13/05 - 20/05
Il Settimanale di M.S.O.I. Torino
SPECIALE: 9 MAGGIO, FESTA DELL’EUROPA
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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino
MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post
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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Timothy Avondo, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Alessio Destefanis, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Silvia Peirolo, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!
SPECIALE: 9 MAGGIO, FESTA DELL’EUROPA 9 MAGGIO, UN’OCCASIONE PER L’EUROPA E PER L’ITALIA Di Andrea Mitti Ruà “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto.” Queste parole profetiche, oggi spesso dimenticate, vennero scritte da Jean Monnet e pronunciate da Robert Schuman in quella che sarebbe divenuta la celebre dichiarazione che porta oggi il suo nome. Era il 9 maggio di 56 anni fa, l’Europa stava faticosamente cercando di ritornare a una normalità sepolta sotto macerie della guerra: la Germania era occupata e divisa in due parti, in
Francia il colonialismo iniziava a scricchiolare sia sul fronte interno sia nelle colonie, l’Italia arrancava da punto di vista economico e industriale, l’Est europeo era un’appendice dell’U.R.S.S., la Spagna e il Portogallo erano controllati da dittature. In questo scenario, nel 1950, il mondo assisteva alla nascita dell’Europa come entità politica. Bisogna però dire che quella data non era però del tutto priva di significato per gli italiani. 14 anni prima Mussolini annunciava, con un’enfasi conosciuta dalla folla gremita sotto il balcone in Piazza Venezia a Roma, l’ingresso delle nostre truppe ad Addis Abeba e la conseguente
nascita dell’Impero. Appena 10 anni dopo, quello stesso giorno, Vittorio Emanuele III abdicava, anche a causa delle conseguenze di quello stesso discorso, in favore di suo figlio Umberto II, il sovrano che dopo soli 33 giorni di regno sarebbe passato alla storia come l’ultimo Re d’Italia. Eppure, in quel tardo pomeriggio di maggio, il discorso del Ministro degli esteri francese non cadde nel vuoto; a Roma si intuì il risvolto storico a cui le parole di Schuman avrebbero potuto portare e De Gasperi decise di aderire al progetto insieme a Lussemburgo, Germania Ovest, Belgio e Olanda. L’Europa aveva mosso i suoi pri-
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mi passi. Cosa rimanga oggi di quello spirito primigenio è difficile da dire, perché se è vero in quasi 60 anni di storia il nostro Continente ha saputo tutelare la pace, garantire i diritti e migliorare le condizioni di vita per mezzo miliardo di persone, è innegabile che nell’ultimo decennio l’Europa sia tornata ad interrogarsi sui motivi profondi della sua stessa esistenza. Così, dopo due generazioni, siamo tornati a chiederci che cosa significhi essere europei e abbiamo così dovuto confrontarci con i valori espressi quel 9 maggio del 1950 nella Dichiarazione Schuman, per capire se ancora ci identifichiamo in essi. Che cosa vuol dire quindi oggi, per noi italiani, essere europei? Per anni non ci siamo posti questa domanda rassegnati alla posizione marginale in cui altri Stati ci avevano, più o meno volontariamente, relegato all’interno dell’Unione. Disinteressa-
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ti alla maggior parte di ciò che avveniva a Bruxelles, vivevamo l’Europa come “Il Governo dei compiti a casa”, ma qualcosa sembra finalmente cambiare. In un periodo di profonda crisi di consensi per la Germania, si aprono nuovi spazi per una leadership differente. La Gran Bretagna, però, si è chiamata fuori dai giochi, la Francia è paralizzata fino alle elezioni dell’anno prossimo e la Spagna non riesce a formare un governo. L’Italia potrebbe avere l’occasione di far passare la propria linea.
Paese sta cercando di forzare la mano per far affermare un percorso europeo diverso rispetto a quello attuale. Le sanzioni alla Russia, invise a molti Stati, sono un punto chiave del cambiamento che Roma vuole portare a Bruxelles: “Se un anno fa l’Italia era isolata nelle sue posizioni, oggi è capogruppo di un dialogo costruttivo con Mosca” ha affermato il ministro degli esteri Gentiloni, a cui l’alto rappresentante Mogherini ha fatto eco dicendo “L’intenzione maggioritaria è quella, a oggi, di oltrepassare le sanzioni”.
Da sempre contraria all’austerity, sotto i governi di qualsiasi colore, il Belpaese sta cercando di imporre una visione dell’economia differente: la crescita si ottiene con i consumi. Secondo l’IMF, infatti, l’Italia sarà l’unico Stato del G7 a crescere più nel 2016 che nel 2015, numeri con cui il Governo italiano spera di cambiare rotta alla visione dell’economia europea. Anche in politica estera il nostro
La strategia italiana per l’Europa passa dunque da queste due linee guida, due punti su cui l’Italia cerca la credibilità e il supporto necessari per modificare il disegno europeo in un tempo di mancanza d’identità comune. Sarà davvero quello di cui l’Europa ha bisogno per essere salvata? Il prossimo 9 maggio potremmo già avere una risposta.
CRISI SCHENGEN: LIBERTÀ IN PERICOLO?
Di Luca Feltrin
lizione delle frontiere tra i 5 Stati firmatari.
“L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone […]” Art. 3(2) del Trattato sull’Unione Europea
Lo ‘Spazio’ col passare degli anni si è allargato e, oggigiorno, conta 26 Paesi. Tra questi ve ne sono 22 facenti parte dell’Unione Europea e 4 esterni ad essa (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Non rientrano nel club dei 26, invece, la Bulgaria, Cipro, Romania e Croazia (per i quali il Trattato non è ancora entrato in vigore), il Regno Unito e l’Irlanda (che non hanno aderito all’Accordo esercitando la c.d opt-out clause prevista nei Trattati).
Che cos’è il c.d ‘Spazio’ o ‘Area’ Schengen? In un caldo martedì di inizio estate, i rappresentanti dei governi di Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi si riunirono nella piccola e pittoresca cittadina lussemburghese di Schengen per siglare un accordo storico: è il 14 giugno 1985 e nasce l’area di libera circolazione europea. L’Accordo, la cui fondamentale importanza stride con l’anonimato del luogo in cui è stato raggiunto, prende il nome, in una sorta di omaggio riconoscente, della petite ville ospitante e comporta una rivoluzione geo politica senza precedenti: l’abo-
La creazione di questa ‘Area’ rappresenta, senza ombra di dubbio, una delle più importanti conquiste del nostro secolo, nonché un’imprescindibile colonna su cui si basa l’attuale struttura economica e sociale dell’Unione Europea. Infatti, la soppressione delle frontiere interne dell’UE, ha comportato, oltre alla possibilità per i cittadini europei di potersi spostare liberamente tra i diversi confini, l’istituzione e lo sviluppo del principale pila-
stro economico dell’Unione: il mercato unico. Questo, infatti, necessità della libera circolazione di merci e persone per poter sopravvivere e Schengen, a tal riguardo, si dimostra un alleato fondamentale, quasi una linfa vitale. Schengen è in crisi? L’enorme pressione esercitata dalle ondate migratorie che si stanno infrangendo sugli scogli greci ed italiani - o contro il filo spinato bulgaro, macedone, croato od austriaco - nonché i terribili eventi terroristici che hanno scosso Parigi e Bruxelles stanno seriamente minando le fondamenta del principio di libera circolazione. Si può, però, effettivamente parlare di ‘crisi’ dell’Area Schengen? L’inadeguata ed incredibilmente miope risposta politica ad una situazione estremamente complessa, come quella odierna, (si pensi al ripristino di controlli frontalieri in Austria, Olanda, Danimarca, Germania, Slovenia, Repubblca Ceca, Francia, Belgio e Svezia) rischia di arreca-
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re un danno notevole a ciò che si è così duramente conquistato nell’ultimo ventennio. Tuttavia, secondo molti addetti ai lavori non si può parlare di crisi a tutti gli effetti del sistema Schengen. Infatti, i Professori Guild, Brouwer, Groenendijk e Carrera ritengono esagerate le insistenti voci che vogliono la fine della libertà di circolazione nel Vecchio continente. I controlli ripristinati sono, secondo gli studiosi, ancora ampiamente circoscritti ad aree particolarmente calde di determinati confini e non prevedano un’estensione generale. Inoltre, i Professori fanno notare come la reintroduzione dei controlli non sia un atto contrario alle regole europee in quanto questa è una possibilità espressamente prevista dagli articoli 23 e 25 del Schengen Borders Code (a patto che questi siano temporanei, giustificati, necessari e proporzionati alla minaccia che si vuole combattere). Di tutt’altro avviso sono l’ex
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presidente del Consiglio Europeo, Herman Von Rompuy, ed il ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Pier Carlo Padoan. Questi ritengono, infatti, che la crisi politica messa in atto da una ridiscussione dell’Area Schengen sia ben più grave e pericolosa della tristemente famosa crisi dell’Eurozona, in quanto “non dipende dalle performance macroeconomiche, ma mette al centro le idee diverse dell’UE, visioni nazionali che rischiano di prevalere”. Indipendentemente dalla posizione che si decide di prendere in merito al dibattito non si può negare che il progetto ‘Schengheniano’ stia vivendo un momento di estrema delicatezza. I grigi muri (materiali o teorici) che vengono eretti in alcuni confini sono da leggersi come il manifesto di una decisione politica che ha preferito l’egoismo nazionalista, in nome di un fittizio protezionismo, al richiamo pressante del principio di solidarietà, che dovrebbe legare le sorti dei popoli europei.
Schengen siamo noi e solo noi abbiamo il potere di farlo fallire, non i flussi migratori né tantomeno gli atti terroristici. Siamo liberi di scegliere il futuro che più merita l’Unione Europea. Tuttavia, dobbiamo rammentare che le nostre decisioni odierne saranno giudicate dal più inclemente dei giudici: la storia. Saremo meritevoli di un giudizio positivo? “Era un bel po’ che non viaggiavo, niente male. Sembra che l’Europa si sia fatta davvero molto piccola: cambiano le lingue, la musica, le notizie sono diverse, ma i panorami parlano lo stesso linguaggio. Raccontano tutti le stesse storie di un vecchio continente pieno delle sue guerre e delle sue tregue. È bello guidare così senza pensare a niente, lasciando che le vicende ed i fantasmi della storia mi vengano incontro da un’epoca all’altra. Hey, questa è la mia terra, la mia vera terra. La mia patria!” Lisbon Story (1994) di Wim Wenders
INTERVISTA A PAOLO CARAFFINI
Paolo Caraffini insegna ‘Storia dell’integrazione europea’ e ‘Democrazia e rappresentanza nell’Unione Europea’ presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. È autore di volumi e saggi sulla storia del processo di integrazione europea, tra cui ‘Costruire l’Europa dal basso. Il ruolo del Consiglio italiano del Movimento europeo, 19481985’ (Il Mulino, 2008), ‘Un grand commis e la dimensione internazionale: Giuseppe Petrilli e il processo di integrazione europea (1950-1989)’ (Guerini Scientifica, 2015) e la curatela, con Marinella Belluati, del volume ‘L’Unione europea tra istituzioni e opinione pubblica’ (Carocci, 2015). È membro della Società italiana di storia internazionale (SISI), dell’Associazione universitaria di studi europei (AUSE) e di TOEU-Centro Studi sull’Europa dell’Università di Torino. “Fatta l’Europa, bisogna fare gli europei”, ma ci sentiamo davvero tali? Quali sono stati i programmi per l’integrazione europea maggiormente di successo per quanto riguarda il tema dell’integrazione europea? Per contrastare un sentimento anti-europeista che si sta diffondendo, non sarebbe opportuno rinforzare la democrazia europea attraverso programmi di educazione civica più incisivi, al fine di creare un
vero “demos” europeo? La caratteristica dell’Europa è il suo pluralismo, ma, a fianco delle identità dei singoli popoli, vi è una comune identità europea, che è il prodotto di un’eredità storica, di radici culturali comuni. Si tratta di un’identità appunto plurale, non esclusiva, che non si fonda solo sulla memoria condivisa, ma che deve essere anche proiettata verso il futuro, essendo l’integrazione europea un processo in corso. Programmi come l’Erasmus svolgono una funzione molto importante in tale direzione, per creare un senso di appartenenza, una cittadinanza sovranazionale fra i giovani. L’educazione civica può offrire un grande contributo alla formazione di uno spazio pubblico europeo e di una cultura condivisa, ma da sola non da basta. Sono necessarie scelte politiche lungimiranti, perché per rafforzare l’identità dell’UE è certamente importante la condivisione di valori comuni e di elementi simbolici, ma deve essere anche rilanciato il progetto politico unitario. Alla luce del referendum sulla Brexit, che, comunque vada a finire, implicherà un Regno Unito fuori dal vincolo di un’Unione sempre più forte; l’Europa a due velocità, con livelli di integrazione diversi a seconda di chi ne vuole fare parte, è una strada a suo avviso percorribile? L’auspicio sarebbe di evitare la nascita di un’Europa a due velocità, ma, al di là dell’esito del referendum nel Regno Unito, penso che sia difficile proseguire sul cammino di una più stretta integrazione con la partecipazione di tutti gli attuali 28 Stati membri dell’UE. Vi sono visioni diverse, con alcuni Paesi assolutamente contrari a ulteriori trasferimenti
di sovranità e che, anzi, auspicherebbero una riduzione delle competenze dell’Unione. La soluzione, però, a mio parere, andrebbe ricercata non nel modello di Europa à la carte, che renderebbe tutto molto complesso e di difficile comprensione per i cittadini, bensì nella costituzione di un nucleo più o meno ampio di Paesi (che potrebbe corrispondere, in tutto o anche solo in parte, con l’Eurozona) di più stretta integrazione, di natura, almeno in prospettiva, federale, nel quadro dell’attuale Unione, caratterizzata dal persistere di una rilevante dinamica intergovernativa. Molto, però, dipenderà, oltre che dal contesto internazionale, dagli equilibri politici interni e dall’orientamento dell’opinione pubblica dei singoli Paesi, penso in particolare alla Francia e alla Germania, che dovrebbero svolgere un ruolo di impulso. L’attuale assetto dell’Europa non è quindi adeguato rispetto alle sfide globali che la vedono coinvolta? Come si può, dinnanzi alle derive autoritarie degli strenui difensori di un nazionalismo anacronistico, rinsaldare quella “solidarietà di fatto” tra Stati di cui si parla nella dichiarazione Schuman? L’attuale assetto non è adeguato alle sfide che si presentano. Sono necessarie scelte politiche e istituzioni adeguate, che siano in grado di rafforzare il senso di lealtà e di adesione dei cittadini nei riguardi dell’Unione. Bisogna, in sostanza, irrobustire e riempire di nuovi contenuti il concetto di cittadinanza dell’UE, anche attraverso il passaggio a elezioni europee di natura più sovranazionale rispetto a quelle finora tenutesi, con un voto realmente europeo, una legge elettorale uniforme, un accresciuto
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ruolo degli europartiti, dando la possibilità ai cittadini di incidere, con il proprio voto, sulle politiche comuni e sulla formazione di una Commissione trasformata in un vero governo. Il progetto Europa ha avuto più successo dal punto di vista economico o sociale? Molti percepiscono Bruxelles come un alleato del settore finanziario e industriale, lontano dai cittadini. È certamente vero che la costruzione europea, dopo la bocciatura, nel 1954, del progetto di Comunità europea di difesa e del correlato Statuto della Comunità politica europea, abbia imboccato la via dell’integrazione economica, vista, in un’ottica funzionalista, come un importante passo per poi aprire la strada dell’unificazione politica. Pur rimanendo centrale, e ancora in buona misura prevalente, la dimensione economica non è però esclusiva. Ben presto le istituzioni comunitarie si sono poste il problema di
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politiche sociali e di coesione. Nelle istituzioni europee erano e sono rappresentati diversi orientamenti in campo politico, economico e sociale. Vi è, quindi, un pluralismo. Gli stessi governi nazionali esprimono posizioni diverse o, comunque, non del tutto convergenti. La lontananza di settori rilevanti dell’opinione pubblica dall’UE è in parte dovuta, oltre che al giudizio critico nei riguardi delle politiche europee, alla complessità dei meccanismi di funzionamento dell’Unione, non assimilabili alle dinamiche politiche e istituzionali nazionali. Considerato il recente peso rivestito dalla Germania nell’ultimo decennio, è a Suo avviso probabile il conseguimento di un’intesa tra gli esecutivi tale da avere una politica economica realmente omogenea ed efficace per l’Unione Europea? In considerazione dell’attuale assetto istituzionale e con questi equilibri e politici, è difficil
che si possa giungere a una politica economica comune più orientata alla crescita, efficace e meno condizionata dai governi nazionali. D’altro canto questi ultimi sono espressione, anche legittimamente, di interessi non generali, dell’Unione nel suo complesso, bensì degli interessi dei loro Paesi e debbono rispondere ad opinioni pubbliche che non esprimono una linea convergente in tutta Europa, alcuni settori chiedendo il mantenimento di politiche di rigore, altri, soprattutto nell’Europa meridionale e, in generale, nei Paesi più colpiti dalla crisi, esigendo scelte politiche esattamente opposte. Solo istituzioni sovranazionali realmente investite di una funzione piena di governo, quindi di natura federale, possono esprimere una sintesi e compiere scelte più efficaci. A cura della sezione ‘Europa’ della Redazione
EUROPA 7 Giorni in 300 Parole AUSTRIA 9 maggio. Werner Faymann, cancelliere austriaco e presidente del partito socialdemocratico, si è dimesso da tutte le sue cariche politiche e istituzionali. La componente più giovane del partito ha fatto grandi pressioni a tal fine in seguito alla sua politica di “tolleranza zero” nei confronti dei migranti e alla luce del disastroso risultato ottenuto alle elezioni presidenziali del mese scorso. BELGIO 11 maggio. Emergono nuovi particolari riguardanti la gestione, da parte delle autorità belghe, degli attentati di Bruxelles. Il comandante della Polizia ferroviaria della capitale Jo Decuyper avrebbe ricevuto un’e-mail, 4 minuti prima dell’esplosione nella stazione di Maalbeek, che gli ordinava di fermare la metropolitana, ma non sarebbe stata visualizzata in quanto inviata su un account personale e non su quello istituzionale. “Anche se avessi avuto un bottone per interrompere tutto ed evacuare le persone, non sarebbe servito a prevenire l’attentato: sono necessari almeno 30 minuti, infatti, per fermare la metropolitana”. FRANCIA 10 maggio. Una ragazza di 19 anni si è suicidata gettandosi sotto un treno della rete ferroviaria parigina RER registrando il tutto in diretta su Periscope, un’applicazione che consente di trasmettere video in tempo reale attraverso il proprio smartphone; la giovane era stata stuprata e ha rivelato il nome dello stupratore nella diretta. “Non voglio creare scalpore, ma solo spingere le persone a reagire, ad aprire la
IL NUOVO INQUILINO DEL GLASS TESTICLE Fra Brexit e Labour Party: la scelta di Londra
Di Benedetta Albano Sadiq Kahn è diventato il nuovo sindaco di Londra, con una delle percentuali di preferenza più alte del Regno Unito: il 56,8% dei voti. Membro del partito laburista e avvocato specializzato in diritti umani, ha battuto il suo concorrente e collega Zac Goldsmith, proveniente dal partito conservatore e già rappresentante in Parlamento. Kahn aveva già ricoperto cariche politiche in passato, in qualità di Ministro dei Trasporti; la sua vittoria è stata accolta con entusiasmo dal leader del partito laburista Corbyn, che ha dichiarato di essere molto felice della possibilità di tornare a lavorare insieme. Proveniente da una famiglia di immigrati pakistani e di fede musulmana, è stato aiutato da una campagna elettorale profondamente diversa da quella del partito conservatore, incentrata sulla sicurezza e votata persino al cercare di provare che il candidato laburista, per via della sua religione, approvasse e sostenesse le posizioni dei fondamentalisti islamici. “Londra ha offerto a me e alla mia famiglia enormi opportunità, e
voglio che sia così per tutti” è stata la dichiarazione portante della campagna di Khan, basata sui problemi economici e le disparità che da molto tempo affliggono la capitale inglese. In più occasioni ha sottolineato: la sua volontà di essere il Sindaco di tutti, a prescindere dalle differenze economiche; l’importanza di una politica che aiuti i cittadini, anche i meno abbienti, a vivere bene e con sicurezza; la ricchezza culturale di una città come Londra, in cui convivono anime e culture diverse. Il clima inglese, con l’avvicinarsi del referendum sulla possibile Brexit, non è certo dei più distesi. Il dibattito infiamma l’opinione pubblica, ma è interessante come in queste elezioni sia stato dimostrato un divario fra la classe politica, che incita a una maggior chiusura nazionale, e la popolazione (in questo caso particolare quella londinese, composta da 8 milioni di abitanti), che ha preferito, invece, esprimere con il suo voto non solo una preferenza politica, ma anche una mentalità aperta all’inclusione e alle differenze. Non a caso Khan, il neosindaco, si è schierato più volte contro il referendum che escluderebbe il Regno Unito dall’Unione Europea. MSOI the Post • 9
EUROPA propria mente. Niente altro”. 10 maggio. E’ iniziata con un’evacuazione del Palais du Festival la 69esima edizione del Festival di Cannes. L’allarme, causato da “motivi tecnici” è rientrato dopo appena mezz’ora. Per ogni evenienza sono stati schierati militari fuori e dentro il Palais e per la prima volta la Croisette è rimasta chiusa al traffico delle auto. 10 maggio. Continuano in tutto il Paese le proteste contro la riforma del lavoro. A Parigi i manifestanti hanno lanciato sassi contro la polizia, la quale ha aperto il fuoco con proiettili di gomma e usato gas lacrimogeni per disperdere la folla. 3 gli arresti e 1 ferito tra i contestatori
GRECIA 9 maggio. Con 153 voti a favore è stata varata dal Parlamento greco la riforma del sistema pensionistico e fiscale. Anche se è stata fortemente contestata ed è invisa all’opinione pubblica, questa era necessaria per sbloccare una nuova quota di aiuti internazionali. Nonostante ciò, la Grecia dovrà operare nuovi ingenti tagli di spesa pari al 3% del PIL, 5,4 miliardi di euro, entro il 2018. ITALIA 11 maggio. Dopo 3 anni è stata approvato dalla Camera dei deputati con 372 voti a favore il DDL Crininnà che prevede, per la prima volta nella storia della Repubblica, le unioni civili tra le persone dello stesso sesso e regolarizza le convivenze di fatto. A cura di Andrea Mitti Ruà 10 • MSOI the Post
HE HAS A DREAM
Papa Francesco riceve il Premio Internazionale Carlo Magno
Di Fabio Saksida “Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre. Sogno un’Europa che si prenda cura del bambino, che soccorra come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa in cui essere migrante non sia un delitto, bensì un invito a un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano”. Inizia con il racconto di un sogno il discorso di papa Francesco in occasione del ritiro del Premio Internazionale Carlo Magno. Esso viene conferito annualmente dalla città renana di Aquisgrana a personalità che si sono distinte particolarmente nel promuovere e promulgare i valori dell’integrazione e dell’unione in Europa. Il premio è stato assegnato al Santo Padre per il suo “impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori”. Egli non ha mancato di insistere su questi temi di fronte ai rappresentanti europei riuniti in Vaticano. Erano presenti alla cerimonia, oltre a un nutrito numero di ambasciatori e diplomatici, i capi di governo di Italia e Germania, i capi di Stato di Spagna, Lituania e Lussemburgo, nonché i
presidenti delle istituzioni europee (Schulz, Juncker, Tusk) e il governatore della BCE Mario Draghi. Di questo evento colpisce sia il conferimento del premio in sé, visto che di solito i papi non lo ricevono, sia la retorica di Bergoglio. Questi, a differenza dei suoi predecessori, non fonda il concetto dell’identità e dei valori europei sulle radici cristiano-giudaiche del continente, radici sul cui riconoscimento si era molto battuto invece Giovanni Paolo II. Non che i valori cristiani non vengano richiamati, ma si cerca di evitare che l’identitarismo che essi creano finisca per essere esso stesso un altro spartiacque tra il “noi” e il “loro”. Papa Francesco, infatti, parla di questi valori in chiave “concreta” di accoglienza, solidarietà, integrazione. Cita Elie Wiesel, ex deportato e premio Nobel per la Pace nel 1986, e parla di memoria proprio in un momento di rinascita dell’estrema destra. Memoria di un’Europa dei popoli che accoglie altri popoli e si sviluppa attraverso di essi. “Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo”. Perché il cristianesimo, conclude, non è importante enunciarlo: l’importante è praticarlo.
NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 7 maggio. Colloquio telefonico tra il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri croato Miro Kovač. Sicurezza e futuro della Croazia quale snodo centrale energetico regionale, la più importante delle questioni affrontate. Kerry ha, inoltre, ribadito, il sostegno americano nei confronti del mantenimento della stabilità locale. 9 maggio. Il dipartimento di Giustizia americano fa causa al North Carolina e accende i riflettori sulla legge targata Pat McCrory. La normativa sotto accusa contiene uno specifico obbligo, per le persone transgender, di utilizzare i bagni pubblici in funzione al genere presente sul proprio certificato di nascita. Ad essere violato, sarebbe stato il Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, il quale vieta la discriminazione sulla base di sesso, razza, colore, religione e origine nazionale. 10 maggio. Primarie in West Virginia per repubblicani e democratici. Bernie Sanders batte, con il 51.4 %, la rivale Hilary Clinton e Donald Trump riesce ad aggiudicarsi la vittoria con il 77.0%. Lotta repubblicana anche in Nebraska, dove vince il miliardario newyorkese con il 61.4%. 12 maggio. Termina il viaggio in Europa del segretario di Stato americano Jhon Kerry. Prima tappa a Parigi, il 9 e 10 maggio, dove ha partecipato ad un incontro con il ministro degli Esteri francese Jean-Marc Ayrault. Processo di pace in Siria e tensioni in Ucraina, le questioni discusse durante il colloquio.
PIVOT TO ASIA
La visita di Obama a Hiroshima, tra passato e futuro Di Alessandro Dalpasso C'è un orologio da polso, arrugginito dal tempo, che è fermo alle 8.15 del 6 agosto 1945, ora e giorno nel quale il bombardiere statunitense Enola Gay sganciò il suo ordigno nucleare sulla città di Hiroshima. Si tratta di uno dei cimeli custoditi nel Museo della Pace di Hiroshima, un luogo che Obama sicuramente visiterà quando, il 27 maggio, al termine di un viaggio in Vietnam e Giappone, si recherà nella cittadina nipponica simbolo della distruzione della Seconda Guerra Mondiale. Questo viaggio è importante innanzitutto dal punto di vista storico: Obama sarà infatti il primo Presidente ancora in carica ad andare di persona lì dove la bomba Little Boy venne sganciata 70 anni fa. La notizia della visita è stata accolta con molto calore da parte del presidente Shinzo Abe, ma ha suscitato meno entusiasmo nell’opinione pubblica americana. Negli ambienti conservatori è stata, infatti, duramente contestata, in quanto sembrerebbe un atto di riparazione. In realtà, ad oggi, né il premier nipponico né gli hibakusha (i sopravvissuti) hanno chiesto che vengano rivolte i scuse ufficial in questa occasione.
Al di là delle ragioni storiche, un altro motivo non secondario della visita è, come riportato dal vice-segretario Ben Rhodes, di tipo puramente economico, soprattutto in quanto essa arriva subito dopo l'ultimo meeting del G7. In quest’ottica, l'obiettivo della visita di Obama sarebbe un ulteriore avanzamento nelle relazioni e negli scambi commerciali bilaterali tra i due Paesi, oltre alla cooperazione in materia economica e sulle tematiche della sicurezza internazionale. Ma le motivazioni più interessanti sono da riscontrarsi in ambito politico. Obama cerca di compiere l'ultimo passo di un cammino volto a chiudere definitivamente con gli aspetti più ingombranti del passato della Nazione. Il Presidente si farà portavoce, come annunciato in un comunicato della Casa Bianca, della volontà statunitense di "un mondo senza più armi nucleari". La ricerca di una forte legacy internazionale da parte dell’amministrazione Obama, spesso criticata per le scelte in politica estera, ha portato alla distensione con Cuba. La visita a Hiroshima sarà quindi una conquista per un Presidente che aveva inaugurato il suo primo mandato con la promessa di un mondo più pacifico.
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NORD AMERICA Martedì 10 maggio, in serata, il Segretario ha proseguito con la sua seconda tappa a Londra, per prendere parte all’AntiCorruption Summit ed incontrare il presidente colombiano Juan Manuel Santos. CANADA 8 maggio. Il Canada rimuoverà il proprio status di “permanent objector” nei confronti della Dichiarazione ONU datata 2007 e relativa al riconoscimento dei diritti umani fondamentali alle popolazioni indigene. Il ministro canadese per gli Affari Indigeni, Carolyn Bennett, durante la 15^ sessione del Permanent Forum on Indigenous Issues di New York, ha annunciato che la Dichiarazione sarà oggetto di attuazione nel rispetto della normativa canadese.
11 maggio. Il premier dell’Alberta Rachel Notley ha dichiarato che 25.000 abitazioni della città di Fort McMurray sarebbero state salvate dalle fiamme che hanno colpito la provincia canadese dell’Alberta. Quasi 100.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e 16.000 il bilancio regionale degli edifici distrutti. Il primo ministro Trudeau: “si è trattata della più ampia evacuazione necessaria nella storia dell’Alberta”. A cura di Erica Ambroggio
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CHI SARÀ IL VICEPRESIDENTE REPUBBLICANO? Trump di fronte alla scelta strategica del proprio ‘runner mate’
Di Simone Potè In seguito alla sconfitta subita nelle primarie repubblicane del 3 maggio 2016 nell’Indiana, Ted Cruz e John Kasich hanno abbandonato la corsa alla nomina presidenziale, rendendo automaticamente Donald Trump il candidato del loro partito. Per il tycoon, dunque, l’ultimo ostacolo da superare è il futuro candidato democratico, presumibilmente Hillary Clinton, a giudicare dai delegati finora assegnati (2.223 contro i 1.450 dello sfidante Bernie Sanders, con la soglia della vittoria fissata a 2.383). Arrivati a questo punto, una delle carte tipicamente giocate dai candidati nel tentativo di accaparrarsi i voti finali consiste nella selezione strategica del vicepresidente all’interno del proprio ticket elettorale. La scelta del vicepresidente è quindi spesso legata più a logiche elettorali che a logiche di merito. A Bernie Sanders è già stato chiesto se accetterebbe di diventare vicepresidente, in caso di proposta da parte della Clinton: egli si dice concentrato sulla campagna presidenziale, lasciando tuttavia la porta aperta alla possibilità. Ma è tra i Repubblicani che, data la vittoria del magnate dell’edilizia, inizia a essere sempre più ricorrente il quesito: chi sceglierà Donald Trump come candidato alla vicepresidenza? Dopo aver dichiarato che il nome non verrà rivelato fino a luglio, il costruttore newyorkese ha descritto il suo futuro vicepresidente come qualcuno
con una grande “esperienza politica e di governo”. Ecco una lista dei candidati ad oggi più probabili: • Newt Gingrich, il più riconosciuto e rispettato membro dell’establishment repubblicano a sostenere Trump da tempo, ex-portavoce alla Camera e candidato alle presidenziali del 2012. • Mary Fallin, governatrice dell’Oklahoma: permetterebbe di ottenere una parte dei voti di quelle donne repubblicane attratte dalle posizioni femministe di Hillary Clinton – e magari allontanate da certe dichiarazioni sessiste del candidato GOP. • Chris Christie, forte supporter fin dalla sua rinuncia alla candidatura presidenziale e amico di vecchia data; • Jeff Sessions, unico senatore a supportare Trump, consigliere durante la campagna elettorale e prossimo alle posizioni di Donald, in particolare sull’immigrazione. Anche gli altri ex sfidanti John Kasich, Ted Cruz e Marco Rubio sembrerebbero delle possibilità, nonostante il loro categorico rifiuto ad accettare un’eventuale proposta. Stando ai sondaggi attuali, Hillary Clinton vincerebbe, se le elezioni si tenessero oggi, con uno scarto del 13%: la scelta del vicepresidente rappresenta dunque una chiave strategica essenziale per poter tentare lo scontro con Hillary.
MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole EGITTO 11 maggio. Dopo oltre 80 giorni di chiusura, il confine tra Gaza e l’Egitto è stato riaperto per le giornate di mercoledì e giovedì. Nella cittadina di Rafah migliaia di persone stanno cercando di oltrepassare il confine per avere accesso a cure mediche o visitare i propri familiari. A fronte di oltre 30mila aventi diritto, solo poche centinaia di persone hanno effettivamente avuto la possibilità di oltrepassare il confine. GIORDANIA 10 maggio. Al via il SOFEX ad Amman, una tra le più importanti fiere al mondo sugli armamenti. Tra gli stand dei Paesi presenti all’Exhibition, la presenza della Rosonboronexport, compagnia russa che rifornisce il regime di Assad, è in netto contrasto con le politiche del re Abdullah verso una deposizione di Bashar in Siria. Pochi giorni prima, il presidente Putin ha dichiarato: “l’efficienza delle armi russe è stata ben dimostrata in Siria, sia nel settore navale che nell’aviazione” La compagnia ha assicurato che la sua presenza alla fiera ha il solo scopo di vantare al mondo la qualità degli strumenti russi per contrastare il terrorismo.
IRAQ 11 maggio. 3 esplosioni si sono susseguite nella giornata di mercoledì, uccidendo almeno 90 persone. Il gruppo Stato Islamico ha rivendicato la paternità degli attentati.
VISION 2030 E RIMPASTO MINISTERIALE
Svolta economica saudita: rafforzamento del percorso di riforme ad oltranza, a meno che non si trovi un accordo con l’Iran.
Di Emiliano Caliendo, Sezione MSOI Napoli È bastato un decreto reale a sancire un cambio di guida al ministero del petrolio del Regno dell’Arabia Saudita: all’ottantenne Ali Al Naimi, in carica del 1995, è subentrato il nuovo ministro Khaled Al Falih, 50enne già Presidente del colosso statale dell’energia ARAMCO. Al Falih andrà a gestire un nuovo super dicastero “allargato” dell’Energia, dell’Industria e delle risorse minerarie. La motivazione della sostituzione è da riscontrarsi nel cambio di politica economica di Re Salman, su pressione del principe ereditario Mohammed Bin Salman, astro nascente della Casata dei Saud. Le divisioni tra l’ambizioso trentenne e Al Naimi, in materia di petrolio hanno portato al rimpasto ministeriale: durante l’ultimo meeting dei produttori di petrolio a Doha, Al Naimi per la prima volta ha mostrato la volontà di congelare il livello di produzione in modo da far risalire il prezzo del petrolio. Proposito criticato apertamente dal principe Mohammed, secondo il quale la difesa della quota di mercato saudita va mantenuta
Il crollo del prezzo del petrolio al barile ha reso evidente la dipendenza dell’economia saudita dalle rendite energetiche, le quali costituiscono il 72% delle entrate statali. Lo ‘’slump’’ petrolifero ha prodotto un deficit per il solo 2015 di 98 miliardi con un rapporto deficit-PIL al 13.5% (dati Economist). Una disoccupazione all’11% ed un’economia basata sui sussidi, con una buona parte della popolazione sotto occupata, nel senso che è scarsamente impiegata in attività lavorative pur ricevendo uno stipendio spesso statale, ha reso necessario il piano di riforme Vision 2030. Il piano di riforme è stato annunciato dallo stesso principe Mohammed a fine aprile. Come evidenziato da Cinzia Bianco, analista di Limes, il piano si fonda su tre pilastri. In primis la costruzione di un mega fondo d’investimenti, il Public Investment Fund, il cui valore ipotetico valore stimato in $ 2.000 mld sarà dato dalla vendita del 5% di ARAMCO e dalla sua quotazione in borsa. In secundis, lo snellimento di welfare e sussidi. Terzium, la diversificazione dell’economia. Investimenti in turismo, industria mineraria (specie l’estrazione dell’uranio), imposta sul valore aggiunto ai beni non primari, apertura alle donne nel mercato del lavoro, sono solo alcuni dei propositi che secondo Mohamed Bin Salman, renderebbero entro il 2020 una potenza economica “capace di vivere senza petrolio”.
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MEDIO ORIENTE Il primo attacco si è verificato nella mattinata a Sadr City, quartiere a maggioranza sciita, uccidendo oltre 65 persone. Nel tardo pomeriggio, due ulteriori deflagrazioni hanno colpito i quartieri di Kadhimiya e al-Adl, anch’essi a maggioranza sciita. LIBIA 10 maggio. Durante un’intervista rilasciata a Reuters, il brigadiere generale Mohamed al-Gasri ha annunciato un’azione militare per la riconquista della città di Sirte, est della Libia, in mano al gruppo Stato Islamico da oltre un anno. Il portavoce del braccio militare della Libia occidentale ha dichiarato: “[…] siamo pronti e stiamo preparando le ultime disposizioni di sicurezza per attaccare Sirte. […] Abbiamo bisogno di supporto logistico dalla comunità internazionale, armi e munizioni. […] Che arrivino o no, in ogni caso saremo presto sul posto”. TURCHIA 11 maggio. Il ministro per i rapporti con l’Unione Europea Volkan Bozkir ha ufficialmente respinto le richieste di Bruxelles di modificare e meglio delineare le leggi turche anti-terrorismo. Secondo Bozkir, “la Costituzione risponde già agli standard europei”. L’UE ha più volte accusato la Turchia di utilizzare alcuni buchi normativi in materia per giustificare violente repressioni all’interno del Paese. Domenica 8 maggio l’aviazione turca ha colpito alcuni bersagli del PKK Kurdo nel nord dell’Iraq, distruggendo depositi di armi vicino i campi di Qandil. Nello stesso fine settimana sono state registrate 15 vittime curde a seguito di violenti scontri. A cura di Samantha Scarpa 14 • MSOI the Post
DEMOCRAZIA AL CAPOLINEA
Il premier Davutoglu si dimette sotto pressione del Sultano
Di Martina Scarnato Al termine di un vertice del partito del governo, l’AKP, tenutosi il 5 maggio, il primo ministro turco Ahmet Davutoglu ha annunciato le sue dimissioni, formalmente perché “spinto non da una scelta, ma da una necessità”, nella pratica a causa dei contrasti sempre più frequenti con il presidente Erdogan. Lo stesso Davutoglu ha però subito affermato che “non tollererà speculazioni” e che la sua fedeltà al partito ed a Erdogan è garantita. Il 22 maggio l’AKP convocherà un nuovo congresso per eleggere il nuovo leader del partito. Tuttavia, le dimissioni di Davutoglu sembrano essere un passo avanti lungo cammino verso l’autoritarismo voluto da Erdogan. La tensione era giunta al culmine il 29 aprile, quando Commissione centrale per la decisione e l’attuazione (Mkyk), il massimo organo decisionale dell’AKP, si era autoconferita il potere di nominare i dirigenti provinciali, esautorando Davutoglu dalla funzione. Sono tanti a ritenere che questa mossa sia stata voluta dal presidente Erdogan. Ormai, “la partnership politica più importante in Turchia”, così come l’aveva definita il Wall Street Journal, sembra essersi sgretolata. Eppure, da tempo i rapporti tra quelli che erano i due uomini più potenti del Paese erano tesi. Secondo il Post,
sarebbero state diverse le fonti di contrasto: per esempio, Davutoglu sarebbe stato contrario all’incarcerazione dei giornalisti oppositori di Erdogan, così come sarebbe stato favorevole alla ripresa dei negoziati con i ribelli curdi nel sud del Paese. Inoltre, secondo il New York Times, l’ex premier era scettico riguardo all’adozione di un sistema presidenziale, fortemente voluto da Erdogan. Le discrepanze erano evidenti anche sui temi di politica estera: Davutoglu è sempre stato più favorevole di Erdogan a mantenere rapporti di collaborazione con l’Unione Europea, partecipando personalmente ai negoziati riguardo l’accordo tra Turchia e Ue sui migranti. Sempre secondo il New York Times, ormai la trasformazione del paese in un regime autocratico è quasi completata. Secondo alcuni analisti, Erdogan non avrebbe mai nemmeno voluto essere un leader liberale.“ La democrazia è come un bus: quando arrivi a destinazione, scendi”, avrebbe detto lo stesso presidente tempo fa. Ciò che è chiaro è che la frattura tra i due leader non fa che rendere la scena turca sempre più complicata, tra gli scontri con i militanti curdi, la guerra nella vicina Siria e l’arrivo di migliaia di profughi ogni giorno.
RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole GEORGIA 11 maggio. L’esercito georgiano ha iniziato 2 settimane di esercitazioni congiunte con le truppe americane e britanniche, provocando l’irritazione della Russia, che vede l’operazione come un tentativo di destabilizzare la regione. Il ministro della Difesa georgiano Tina Khidasheli ha rigettato le accuse del Cremlino. MACEDONIA 11 maggio. Due partiti dell’opposizione, rappresentanti la minoranza albanese del Paese, hanno annunciato che si uniranno ai socialdemocratici nella campagna di boicottaggio delle elezioni che si terranno il 5 giugno. Le proteste sono scoppiate lo scorso febbraio, quando il governo e il primo ministro Gruevski sono stati coinvolti in uno scandalo riguardante il controllo di media e giornalisti. ROMANIA 12 maggio. Gli Stati Uniti hanno dichiarato operativa una base missilistica in Romania, che fungerà da scudo per proteggere i Paesi europei da possibili minacce missilistiche provenienti da Stati come l’Iran. Lo scudo, proposto circa 10 anni fa, sarà affidato al controllo della NATO. La Russia afferma che questo è un tentativo di neutralizzare un possibile attacco russo, ma Washington nega le accuse.
RUSSIA 10 maggio. Il presidente Putin ha avuto un colloquio telefonico
LA SERBIA DI VUČIĆ DOPO LE ELEZIONI Come cambia il Parlamento: nuove sfide ed equilibri
Di Lorenzo Bardia
slavia, avrà 22 seggi.
Le elezioni anticipate non hanno portato bene all’attuale premier Vučić. Nonostante la chiara vittoria ai seggi, che ha dato alla coalizione guidata dal Partito Progressista Serbo il 48,25% dei voti, il primo ministro Aleksandar Vučić non avrà il completo dominio del Parlamento che, invece, aveva nella passata legislatura. Se, infatti, nella precedente assemblea aveva 158 seggi, dopo queste elezioni potrà contare solo su 131 seggi dei 250 totali - 98 dei quali per l’SNS, quindi 5 in più della maggioranza assoluta.
Il presidente della Repubblica Tomislav Nikolić ha però negli ultimi giorni rafforzato la posizione del Premier, dichiarando alla stampa: “Affiderò a Vučić l’incarico per un nuovo governo e penso che non farò alcun giro di consultazioni con gli altri partiti per decidere a chi affidare l’incarico, poiché tutto dipende dalla questione se qualcuno sia riuscito ad assicurarsi in Parlamento la maggioranza di 126 deputati che voteranno a sostegno del governo”.
Cambiano anche gli equilibri interni all’opposizione. Nella scorsa legislatura essa era del tutto marginalizzata e ridotta al Partito Democratico e al Partito Socialdemocratico. Con le ultime elezioni, invece, l’opposizione storica s’indebolisce, lasciando spazio a nuovi attori: i partiti della destra nazionale russofila. La coalizione Dosta je bilo (“Ora basta”), potrà contare su 16 seggi, il Partito Democratico della Serbia e Dveri avranno 13 seggi, mentre il Partito Radicale Serbo di Vojislav Šešelj, dichiarato pochi giorni fa non colpevole dal Tribunale dell’Aia per i crimini di guerra nell’ex Jugo-
Vučić, per giustificarsi di fronte alle accuse delle opposizioni e al risultato non pienamente soddisfacente, ha annunciato cambiamenti significativi nel prossimo esecutivo, che sarà composto da almeno 6 nuovi ministri. “Alcuni continueranno a fare il loro lavoro, altri no. Alcuni hanno fatto bene, altri non bene. In ogni caso è sempre positivo avere forze fresche”, ha dichiarato. Le sfide che Vučić avrà di fronte a sé nei prossimi mesi sono molteplici: un tasso di disoccupazione intorno al 20%, privatizzazioni e riforme imposte da FMI e UE in cambio del lungo negoziato d’adesione e, da qualche giorno, un’opposizione che si fa sempre più agguerrita.
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RUSSIA E BALCANI con il presidente egiziano Al Sisi per discutere della situazione in Siria e in Libia. Nello stesso giorno il leader russo ha affermato che ci sono i presupposti per poter avere cambiamenti fondamentali nello scenario siriano, grazie alla cooperazione con gli USA. Il ministro degli Esteri russo Lavrov, a colloquio con il Segretario di Stato USA John Kerry, ha infatti discusso della possibilità di ricorrere al Gruppo di Supporto Internazionale alla Siria, per rafforzare la cessazione delle ostilità nel Paese. 11 maggio. Putin e il ministro dell’Energia russo Novak hanno dichiarato che la quarta e ultima linea elettrica che collega la Crimea con la Russia è stata avviata. Numerosi impianti energetici sono in costruzione e il prossimo passo del progetto russo per terminare l’isolamento della Crimea prevede la costruzione di un ponte di 19 km sullo Stretto di Kerch.
UCRAINA 10 maggio, Sergei Zaitsev, vice-direttore dell’impero dolciario del presidente ucraino Petro Poroshenko, è stato collegato allo scandalo dei Panama Papers. La notizia risulta essere potenzialmente imbarazzante per Poroshenko, che in aprile ha affermato di voler promulgare una legge per obbligare i cittadini a rivelare eventuali conti offshore, nel tentativo di forzarli a pagare le tasse nel Paese. A cura di Daniele Baldo 16 • MSOI the Post
PROSSIMA FERMATA: KAZAN
La diplomazia cinese dell’alta velocità arriva in Russia
Di Leonardo Scanavino Ad oggi, la rete ferroviaria ad alta velocità in Russia è costituita da 3 linee (Nizhny Novgorod-Mosca, Mosca-San Pietroburgo, San Pietroburgo-Confine finlandese), per un totale di circa 1.250 km. Il dato, però, non è paragonabile a quello di altri Stati con lo stesso PIL e in rapporto alla superficie della Nazione risulta essere ancora meno equilibrato. Dopo il deterioramento delle relazioni con l’Occidente in seguito alla crisi ucraina, il Cremlino ha cominciato una nuova fase di relazioni con la Cina, guardando a est in cerca di investimenti finanziari, energetici e infrastrutturali alternativi all’Europa e agli USA. Contemporaneamente, Pechino ha dato avvio al piano One belt, one road, che mira a costruire una serie di infrastrutture per collegare la Cina con i Paesi del sud-est asiatico e, a occidente, con l’Eurasia. Le prime conseguenze di questa strategia si sono verificate il 21 aprile 2016, quando un treno merci della compagnia cinese Wuhan Asia Europe Logistics è arrivato a Lione impiegando 1/3 del tempo rispetto al tradizionale tragitto marittimo. Un’abile operazione di soft power che, oltre ad implicare importanti effetti economici, conferma la Cina in una posizione di prim’ordine nel panorama asiatico.
L’obiettivo è innanzitutto migliorare il collegamento tra i distretti industriali cinesi e l’Europa, in secondo luogo creare tra i due oceani una rete ad alta velocità molto capillare e adeguata per numerosi passeggeri. Il governo cinese sostiene che questa sia una delle 10 industrie che permetteranno alla Cina di porsi come una potenza economica rilevante, oltre a fungere da volano per le esportazioni estere: nei contratti di fornitura potrebbero infatti comparire delle clausole di esclusività per la fornitura di pezzi di ricambio. In questo quadro si inserisce la linea ferroviaria che connetterà Mosca a Kazan, che dovrebbe vedere la luce in tempo per i Mondiali di Calcio 2018. Si tratta di 770 km di binari (la più lunga linea ad alta velocità al mondo) che consentirebbero di ridurre i tempi di percorrenza dalle 12 attuali a 4 ore, nella prospettiva di creare un collegamento diretto con Pechino negli anni successivi. Nel maggio 2015 una joint venture delle compagnie di Stato JSC Russian Railways e China Railway Group si è aggiudicata l’appalto per la progettazione della ferrovia ad alta velocità. Il costo totale previsto è di 19,5 miliardi di dollari di provenienza mista russa, cinese, privata e con una quota dalla Asian Infrastructure Investment Bank.
ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole AUSTRALIA 9 maggio. Il governatore generale sir Peter Cosgrove ha sciolto le camere e indetto nuove elezioni a luglio 2016. La decisione proposta dal primo ministro Turnbull è stata commentata dallo stesso come una possibilità per avere un Parlamento rinnovato con il quale sia possibile lavorare alle molte riforme necessarie. Durante gli ultimi mesi, la mancanza di una maggioranza consistente ha bloccato molte delle leggi che il governo di Turnbull aveva promesso. . BANGLADESH 11 maggio. È stata eseguita la condanna capitale nei confronti del leader del partito islamista Motiur Rahaman Nizami. Il leader, giudicato colpevole di svariati crimini commessi durante la guerra di indipendenza del 1971, era stato condannato a morte la scorsa settimana. Il governo teme ora che l’esecuzione capitale di Nizami possa scatenare reazioni violente tra i vari gruppi islamici e peggiorare la già precaria sicurezza interna. COREA DEL NORD 10 maggio. Si è chiuso il Congresso del Partito dei Lavoratori. Kim Jong Un, che è ufficialmente diventato il Presidente del partito, ha discusso di economia presentando al popolo ilpianoquinquennale.Hadefinito la Corea come una potenza nucleare responsabile, affermando che l’arsenale atomico verrà utilizzato per scopi puramente difensivi in caso di un attacco alla sovranità statale. Il Presidente cinese ha porto i suoi complimenti a Kim Jong Un per gli obbiettivi che la Corea sta cercando di raggiungere
REBALANCING TOWARD ASIA
Washinghton con New Delhi, la Cina muove verso il Pakistan
Di Gennaro Intoccia, Sezione MSOI Napoli
alla Marina statunitense del presidio navale di Port Blair.
Cambiano i punti di equilibrio in Oriente. Washington e New Delhi convengono di prestarsi reciproco aiuto nell’individuare e monitorare sommergibili cinesi nello Stretto di Malacca, lì dove Oceano Indiano e Mar Cinese del Sud s’incontrano. Zona marittima di straordinaria valenza strategica, in cui transitano carichi per valori prossimi ai$ 5.000 mld l’anno, i due terzi del commercio globale.
Gli accordi preliminari raggiunti dalle due potenze ambirebbero a contenere le mire cinesi nell’Oceano Indiano. Per rendere effettiva la strategia del Pivot to Asia, gli Stati Uniti dovrebbero rinsaldare alleanze con attori regionali come Vietnam e Filippine, fortemente dipendenti dal commercio con la Cina, eppure preoccupati dell’ascesa economica e militare di Pechino.
Il quotidiano India Today riporta che, secondo fonti della Marina indiana, alcuni sottomarini cinesi sono stati avvistati nei pressi delle isole Andamane. Gli Stati Uniti hanno messo a disposizione del Ministero della Difesa indiano velivoli militari altamente tecnologici ed equipaggiati: i Poseidon p8-i, dotati di sofisticati impianti radar e considerati ineguagliabili nelle attività di pattugliamento dell’oceano e nel monitoraggio di sommergibili.
New Delhi vuole imporsi come garante della sicurezza nel Mare delle Andamane, alle porte dello Stretto di Malacca. Lì potrà fare sfoggio del suo primo sottomarino nucleare di fabbricazione nazionale.
Nella cornice degli accordi di aprile fra il ministro della Difesa Parrikar ed il segretario della Difesa Carter, New Delhi e Washington s’impegnano a condividere spazi aerei, terrestri e marittimi. L’intesa prevede inoltre la concessione
Pechino, che osserva il tutto con sospetto, intensifica le attività diplomatiche con il Pakistan. È in cantiere la realizzazione di un importante corridoio economico in grado di collegare l’altopiano del Tibet con il sud del Balochistan. Con questo, la Cina otterrebbe uno sbocco diretto sullo Stretto di Ormuz e aggirerebbe l’Oceano Indiano, neutralizzando e frustrando, così, i propositi strategici di Washington e New Delhi. MSOI the Post • 17
ORIENTE LAOS 6 maggio. Il ministro degli esteri del Myanmar Aung San Suu Kyi e il Presidente compiono la prima o visita ufficiale all’ester . I due politici hanno incontrato il primo ministro del Laos Bounnhang Vorachith discutendo, con rinnovato entusiasmo, riguardo la futura cooperazione economica e politica tra i due Paesi.
ATTENTATO ALLA DEMOCRAZIA Nonostante l’omicidio di Khurram Zaki continuano le proteste antiterroristiche
Di Giulia Tempo
NEPAL 8 maggio. Il primo ministro Bidhya Devi Bhandariha ha cancellato la visita in India, e con grande sorpresa ha richiamato l’ambasciatore a New Delhi. Le decisioni sono state prese senza dare spiegazioni, tuttavia è probabile che sia stata la conseguenza delle scelte del premier indiano, che rifiutava di ricevere e ufficialment la delegazione nepalese limitandosi ad una telefonata di cortesia. I contrasti tra i due Stati continuano ad essere forti. A cura di Tiziano Traversa
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Sabato 7 maggio, 12.50 ora locale, si è diffusa la notizia dell’avvenuta uccisione di Khurram Zaki. Secondo i media pakistani, 4 uomini a bordo di due moto hanno aperto il fuoco nella parte nord di Karachi, capitale della provincia pakistana del Sindh, che con i suoi 24 milioni di abitanti è la seconda città più popolosa al mondo. Zaki era un giornalista e attivista pakistano, strenuo oppositore degli estremismi religiosi e di organizzazioni terroristiche. Il suo attivismo consisteva anche nella direzione del sito LUBPak.com (Let Us Build Pakistan), improntato al sostegno di valori democratici e progressisti. Tra i movimenti criticati da Zaki spiccava il TTP (Movimento Talebano del Pakistan), che ha rivendicato l’attentato. Stando alle dichiarazioni rilasciate dal portavoce del TTP, causa dell’attentato sarebbe stata la campagna di protesta avviata contro Abdul Aziz, l’imam estremista della Moschea Rossa (Lal Masjid) di Islamabad. Ma cosa aveva spinto l’attivista pakistano a scagliarsi contro l’imam? Lal Masjid è, fin dagli anni ’90, il principale centro pakistano
dell’estremismo sunnita: offre riparo ai terroristi, sostiene la causa del Daesh e al suo interno si trova una biblioteca intitolata a Osama Bin Laden. Un primo scontro era avvenuto in occasione dell’anniversario dell’attacco ad una scuola di Peshawar in cui i militanti del TTP fecero 141 vittime, 132 delle quali tra i 10 e i 18 anni. Zaki aveva organizzato una manifestazione pacifica proprio fuori da Lal Masjid. L’intervento delle forze dell’ordine aveva portato all’arresto del giornalista e di altri manifestanti, tra i quali la moglie e la figlia 16enne di Zaki. Inoltre, Aziz deve rispondere dell’accusa – mossa da Zaki e altri attivisti – di aver incitato all’odio e alla violenza nei confronti della minoranza sciita. Lo staff che collaborava con Zaki alla gestione del sito web ha espresso il cordoglio per la morte del collega, ma non si è detto intimidito dall’attacco. Nella dichiarazione relativa ai fatti di sabato 7 maggio è stata anzi manifestata l’intenzione di proseguire nella lotta contro l’islamismo di deriva estremista. “Continueremo ad agire in favore dell’unità tra sunnismo e sciismo e a supportare tutte le operazioni contro TTP, ASWJ e altre organizzazioni terroristiche”, hanno dichiarato i colleghi di Zaki.
AFRICA 7 Giorni in 300 Parole MALI 8 maggio. E’ stato arrestato a Bamako, dalle forze speciali dei servizi segreti, Yacouba Touré, leader del gruppo jihadista Ansar Dine. L’uomo, responsabile di numerosi attacchi, è anche sospettato di fornire armi ad altri gruppi terroristici in Mali e in Burkina Faso.
NIGERIA 6 maggio. Alcuni ribelli nigeriani (i “Vendicatori del Delta del Niger”) hanno fatto esplodere una piattaforma petrolifera della Chevron nei pressi di Warri, nel sud del Paese. 11 maggio. Amnesty International ha chiesto al governo di chiudere il centro di detenzione di Giwa per i presunti membri del gruppo Boko Haram. Per le condizioni degradanti sono morte in detenzione 149 persone, tra cui bambini e neonati. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 11 maggio. La Corte Costituzionale del Congo ha stabilito che il presidente Joseph Kabila, impossibilitato a candidarsi per il terzo mandato consecutivo, potrà rimanere in carica fino alle nuove elezioni. Il timore dell’opposizione è che la sentenza nasconda la volontà di ritardare le elezioni. RUANDA 9 maggio. La fondazione United Parcel Service ha
L’AVORIO DEL KENYA
Il Kenya brucia 105 tonnellate di avorio confiscato ai bracconieri che Dio ha dato al continente africano. Morte per il nostro settore turistico”.
Di Sara Corona Sabato 30 Aprile nel Parco Nazionale di Nairobi, in Kenya, sono state date alle fiamme più di 100 tonnellate di avorio sottratte al commercio illegale. Il falò d’avorio era composto dalle zanne di 6.700 elefanti e da corni di rinoceronte: una quantità pari a un quinto degli stock attualmente sequestrati nel mondo, con un valore di mercato di circa 100 milioni di dollari. È un gesto simbolico di portata storica, pianificato da un meeting internazionale tenutosi nella città di Nanyuki, durante il quale il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta ha voluto ribadire il primato del Paese nella lotta al bracconaggio. Il primo rogo di avorio fu organizzato a Nairobi nel 1989. Attualmente i falò sono l’unico sistema esistente per evitare che le scorte d’avorio finiscano sul mercato nero. L’evento segna un cambiamento storico nella storia del continente, considerato che negli ultimi decenni sono avvenuti spesso episodi di corruzione e collaborazione tra governi africani e commercianti di avorio. Invece, l’attuale governo keniota si schiera pubblicamente a difesa degli elefanti. Il Presidente ha dichiarato: “Avorio significa morte. Morte per i nostri elefanti, per un’eredità preziosa
Il Kenya è stato il primo Paese africano a dotarsi di un sistema legale e repressivo per coprire il commercio illegale di avorio. Già nel 2014 aveva munito tutti i 52 parchi nazionali locali di droni in grado di monitorare gli elefanti nei loro spostamenti e aveva aumentato il numero di ranger addestrati, con equipaggiamenti più complessi come armi da fuoco, giubbotti antiproiettile e visori notturni. Secondo l’ONU, circa 30mila elefanti vengono uccisi in Africa ogni anno. Dal 2008 al 2013, secondo la Born Free Foundation, sono stati uccisi da 30mila a 50mila elefanti ogni anno, e il tasso di morte ha finito per superare quello di riproduzione della specie, per cui gli esperti stimano che tra qualche decennio l’elefante africano potrebbe estinguersi completamente. Se nel 1973 in Kenya si contavano 130.000 elefanti, alla fine degli anni Ottanta la cifra era già scesa drasticamente a 16mila. Oggi, della popolazione di elefanti presenti in Africa un secolo fa, resta solo il 10% degli esemplari. Come evidenziato dal presidente Kenyatta, il bracconaggio è sostenuto da organizzazioni criminali internazionali e si traduce in finanziamenti illeciti ai gruppi armati in diverse parti dell’Africa: “Un sistema che alimenta la corruzione e ostacola il percorso del [...] Paese verso uno sviluppo sociale ed economico sostenibile”. MSOI the Post • 19
AFRICA destinato 800mila dollari per la distribuzione di lotti di sangue e vaccini. In Ruanda l’assistenza inizierà utilizzando droni della Zipline, che possono eseguire fino a 150 consegne al giorno in 21 centri situati nell’occidente del Paese.
SOMALIA 9 maggio. Attacco terroristico, del gruppo islamista Al Shabaab, a Mogadiscio. Un’autobomba è esplosa di fronte al quartier generale della polizia. Fonti ufficiali parlano di 9 feriti e 5 vittime, 3 poliziotti e 2 civili; 2 estremisti sarebbero stati uccisi durante un conflitto a fuoco avvenuto in seguito. TUNISIA 9 maggio. Il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni si è recato in vista ufficiale a Tunisi dove ha incontrato il presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi e l’omologo tunisino Khemaies Jhinaoui. Il Ministro italiano ha affermato che una comune lotta contro il terrorismo “significa presidio delle frontiere e collaborazione a tutti i livelli per assicurare la sconfitta della minaccia terroristica”. 11 maggio. Durante un’operazione di polizia contro il terrorismo avvenuta in tutto il Paese sono morte 8 persone, 4 poliziotti e 4 jihadisti. Il Ministero ha annunciato di aver scoperto covi con kalashnikov, granate, pistole e munizioni. A cura di Chiara Zaghi 20 • MSOI the Post
L’AFRICA E IL MONDO, PARTE SESTA
Un ponte sull’Atlantico tra Brasile e continente africano
Di Fabio Tumminello
espansione.
La vicinanza geografica è solo uno degli elementi che storicamente fonda il rapporto tra Africa e Brasile. In passato, queste due aree sono state le più colpite dal fenomeno del commercio degli schiavi: il Brasile ha ospitato, infatti, la comunità africana più numerosa delle Americhe (più numerosa anche di quella degli Stati Uniti, punto d’arrivo della tratta). Il portoghese, poi, è la lingua ufficiale di Stati come Angola e Guinea ed è una delle lingue più parlate nel continente.
Nonostante l’agguerrita concorrenza, il Brasile può puntare su una posizione privilegiata nei confronti di alcuni Stati: ciò è dovuto alla grande quantità di armamenti militari che lo Stato sudamericano ha scambiato con diversi regimi dell’Africa centrale. Così come l’India, inoltre, il Brasile è considerato in maniera positiva dalla società civile africana, che vede i suoi investimenti come una reale forma di cooperazione e sviluppo comune. Recentemente, infine, il governo Rousseff ha cancellato quasi un miliardo di dollari di debito, dando respiro alle travagliate economie africane, in particolare quelle di Congo e Tanzania.
Il comune background culturale e linguistico non è però stato valorizzato nel corso dei secoli. Se da una parte il Brasile guardava a nord, intensificando i rapporti con gli Stati Uniti, dall’altra l’Africa stringeva accordi con l’UE e, più recentemente, con India e Cina. Solo recentemente il Brasile ha cominciato a preparare piani di investimenti nel continente, provando a competere proprio con quei Paesi asiatici (India e Cina, appunto) che ormai si contendono il primato in settori strategici come quello energetico. In particolare, proprio Brasile, India e Sudafrica, tre Paesi in forte crescita economica, formano un “triangolo” commerciale di notevole importanza e in continua
Ma sono diverse le difficoltà da superare. In primo luogo, la crisi politica che il Brasile sta attraversando da quasi due anni è un ulteriore limite al flusso di investimenti che attraversano l’Atlantico e il suo esito potrebbe avere ripercussioni notevoli sull’economia africana. In secondo luogo, è proprio la concorrenza con gli altri Paesi, molto più organizzati e con piani di investimento a lungo termine, a limitare notevolmente l’influenza dello Stato sudamericano nel continente.
SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole
BRASILE 12 maggio. Il Senato brasiliano approva l’impeachment della presidente Dilma Rousseff (necessaria maggioranza semplice dei voti: 41 su 81 senatori). Sospensione di 180 giorni del mandato della “presidenta”, con sostituzione del vice presidente Temer, che assumerà l’interim con pieni poteri. La tensione è alta nel Paese: il 10 maggio, migliaia di sostenitori di Rousseff, scendono in strada a Brasilia e in altri sette Stati brasiliani, per protestare contro l’impeachment. 10 maggio. A meno di 3 mesi dai Giochi Olimpici, il ministero del Lavoro brasiliano blocca alcune opere al villaggio di Rio de Janeiro, per violazioni delle norme di sicurezza sul lavoro. Riferisce il sovrintendente del Ministero: “Mancano attrezzature e protezioni individuali, le condizioni sono di estremo pericolo per i lavoratori”.
10 maggio. Scoperta antica città Maya, per secoli nascosta nella giungla messicana, grazie allo studio del quindicenne canadese William Gadoury, con l’utilizzo di Google Maps.
ASESINADO A TIROS
Venezuela sull’orlo dell’implosione
Di Andrea Incao Il leader del partito di opposizione venezuelano UNT, German Mavare, è stato assassinato venerdì 6 maggio. A comunicare la notizia sono stati gli organi del partito. Maduro ha dichiarato che dietro all’assassinio di Mavare ci sarebbero uomini di orientamento reazionario e ha aggiunto che il governo userà tutti gli strumenti a sua disposizione per “dare la caccia a questi gruppi armati”. L’omicidio Mavare appesantisce ancor di più la crisi sociale, politica ed economica del Venezuela. Nonostante non sia possibile fare una stima esatta dell’aumento dei prezzi, il Fondo Monetario Internazionale si aspetta una crescita dell’inflazione vicina al 700%, e un crollo del PIL vicino all’8%. L’inflazione è già entrata in regime di iperinflazione (ha cioè superato l’1% al giorno) e se le ipotesi del FMI verranno confermate questa sarà una crescita inflazionistica da record, la più alta mai rilevata. A causa del fenomeno climatico chiamato “El Nino”, il Venezuela si trova anche in piena crisi energetica: la prolungata assenza di precipitazioni ha, infatti, bloccato la produzione
di energia idroelettrica. Per abbassare i consumi elettrici il governo di Maduro ha adottato due contromisure: riduzione a 2 giorni alla settimana delle giornate lavorative dei dipendenti pubblici e cambiamento dell’ora ufficiale di Stato, anticipata di mezz’ora (dalle -4:30, alle -4:00 ore prima del GMT, orario di Greenwich). È, inoltre, da segnalare la richiesta, da parte dei partiti di opposizione, di un referendum revocatorio contro il governo di Nicolas Maduro. L’iniziativa referendaria dell’opposizione venezuelana, conseguente alla crisi in corso, ha provocato la dura reazione dei vertici governativi: il vicepresidente Aristobulo Isturiz e il numero due del chavismo Diosdado Cabello hanno affermato che “non esiste nessuna possibilità” che il presidente Maduro sia rimosso attraverso il referendum revocatorio. Isturiz ha sottolineato che “la destra sta cercando di manipolare e ingannare la gente”. La situazione odierna del Venezuela porta il pensiero all’ultimo monito dell’ex Presidente cileno Allende: “senza dialogo non c’è scampo, finiremo tutti nel baratro, vinti e vincitori, e la storia non perdonerà nessuno”. MSOI the Post • 21
SUD AMERICA VENEZUELA 11 maggio. Aggredito dalla polizia l’ex candidato presidenziale dell’opposizione antichavista, Henrique Capriles, con gas lacrimogeni, mentre manifestava nel
IL RITORNO DEI FUJIMORI
Dalla condanna del padre Alberto all’elezione della figlia Keiko
Di Daniele Ruffino
centro di Caracas. MESSICO 9 maggio. Consenso dei giudici messicani all’estradizione negli Stati Uniti di Joaquin “El Chapo” Guzman, attualmente detenuto nella prigione di Ciudad Juarez (Texas). Al momento, il Ministero degli Esteri del Messico non ha dato seguito alle istanze di ricorso degli avvocati del boss contro la decisione della magistratura. 8 maggio. Registrata scossa di terremoto di magnitudo 5,9, a Oaxaca, con epicentro a 29 chilometri da Pinotepa de Don Luis. CILE 7 maggio. Muore, a 89 anni, Margot Honecker, vedova di Erich Honecker, il capo di Stato e del partito comunista della RDA (Repubblica Democratica Tedesca), trasferitasi nel 1992 nel Paese. A cura di Giulia Botta
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Domenica 10 aprile, dopo i risultati del primo turno di votazioni per le Elezioni Generali, l’opinione pubblica del Perù si è divisa tra coloro che hanno gridato allo scandalo e chi invece dice di aver scelto il “male minore”. A destare questo grande clamore è stata Keiko Fujimori, leader del Popular Force, che con il 40% dei voti ha sgominato Pedro Pablo Kuczynski, leader neoliberale, e Veronika Mendoza, sinistra radicale, guadagnandosi 68 seggi su 130 (contro i 20 e i 16 dei suoi oppositori). Keiko Fujimori è anche la figlia del dittatore Alberto Fujimori, Presidente del Perù dal 1990 al 2000, condannato a 25 anni di reclusione per violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità. Egli, infatti, fece sterilizzare più di 300.000 donne di origine indigena e perpetrò violenze e repressioni contro l’opposizione. Alcuni tra i peruviani si sono presto accorti delle inquietanti analogie tra la campagna elettorale di Keiko e quella del padre: il colore del logo (arancione), i discorsi intrisi di demagogia e un programma politico simile, anche se con sfumature più tolleranti e meno assolutistiche. La domanda quindi sorge spontanea: come ha potuto Keiko stravincere al primo
turno? Il suo principale avversario, Kuczynski, non è ben visto dall’ampia fascia dei peruviani “medi” per via della sua età avanzata (77 anni) e soprattutto per la sua sporadica presenza nel Paese (Kuczynski è un celebre economista che passa la maggior parte del suo tempo in America, lavorando come consulente per importanti lobby e investitori). Mendoza, invece, non è riuscita a creare un fronte comune con le altre sinistre ed è stata quindi messa ai margini della scena politica dai due partiti maggioritari. Secondo gli analisti peruviani e internazionali, però, la vittoria per Fujimori non è certa. La popolazione sarà chiamata il 7 giugno a scegliere tra due possibilità: da una parte, il navigato economista amico della finanza mondiale, che ricoprì i ruoli di Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri; dall‘altra, la figlia del dittatore “dagli occhi a mandorla”, che fece calare sul Perù l’ombra dell’oscurantismo e della repressione politica. È certo però che chiunque vinca le elezioni dovrà risollevare un Paese che si trova in una posizione fragile e instabile, dove il 75% della popolazione lavora in nero, il 20% vive in povertà e non vi sono servizi di welfare sicuri e accessibili a tutti.
ECONOMIA WikiNomics
NPL O RWA, CHI FA PIÙ PAURA?
Dopo il 2008 l’attivo dei bilanci bancari è ancora un tabù
ADDIO ALLA BANCONOTA DA 500 EURO La mossa antiriciclaggio Di Ivana Pesic
Di Edoardo Pignocco
Stop all’emissione. Il 4 maggio 2016, nel contesto di una sempre maggiore pressione globale per limitare l’utilizzo del contante nelle transazioni tra privati e imprese, il direttivo della BCE ha deciso di porre fine in via permanente alla produzione della banconota da € 500. L’emissione verrà interrotta intorno a fine 2018, quando verranno introdotte le banconote da € 100 e € 200 della serie “Europa” (la seconda serie di banconote in euro).
E fu così che l’avvento della finanza complessa riuscì nell’intento di trasformare l’attivo dei bilanci degli enti creditizi in debiti enormi. Di cosa si tratta?
Sempre valida. In considerazione del ruolo dell’Euro sulla scena internazionale e dell’ampia fiducia di cui gode, la banconota continuerà ad avere corso legale e potrà quindi essere ancora impiegata come mezzo di pagamento e riserva di valore, ma, poiché non sarà più stampata, è inevitabile un suo graduale esaurimento. “Il biglietto violaceo - precisa la BCE - preserverà sempre il suo valore e potrà essere cambiato presso le banche centrali nazionali dell’Eurosistema per un periodo di tempo illimitato”. Motivazione. Un taglio di tale valore facilita attività illecite, permettendo a somme consistenti
Gli Npl (Non performing loans) sono crediti deteriorati, ovvero che difficilmente saranno restituiti, a causa dello stato d’insolvenza dei debitori. Gli Rwa (Risk-weight assets), invece, sono attività classificate in bilancio a seconda del grado di pericolosità insito nello strumento finanziario stesso. Fino ad ora, i maggiori sforzi dei governi si sono concentrati sui primi, soprattutto in Italia. In data 5 maggio 2016, non a caso, i ministri Padoan e Orlando hanno illustrato alla community finanziaria i punti principali dei nuovi decreti attuativi, che, a breve, dovrebbero entrare in vigore. Oltre all’introduzione di nuovi strumenti nati per facilitare la gestione e la cessione dei crediti “cattivi”, il tema centrale del meeting è stata la Gacs, ovvero la Garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze. Sì, cartolarizzazione, ancora. Il Governo italiano, infatti, con l’imprescindibile aiuto del Fondo Atlante, spaccherà gli Npl in tre tranches, ovvero junior, mezzanine e senior. Le prime sono le più rischiose, ma anche le più redditizie, viceversa le ultime. Lo Stato sarà il
garante delle senior. L’obiettivo è la riduzione del rischio per i sottoscrittori che vogliono prendersi carico dei bad loans. Sarà utile? Probabilmente no. Questo perché, per vincoli imposti dall’UE, la tranche senior è molto più piccola delle altre due, rendendo - di fatto quasi inutile la garanzia statale. Anzi, semmai pericolosa. Non tanto per il Governo, quanto per i sottoscrittori di tranches junior e mezzanine, esposti, ancora una volta, all’insolvenza dei debitori. Considerando, invece, il contesto oltralpe, si nota come il problema più grave non siano gli Npl, ma gli Rwa, ovvero principalmente i derivati. Questi titoli sono identificati come molto rischiosi, in quanto sono illiquidi e, di conseguenza, non hanno un prezzo di mercato. Quindi viene da chiedersi: che valore si iscrive a bilancio? Nella sostanza, un importo auto-assegnato e molto soggettivo, sicuramente superiore al loro effettivo valore, basato su modelli interni oscuri. A questo proposito, sono in corso sempre più cause legali che stanno costringendo i colossi del credito ad operare ingenti svalutazioni: ciò ha come conseguenza un enorme gonfiamento delle perdite e un contestuale collasso del capitale disponibile. L’Europa si sta concentrando soprattutto sugli Npl. Scelta azzeccata? MSOI the Post • 23
ECONOMIA di denaro contenute in valigette di modeste dimensioni di passare confini e controlli. È noto, infatti, che la superbanconota, ribattezzata in gergo come “Bin Laden”, sia uno degli strumenti per transazioni finanziarie, e conseguente riciclaggio, più utilizzati da trafficanti di droga e di armi. Simili tagli sono il meccanismo di pagamento preferito di chi svolge attività illegali, date l’anonimità e la mancanza di tracciabilità della transazione che garantiscono”, tanto che, nel mercato nero, la banconota verrebbe venduta a prezzi superiori al suo valore nominale. A favore. La Francia, nel mirino dei terroristi, è, tra i Paesi dell’Eurozona, quello che ha maggiormente insistito per mandare in pensione il biglietto, che conta solo per il 3% delle banconote circolanti ma per il 28% del valore totale degli Euro in circolazione. Contrari. Voci critiche hanno sostenuto che ritirare la banconota dal mercato non servirebbe a combattere il terrorismo, ma ad aumentare il controllo delle autorità sulle transazioni economiche che, sui circuiti elettronici, diventerebbero facilmente tracciabili. Anche il presidente dell’IFO, Clemens Fuest, si è dichiarato contrario: l’operazione “potrebbe danneggiare la fiducia nella BCE e creare inevitabilmente l’impressione che la principale ragione per eliminare la banconota sia di spingere i tassi negativi ancora più giù”.
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BREXIT: QUALI CONSEGUENZE?
Il prossimo 23 giugno la parola passa ai cittadini britannici
Di Giacomo Robasto Benché il Regno Unito non sia uno dei sei membri fondatori delle Comunità Europee (il suo ingresso risale infatti al 1973), esso riveste nondimeno un ruolo di primo piano in ambito commerciale e finanziario all’interno dell’attuale Unione Europea. Tale posizione, tuttavia, potrebbe essere messa in discussione il prossimo 23 giugno, quando gli elettori d’oltremanica saranno chiamati alle urne per esprimersi, in un referendum, sulla convenienza o meno di permanere all’interno dell’Unione Europea. Il referendum, proposto dal primo ministro conservatore David Cameron, vuole garantire la permanenza del Regno Unito nell’UE con alcune condizioni particolari, che renderebbero il Regno Unito una nazione con uno “status speciale” all’interno dell’Unione. Tali condizioni, previste da un accordo stipulato con i vertici europei, prevedono in generale l’esenzione per la Gran Bretagna dalla clausola dei Trattati che prevede una partecipazione “sempre più stretta” all’Unione Europea. In questo modo, le istituzioni britanniche avrebbero maggiori competenze rispetto ai Paesi UE, nella legislazione inerente svariati ambiti, quali l’immigrazione, la politica monetaria, la sovranità nazionale e il welfare a beneficio dei cittadini comunitari residenti oltremanica.
Cionostante, non sono pochi i partiti che continuano a sostenere l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, come l’UKIP di Nigel Farage, attratti soprattutto dalla possibilità di poter regolare meglio e direttamente l’immigrazione, per garantire le migliori condizioni di welfare e sicurezza ai cittadini britannici. Se, dunque, una possibile Brexit porterebbe dei potenziali vantaggi da un punto di vista sociale, i risvolti economici di una simile decisione si rivelerebbero negativi o, al meglio, incerti, almeno nel breve periodo. Un’uscita dall’UE comporterebbe, infatti, l’automatica esclusione dal mercato unico europeo, con la possibile reintroduzione di barriere doganali e dazi su import ed export di merci. Questa previsione, tuttavia, è poco auspicabile, dal momento che il blocco UE è il primo partner commerciale del Regno Unito ed è destinato ad esserlo sempre di più data l’affinità culturale e la vicinanza geografica del Paese all’Europa continentale. Il referendum sulla Brexit è indubbiamente uno dei cavalli di battaglia del mandato di David Cameron, rieletto Primo Ministro nel 2015. L’ultima parola spetta ora ai cittadini britannici, che si esprimeranno non soltanto sulle loro sorti, ma su quelle di un continente intero.
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