FOCUS STORIA n.200 - Giugno 2023

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200 23 MAGGIO 2023 GIUGNO 2023 Quante ne ha viste il nostro Mar Mediterraneo, per secoli ombelico del mondo e crocevia di civiltà...
Mare di Mezzo Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona � 4,90 IN ITALIA CULTURA Quel salotto di New York che nel 1970 diede origine al termine “radical chic” DON MILANI Il sacerdote scomodo che insegnava la libertà di coscienza GIALLI & MISTERI PERCY FAWCETT La misteriosa fine del vero Indiana Jones Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE MENSILEAUT 10,00 €BE 9,60 €D 12,00 €PTE CONT. 8,70 €E 8,70 €USA 13,80 $CH 11,50 ChfCH CT 11,30 Chf
Il

Storia

Il Mar Mediterraneo (dal latino mediterraneus, cioè “in mezzo alle terre”) annuncia già nel nome quello che è: un enorme bacino chiuso fra le sponde di tre continenti e interrotto dalla singolare propaggine della nostra Penisola. Questa posizione strategica – del Mediterraneo e dell’Italia – ha avuto più di un effetto nella Storia. Meglio ancora: l’ha scritta. Poiché il Mediterraneo era la via di comunicazione più importante nei lunghi secoli in cui le strade erano poche e malmesse, sulle coste della Penisola genti diverse hanno trovato terre da conquistare, baie in cui riparare, mercati per commerciare. In uno scambio reciproco che ha diffuso merci, cultura, tecnologia, persone. I Romani, con la consueta modestia, ribattezzarono queste acque Mare Nostrum, senza del resto sbagliare più di tanto. L’Italia e il Mediterraneo sono stati infatti protagonisti degli eventi per due millenni, fino a quando altre acque, ben più vaste e strategiche, dirottarono gli interessi del mondo verso nuove conquiste. Ma questa è un’altra storia.

Emanuela Cruciano caporedattrice

Una bireme pronta a lasciare il porto, in un mosaico romano.

MEDITERRANEO PROTAGONISTA

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Il mare di mezzo

Per millenni il Mediterraneo è stato il crocevia delle civiltà che vi si sono affacciate.

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Guerra ai pirati

Pompeo Magno, grande comandante romano di terra e di mare, in tre mesi sconfisse i predoni.

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I doni del Mediterraneo

Il Mare Nostrum è un bacino chiuso, ma da sempre aperto agli scambi.

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Le civiltà del mare

Il Mediterraneo è stato luogo di incontro e di scontro tra molti popoli. Ecco quali.

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Il tramonto sul mare Tra XV e XVI secolo iniziò il declino del Mediterraneo.

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L’onda lunga del principe

La lunga vita (94 anni) di Andrea Doria, il più forte e infaticabile condottiero navale del Cinquecento.

52

Il sogno affondato

Mussolini credeva nel diritto “naturale” dell’Italia di controllare il Mediterraneo.

56

Mar d’Africa

I dirimpettai Italia e Libia condividono una lunga storia.

60

Oltre i confini

Le imprese, epiche, del navigatore greco Imilcone.

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Passaggi cruciali

Stretti e canali hanno aperto le acque del Mediterraneo, ma per il loro controllo si è versato molto sangue.

In copertina: un emporio del Mediterraneo e Andrea Doria-Nettuno.

IN PIÙ...

13 CULTURA

Chi ha paura delle biblioteche?

Per colpire i nemici si distrugge anche la loro cultura: è successo per secoli.

18 COSTUME

L’arte della moda

Gli ultimi due secoli di moda dipinti dai grandi artisti.

24 GIALLO STORICO Ossessione fatale Percy Fawcett, l’esploratore che ha ispirato il personaggio di Indiana Jones.

70 COSTUME Metti un ribelle a cena All’origine della definizione “radical chic”, nata a Manhattan negli anni Settanta.

76 PSICOLOGIA Nella mente dei nazisti

La personalità dei gerarchi del Terzo Reich, analizzata con gli strumenti del criminal profiling.

81 OTTOCENTO Sul bel Danubio blu

1873: Francesco Giuseppe porta a Vienna l’Esposizione Universale.

86 PERSONAGGI

Il maestro degli ultimi

Don Milani e la sua scuola di Barbiana.

92 ARCHITETTURA Voci di palazzo

A Torino, la lunga evoluzione di Palazzo Madama, tra fatti storici e architettura.

Giugno 2023 200 4 LA PAGINA DEI LETTORI 6 UNA GIORNATA DA... 8 CHI L’HA INVENTATO? 10 NOVITÀ & SCOPERTE 68 PITTORACCONTI 98 AGENDA RUBRICHE focusstoria.it CI TROVI ANCHE SU:
IMMAGINE DI COPERTINA MONDADORI PORTFOLIO
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3 S

Nondire gatto finché non ce l’hai nel... podcast. Su Storia in podcast abbiamo dedicato un’intera puntata ai gatti e al loro rapporto con re e regine del passato: abbiamo selezionato sette razze, ovvero l’angora turco, il persiano, il siamese, il khao Manee, il birmano, il

bobtail giapponese e il blu di Russia. D’altronde i gatti sono stati associati alla regalità fin dall’antichità. Per par condicio, però, abbiamo realizzato un’intera serie su cani famosi: da Laika, primo essere vivente ad andare nello Spazio, a Lessie, il cane del cinema per antonomasia,

Cartoline da Messina

passando per Balto, il cane da slitta che nel 1925, durante l’attacco di difterite che colpì la città di Nome, in Alaska, trainò la slitta che trasportava l’antitossina nell’ultimo tratto per portarla in città. A portata di cuffie. Per ascoltare i nostri podcast

(dalle biografie di personaggi ai grandi eventi storici) basta collegarsi al sito della nostra audioteca storiainpodcast. focus.it. Gli episodi –disponibili gratuitamente anche sulle piattaforme online di podcast – sono a cura del giornalista Francesco De Leo.

So no un collezionista di cartoline e questo mese ho comprato una cartolina del ponte sullo Stretto di Messina. In un primo momento ho pensato al ponte di Brooklyn o al Golden Gate Bridge di San Francisco, solo dopo mi sono accorto che l’immagine riguardava il famoso ponte dello Stretto di Messina mai realizzato. Questa cartolina mi ha fatto ricordare un vostro servizio di qualche anno fa, riguardante la corruzione all’epoca del fascismo, servizio che se non ricordo male s’intitolava “Mazzetta nera”, in questo caso possiamo dire “Mazzetta bianca” visto che c’era la Dc al governo. Per finire, volevo ricordare che la nascita di questa idea è databile al 1959, come testimoniano il timbro postale e il francobollo della serie preolimpica di quell’anno che si trovano sul retro della cartolina che ho acquistato.

dell’Impero romano. L’anziana madre di Costantino, Elena, coinvolta in quanto era successo, si recò in Palestina in un pellegrinaggio espiatorio.

In seguito, per nascondere la verità, nacque la leggenda che si sarebbe recata in Terra Santa per cercare la “Vera croce” e altre reliquie, dando così inizio alla loro venerazione. Costantinopoli divenne la nuova capitale imperiale, lasciando Roma e l’Occidente alla mercé delle invasioni barbariche.

Infine, nell’ VIII-IX secolo, Roma si risollevò come Stato Pontificio con un nuovo imperatore occidentale, in qualità di braccio secolare, (Carlo Magno), grazie alla famosa leggenda della “Donazione di Costantino”, secondo la quale Costantino avrebbe lasciato l’Urbe e tutto l’Occidente

al vescovo di Roma, Silvestro, come ringraziamento per essere stato guarito dalla lebbra in seguito al battesimo. Questa leggenda nacque per nascondere il vero battesimo di Costantino da parte del vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, per purificarlo da ogni crimine, come affermò il nipote Giuliano. Anzi Giuliano ricordò anche che, dopo il battesimo purificatore, chiunque avrebbe potuto essere nuovamente assolto con il sistema penitenziale in caso di nuovi crimini. Dopo la morte di Costantino seguì un’altra strage di parenti che avrebbero potuto ostacolare la successione degli stessi figli. Da questo massacro si salvarono solo Giuliano e il fratello Gallo perché ritenuti innocui per la giovane età.

Silvano Servi, Piombino (Livorno)

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I NOSTRI ERRORI

Focus Storia n° 198, pag. 7, abbiamo scritto erroneamente che gli Accordi del Venerdì Santo avvennero nel 1988, invece che nel 1998.

SPECIALE
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Nell’arco di quattro millenni, il Mediterraneo è stato luogo

Geografia delle

Popolo germanico originario del Baltico, nel 400 invasero la Gallia e poi la Spagna, dove fondarono un regno. Abili navigatori (dallo stile piratesco) si stabilirono anche sulle coste nordafricane. Nel 455 saccheggiarono Roma, ma furono poi sconfitti dai Bizantini.

Per conquistare nuove terre era fondamentale sapersi muovere (e combattere) in mare. Dai Fenici ai Vandali, furono sempre premiati i migliori navigatori.

Nata dall’unione dinastica tra il Regno d’Aragona e la Contea di Barcellona, la dinastia d’Aragona si espanse verso il Mediterraneo riprendendo la Penisola iberica dagli Arabi (Reconquista, XV secolo) e occupando Sicilia, Sardegna e Regno di Napoli.

Il nome deriva dai “nuraghi”, costruzioni megalitiche ancora oggi sparse per la Sardegna. I Nuragici sopravvissero alle successive civiltà arrivate nell’isola (come i Fenici e i Romani), anche se il loro declino era cominciato già con l’Età del ferro.

Sotto la guida di Annibale, i Cartaginesi (che avevano conquistato anche la Sardegna, Malta, le Baleari e avevano basi in Sicilia e in Spagna) misero in pericolo il dominio romano, ma uscirono sconfitti dalle tre Guerre puniche. Nel 146 a.C. Cartagine fu distrutta.

Nel momento di massima espansione (I-II secolo d.C.) dominarono l’intero Mediterraneo. Appresero l’arte della navigazione dagli Etruschi e compirono il salto di qualità con le tre Guerre puniche (III-II secolo a.C.), quando affrontarono e vinsero i Cartaginesi.

Gruppo di tribù indoeuropee affini ai Traci, occupavano la parte nordoccidentale della Penisola balcanica e si insediarono sulle coste dell’Italia adriatica. Feroci e dediti alla pirateria, furono sconfitti dai Romani dopo le tre cosiddette Guerre illiriche.

Non si sa se autoctoni o arrivati forse dall’Asia Minore, occuparono l’Etruria (Toscana-Lazio), la Campania e l’Emilia. Il declino cominciò con la conquista sannita della Campania, con le invasioni galliche della Pianura padana e, soprattutto, con l’ascesa di Roma.

Detti anche Vichinghi, comprendevano popolazioni germaniche che abitavano le regioni scandinave. Intorno all’Anno Mille occuparono l’Italia Meridionale e la Sicilia, quindi la Tunisia, la Tripolitania e, durante la Prima crociata, Antiochia (Turchia).

Per mano del loro re Alessandro Magno, in soli 12 anni conquistarono l’intero Impero persiano (dall’Asia Minore all’Egitto, all’ India Settentrionale) diffondendo la cultura greca e inaugurando la civiltà ellenistica (fu la “globalizzazione” del Mediterraneo).

3 6 5 8 4 1 2 7
Cartagine Siracusa Roma Cordova
M a r M e d i t e r r a n e o
4 ARAGONESI
2
CARTAGINESI IX-II SECOLO A.C. XII-XVIII SECOLO
ETRUSCHI
VIII-I SECOLO A.C.
5
6
3
ROMANI VIII SECOLO A.C.-V SECOLO D.C.
NURAGICI
XVIII-II SECOLO A.C. NORMANNI XI-XII SECOLO
7
MACEDONI IV SECOLO A.C. 9 ILLIRI V-I SECOLO A.C. 8 1 VANDALI I-VI SECOLO
44 S PRIMO PIANO

civiltà del mare

La civiltà sviluppatasi in Grecia, sulle coste occidentali della Turchia, nell’Italia Meridionale (Magna Grecia) e in Sicilia si fondava su città-Stato. La più importante fu Atene, in cui vennero poste le basi della democrazia oltre che della cultura occidentale.

Di cultura greca e religione cristianoorientale, l’Impero bizantino era l’erede dell’Impero romano d’Oriente. Così chiamato dalla capitale, l’antica Bisanzio (poi Costantinopoli), cessò di esistere nel 1453 con l’arrivo degli Ottomani di Maometto II.

Di stirpe camitica, la civiltà egizia si sviluppò lungo le rive del Nilo. Nata dall’unione di due regni (Alto e Basso Egitto), durò quasi 3mila anni (fino a che Alessandro Magno conquistò il Paese) e fu governata da 31 dinastie, indigene o straniere.

Di origine semitica, intorno al 1000 a.C. dominarono incontrastati, per circa due secoli, il Mediterraneo (nella cartina, in marrone la loro espansione). Abili marinai, furono assoldati dagli Egizi e fondarono colonie in Nord Africa (Cartagine) e in Spagna.

La loro identità è misteriosa. Gli Egizi, che li sconfissero nel XII secolo a.C., li chiamavano “invasori del grande verde” (cioè del mare). Di stirpe indoeuropea, comprendevano gli Aqajwasha, gli Sherden e i Tursha, identificati da alcuni studiosi con Achei, Sardi ed Etruschi.

Provenienti dal bacino del Danubio, migrarono in Grecia dando vita a una serie di città indipendenti. Estesero i domini fino a Rodi, Creta, Cipro e (forse) l’Italia del Sud. Decaddero in seguito alle ondate migratorie da nord, dei Dori e dei Popoli del mare.

L’Impero turco-ottomano fu tra i più longevi della Storia: durò fino alla Prima guerra mondiale. Raggiunse l’apogeo con Solimano il Magnifico (XVI secolo), quando controllava Balcani, Medio Oriente e Nord Africa. La capitale era Costantinopoli (oggi Istanbul).

Originari della Penisola arabica, occuparono l’area meridionale del Mediterraneo (Vicino e Medio Oriente, Africa Settentrionale, Spagna e Sicilia) diffondendovi la loro cultura e la religione islamica. In Oriente arrivarono fino al subcontinente indiano e oltre.

A Creta sorse la prima civiltà mediterranea, detta minoica (dal mitico re Minosse), che fiorì grazie ai commerci con il Medio Oriente. Centro delle attività economiche e politiche erano i palazzi, come quello di Cnosso. La civiltà minoica fu distrutta dai Micenei.

Antica popolazione indoeuropea dell’Asia Minore originaria del Caucaso che si stabilì in Anatolia. Primi a usare il carro da guerra, gli Ittiti fondarono un grande impero che raggiunse l’Egeo e l’Egitto. Furono sconfitti dai Popoli del mare (v. scheda n° 18).

Discendenti di tribù indoiraniche, comprendevano Persiani, Medi e Parti. L’impero persiano con la dinastia achemenide nel VI-V secolo a.C. si estendeva dalle coste occidentali dell’Asia Minore al Caucaso, dall’India alla Valle del Nilo. Finì con la conquista araba.

9 10 13 19 12 14 15 18 16 20 17 CRETA Atene Antiochia Alessandria Tiro Micene Costantinopoli Pergamo
M a r N e r o 11 OTTOMANI XIII-XX SECOLO 14 BIZANTINI IV-XV SECOLO 13 GRECI XI-IV SECOLO A.C. 10 ITTITI XX-XII SECOLO A.C. 15 POPOLI DEL MARE XIV-XII SECOLO A.C. 18 FENICI XIII-III SECOLO A.C. 17 MINOICI XX-XV SECOLO A.C. 12 MICENEI XVII-XI SECOLO A.C. 11 EGIZI XXX-IV SECOLO A.C. 16 PERSIANI VII SECOLO A.C.-VII SECOLO D.C. 20 ARABI VII-XI SECOLO 19
di incontro e di scontro tra molti popoli. Ecco i principali.
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Già prima di arrivare al potere, Mussolini parlò del diritto

IL SOGNO

Il destino d’Italia

Benito Mussolini passa in rassegna un equipaggio della Marina militare nel 1942. In alto a destra, illustrazione di propaganda bellica del 1944, con la frase “ll nostro destino è stato e sarà  sempre sul mare. Mussolini”

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AFFONDATO “G

overnando bene la Nazione […], facendo del Mediterraneo il lago nostro, alleandoci, cioè, con quelli che nel Mediterraneo vivono, ed espellendo coloro che del Mediterraneo sono i parassiti, noi inaugureremo veramente un periodo grandioso della storia italiana” Con queste parole pronunciate il 4 ottobre 1922, alcune settimane prima della Marcia su Roma, Benito Mussolini chiarì che il Mar Mediterraneo era al centro del futuro progetto espansionista del fascismo. Prima ancora di arrivare al potere, il duce annunciò la volontà di ripristinare in chiave moderna il dominio dell’Impero romano sui mari risalente alle vittoriose guerre contro Cartagine del III e II secolo a.C. Per la sua posizione geografica, sosteneva, l’Italia deteneva una sorta di diritto naturale al controllo dell’area.

SPAZIO VITALE. Durante il Ventennio il concetto di “Mare Nostrum” fu ribadito di continuo dalla propaganda fascista, che lo utilizzò in modo simile a quello dello “spazio vitale” teorizzato da Hitler. Per fare dell’Italia la principale potenza mediterranea il regime potenziò la Marina militare e indirizzò fin dagli Anni ’30 la politica estera italiana verso un progetto di conquista territoriale dell’Europa mediterranea che prevedeva anche il controllo dello Stretto di Gibilterra e de Canale di Suez, la cui importanza politico-commerciale era ritenuta strategica per il futuro della nazione. «Obiettivo storico del fascismo fu l’espansione territoriale, all’interno del quale l’uomo nuovo fascista avrebbe prosperato», spiega lo storico Davide Rodogno, autore di Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia

fascista in Europa (1940-1943)

(Bollati Boringhieri) «Nizza, Corsica, Savoia, Dalmazia e isole Ionie furono rivendicate accampando presunte prove storiche di italianità e altrettanto presunti diritti d’annessione. Il litorale orientale adriatico era considerato italiano perché era stato veneziano e ancora prima romano, la Corsica perché genovese, la Savoia in quanto culla della dinastia sabauda. Poco importava che da secoli questi territori appartenessero ad altri Stati», prosegue Rodogno.

LA GUERRA. Nel novembre 1938, mentre si preparava a far entrare l’Italia nella Seconda guerra mondiale, Mussolini delineò al Gran consiglio del fascismo gli obiettivi da raggiungere a breve: Tunisia, Corsica e Albania, poi Malta e Cipro, infine Suez e Gibilterra. Da quel momento in poi il servizio informazioni dell’esercito, i consolati, gli accademici e la stampa 

“naturale” dell’Italia di controllare il Mediterraneo.
AKG_IMAGES/MONDADORI PORTFOLIO
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MONDADORI PORTFOLIO/FOTOTECA GILARDI

pubblicarono un’enorme mole di notizie sulla composizione geografica, sugli usi, i costumi, la lingua e l’economia dei territori che rientravano nel progetto espansionistico fascista e fornirono al regime presunte basi giuridiche e prove scientifiche per giustificare le annessioni. Il punto di non ritorno fu raggiunto con l’occupazione dell’Albania nell’aprile del 1939 e con la successiva firma del Patto d’acciaio con Hitler.

Quando il 10 giugno 1940 il duce annunciò l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista, l’Italia era già una potenza mediterranea che controllava le sponde nord e sud del Mediterraneo. Davanti alla folla riunita a Roma, in piazza Venezia, tuonò: “Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano”.

In un primo momento tutto sembrò volgere nel senso auspicato da Mussolini: la caduta della Francia rimosse la minaccia principale a ovest mentre il controllo dell’Albania, e poi l’occupazione della Grecia e di parte dell’Egitto estesero il controllo nazifascista a est. «Fino alla sconfitta della Francia, però, i fascisti non compresero che l’espansione nazista rispondeva a un progetto di dominazione illimitata ed esclusiva, in cui l’Italia avrebbe avuto al massimo un ruolo subordinato al Reich»,

Alla riconquista

Mussolini al largo di Genova. Nell’altra pagina, il duce in visita al capoluogo ligure. Il fascismo rivendicava in nome di un presunto “diritto storico” anche la Corsica, appartenuta alla Repubblica di Genova.

sostiene Rodogno. «Prima d’allora vagheggiarono sulla divisione delle due sfere di influenza illudendosi che lo spazio euro-africano potesse essere suddiviso, ovvero la Mitteleuropa ai nazisti e il Mediterraneo ai fascisti».

LA DURA REALTÀ. Durante la guerra Mussolini e i suoi gerarchi

La battaglia di P unta Stilo

Ilprimo confronto diretto tra la flotta britannica e quella italiana nel Mediterraneo, al largo delle coste ioniche della Calabria, fu anche la prima vera battaglia aeronavale della Storia. Mai, prima del 9 luglio 1940 si erano scontrate due flotte di navi da battaglia con un intervento massiccio dell’aviazione, come a Punta Stilo. Tutto ebbe inizio perché la Regia Marina doveva scortare un grosso convoglio di rifornimenti verso la Libia, mentre la flotta britannica stava scortando due convogli diretti da Malta ad Alessandria d’Egitto. La flotta italiana ricevette l’ordine di concentrarsi verso le coste orientali della Calabria nella convinzione che il nemico avrebbe attaccato le basi navali della Sicilia. In trappola. Il piano era quello di attirare i britannici in una trappola con massicci attacchi aerei e uno sbarramento di sommergibili, bloccando le corazzate nemiche per poi attaccare il resto della flotta avversaria in condizioni favorevoli. Ma l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della flotta britannica del Mediterraneo, arrivò di sorpresa alle spalle delle navi italiane e riuscì a colpire prima la corazzata Giulio Cesare, poi l’incrociatore Bolzano e il cacciatorpediniere Alfieri

Costringendo infine il comandante della flotta italiana, ammiraglio Inigo Campioni, a ritirarsi verso lo Stretto di Messina.

idearono un progetto ambizioso di talassocrazia, un dominio sui mari che prevedeva la creazione di un impero marittimo che andasse dalla Libia all’Africa Orientale, con l’acquisizione dell’Egitto, del Canale di Suez e del Sudan. Ma il progetto si scontrò fin da subito con lo strapotere navale delle forze alleate. Nonostante la resa della Francia ai nazisti, la Marina britannica si dimostrò sufficientemente forte da chiudere il Mediterraneo, bloccando Gibilterra e Suez.

Il primo scontro tra la flotta britannica e quella italiana fu la battaglia di Punta Stilo (Calabria) del luglio 1940 (v. riquadro) che si concluse senza perdite. Il successivo attacco degli aerosiluranti inglesi alla base navale di Taranto (11 novembre 1940) mostrò invece tutta la vulnerabilità della flotta italiana. Tre delle sei corazzate di cui disponeva l’Italia furono messe fuori combattimento segnando la fine delle speranze della Regia Marina di poter infliggere danni decisivi alle forze nemiche. L’episodio di Taranto,

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insieme alla catastrofica invasione della Grecia e alle sconfitte in Africa del Nord, segnò l’inizio della guerra subalterna a quella della Germania nazista. Le sconfitte e l’intervento tedesco trasformarono il conflitto per il Mediterraneo in mera difesa dei convogli dell’Asse.

SFIDA PERSA. La sfida sui mari impegnò l’Italia per oltre tre anni, con altri scontri: a Capo Teulada nel marzo 1941 (tre incrociatori e due cacciatorpediniere italiani furono affondati) e nell’impresa di Alessandria del 19 dicembre 1941, che vide la Regia Marina penetrare nel porto egiziano dopo avere affondato due navi da guerra britanniche. Ma non servì. «La conquista e il tentativo di dominazione fascista del Mediterraneo fallirono» conclude Rodogno. «L’occupazione italiana non riuscì a realizzare i suoi obiettivi perché la subordinazione politica, militare ed economica dell’Italia alla Germania si determinò prima ancora che avessero luogo le occupazioni

L’antica idea del “Mare Nostrum”

L’espressione latina Mare Nostrum ha origini molto antiche: a coniarla sarebbe stato addirittura Annibale dopo l’assedio di Taranto del 209 a.C., che portò alla riconquista della città da parte dei Romani nella seconda guerra punica. Secondo lo storico romano Tito Livio il condottiero cartaginese usò l’espressione nel famoso discorso che fece ai tarantini dopo l’assedio: “et mare nostrum erit, quo nunc hostes potiuntur” (e sarà nostro quel mare, del quale ora i nemici si sono impadroniti). Dal Tirreno. Inizialmente, il nome Mare Nostrum indicava soltanto il Tirreno, ma quando l’Impero romano si estese dalla Penisola iberica all’Egitto

cominciò a essere usato per riferirsi all’intero bacino mediterraneo. Il concetto fu poi ripreso molti secoli dopo, con l’Unità d’Italia, quando diversi teorici dell’idea di nazione italiana ritennero che anche il nostro Paese meritasse un impero coloniale d’oltremare. Fu Giuseppe Mazzini a rispolverare il concetto in epoca risorgimentale, quando scrisse: “E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i francesi l’adocchiano e l’avranno tra non molto se noi non l’abbiamo”

militari e le annessioni. I territori che dovevano essere occupati dall’Italia furono invece conquistati da Berlino».

L’8 settembre 1943 l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante in capo delle forze navali da battaglia, trasmise un drammatico messaggio agli equipaggi dalla corazzata Roma, ordinando di adempiere alle clausole dell’armistizio sottoscritto con gli angloamericani: “Ciò che conta nella storia dei popoli non sono i sogni e le speranze e le negazioni della realtà ma la coscienza del dovere compiuto fino in fondo, costi quel che costi” Il giorno dopo i bombardieri tedeschi affondarono la Roma uccidendo oltre 1.300 uomini tra cui lo stesso Bergamini (insignito poi della medaglia d’oro al valor militare).

BETTMANN ARCHIVE/ GETTY IMAGES ISTITUTO LUCE/ALINARI 55 S
Il sogno di Mussolini era un impero marittimo da Gibilterra al Corno d’Africa

Manhattan, 1970: si incontrano Black Panthers e intellighenzia di New York. E un articolo su quella serata inventa l’etichetta

“radical chic”.

Nell’America degli Anni ’60-’70 il manuale della perfetta padrona di casa non prevedeva ancora risposte a domande come “Che menu proporre alle Black Panthers che hai invitato a cena?”

o “Come abbinare l’abito da sera al pugno alzato?”. Quando, il 14 gennaio 1970, Felicia Montealegre Bernstein (1922-1978), moglie del celebre direttore d’orchestra Leonard Bernstein (1918-1990), riunì nella sua casa di Park Avenue l’intellighenzia newyorchese con l’obiettivo di raccogliere fondi per le Black Panthers, non stava finanziando un film con i supereroi della Marvel. Le Pantere nere erano un partito e un movimento che combatteva per i diritti civili degli afroamericani in un Paese ancora profondamente razzista. Fondato nel 1966 in California, il Black Panther Party era diventato famoso alla fine degli Anni ’60 per le manifestazioni e per quel pugno guantato di nero mostrato da Smith e Carlos alle Olimpiadi del 1968 (v. riquadro più avanti). Ma a differenza del credo nonviolento predicato dal reverendo Martin Luther King, le Pantere miravano a eliminare la discriminazione con metodi più energici: tra questi l’autodifesa, che li aveva presto fatti salire agli onori delle cronache e in cima alla lista dei movimenti sovversivi tenuti sotto controllo dall’Fbi.

IL MENU. “Palline di formaggio Roquefort avvolte in noci tritate, punte di asparagi su un letto di maionese e piccole polpette au Coq Hardi”, questi furono gli antipasti offerti agli invitati, serviti da cameriere bianche in divisa nera e crestina. A scriverlo, in un pezzo sulla rivista New York che fece scuola, fu Tom Wolfe (1930-2018), in procinto di diventare uno degli scrittori più celebri d’America. L’elegantissimo e azzimato esponente del New journalism raccontò al mondo com’erano le serate “radical chic” di New York in un articolo lungo 29 pagine, e tanto bastò per far entrare quel neologismo nei dizionari e nell’immaginario collettivo. Però non fu il primo a dare l’evento in pasto al pubblico: una cena con contorno di rivoluzionari radicali nell’Upper East Side di Manhattan, a casa di Leonard Bernstein, che fino all’anno prima era direttore di una grande istituzione come la New York Philharmonic, era un

Lidia Di Simone

Ospite d’onore

Leonard e Felicia Bernstein nel loro attico di New York, il 14 gennaio 1970, con il loro ospite Donald Cox, leader del Black Panther Party. Sotto, l’articolo che Tom Wolfe scrisse per la rivista New York in occasione della cena da Leonard (Lenny) Bernstein.

di
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MONDADORI PORTFOLIO
COSTUME

METTI un ribelle a CENA

piatto ricco. Infatti in poche ore questa divenne la notizia del giorno grazie alla caustica penna di Charlotte Curtis, la cronista mondana del New York Times, che aveva già “sistemato” Truman Capote e il suo leggendario Black and white ball del 1966, con i Kennedy, Frank Sinatra e Mia Farrow in maschera.

LA POLEMICA. “Eccoli lì, le Pantere nere del ghetto e i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si studiavano cautamente tra gli arredi costosi, le elaborate composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d’argento di tartine”, scrisse la Curtis (The New York Times, 15 gennaio 1970) suscitando un vespaio di critiche. Il giornale rincarò la dose nell’editoriale del 16 gennaio, dove si condannavano le Panthers e i Bernstein per aver minato gli sforzi di chi lavorava seriamente per i diritti civili: “L’emergere delle Black Panthers come beniamini romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla maggior parte dei neri americani. [...] La terapia di gruppo più la serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein [...] rappresentano il tipo di elegante baraccopoli che degrada allo stesso modo i mecenati e i destinatari della loro beneficenza. [...] Ciò è una presa in giro dell’eredità di Martin Luther King Jr”

Tanto astio si doveva al fatto che gli invitati non erano così popolari nella società americana dell’epoca: anche i giornali più progressisti ritennero imperdonabile che 90 persone del jet set si fossero riunite a sostegno delle famiglie dei Panther 21, arrestati il 2 aprile 1969 e accusati di aver cospirato per uccidere agenti e colpire i distretti di polizia, i grandi magazzini e altri edifici pubblici. Non un gran biglietto da visita per un dinner party a Park Avenue. Tanto più che il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover aveva definito il Black Panther Party “la più grande minaccia alla sicurezza interna del Paese”. È vero però che i Panther 21 (tanti erano i membri del gruppo) erano stati tenuti in prigione per nove mesi, molti con una cauzione di 100mila dollari, cifra impossibile da pagare, senza un processo e senza poter preparare una difesa adeguata. Sembrava proprio che i federali si fossero impegnati nel dare una lezione

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al movimento con una detenzione politica preventiva. Per questo, nell’attesa di un giusto processo, un gruppo di newyorkesi aveva istituito un fondo per sostenere le spese legali e assistere le famiglie degli imputati. Quella cena serviva a finanziarlo.

Leonard Bernstein spiegò in seguito di essere arrivato in ritardo da una prova del Fidelio di Beethoven e di essersi unito alla discussione. Alla fine della serata furono raccolti 10mila dollari. Quasi. Un po’ pochino per tutte quelle lettere di insulti e minacce di morte che continuarono ad arrivare all’indirizzo di Leonard Bernstein e della moglie.

I Bernstein passarono i mesi successivi a rilasciare dichiarazioni che, invece di spegnere la polemica, la alimentarono. Felicia scrisse immediatamente una lettera al Times, che però fu pubblicata con giorni di ritardo: “Come libertaria civile, ho invitato un certo numero di persone a casa mia il 14 gennaio per ascoltare l’avvocato e altri coinvolti con i Panther 21, discutere il problema delle libertà civili applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a raccogliere fondi per le loro spese legali [...]. Fu per questo scopo profondamente serio che si tenne il nostro incontro. Il modo frivolo in cui è stato riportato come un evento

‘alla moda’ è indegno del Times e offensivo per tutte le persone che credono alla giustizia”.

Ma ormai i media ironizzavano

Tom Wolfe e il New journalism

l radical chic, dopotutto, è solo radicale nello stile; nel suo cuore fa parte della società e delle sue tradizioni”. Questo pensava Tom Wolfe dell’intellighenzia newyorchese che aveva bastonato nel suo articolo. Lo ripubblicò, insieme a un altro pezzo, nel libro Radical Chic and Mau-Mauing the Flak Catchers (traducibile più o meno “ maumauizzando i parapalle”, con un’allusione ai Mau-Mau, movimento nazionalista del Kenya). Il secondo saggio raccontava come ai programmi sociali messi in piedi dalla municipalità di San Francisco la comunità nera rispondesse con minacce per ottenere sempre di più. Certo non si può dire che Tom

Wolfe si preoccupasse troppo di essere politicamente corretto. Il successo. Nella sua veste (spesso bianca e di taglio sartoriale) di alfiere del New journalism, che aveva fondato nel 1973, mirava a introdurre nel giornalismo elementi di narrazione. Prima inventò il romanzo-reportage, commistione di letteratura e giornalismo in cui accompagnava il lettore sul luogo dove i fatti accadevano, per farglieli osservare come da una telecamera. Poi passò direttamente alla fiction pubblicando il romanzo di enorme successo Il falò delle vanità (1987), portato al cinema da Tom Hanks. Qualcuno ha scritto che Wolfe ha registrato in una “prosa sgargiante” il crollo della civiltà occidentale. Di certo trovava molto divertente lo spettacolo di decadenza del suo mondo newyorchese e sapeva raccontarlo con uno stile pirotecnico.

Le Pantere nere erano finite nel mirino dell’Fbi e della stampa americana
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Pugno levato Manifestazione nella California del 1970, a sostegno delle Black Panthers. A destra, la copertina dedicata al pezzo di Wolfe sulla cena dai Bernstein.

Protesta New York, 1970: corteo di protesta contro la carcerazione preventiva delle Pantere accusate di tentato omicidio. A sinistra, Tom Wolfe

su tutto: in special modo sul presidente Nixon, seduto nello Studio Ovale che fumava e biascicava critiche ai “ricchi barboni snob”, mentre leggeva che anche l’aristocratica ereditiera Astor era tra gli ospiti o che la bionda moglie di un altro direttore d’orchestra era entusiasta e chiocciava: “Non ho mai incontrato una pantera, questa è la prima per me”

IO NON C’ERO. La situazione si fece pesante: Brooke Astor si affrettò a informare il New York Times che lei al party non c’era, anche se aveva ricevuto un invito, come tutti del resto. Perché di quelli che contavano non mancava nessuno: i registi Otto Preminger e Sidney Lumet con signora, la star del giornalismo Barbara Walters, la moglie del fotografo Richard Avedon, la moglie del regista Arthur Penn, la moglie del cantante Harry Belafonte. Poi ovviamente c’erano i membri del Black Panther Party – Robert Bay, Donald Cox e Henry Miller – e le compagne di alcuni imputati. La stampa non fu invitata, ma Charlotte Curtis e Tom Wolfe riuscirono a imbucarsi.

Quest’ultimo pubblicò il suo articolo, dal titolo Radical Chic: That Party at Lenny’s, solo l’8 giugno, senza lesinare in sarcasmo. La sua descrizione delle Pantere nel duplex di Park Avenue, “con il cappotto di pelle nera e gli occhiali scuri e l’incredibile pettinatura afro in scala Fuzzy Wuzzy” (cioè, crespi) oggi non supererebbe il vaglio dei sostenitori della diversity. E ancor più grave suonerebbe quel modo di chiamare gli afromaericani con il termine “negro” (così nel testo) che allora, invece, era normale. Tom Wolfe ci costruì una carriera e il suo modo di deridere la ricca élite bianca che si divertiva ad abbracciare cause sociali radicali fece in qualche modo scuola. Raccontò di camerieri bianchi che servivano radicali neri, di ricchi newyorchesi che si sentivano chic per il fatto di intrattenersi con gli estremisti, usò il termine party (festa) per alludere

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al party (partito) dei Bernstein, li dissezionò fino a ritrarre il padrone di casa come “il Grande Interruttore, l’Imbonitore del Village”, colui che “parlava jive con le funky Black Panthers”. Bisogna dire che Wolfe era davvero bravo. Ti rovesciava addosso qualunque cosa, ma con maestria. Non è facile dare della vecchia carampana a qualcuno senza farlo. La sua descrizione della padrona di casa, ex attrice, era al curaro: “Felicia è notevole. È bellissima, di quella rara bellezza brunita che dura negli anni. Ha una voce ‘teatrale’, per usare un termine della sua giovinezza. Saluta le Black Panthers con la stessa piega del polso, la stessa inclinazione della testa, la stessa perfetta voce di Mary Astor con cui saluta [...] durante quelle cene aprèsconcerto per cui lei e Lenny sono così famosi”

ODIATORI. Ma il tocco più velenoso Wolfe

lo usò per far notare il contrasto tra gli invitati e l’ambiente: “E ora, nella stagione del Radical Chic, le Black Panthers. Quella gigantesca pantera lì, quella a cui Felicia sta sorridendo con il suo sorriso da tango, è Robert Bay, che solo 41 ore fa è stato arrestato in un alterco con la polizia, presumibilmente per un revolver calibro 38 che qualcuno aveva, in un’auto parcheggiata a Queens tra Northern Boulevard e 104th Street o in un posto altrettanto incredibile, e portato in prigione con un’accusa molto insolita [...] E ora è uscito su cauzione ed entra nell’attico duplex di 13 stanze di Leonard e Felicia Bernstein su Park Avenue. [...] Sono reali, queste Black Panthers. L’idea stessa di questi veri rivoluzionari, che in realtà mettono le loro vite in pericolo, attraversa il duplex di Lenny come un ormone ribelle”

Tutto questo clamore aizzò gli odiatori, ma anche la critica legittima di chi, come la Jewish Defense League, protestava contro il presunto “appoggio” di Bernstein alle Pantere, note per il loro antisionismo. Il musicista, che era ebreo, dovette difendersi. In un’intervista a Londra Bernstein fu costretto a ribadire che lui non appoggiava niente di tutto questo: “Non è facile discernere una filosofia politica coerente tra le Black Panthers, ma è ragionevolmente chiaro che stanno sostenendo la violenza contro i loro concittadini, la caduta di Israele, il sostegno di Al Fatah e altre attività altrettanto pericolose e mal concepite. A tutti questi concetti sono vigorosamente contrario e combatterò contro di loro il più duramente possibile”. Ormai si scusava anche in trasferta.

IL SOSPETTO. Resta da registrare che, probabilmente, quelle lettere di protesta contro i Bernstein non erano il parto genuino di qualche svalvolato. Lo dirà anche il direttore d’orchestra, anni dopo: “Ho prove sostanziali ora a disposizione di tutti che l’Fbi cospirò per fomentare l’odio e il dissenso violento tra i neri, tra gli ebrei e tra i neri e gli ebrei. La mia defunta moglie ed io eravamo tra i tanti bersagli usati a questo scopo”. Bernstein aggiunse che quella sera del 1970 “non c’era stato né un party né un

Si mise in moto un meccanismo molto simile allo shit storm che parte oggi sui nostri social: era impossibile non restarne colpiti
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evento ‘radical chic’ per il Black Panther Party, ma piuttosto un convegno per le libertà civili per il quale mia moglie aveva generosamente offerto il nostro appartamento”. E raccontò che “le successive molestie ispirate dall’Fbi andavano da fiumi di lettere di odio inviatemi con quelle che ora sono chiaramente firme fittizie, minacce sottilmente velate espresse in lettere anonime a riviste e giornali, diatribe editoriali e giornalistiche sul New York Times, tentativi di ferire la mia relazione di lunga data con il popolo dello Stato di Israele, oltre a innumerevoli altri sporchi trucchi. Nessuna di queste macchinazioni ha influito negativamente sulla mia vita o sul mio lavoro, ma hanno causato una buona dose di amarezze spiacevoli, specialmente a mia moglie che era particolarmente vulnerabile alle tattiche diffamatorie”. (The New York Times, 22 ottobre 1980). Nella Park Avenue degli Anni ’70, in definitiva, le cose andavano come sui social dei giorni nostri.

Manifestazioni d’appoggio

Boston, 1970: non c’erano solo afroamericani alle manifestazioni pro Black Panthers. Sopra, foto segnaletica dell’attivista Angela Davis. A sinistra, le Pantere in un manifesto di solidarietà ai popoli oppressi nel mondo.

Smith e Carlos

Nella finale dei 200 metri piani corsa alle Olimpiadi del 1968, a Città del Messico, i velocisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos arrivarono primo e terzo. Al momento della premiazione salirono sul podio, si girarono verso la bandiera a stelle e strisce, abbassarono lo sguardo e alzarono un pugno chiuso guantato di nero (a destra) in nome della battaglia per i i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti. Simboli. Si erano presentati scalzi, ai piedi solo calze nere a simboleggiare la povertà in cui versavano gli afroamericani d’America. Al collo Carlos indossava una collana di perle, a rappresentare le pietre usate nei linciaggi dei neri. Aveva dimenticato i guanti e Smith gliene prestò uno: ecco perché alzarono braccia diverse.

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