelli
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l numero delle pieghe presenti su un cappello da chef, secondo una diffusa leggenda, è considerato un indice dell’abilità di chi lo indossa. In particolare, si attribuirebbe a ogni piega la padronanza di una ricetta per cucinare le uova, che può manifestarsi fino a un massimo di 100 pieghe. Nella storia, il caratteristico cappello a forma di fungo dei cuochi, in tessuto di cotone pieghettato alla base, detto “toque blanche”, si deve allo chef francese Marie Antoine Carême (1784-1833) e nasce dall’esigenza di tenere i capelli e le gocce di sudore lontani dai piatti cucinati. RICAMBIO D’ARIA. Altezza, tessuto e colore rispondono a precise ragioni di funzionalità e di igiene: la forma allungata del cappello serve a creare sopra il capo uno spazio sufficiente a garantire un ricambio continuo dell’aria ed evitare un eccessivo riscaldamento della testa in un ambiente come la cucina saturo di vapori; il tessuto di cotone permette la traspirazione; il colore bianco consente infine frequenti lavaggi anche con acidi candeggianti.
Una ricerca della Loma Linda University (California) ha sottoposto 14 pazienti alla visione di un video di 20 minuti di diverso genere, dal drammatico alla commedia. I ricercatori hanno misurato la pressione sanguigna di ogni esaminato e prelevato campioni di sangue prima e dopo la visione del video. Sono stati poi analizzati i livelli di leptina e grelina, ormoni coinvolti nell’appetito. È emerso che i contenuti seri non avevano particolari effetti, mentre quelli comici riducevano la produzione di leptina, ormone che provoca senso di sazietà, mentre aumentava il livello di grelina, che stimola l’appetito, come accade dopo l’esercizio fisico. La ricerca fornisce nuove potenziali opzioni per i pazienti che non possono compiere attività fisica per aumentare il senso di fame. I.P.
consumato, portando a una percentuale piccola di avanzi, ma anche che il prezzo degli alimenti conta parecchio: tendiamo infatti a buttare pochissimo i prodotti con un alto costo unitario mentre quelli economici vengono gettati in maggior quantità. Confezioni più piccole dei cibi meno cari (magari con un occhio alla scelta di imballaggi sostenibili) ci aiuterebbero perciò a sprecare ancora meno a tavola con benefici per il portafoglio ma anche per l’ambiente, visto che per produrre ogni alimento servono risorse, materie prime ed energia. E.M.
La temperatura di un piatto può ingannarci sul suo reale contenuto calorico e questo ci spingerebbe a mangiare più cibi freddi, inclusi dessert e bevande. È quanto hanno scoperto i ricercatori della Grenoble École de Management, in Francia, che in una serie di studi hanno esaminato le abitudini alimentari di oltre 2.600 persone adulte di tutte le età fra Stati Uniti, Brasile e Francia. I risultati mostrano che la maggior parte delle persone ritiene un piatto caldo più nutriente, oltre che appetitoso, mentre lo stesso piatto servito freddo viene percepito come meno calorico. Ma si tratta di convinzioni errate, in grado di influenzare i giudizi e le preferenze dei consumatori: i partecipanti, ad esempio, erano disposti a pagare il 25% in più per un alimento servito caldo. I motivi dipendono da fattori fisiologici, psicologici o culturali: nella maggior parte delle culture, infatti, si attribuisce ai cibi caldi un alto potere saziante, e per questo rappresentano una parte importante dei pasti principali. Questa credenza può essere dovuta al fatto che digeriamo più facilmente il cibo caldo e ci aspettiamo che sia più gustoso. Inoltre, le persone che optano per alimenti freddi tendono a sottovalutarne il valore nutrizionale, consumandoli in misura superiore al dovuto e assumendo così maggiori quantità di calorie, grassi e carboidrati. R.M. Shutterstock
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Perché la nostra percezione cambia se lo stesso cibo è caldo o freddo?