Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
n°183 gennaio
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NELL’ARENA CON I COMBATTENTI PIÙ ACCLAMATI DI ROMA, CHE LI VOLEVA FORTI, CORAGGIOSI E PRONTI A MORIRE
VITA DA GLADIATORE 21 DICEMBRE 2021 - MENSILE � 4,90 IN ITALIA
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
NUDI E VEGANI SUL MONTE VERITÀ, IN UNA DELLE PRIME COMUNI DEL MONDO
NATALE DA RE
SPACCHETTIAMO I REGALI DI ZAR, SOVRANI E IMPERATORI
NO VAX DI IERI
IL VACCINO CONTRO IL VAIOLO? FU ACCOLTO MALISSIMO
183 Gennaio 2022
focusstoria.it
Storia In un quadro dell’800, gladiatori dopo la lotta.
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Emanuela Cruciano caporedattrice
RUBRICHE
4 LA PAGINA DEI LETTORI
6 NOVITÀ & SCOPERTE
8 TRAPASSATI ALLA STORIA 10 CHI L’HA INVENTATO? 12 MICROSTORIA FOTO DI COPERTINA: ARCANGEL
55 COMPITO IN CLASSE 60 GANGSTER STORY 62 CURIOSO PER CASO 64 PITTORACCONTI 97 AGENDA
In copertina: due rievocatori simulano un combattimento fra gladiatori.
IN PIÙ...
14 INOVECENTO primi hippie
All’alba del ’900 nella Svizzera italiana nasceva una delle prime comuni.
TRADIZIONI 20 Natale da re
CREDIT CRETIT
’ organizzatissima società romana seppe trasformare anche la violenza in uno spettacolo utile a tutti: a chi lo offriva per guadagnare consenso (l’imperatore), a chi vi assisteva per distrarsi dalla realtà quotidiana e illudersi di contare qualcosa (il popolo) e in qualche modo anche a chi ne era protagonista. Nelle arene i gladiatori, perlopiù schiavi, con i munera si sfidavano in combattimenti scenografici e feroci che potevano concludersi con la morte. Ma ai più abili regalavano una speranza: quella di diventare delle star, idoli osannati dal popolo, ricercati dalle donne e inondati di denaro. Il miraggio della fama nutriva la forza dei combattenti schiavi ma attirava sulla sabbia intrisa di sangue degli anfiteatri anche uomini liberi: volontari pronti a rischiare la vita pur di migliorarla. Il nostro Primo piano ridà voce a questi lottatori, descrivendone l’abilità, la (durissima) vita quotidiana, le armi, le tecniche di combattimento. Un racconto che indirettamente ci apre le porte sul nostro passato più glorioso e terribile.
CI TROVI ANCHE SU:
Lo scambio di doni? Avveniva anche tra re e capi di Stato.
SPETTACOLO E SANGUE NELL’ARENA
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Pronti a morire
Oltre i luoghi comuni, la realtà storica su gladiatori (e gladiatrici) che nelle arene romane combattevano e, spesso, morivano.
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Lottatori nell’arena
Le armi, le tattiche, le classi gladiatorie, gli avversari: così i combattenti più famosi si sfidavano per dare spettacolo.
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Sangue e sudore
Allenamenti durissimi, alloggi spartani e scomodi, i giochi spesso all’ultimo sangue: la vita quotidiana dei gladiatori non era certo invidiabile.
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Una giornata al Colosseo
Entriamo nell’Anfiteatro Flavio nei panni di uno spettatore e assistiamo a venatio, esecuzioni e combattimenti.
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Spartaco il ribelle
L’incredibile storia dei riottosi gladiatori che, guidati dal trace Spartaco, osarono sfidare Roma.
54 Per saperne di più
I gladiatori affascinano anche gli storici, che su di loro hanno indagato, scrivendo moltissimi libri: ve ne consigliamo alcuni.
MODA 68 Libere tutte
Dal reggiseno ai pantaloni unisex: i capi dell’emancipazione femminile.
ARTE 76 Collezionisti
sulla Moscova All’inizio del XX secolo, a comprare i quadri degli impressionisti erano i russi.
84 ISOCIETÀ pionieri dei no vax Tra ’800 e ’900, le campagne vaccinali obbligatorie contro il vaiolo scatenarono polemiche e paure.
CURIOSITÀ 90 Tutto per un maiale
Quando nel 1859 Usa e Impero britannico si azzuffarono a causa di un suino.
TEMI 94 LeI GRANDI Repubbliche
sorelle Nel 1796 in Italia nacquero governi ispirati al modello rivoluzionario francese. 3
SPECIALE
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ue delle Sette meraviglie del mondo antico erano fari: parliamo di quello di Alessandria e della statuafaro del Colosso di Rodi. E non è un caso: basti pensare al faro di Alessandria d’Egitto, i cui sedici secoli di vita spaziarono tra l’epoca di Alessandro Magno (IV secolo
a. C.) e quella di Dante Alighieri (XIV secolo) e la cui altezza stimata era di oltre 130 metri. Proprio ai fari e ai loro audaci costruttori sono dedicate una serie di puntate su Storia in Podcast: la giornalista Enrica Simonetti, autrice di vari libri sul tema, naviga con
lo scontro, rispettando la scelta del tenente Italiano. Per questo motivo, nella sinagoga di Torino il tenente Chiti è nominato tra i Giusti. Dopo la Liberazione e la resa delle forze armate della Rsi, Chiti venne internato nel famigerato campo di Coltano (Pisa), dal quale uscì scagionato da ogni accusa. Nell’attesa del rientro nel ricostituito Esercito italiano, ebbe incarichi di docenza presso il ginnasio dei Padri Scolopi in Puglia. Reintegrato nel grado venne comandato in missione nella ex colonia italiana di Somalia. Rientrato in patria ebbe importanti incarichi, presso la Brigata granatieri di Sardegna e, successivamente, presso la Scuola allievi sottufficiali. In questo contesto seppe esplicare la sua indole di educatore. Poi prese i voti, mutando uniforme. Dopo un periodo al Convento di Cittaducale (Rieti) il suo superiore padre Ubodi, lo inviò al convento di san Crispino, vicino a Orvieto, per seguire le opere di risistemazione del convento semidistrutto. Quasi ottantenne Padre Gianfranco Chiti si impegnò, non solo per la ricostruzione del Convento, ma anche per aiutare una comunità di giovani svantaggiati. Dopo la sua morte, la curia vescovile di Orvieto decise di iniziare la causa di beatificazione che si è conclusa, per la fase diocesana, il 30 marzo 2019. Tra le sue innumerevoli riflessioni di credente e soldato ricordo la seguente: “Chi inneggia alla guerra vuole vedere il bene sconfitto dal male”. Massimiliano Zonta
noi partendo dall’antichità fino ai fari-torre dell’Italia rinascimentale e alle lanterne ottocentesche. Un’ondata di vicende per raccontare un “mondo a parte”, tra mare e cielo. Online. Per ascoltare questa serie all’interno della nostra audioteca, che conta ormai
Ancora sulla Somalia
Vorrei integrare l’articolo “Lo scorno d’Africa”, pubblicato su Focus Storia n° 179, con alcune precisazioni. In primo luogo vorrei sottolineare che il trattato che stabiliva il protettorato italiano sul Sultanato di Obbia fu stipulato l’8 febbraio 1889 (e non nel 1888). Inoltre vorrei ricordare il nome dell’italiano che concluse i trattati: si trattava di Vincenzo Filonardi, console d’Italia a Zanzibar. Un’altra figura fondamentale nel periodo della colonizzazione italiana è quella di Mohammed Abdullah Hassan, soprannominato dagli inglesi “Mad Mullah” (“il mullah pazzo”). Questo leader religioso guidò un movimento spirituale e politico che si diffuse tra i somali, dando vita a una rivolta armata, “jihad”, contro i “kafir” (infedeli) colonialisti inglesi e italiani, nonché contro i vicini etiopi. Anche se nel 1904 l’Italia riuscì a stipulare un trattato con il mullah, creando il protettorato del Territorio del Nogal, la rivolta andò avanti fino alla morte del leader, nel 1920. Antonio Trinchese
oltre 300 podcast, basta collegarsi a storiainpodcast. focus.it nella sezione “Eventi e luoghi”. Gli episodi di Storia in Podcast – disponibili anche sulle principali piattaforme online di podcast – sono a cura del giornalista Francesco De Leo.
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I NOSTRI ERRORI Focus Storia n° 178, pag. 50, nell’articolo “E intanto a Roma…”, la didascalia della cartina recita “estensione dell’Impero romano all’epoca del suo fondatore Augusto”, ma nella cartina erroneamente è compresa la Dacia, conquistata da Traiano un secolo dopo.
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NOVECENTO
I PRIMI
All’alba del ’900 nella Svizzera italiana nacque una COMUNE alla ricerca di una vita pura. di Irene Merli 14
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Danza d’unione
Esercizio di euritmia sul Monte Verità nel 1904. Al centro, Raphael Friedeberg (col cappello), da sinistra a destra, Henri Oedenkoven e Ida Hofmann. Friedeberg, medico e anarchico, appena arrivato, non portava ancora gli abiti bianchi della Riforma.
FONDAZIONE MONTE VERITÀ/ FONDO HARALD SZEEMANN (10)
HIPPIE
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Ai coloni erano vietati prodotti animali, alcolici, tabacco, caffè e persino il sale
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asta mettere piede sul Monte Verità per essere investiti dalla sua forza. Un senso di pace e insieme di energia che spinge alla contemplazione anche oggi. Figuriamoci come apparve questa verdissima collina sopra Ascona, nel Canton Ticino (Svizzera), con vista spettacolare sul Lago Maggiore e sulle montagne, a chi arrivò qui all’inizio del XX secolo in cerca di una vita libera dalle catene della società. Sul monte, che allora si chiamava Monescia, nacque infatti una delle prime comuni europee, che professava una controcultura e capace di calamitare artisti, intellettuali e rivoluzionari, in nome dell’utopia.
I PIONIERI. Ma la storia merita di essere raccontata dall’inizio. Nell’autunno del 1900 sei giovani vagavano tra Monaco, l’Italia del Nord e la Svizzera del Sud. Il gruppo era formato da Henri Oedenkoven, belga, la sua compagna tedesca Ida Hofmann, Jenny, sorella di Ida, i due fratelli Gräser, Karl e Gusto, transilvani, e Lotte Hattemer, una berlinese ribelle. Portavano i capelli lunghi, domati da fasce, indossavano larghi abiti in lino bianco e semplici sandali sui piedi nudi: sembravano hippie ante litteram. Venivano da famiglie borghesi molto agiate, ma non sopportavano più un mondo troppo industrializzato, veloce, attaccato al denaro e che minacciava corpo e anima. Volevano una vita “alternativa”.
BAGNI DI SOLE
Appena arrivati ad Ascona, capirono di aver trovato il posto giusto: un enorme e rigoglioso bosco inerpicato su una collina alta 400 metri, affacciato sulle dolci acque del Verbano, dove non c’erano case né persone. La proprietà di 75mila metri quadrati era di Alfredo Pioda, un politico liberale di Locarno che fu felice di vendere a quei giovani desiderosi di mettere in pratica i principi della Lebensreform (Riforma
VEGETARIANI
Verso la luce
Sotto, da sinistra, momenti della vita sulla collina: il contatto diretto con aria e sole, nudità integrale, e il lavoro in orti e frutteti. A destra, la porta d’ingresso del Sanatorium.
– e iniziarono a coltivare orti e piantare alberi da frutto per molte ore al giorno. Il lavoro manuale faceva parte del programma e i coloni erano “vegetabiliani”: non assumevano nessun alimento di origine animale. Non solo. Sulla collina dell’utopia erano banditi tabacco, alcolici, caffè e persino il sale. Henri, Ida e gli altri si lavavano all’aperto anche d’inverno, sotto le docce, e completamente nudi prendevano bagni di sole e aria, considerati un benefico nutrimento di corpo e anima. Ma non praticavano il libero amore: anche se rifiutavano l’istituzione del matrimonio, preferivano fare coppia fissa. Quando non lavoravano si dedicavano a esercizi di ginnastica euritmica (una sorta di danza) e la sera si ritrovavano nella Casa Centrale, dove leggevano, discutevano, meditavano e facevano musica (Ida era un’affermata pianista).
LA CASA CENTRALE
Le serate
Sopra, la Casa Centrale nel 1904. In questo grande edificio in legno i membri della comune si trovavano la sera per mangiare, discutere, leggere, meditare, suonare, danzare.
SANATORIUM
della vita), un movimento radicato in Germania che professava il ritorno alla natura. Fu così che nacque la colonia di Monte Verità, come fu ribattezzato il Monescia.
LA VITA “VERDE”. I “monteveritani” si misero subito all’opera: costruirono capanne dette “aria-luce” – spartani chalet di legno che non avevano luce elettrica né acqua corrente
DA TUTTA EUROPA. Proprio la Casa Centrale, anch’essa di legno, nel 1904 diventò il Sanatorium Monte Verità, una specie di centro benessere dove gli ospiti accettavano l’esperienza comunitaria e pagavano come potevano, anche con il lavoro. A gestirlo erano rimasti Henri e Ida: Karl Gräser e Jenny, diventati una coppia in attesa di un bimbo, non sopportavano più la durezza della vita a Monte Verità e se ne andarono. Al contrario, Gusto si era ritirato a vivere in una grotta perché rifiutava l’elettricità che era intanto arrivata nella Casa Centrale. Dal Sanatorium iniziarono a passare molti ospiti: teosofi, riformatori, artisti, anarchici come Erich Mühsam, che definì il luogo la “repubblica dei senza patria” e voleva fondare la Società degli Ultimi, lo psicoanalista Otto Gross, che sognava di fondare l’Università per l’emancipazione dell’uomo, il filosofo e teologo Martin Buber, il politico e scrittore August Bebel. «Quasi subito arrivò anche lo scrittore Hermann Hesse, per disintossicarsi dall’alcol», spiega Nicoletta Mongini, responsabile cultura della Fondazione Monte Verità. «Hesse frequentò spesso l’eremita Gusto Gräser, cui si ispirò per alcuni personaggi dei suoi libri». LARGO AGLI ARTISTI. Nel 1913 da Zurigo giunse anche Rudolf von Laban, danzatore, coreografo, inventore della danza mimica: voleva trasferire sulla collina dell’utopia i suoi corsi estivi di danza. L’idea piacque molto ai fondatori e Laban ebbe un tale successo che a poco a poco il Sanatorium si trasformò in una comunità di artisti. Arrivarono così le grandi danzatrici Mary Wigman, Isadora Duncan e Charlotte Bara (che costruì il suo teatro alle pendici del monte), più avanti i dadaisti Hugo Ball e Tristan Tzara, oltre alla pittrice russa Marianne von Werefkin, che poi visse ad Ascona per tutta la vita. Il mix di spiritualismo, libera espressione artistica, alimentazione vegana, bellezza del 17
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Ecofriendly
A sinistra, la stanza di Karl Gräser. I mobili furono costruiti da lui usando soltanto rami intrecciati. Karl, transilvano, fu uno dei sei fondatori di Monte Verità, con il fratello Gusto.
ISADORA DUNCAN
luogo e mitezza del clima faceva da calamita per intellettuali e artisti eterodossi. E molto contava anche la scelta di neutralità della Svizzera nel periodo della Grande guerra. Sul Monte Verità si stava liberi e tranquilli, lontani dal conflitto e dalle città industrializzate e corrotte.
CARL GUSTAV JUNG
ARRIVA IL CAPITALE. Nel 1920 Ida ed Henri lasciarono per sempre il luogo dove avevano fondato la leggendaria colonia. Si era persa da tempo la spinta ideale iniziale e decisero di partire prima per la Spagna e poi per il Brasile, per provare a fondare altre comunità simili a quella monteveritana. Ma il mito di quella meta sacra, al di fuori dello spazio e del tempo, era diventato più grande della realtà. Per qualche tempo la struttura fu gestita da alcuni artisti bohémien, poi, nel 1926, tutto il complesso venne acquistato dal barone tedesco Eduard von der Heydt. Von der Heydt era il potente banchiere dell’ex imperatore tedesco Guglielmo II e uno dei maggiori collezionisti europei di arte contemporanea, orientale e primitiva. Il barone si stabilì nella Casa Anatta, l’ex dimora di Ida ed Henri costruita contro la roccia in stile teosofico, con angoli arrotondati e senza spigoli, doppi muri in legno, porte scorrevoli, soffitti a volta ed enormi finestre con vista sul paesaggio come suprema opera d’arte. 18
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Prendevano il SOLE nudi, ogni giorno, per trarre benefici per corpo e anima. Così i locali li chiamavano balabiot, in dialetto ticinese “persone che ballano svestite” L’HOTEL DEL BANCHIERE. Von der Heydt trasformò la casa in una lussuosa residenza privata e la arredò con le sue collezioni d’arte. «Fece poi costruire un hotel nello stile razionale e funzionale del Bauhaus, partendo dalla struttura della Casa Centrale, che ancora oggi è funzionante», continua Nicoletta Mongini. Ne risultò un albergo molto raffinato, anch’esso edificato contro la parete rocciosa, in cui il banchiere, che aveva tantissimi contatti internazionali, cercò di mantenere vivo lo spirito di Monte Verità ospitando personalità del calibro dello psicoanalista Carl Gustav Jung, maestri del Bauhaus come Gropius, Albers, Moholy-Nagy, il grande pittore svizzero Paul Klee. Infine,
il barone decise che alla sua morte tutta la proprietà sarebbe andata al Canton Ticino. Oggi, dopo alterne vicende, chi arriva sulla collina di Monte Verità può visitare una capanna aria-luce, le docce e vasche dei coloni, la piantagione, la casa del tè e, dal 2017, il museo di Casa Anatta, che ospita la mostra Monte Verità. Le mammelle della verità di Harald Szeemann, importante storico dell’arte che ha raccolto per anni testimonianze e documenti sulla collina delle utopie. E guardando il lago può riflettere sulla modernità di quei sei pionieri che oltre un secolo fa anticiparono temi come il vivere bio ed ecofriendly, la cura naturale del corpo e la cultura vegetariana, ancora oggi vitali • e discussi.
Ospiti illustri
Foto di gruppo al Sanatorium nel 1907: a sinistra, Henri Oedenkoven; al centro, con gli occhiali, lo scrittore Hermann Hesse. A destra, Gioia nella libertà, foto simbolo della mostra a Firenze (v. riquadro).
LA MOSTRA
A
l Museo Novecento di Firenze ha aperto Monte Verità. Back to Nature, una mostra dedicata alla collina dell‘utopia, ai fondatori della comunità sopra Ascona (Svizzera) e agli ospiti che trovarono lì un buen retiro lontano dalla Grande guerra e dagli scontri tra capitalismo e comunismo. L’esposizione, realizzata in collaborazione con la Fondazione Monte Verità, è divisa in tre tappe – le origini filosofiche della colonia, l’arte della danza e lo sviluppo dell’architettura – e rievoca quell’esperienza grazie a oggetti, plastici, fotografie, opere d’arte. Sono presenti la valigia di cuoio e cartone con cui giunsero Ida Hofmann e Henri Oedenkoven, la “sedia dei vegetariani” fatta di rami intrecciati, modelli delle capanne aria-luce, i menù “vegetabiliani”, foto d’epoca. Precursori. Altre immagini, suoni e abiti di scena illustrano la scuola di danza che il coreografo Rudolf von Laban tenne a Monte Verità dal 1913 al 1918. Il percorso comprende infine arredi usati per l’hotel in stile Bauhaus commissionato dal barone Eduard von der Heydt, proprietario del Monte Verità dal 1926, e opere di Hans Harp, Paul Klee e altri artisti ospitati. Firenze, Museo Novecento. Fino al 10 aprile 2022. Info: www. museonovecento.it 19
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PRIMO PIANO
SPARTACO Partirono in 70 e diventarono 100mila: l’incredibile storia dei gladiatori riottosi del I secolo a.C.
di Federica Ceccherini
IL RIBELLE
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ra le tante storie dei tempi dell’antica Roma ce n’è una particolarmente fortunata, sopravvissuta per oltre duemila anni e che, nonostante la scarsità delle fonti, è giunta fino a noi: la rivolta di Spartaco. Il gladiatore-schiavo che sfidò uno degli eserciti più potenti di ogni epoca, quello romano, tenendolo in
scacco per quasi tre anni e battendolo per nove volte. Correva l’anno 73 a.C. quando Spartaco, delle cui origini poco e nulla si sa, con un manipolo di seguaci suoi pari, fuggì dalla prigionescuola di gladiatori a Capua. La Roma repubblicana, nel pieno del suo splendore, aveva ormai il controllo dell’intera Penisola. La società era divisa in censi e poiché larghi strati della popolazione si stavano arricchendo, in molti possedevano schiavi. È stato calcolato che in tutto il territorio italiano, nel I secolo a.C. a fronte di 6 milioni di abitanti, vi fossero circa 2 milioni di schiavi. Aveva inoltre cominciato a prendere
piede, da qualche decennio, l’industria dell’intrattenimento, il cui fulcro erano i giochi nell’arena dei gladiatori, uomini condannati per qualche reato, scelti per i combattimenti all’ultimo sangue, per “deliziare” gli spettatori.
SCUOLA DI MORTE. Spartaco proveniva forse dalla Tracia (una regione tra Grecia Settentrionale, Bulgaria e Turchia) allora provincia romana particolarmente riottosa. Accusato di diserzione dall’esercito (così racconta lo storico alessandrino Appiano), fu venduto come schiavo a Roma. Acquistato da Gneo Lentulo Batiato, entrò nel suo ludus di Capua, a nord di Napoli.
Pensieroso
Statua settecentesca di Spartaco, al Louvre di Parigi. Sullo sfondo, i resti dell’anfiteatro di Capua, il secondo più grande dopo il Colosseo, dove probabilmente combatté Spartaco. 49
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I 70 gladiatori fuggitivi erano armati solo di spiedi e coltelli da cucina Qui gli uomini erano sottoposti a una ferrea disciplina e ad allenamenti estenuanti, costretti a combattere fra loro nell’arena fino alla morte di uno dei due. Così i gladiatori, circa 200 anime, progettarono un’evasione. Il primo tentativo fallì, perché qualcuno tradì. Ci riprovarono 70 irriducibili, nottetempo. «Armatisi di coltelli e spiedi da cucina riuscirono a fuggire», racconta Theresa Urbainczyk nel suo libro Spartaco (Il Mulino). «È possibile che il piano originale prevedesse maggiore preparazione poiché gli utensili da cucina non sembrano armi adeguate a combattere contro i soldati. Ma la fortuna fu dalla parte dei ribelli. Una volta fuori dalla scuola, trovarono casualmente un carro pieno di armi da gladiatore e se ne impossessarono». I fuggitivi se la dettero a gambe dileguandosi verso sud. Si fermarono a 40 km da Capua, sul Vesuvio. Qui elessero i loro capi: Spartaco, Enomao e Crisso. Dopo un primo scontro con le guardie del ludus di Batiato, mandate per riportarli indietro, i ribelli
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vittoriosi si impossessarono delle armi dei soldati (abbandonando, racconta Plutarco, quelle “disonorevoli” da gladiatore) e si rifugiarono in cima al vulcano.
ASTUZIA E FORZA. Visti i deludenti risultati delle guardie, i Romani decisero di mandare l’esercito, circa 3mila uomini guidati dal pretore Gaio Claudio Glabro. Come si suol dire, “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”. E certo uomini abituati all’addestramento con il gladio non erano persone che si spaventavano facilmente, anche perché erano stati abituati a vincere o morire. C’è da dire però che se i gladiatori ribelli erano pronti a tutto, combattere in 70, male armati, contro migliaia di soldati regolari sarebbe stato comunque un suicidio. Così, Spartaco e i suoi usarono l’astuzia. I Romani si accamparono a valle del Vesuvio sbarrando l’unica via di uscita (un piccolo sentiero) e lì attesero, convinti che la fame e la sete
avrebbero spinto i nemici da quella parte. Ma i gladiatori non aspettarono i morsi della fame e si giocarono il tutto per tutto. Spartaco ordinò di costruire delle scalette intrecciando i tralci di vite selvatica che cresceva rigogliosa nella zona. Con quelle scesero a valle senza passare per il sentiero, cogliedo i soldati di sorpresa: impreparati, i legionari furono costretti a ritirarsi. Per loro, fu soltanto la prima di una sfilza di sconfitte. Le autorità di Roma, ancora convinte di poter reprimere la ribellione facilmente, inviarono un altro comandante, il pretore Publio Varinio. Ma anche lui fu battuto.
CAMBIO DI PROGRAMMA. Esaltati dalle vittorie di Spartaco, molti schiavi cominciarono a unirsi ai ribelli. Si racconta che, all’apice della rivolta, gli uomini al seguito del gladiatore trace arrivarono a essere addirittura 100mila (70mila secondo altre fonti), un numero impressionante. «Se è vero, questo significa che essi superavano ampiamente le forze – meno di 10mila uomini – inviate contro di loro», spiega la storica. «Il fatto che Spartaco e i suoi comandanti fossero in grado di rifornire di armi e di viveri anche solo la metà di questi uomini è già di per sé un grande effetto». Ma come
Oh issa!
I ribelli sul Vesuvio preparano le scalette per calarsi e cogliere di sorpresa i legionari che li braccavano.
riuscivano a farlo? «Paradossalmente, le armate romane contribuivano a mantenerli. Ogni volta che vincevano, gli schiavi sapevano fare buon uso delle ottime provviste delle forze romane». L’armata di Spartaco lasciato il Vesuvio prese la via del nord e, sebbene fosse accerchiata da due eserciti, riuscì a valicare l’Appennino. «Il viaggio fu in un certo senso facilitato dagli stessi
Romani, che da sempre si gloriavano delle proprie strade. Il loro sistema di comunicazione venne usato utilmente dai nemici». I ribelli sembravano imbattibili e la libertà pareva vicina. Eppure, una volta raggiunta Mutina (l’odierna Modena) e ottenuta qui l’ennesima vittoria, questa volta sulle legioni del proconsole Gaio Cassio Longino Varo, Spartaco e i suoi fecero dietrofront.
Una decisione inaspettata. Quando ormai stavano per raggiungere, come si pensa volessero fare, le loro rispettive patrie (erano soprattutto Galli, Germani e Celti), decisero invece di tornare indietro e puntare verso sud. Perché? Molti storici hanno tentato di dare una spiegazione. Ma nessuno c’è riuscito, e le poche fonti a disposizione non aiutano. Qualcuno (non gli storici però) ha voluto vederci una mossa da “rivoluzionario”: Spartaco avrebbe cambiato itinerario perché aveva un piano, cioè marciare su Roma e rovesciare un potere oppressivo. Un’interpretazione romantica che però nulla ha a che vedere con quello che accadde davvero. Con quella decisione i ribelli non solo non presero Roma (non ci provarono nemmeno), ma finirono in un vicolo cieco.
NEMICO PUBBLICO. Spartaco, non è chiaro perché, voleva raggiungere la Sicilia. Una volta arrivato alla punta dello Stivale organizzò la traversata dello Stretto di Messina, accordandosi con gli “operatori locali”, pirati dediti alla tratta degli schiavi. I trafficanti di uomini però non sono il massimo dell’affidabilità e all’ultimo si tirarono indietro, lasciando i rivoltosi a scrutare l’isola all’orizzonte. I Romani intanto
Arena campana
L’anfiteatro di Capua. Del complesso faceva parte la scuola di gladiatori dalla quale Spartaco riuscì a fuggire. 51
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Un eroe da kolossal
“S
partaco emerge come uno dei migliori protagonisti dell'intera storia antica. Un grande generale (non un Garibaldi), un carattere nobile, un genuino rappresentante dell’antico proletariato”. Così scrisse Karl Marx. La vicenda e la reputazione di Spartaco hanno avuto grande risonanza nel mondo in tutte le epoche. A inizio Novecento, associato al socialismo, fu visto come paladino degli
Uccise il suo cavallo, perché voleva morire a piedi come i suoi stavano per calare la carta vincente: Marco Licino Crasso. Crasso era un aristocratico ambiziosissimo, ex pretore talmente ricco (comprava palazzi incendiati, li risistemava e li rivendeva) da potersi permettere di pagare di tasca propria un esercito. Arruolò sei legioni e prese il comando di altre due che si trovavano già sul campo: 40mila soldati in tutto. Ambizioso com’era, voleva battere Spartaco a tutti i costi e sapeva che per riuscirci doveva “motivare” i suoi uomini. Usò il metodo della decimazione. «La decimatio era la peggiore punizione che i soldati potessero ricevere», spiega Urbainczyk. «Veniva estratto a sorte un uomo ogni dieci che veniva percosso a morte dai propri compagni d’arme. Era la misura riservata a condotte estreme, come la disobbedienza o la codardia». Per Plutarco, con la decimazione ci furono 50 vittime, per altri diverse migliaia. Ma non finì qui. A Crasso venne l’idea di costruire un vallo trincerando da parte a parte l’estremità della Calabria, tra Ionio e Tirreno. «È un’idea che a noi pare incredibile, perché la distanza coperta deve essere stata di circa 55 chilometri, anche se non sappiamo esattamente dove il vallo venne costruito». Nel tentativo di superarlo, morirono in migliaia per mano dei soldati: le fonti parlano di 12mila caduti in un solo giorno. 52
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oppressi dai rivoluzionari russi. Mentre in Germania, il gruppo socialista rivoluzionario di Rosa Luxemburg nel 1914 fondò non a caso la Lega detta “di Spartaco”. A lui sono stati dedicati romanzi, opere teatrali e persino un balletto nel 1954. Ma il gladiatore trace sembra perfetto soprattutto per la fiction: su di lui sono stati girati 4 film. E in anni più recenti 2 serie tv. Tra i film il più
famoso vi è il kolossal di Stanley Kubrick, Spartacus, del 1960, protagonista Kirk Douglas (a destra, in una scena), che ne fu anche il produttore. Black list. Il film ha una storia particolare. Howard Fast aveva scritto in prigione il libro da cui è tratta la pellicola: considerato comunista, era finito sulla “lista nera” del maccartismo. Anche il noto sceneggiatore
Dalton Trumbo, scelto per il film ma da un decennio tra i “dieci ostili” di Hollywood, non poteva varcare la soglia degli studios e doveva lavorare sotto pseudonimo. Douglas, nel suo libro Io sono Spartaco (Il Saggiatore), racconta la travagliata realizzazione del film, che ebbe però un lieto fine: nel 1960 uscì con i veri nomi dei due autori nei titoli di testa.
Travolti
In un’illustrazione del XIX secolo, l’ultima battaglia di Spartaco, che morì sul campo. Secondo gli storici antichi i suoi resti non vennero mai ritrovati. Altri 6mila ribelli furono crocifissi.
CROCIFISSI. A questo punto tutto era perduto e Spartaco lo sapeva: uccise il suo cavallo per morire come tutti gli altri, a piedi. Tentò un ultimo disperato assalto a Crasso, ma venne trafitto da un giavellotto. “Caduto in ginocchio e gettato lo scudo, resistette agli assalitori, finché egli e un gran numero dei suoi accerchiati, caddero”, scrive Appiano. I sopravvissuti si dettero alla fuga disordinata, 6mila vennero catturati e crocifissi lungo la strada che separa Capua da Roma (200 km), una pena che i Romani usavano come deterrente. Era il 71 a.C. e Spartaco era stato sconfitto, ma nonostante l’impegno, per Crasso non ci fu il trionfo (massima onorificenza militare). Dovette accontentarsi di una ovatio (ovazione), perché gli schiavi non erano considerati nemici abbastanza “appropriati”. NEL MITO. Se per i Romani Spartaco, in quanto schiavo, era un nemico “inappropriato”, nel nostro immaginario è un eroe degli oppressi, una specie di Che Guevara dell’antichità (v. riquadro in alto). E questo nonostante (o forse proprio per questo) le poche informazioni che si ricavano dai suoi contemporanei, dato che le ricostruzioni della vicenda di storici come Sallustio, Livio e Cicerone sono giunte fino a noi in forma frammentaria. Tra gli storici successivi ne parla Appiano (II secolo d.C.), che però descrivendo la straordinaria impresa di Spartaco gli attribuisce anche nefandezze, razzie e violenze. Chi, allora, ha idealizzato il ricordo di Spartaco? Plutarco, autore greco vissuto 150 anni dopo i fatti. Nelle sue Vite, raccontando di Crasso, stirpe aristocratica ma uomo avido e immorale, lo contrappone a Spartaco, nobile d’animo e giusto tra gli oppressi. Facendo così la fortuna postuma di un gladiatore ribelle. • 53
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