Msoi thePost Numero 36

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA COME IL BELGIO, LA SPAGNA SENZA GOVERNO CRESCE

Al voto per la terza volta in un anno, ma i migliori risultati economici dell’ultimo periodo

Di Claudia Cantone, Sezione MSOI Napoli La fine del bipolarismo spagnolo, affermatasi con le elezioni del dicembre 2015, ha segnato l’inizio di un periodo di grande instabilità politica che si traduce, ancora oggi, nella mancaneza di un governo ufficial alla guida della penisola iberica. Per la prima volta nella storia della Spagna, infatti, nessun partito è riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le tornate elettorali (dicembre 2015 e giugno 2016). Allo stato attuale, il Parlamento risulta esser diviso tra le 4 forze dominanti: Partito Popolare (PP), classificatosi primo con 137 seggi; Partito Socialista (PSOE), in seconda posizione con 85 seggi; al terzo e quarto posto le due grandi rivelazioni sulla scena politica: Podemos, nato dal movimento degli indignados, con 70 seggi, e Ciudadanos, il partito liberale guidato da Albert Rivera, con 32 seggi. Questo processo di frammentazione (o di “italianizzazione”, come lo definiscono alcuni quotidiani spagnoli) ha messo in seria difficoltà i leader delle principali coalizioni, che da 8 mesi sono alla ricerca di

un’alleanza di governo. La settimana scorsa è fallito l’ultimo tentativo di Mariano Rajoy, leader del PP e Primo Ministro ad interim, di dare vita ad un governo di minoranza sostenuto da PP e Ciudadanos, con 170 voti a favore rispetto ai 180 contrari. La situazione rimane in stallo: Rajoy non riesce a raggiungere la maggioranza assoluta di 176 seggi; Sanchez (PSOE) si oppone categoricamente all’idea di una grande coalizione tra socialisti e popolari, Inglesias (Podemos) cerca i numeri per una coalizione di centro-sinistra. Eppure, mentre lo spettro di un ritorno alle urne per la terza volta in un anno si fa sempre più concreto, i dati economici della Spagna sorprendono i mercati europei. Nell’ultimo anno l’economia spagnola è cresciuta del 3,2%, il tasso più alto dal 2008; la disoccupazione è scesa al 20%, il livello più basso dal 2010; anche la spesa dei consumatori è in crescita ed il valore degli immobili inizia a salire. Qualche giorno fa, dal G-20, il Ministro dell’Economia ad interim ha alzato le stime per il PIL dal 2,7% rispetto al 2,9%. Indubbiamente la ripresa è stata condizionata dal calo del prezzo del petrolio, dalla debolezza

dell’euro, dai bassi tassi d’interesse e dal settore turistico in forte risalita. Ma i dati spagnoli, letti insieme al precedente del Belgio, hanno suscitato la riflessione di quanti mettono in discussione la formula governo stabile-economia stabile. Il Belgio, infatti, nel 2010, rimase senza esecutivo per 541 giorni, eppure il suo PIL raggiunse una crescita del 2,4% e riuscì a fronteggiare la crisi economica che nel frattempo travolgeva gli altri paesi europei. In realtà, nessuno dei due Stati è rimasto praticamente senza una guida. In entrambi casi il governo c’è ed è, solitamente, quello dimissionario che, però, non può svolgere altre mansioni che quelle legate all’ordinaria amministrazione. Nonostante qualcuno inizi a sostenere che un paese in mancanza di una governo stabile possa restare comunque economicamente competitivo, Jeanette Neumann, nella sua analisi sul Wall Street Journal avverte: la crescita in Spagna è destinata a rallentare nel 2017 perché l’incertezza blocca gli investimenti stranieri e il Paese dovrà stringere la cinghia una volta che la situazione politica sarà più definita.

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EUROPA FAREWELL, MY PARTNERSHIP? Dubbi e incertezze sul futuro del TTIP

Di Simone Massarenti Il 30 agosto 2016 potrebbe segnare una svolta radicale nelle negoziazioni fra USA e Europa circa il cosiddetto TTIP, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership. L’euroscetticismo circa la positività del trattato si è infatti concretizzato nelle parole del vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel, il quale ha affermato che “il TTIP è fallito, in quanto noi europei non possiamo accettare così ‘supinamente’ le richieste americane”. Il discorso dell’attuale Ministro dell’Economia tedesco si rifà soprattutto a quelle che sono le possibili ricadute che il TTIP avrebbe sulla produzione europea, data l’artigianalità della manifattura del Vecchio Continente, che con un libero mercato verrebbe equiparata all’industria tipica degli Stati Uniti. Secondo Gabriel, quindi, il TTIP andrebbe a colpire quello che è il settore delle piccole e medie imprese, con ovvie conseguenze anche sul PIL dei Paesi interessati. Le reazioni della comunità internazionale non si sono fatte attendere, accompagnate dal clima di tensione generatosi 4 • MSOI the Post

intorno al caso Apple, reo di aver riportato in auge il tema relativo alla tassazione delle multinazionali. Le prime reazioni si sono avute a Londra, dove il fronte euroscettico ha trovato nuova linfa per affermare le proprie posizioni. Intanto gli USA continuano a rimarcare l’importanza dell’accordo, una netta posizione data anche dal precedente accordo siglato fra UE e CETA. Un’analisi della situazione ci viene offerta da Carlo Calenda, attuale Ministro dello Sviluppo Economico, il quale, in un’intervista a Il Sole 24 ORE, ha affermato: “il TTIP non è morto, bensì ha subito una frenata ed un conseguente allungamento dei tempi di esecuzione”. Il Ministro, che ha presieduto il Consiglio del Commercio per la gestione della negoziazione, si concentra soprattutto su quello che sarebbe dovuto essere il TTIP, una sorta di “living agreement “ che si incentrasse sui punti in comune raggiunti dai due continenti. Inoltre Calenda, nel prosieguo della sua intervista, afferma come le parole di Gabriel siano “in questo momento giuste, in quanto le condizioni poste dagli iUSA sono insufficient ”

Netta anche la posizione di Pechino, che nello scacchiere economico globale gioca un ruolo fondamentale: La Cina, infatti, dopo aver appreso le notizie provenienti da Washington e Bruxelles, ha subito attivato una rete di contatti al fine di proporsi come Paese guida delle economie emergenti, guadagnando così il favore di tutti coloro i quali non credono più nella riuscita del TTIP. Molti rappresentati di Bruxelles, infatti, iniziano a guardare ad est come nuova frontiera di sviluppo economico, abbandonando così l’idea di un blocco economico che rappresenterebbe il 50% del PIL mondiale. La Cina, in questa “guerra fredda economica”, si muove lungo un asse favorevole, data la sua potenza economica e numerica, ed è spinta da sentimenti di “rivalsa” verso gli USA, che nel corso degli scorsi mesi hanno ricreato una sorta di “blocco statunitense” in oriente con il TTP (Trans Pacific Partnership). Intanto Bruxelles, attraverso un comunicato stampa del 31 agosto, conferma la convinzione che “l’accordo si farà” ma, come assicurano gli analisti, l’America del TTIP non sarà l’America di Obama.


NORD AMERICA STATI UNITI E CINA: TORNA IL GELO? Cosa è stato deciso al G20 tra i due Paesi

Di Alessandro Dalpasso Qualcosa di positivo e costruttivo sul fronte Cina-Stati Uniti si è visto nel corso dell'ultimo G20: entrambe le super-potenze hanno ratificato l'accordo di Parigi sul clima, segnando una tappa storica nell'impegno sul terreno climatico e ambientale di due Nazioni che sono sempre state restie ad impegnarsi in questo senso. Un evento storico e uno sforzo straordinario, secondo il Presidente statunitense: la Cina è il primo Paese al mondo per emissioni di gas serra e con gli Stati Uniti produce circa il 40% di emissioni di CO2. L’accordo assume un peso ancora maggiore se si considera che l'Accordo di Parigi potrebbe entrare realmente in vigore se fosse ratificato da almeno 55 Nazioni, che rappresenterebbero il 55% delle emissioni totali. Non si tratta di una battaglia che un singolo Paese, per quanto potente, può fare da solo, ha aggiunto Obama. “Un giorno potremo vedere tutto ciò nel momento in cui finalmente decideremo di salvare il pianeta […] La storia giudicherà questo sforzo fondamentale di oggi”, ha aggiunto il Presidente degli Stati Uniti. “Sono fiducioso”, gli ha fatto eco il segretario dell’ONU Ban

Ki Moon, che ha partecipato a una cerimonia ad hoc con Barack Obama e Xi Jinping, ringraziando Washington e Pechino “per aver lavorato insieme al raggiungimento di un risultato che nessuno può centrare da solo”. Le buone notizie da Hangzhou però terminano qui. Il summit si è infatti aperto con un incidente diplomatico e di cerimoniale (mancava la scaletta che il presidente Obama avrebbe dovuto usare per scendere dall'aereo) ed è continuato con notevoli tensioni tra gli staff americano e cinese sul numero di giornalisti che avrebbero dovuto seguire i Presidenti nei loro incontri, con la controparte di Pechino che ogni volta ha cercato di "tagliare" qualche corrispondente americano. Naturalmente il fatto ha portato alcune testate, tra cui il Washington Post, alla conclusione che questa altro non sia che l'ennesima dimostrazione di come il "Pivot to Asia" sia solo una affermazione vuota di contenuti e di una solida strategia politica. Inoltre, Obama e la sua controparte cinese Xi Jingping hanno discusso dei problemi che sussistono tra i due Paesi, compresi la disputa sul Mar Cinese Meridionale e l'installazione

da parte degli Stati Uniti di un sistema di difesa missilistico in Corea del Sud (il THAAD, acronimo che sta per Terminal High Altitude Area Defense). Il confronto è stato molto teso, come riportano gli organi di stampa internazionali, con entrambi i Oresidenti che hanno lasciato l'incontro sostanzialmente sulle stesse posizioni iniziali. Riguardo alla questione del Mar Cinese Meridionale, Xi avrebbe affermato che la Cina continuerà a proteggere la sua sovranità e i suoi diritti marittimi nelle acque oggetto di dispute. Tuttavia Obama ha insistito: Pechino deve rispettare i suoi obblighi nei confronti di un trattato marittimo internazionale, nonché la decisione del Tribunale Arbitrale internazionale dell'Aja. Xi ha inoltre detto che la Cina “continuerà a risolvere le dispute in maniera pacifica attraverso consultazioni con le parti direttamente coinvolte” e ha chiesto agli Stati Uniti di “giocare un ruolo costruttivo” nel portare la pace e la stabilità nella regione. La Casa Bianca ha rilasciato un comunicato che afferma che Obama ha “sottolineato l'incrollabile impegno degli Stati Uniti verso la sicurezza dei suoi alleati”. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA TRUMP IN MESSICO

Il Messico ha aiutato il tycoon di NY?

Di Alexander Virgili, Sezione MSOI Napoli Dopo i numerosi attacchi ai migranti e, in particolare, a quelli di origine messicana, Donald Trump è stato ricevuto a Città del Messico il 31 agosto scorso dal presidente Enrique Peña Nieto in persona, accettando l’invito che quest’ultimo che aveva rivolto ad entrambi i candidati alla Casa Bianca. Il Presidente non ha nascosto il fatto che “i messicani si sentono offesi” dal quadro negativo emerso più volte nei loro confronti durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti e ha voluto così organizzare l’incontro per discuterne direttamente con i candidati. Una mossa politica che Peña Nieto potrebbe aver voluto sfruttare per rimontare nei sondaggi che lo riportano come il presidente meno amato dagli anni ‘90. Una parte della stampa statunitense ha considerato la visita di Trump in Messico un insperato successo per il candidato che, nonostante i toni tutt’altro che concilianti verso gli immigrati messicani, non può essere ignorato dal 6 • MSOI the Post

Paese confinante. L’offerta messicana di un incontro per favorire una convergenza è stata subito accettata da Trump, che tuttavia non ha modificato i suoi propositi. Il candidato repubblicano ha semplicemente evitato di scendere nei dettagli delle sue proposte per l’immigrazione, apparendo più conciliante, ma nulla di più – come evidente dal discorso che ha poi tenuto a Phoenix a poche ore dal suo rientro dal Messico. Situazione confusa anche per i costi dell’ipotizzato muro che dovrebbe sorgere tra i due Stati, cavallo di battaglia nella campagna di Trump: il candidato ha confermato che lo pagherà il Messico; il Presidente messicano, al contrario, dopo le esternazioni di Phoenix, ha precisato di aver messo in chiaro le cose con l’imprenditore statunitense: il Messico non intende accollarsene la spesa. Un “dialogo tra sordi”, si direbbe, nel quale ciascuno ha espresso in forma più conciliante le proprie posizioni senza cercare di instaurare un dialogo o trovare un accordo. Tuttavia, secondo visita in Messico

alcuni, la di Trump

avrebbe contribuito a definire il suo profilo internazionale, rendendolo più credibile. La candidata democratica Clinton e gli altri oppositori di Trump hanno più volte attaccato il costruttore per la sua scarsa esperienza in politica estera. In questa occasione, invece, la serietà e la compostezza di Trump hanno sorpreso i suoi stessi supporters. D’altra parte, numerosi osservatori si sono chiesti come mai il presidente Peña Nieto abbia promosso e condotto un incontro che è apparso mal organizzato e politicamente controproducente. Il confronto avrebbe, infatti, evidenziato lo scarso spessore politico del Presidente del Messico, che di fatto non è riuscito a comunicare a Trump le perplessità del Paese circa le relazioni con gli Stati Uniti, in particolare riguardo all’ipotetico muro di confine, senza ottenere risposte puntuali e neppure vaghe aperture politiche. Anche l’ex Presidente del Messico Calderòn ha, senza mezzi termini, definito l’incontro tra il suo successore e Trump “un brutto film per il Messico, non necessario e sconveniente”.


MEDIO ORIENTE L’ONU SI È FERMATA AD ALEPPO?

Il Guardian accusa l’ONU per la sua gestione della crisi siriana

Di Samantha Scarpa Per la seconda volta in 30 anni, le Nazioni Unite sono viste come un soggetto debole nel far fronte ad una crisi umanitaria e politica. Il vecchio e nuovo fulcro di un conflitto che ha da tempo superato la definizione di “guerra civile”, il conflitto siriano, è la città di Aleppo, divisa tra il controllo delle truppe ribelli, dell’esercito regolare e del braccio armato curdo. In tutto questo, l’organizzazione di Ban Ki Moon - rappresentato localmente dall’inviato Staffan De Mistura - si è mostrata poco capace di penetrare il sistema di riorganizzazione politica e sociale del territorio, tanto sotto l’aspetto politico quanto sotto il profilo umanitario ed economico. Un’inchiesta portata avanti dal Guardian e pubblicata il 29 agosto rivela che le Nazioni Unite hanno donato decine di milioni di dollari nel quadro di un “programma di aiuto” attivato dopo lo scandalo di Daraya (dove migliaia di persone morte per la malnutrizione e le condizioni igienico-sanitarie precarie sono state palesate davanti all’opinione pubblica mondiale) a compagnie e personalità estremamente

legate alla famiglia Assad. Una di queste charity companies è controllata da Asma al-Assad, moglie del dittatore siriano. “Le nostre scelte in Siria sono limitate da un contesto altamente insicuro, dove è estremamente complicato trovare compagnie e partner operanti nelle zone sotto assedio. […]”, spiega un portavoce del Palazzo di Vetro. Nonostante egli assicuri che si stia facendo tutto il possibile per controllare ed assicurarsi che le somme versate siano spese correttamente, molti critici evidenziano come la maggior parte degli aiuti raggiunga quasi esclusivamente aree sotto il controllo del regime e che, nella pratica, nessun fondo stanziato per ragioni umanitarie non passi al vaglio diretto del governo Assad. L’inchiesta sottolinea inoltre come l’ONU sia strettamente limitata dal governo siriano, il quale le impone di intrattenere contatti e versare donazioni solo ed esclusivamente ad una lista di organizzazioni locali ed internazionali “approvate”. Privatamente, molti funzionari dell’organizzazione hanno ammesso la reticenza del sistema a “tirare troppo la corda” con il regime per paura di essere

definitivamente esclusi dal territorio siriano. Due anni fa, una ONG chiamata Mercy Corps ha cessato le sue attività in Siria a seguito di serie minacce arrivate da Damasco. Il regime, inoltre, continua a limitare l’arrivo di beni e personale e l’attività delle associazioni presenti attraverso lo strumento legislativo. A questo fragile ed incerto equilibrio si aggiungono le tensioni politiche. Questo martedì alcuni barili bomba colmi di cloro sono esplosi nella zona controllata dai ribelli di Aleppo, causando oltre 70 feriti, molti dei quali donne e bambini. Una commissione di esperti dell’Organizzazione per la Proibizione della Armi Chimiche (OPCW) è incaricata di verificare l’effettiva attribuzione del crimine al governo siriano. Già altre volte il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha formalmente accusato il regime di utilizzare questo tipo di arma, ma i 5 membri permanenti non hanno trovato un accordo unanime su quale pena comminare, annullando di fatto l’unico mezzo per sanzionare Bashar Al-Assad. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE L’AMBIGUITÀ DELLE MOSSE DI ANKARA

La Turchia si mostra sempre più cauta nelle IR e sempre più aggressiva sul campo

Di Samantha Scarpa Dopo il fallimento del colpo di Stato del luglio 2016, la Turchia sembra un Paese a due velocità. L’isolamento vissuto in quei momenti ha probabilmente fatto riflettere Erdogan, il quale si trova a levigare i propri attriti coi diversi attori internazionali. La linea punitiva post golpe, tuttavia, viene mantenuta all’interno e sul campo di battaglia al confine con la Siria. Dalla fine del tentativo rivoluzionario decine di migliaia di persone, dall’esercito alla società civile, sono state arrestate, torturate e perseguite. L’ultimo episodio riguarda Faruk Gullu, proprietario di una nota pasticceria turca, e suo fratello Nejat, a capo di una catena dolciaria rivale. Entrambi gli uomini sono sotto custodia con l’accusa di far parte della FETO, l’Organizzazione dei Terroristi Gulenisti, come l’agenzia di stampa statale turca la definisce. Fetullah Gulen, emigrato negli Stati Uniti ed ex collaboratore di Erdogan, è tuttora ritenuto dal Presidente il solo ed unico responsabile del golpe. Molti alleati occidentali hanno denunciato le misure del Presidente e hanno accennato ad un “timore per una caccia alle streghe in Turchia”. 8 • MSOI the Post

Angela Merkel ha inoltre sottolineato come la libertà di stampa (fortemente limitata dopo la statalizzazione di alcune press agencies) sia uno dei criteri fondamentali per la continuazione delle trattative sulla possibile entrata del Paese all’interno dell’Unione Europea. Proprio i rapporti con la Germania, guastati con il riconoscimento del genocidio degli Armeni che aveva causato il rimpatrio dello staff diplomatico tedesco, sembrano sulla via della riconciliazione. Giovedì 8 settembre il governo turco ha permesso ad alcuni funzionari tedeschi di visitare la base aerea di Incirlik in ottobre. L’importanza di tale riavvicinamento è sentito soprattutto da parte della rappresentanza tedesca, la quale ha bisogno del supporto turco per gestire la crisi migratoria nel Mediterraneo, crisi per la quale l’UE si è trovata più volte a chiudere un occhio di fronte al mancato rispetto dei diritti umani nel Paese anatolico. Nonostante questo, lo scorso venerdì il Ministro degli Esteri di Ankara ha preso parte ad una seduta speciale assieme agli altri membri del Consiglio d’Europa a Strasburgo, in Francia. La Turchia, avendo sottoscritto la Convezione Europea per i Diritti Umani nel

1954, deve far fronte ad una revisione delle sue leggi antiterrorismo per poter avvcinarsi all’Unione. Sul fronte politico-militare è altrettanto interessante il nuovo rapporto strategico basato sull’asse Mosca-AnkaraDamasco. La rinnovata intesa tra il leader russo Putin e il presidente Erdogan in funzione anti-terrorismo incontra le ambizioni del governo turco di sedare le espansioni curde nel nord della Siria. La prima incursione da parte di Ankara ha avuto luogo la scorsa settimana, tramite l’operazione Scudo d’Eufrate. Il risultato positivo ha permesso di riconquistare la città di Jarablus, da tempo nelle mani del gruppo Stato Islamico. Il principale alleato dell’operazione, gli Stati Uniti, hanno tuttavia denunciato un secondo fine da parte delle truppe di Erdogan: il blocco di una possibile espansione curda nella zona. Il controllo turco dell’area del Rojava, 50 km ad ovest di Jarablus, già crea un cuscinetto tra i cantoni indipendenti dei curdi siriani, i quali hanno annunciato la creazione di una costituzione e di un nuovo sistema di governo il prossimo mese.


RUSSIA E BALCANI FORTI TENSIONI TRA RUSSIA E UCRAINA Bisogna trovare alternative valide agli accordi di Minsk.

Di Giulia Andreose Nella prima settimana di agosto è giunta la notizia di scontri con armi da fuoco alla frontiera tra Ucraina e Crimea russa. Appena dopo l’accaduto, il quotidiano russo Novaya Gazeta raccontava di un attacco da parte dell’Ucraina, nel quale ci sarebbero state vittime tra i militari russi. L’unica certezza è la presenza di veicoli militari russi nella zona di Armyansk vicino al confine degli scontri. Il presidente russo Vladimir Putin ha commentato le presunte incursioni ucraine in Crimea accusando Kiev di attentati terroristici: “l’Ucraina ha scelto la via del terrore e non quella della pace. Prenderemo seri provvedimenti per garantire la sicurezza della Crimea”. Il Cremlino ha poi riunito il Consiglio di Sicurezza della Federazione (FSB), secondo il quale gli attentati organizzati dall’intelligence

ucraina avrebbero voluto destabilizzare la situazione sociopolitica durante le elezioni federali e regionali che si terranno il 18 settembre prossimo, promettendo quindi “ulteriori misure per garantire la sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture vitali della Crimea e per prevenire atti terroristici contro la penisola” Il presidente ucraino Petro Poroschenko respinge le accuse russe, definendole: “un pretesto per ulteriori minacce militari contro l’Ucraina, la Russia accusa l’Ucraina di terrorismo nella Crimea occupata nello stesso modo insensato e cinico col quale sostiene che non ci siano truppe russe nel Donbass”. L’esecutivo ucraino ha quindi disposto la massima allerta per tutte le unità militari al confine con la Crimea e nel Donbass, chiedendo con urgenza una convocazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Sembrano lontani gli accordi di

Minsk, opera della diplomazia franco-tedesa, dove si ottenne un cessate-il-fuoco nel caso si fosse riusciti a trovare una soluzione politica tra i due Stati, ma ad oggi i risultati sono stati più che deludenti. Il Presidente francese, durante una telefonata con i suoi omologhi russo e tedesco, ha espresso la sua preoccupazione per un possibile aumento delle tensioni in Ucraina, evidenziando l’importanza di prendere provvedimenti permanenti. I tre capi di Stato non si sono però incontrati in occasione del G20 in Cina del 4-5 settembre come previsto e non sono previsti ulteriori incontri. Lo ha confermato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov: “I contatti proseguono, i Paesi continuano a sottolineare la mancanza di alternative agli accordi Minsk per risolvere il conflitto. Il formato Normandia continua ad esistere, ma non ci sarà alcun incontro in questo momento”. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI LA RUSSIA AL G20

Cosa emerge dai vertici di Putin ai principali tavoli diplomatici

Di Lorenzo Bardia Dopo aver preso parte al vertice ufficiale che ha visto riunirsi le grandi potenze della terra nel G20 a Hangzhou in Cina, Vladimir Putin ha approfittato dell’occasione per concentrarsi sulla questione siriana, sulle relazioni con la Turchia e il Regno Unito negli incontri bilaterali a margine della Conferenza. Sul cessate il fuoco in Siria nessuna intesa tra Stati Uniti e Russia per “mancanza di fiducia”. A rilasciare questa dichiarazione è lo stesso presidente Obama. Se l’obiettivo era quello di trovare una collaborazione sulla crisi siriana, si è registrato, ancora oggi, un nulla di fatto. Tra i nodi, l’apertura di un corridoio umanitario per Aleppo. Le trattative sono però ancora in corso. Il presidente turco Erdogan ha rilanciato: “Stiamo 10 • MSOI the Post

lavorando con la Coalizione internazionale e con la Russia per cercare di ottenere un cessate-il-fuoco ad Aleppo”, indicando come data per una possibile tregua la festa islamica del Sacrificio, prevista a partire dall’11 settembre. Dopo mesi di crisi diplomatica e sull’onda della riconciliazione tra Ankara e Mosca, i colloqui al G20 con Erdogan hanno registrato diversi passi avanti che rinsaldano il legame tra il Presidente turco e Putin. Diverse fonti sostengono che “arriverà la disponibilità da parte del governo di Erdogan a finalizzare la ri-registrazione di tutti i permessi rilasciati in precedenza per il Turkish Stream”, un gasdotto offshore che attraversa il Mar Nero verso la parte europea della Turchia, la cui prima parte di tratto potrebbe essere completata entro la fine del 2019. Ankara ha poi mostrato interesse per il

trasporto del gas Gazprom fino alla Grecia, con la prospettiva di diventare un centro di transito per le consegne ai consumatori dell’Unione Europea. Sempre più imminente sembra poi essere la firma di un accordo sulla zona di libero scambio, approfittando del programma a medio termine già elaborato tra i due paesi per la cooperazione economica, tecnica e scientifica. Infine, degno di nota è l’incontro che si è tenuto tra il presidente Putin ed il nuovo premier britannico Theresa May. “Pur riconoscendo che ci saranno differenze tra noi, ci sono alcuni motivi di preoccupazione e questioni gravi e complesse da discutere. Spero saremo in grado di avere un rapporto e un dialogo franco e aperto”, ha dichiarato la May al termine dell’incontro. Ancora punti importanti per la diplomazia russa.


ORIENTE LA RIVOLUZIONE DEGLI OMBRELLI ARRIVA IN PARLAMENTO Pechino scrolla le spalle, ma il messaggio è chiaro

Di Giusto Amedeo Boccheni Nella Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, tornata a far parte della Cina dal 1997, vige il principio “un Paese, due sistemi”, che dovrebbe permettere all’excolonia britannica di mantenere un ordinamento di stampo occidentale e capitalistico fino al 2047. Il 4 settembre 2016 il 58 % della popolazione è affluito alle urne per l’elezione del Consiglio Legislativo, segnando un incremento di 5 punti rispetto al 2012. Il 40% dei votanti ha optato per la fazione conservatrice, vicina a Pechino e fautrice della linea pragmatica, che apre al compromesso e alla conciliazione con le politiche del Governo centrale. I partiti pan-democratici, che domandano il suffragio universale nell’elezione del Capo dell’Esecutivo e del Consiglio Legislativo, hanno perso più di un quinto dei propri elettori, raggiungendo comunque il 36% delle preferenze.

La sorprendente novità di questa elezione sono stati i partiti localisti, che, con quasi il 19% delle preferenze, hanno sottratto elettori ad entrambi gli schieramenti. Tra i campioni del movimento spicca Nathan Law Kwunchung, giovanissimo attivista venuto a galla durante la così ricordata Rivoluzione degli ombrelli del 2014, che si batte per il diritto all’autodeterminazione degli abitanti del Porto Fragrante e che mira a un referendum popolare per decidere delle sorti della Regione allo scadere della Dichiarazione Congiunta SinoBritannica. Sebbene differenti sotto molti profili ed assai sfaccettati al proprio interno, i gruppi partitici pan-democratici e localisti condividono una tendenziale aspirazione indipendentista. Il sistema costituzionale hongkonghese, tuttavia, non è strutturato in modo tale da riflettere semplicemente il voto popolare. Se infatti una metà dei seggi è assegnata

su base proporzionale, con 5 collegi distrettuali a liste chiuse, gli altri 35 dipendono da un sistema complesso, che assegna il diritto di voto anche alle persone giuridiche e ne fornisce uno addizionale a determinate categorie lavorative. Secondo alcuni, questo meccanismo favorirebbe la fazione conservatrice, in virtù degli stretti legami dell’élite economica locale con Pechino. Al netto dei voti dei così detti collegi funzionali, la prospettiva indipendentista si appanna: 40 seggi restano nelle mani dei conservatori, 23 spettano ai democratici, 6 ai localisti, 1 ai moderati. Per adesso la battaglia si sposta al marzo 2017, quando verrà eletto il nuovo Capo dell’Esecutivo. “Indipendenza” resterà probabilmente una parola bandita, come è stato per queste elezioni, in cui è costata la corsa a più di un candidato. Il popolo ha però preso una posizione e Pechino, prima o poi, dovrà affrontarlo a viso aperto.

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ORIENTE BILATERALE XI-ABE

Concluso l’incontro fra Shinzo Abe e Xi Jinping al G20 di Hangzhou Di Gennaro Intoccia, Sezione MSOI Napoli A lungo atteso, l’incontro ufficiale fra Shinzo Abe e Xi Jinping si è concluso dopo un faccia a faccia durato 30 minuti. La delegazione giapponese si considera soddisfatta per l’esito del colloquio, nel quale il Presidente cinese ha esortato l’omologo nipponico ad intraprendere iniziative diplomatiche per assicurare stabilità in estremo oriente e per mettere a punto un piano di coordinamento dei collegamenti marittimi, onde scongiurare spiacevoli incidenti nel Mar Cinese Orientale. La delegazione cinese non ha fatto mistero delle preoccupazioni che ha suscitato in patria la pubblicazione del Libro Bianco della Difesa da parte del Ministero della Difesa giapponese, che affronta spinose questioni strategiche ed esprime i timori legati alla crescente influenza cinese nel Mar Cinese Del Sud ed alle conseguenze

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derivanti dal rifiuto di Pechino di riconoscere la sentenza della Corte permanente di Arbitrato dell’Aja, a seguito della famosa controversia territoriale promossa dalle Filippine. Il protocollo, inoltre, dichiara che nel 2015, per ben 873 volte, aerei da guerra giapponesi si sono alzati in volo per monitorare velivoli cinesi nel Mar Cinese Orientale, segnalando inoltre l’installazione nella zona di radar per usi militari da parte della Marina cinese. Il portavoce del Ministero della Difesa cinese Wu Quian ha reputato il Libro Bianco una provocazione, orchestrata per agevolare il percorso della storica riforma costituzionale anti-pacifista di Abe e per relegare Pechino in un cono d’ombra di diffidenza. Secondo le dichiarazioni del suo portavoce: “Il Libro Bianco rilasciato il 2 agosto, pieno di espressioni banalizzate, distorce quello che è il ragionevole e giustificato lavoro della difesa, inasprendo

le questioni legate al Mar Cinese Meridionale e Orientale”. La Cina continua a reputare le sue attività nel Mar Cinese del Sud perfettamente conformi alla normativa internazionale Tokyo, d’altronde, non avanza pretese territoriali nel Mar Cinese Del Sud, ma l’importanza strategica della regione, le serrate alleanze e cooperazioni con Paesi come le Filippine ed il Vietnam, costringono ad un intenso impegno politico e diplomatico per arginare la montante ascesa militare di Pechino, che rivendica circa 3,5 milioni di chilometri quadrati nell’area, per cui passano oltre 5.000 miliardi di dollari di merci all’anno. Le contese isole Senkaku sono state oggetto di un’intensa discussione, le posizioni riguardo la sovranità delle isole, però, risultato ancora divergenti. Xi Jinping ha quindi auspicato la ripresa delle attività diplomatiche fra i due Paesi per venire a capo della controversia


AFRICA A DESTRA O A SINISTRA?

Le divisioni politiche in Africa tra passato e futuro

Di Fabio Tumminello Nel mondo occidentale il paradigma politico e partitico si fonda sostanzialmente sul bipolarismo, sulla distinzione, ormai secolare, tra destra e sinistra, tra conservatorismo e liberalismo. Ad oggi, però, questo modello - che affonda le sue radici nell’esperienza dell’Assemblea Costituente successiva alla rivoluzione francese - è messo in crisi da populismi, nazionalismi e forze anti-sistema che, quasi ovunque, stanno modificando l’assetto dei partiti tradizionali, cavalcando l’onda dell’insofferenza e della ribellione sociale. L’Africa ha invece vissuto un’esperienza storica e politica completamente differente. Volendo usare i criteri occidentali, potremmo dire, peccando però di superficialità, che gran parte dei partiti africani, dal Maghreb al Sud Africa, sono di ispirazione socialista, quando non dichiaratamente comunisti: numerosissimi sono i leader africani che hanno ammesso di ispirarsi, umanamente e politicamente, a figure come Che Guevara o Fidel Castro. Rarissimi sono i partiti di destra: uno dei pochi esempi di rilievo è il PN, il Partito Nazionale del Sud Africa, che però si sciol-

se nel 2005 senza mai superare, in regolari elezioni, il 9% delle preferenze. Proprio in Sud Africa abbiamo il sistema partitico più florido ed “europeo” del continente: l’ANC (African National Congress), partito social-democratico di orientamento prima filo-comunista, poi sempre più liberale, si trova al governo da quasi 20 anni senza soluzione di continuità, dividendosi il potere con altri partiti, come il Congresso del Popolo, della medesima estrazione politica. In generale, il periodo coloniale e la progressiva indipendenza dalle potenze europee, ma anche la crisi economica e l’attuale stato di estrema povertà in cui molte Nazioni tuttora versano hanno contribuito a sfumare la distinzione tra destra e sinistra. I popoli africani, piuttosto che dividersi al loro interno, si sono naturalmente uniti, mossi da un forte sentimento di unione e solidarietà, che ha trovato terreno fertile anche nel background tribale dei paesi dell’Africa sub-sahariana. L’ideologia socialista è quella che più si è avvicinata al sentimento comune, mettendo al primo posto i bisogni del popolo, piuttosto che le disquisizioni su quale regime o quale dottrina economica o po-

litica seguire. Ma non dobbiamo pensare che vi sia un effettivo bipolarismo: gran parte dei governi africani, infatti, non sono immediatamente identificabili in una corrente politica definita. Molto spesso, insieme ai valori tipici delle sinistre moderate, come il liberalismo e il progressismo, ne esistono altri, che appartengono tipicamente a movimenti di destra: per esempio, in alcuni casi, un feroce nazionalismo. In questo senso appare più comprensibile la contraddizione per cui la ricchezza del continente africano e le sue future prospettive di crescita dipendono nientemeno che da quella economia di mercato e da quel liberismo osteggiati dall’ideologia socialista e comunista nel vecchio continente e negli Stati Uniti. Le ultime elezioni in Congo, Senegal e Niger sono un ottimo esempio per raccontare questa realtà di sostanziale confusione: una situazione in cui il dibattito politico svela la sua innegabile povertà ideologica e in cui le opposizioni si limitano a tenere alta l’attenzione su piaghe sociali come la corruzione e le tendenze autoritarie dei governi. MSOI the Post • 13


AFRICA UNA BOMBA PRONTA AD ESPLODERE

La crisi in Gabon rischia di destabilizzare l’intera area centrafricana

di Fabio Tumminello Dallo scorso 28 Agosto, il Gabon si trova ad affrontare una delle peggiori crisi della sua storia, flagellata da lotte per il potere, tensioni sociali ed una crisi economica che sta mettendo a dura prova la sopravvivenza stessa della popolazione. A scatenare le rivolte è stata la rielezione di Ali Bongo Ondimba, presidente uscente e membro della dinastia Bongo, una delle famiglie reali più longeve del continente: Ali è infatti succeduto al padre, Omar, dopo ben 42 anni al potere del Gabon. La vittoria, arrivata di misura, ha scatenato le proteste dei sostenitori di Jean Ping, leader del partito di opposizione Front Uni. Gran parte degli elettori ritiene infatti Ali una figura debole, poco carismatica, incapace di mantenere saldamente il potere come fece il padre. I manifestanti sono scesi in piazza per contestare le dure repressioni portate avanti dalla dinastia Bongo che, usando come pretesto la sicurezza nazionale, ha militarizzato le strade della capitale e imprigionato i principali oppositori politici. 14 • MSOI the Post

Già prima dello spoglio dei voti, a Libreville si segnalavano già i primi casi di violenza: solo nella prima giornata sono stati riportati più di 1000 arresti, oltre a duri scontri tra polizia e manifestanti, che hanno dato fuoco ad auto e palazzi sia nella capitale che nelle principali città, come Port-Gentil e Mouila.

la già fragile società gabonese; l’Unione Africana, criticata spesso per l’inefficacia dei suoi interventi, si è detta pronta a ricoprire il ruolo di osservatore imparziale della situazione, senza però prendere provvedimenti immediati, nonostante la situazione sia sul punto di esplodere.

Alle proteste si sono poi unite anche altre frange della popolazione, ridotte allo stremo da anni di politiche insensibili ai bisogni dei cittadini, soprattutto quelli appartenenti ai ceti meno abbienti e che abitano nelle zone rurali. In Gabon la popolazione ha un reddito pro capite alto rispetto alla media della regione, ma anni di liberalizzazioni e di politiche fiscali favorevoli all’ingresso di aziende e capitali stranieri stanno prosciugando le risorse di questa piccola nazione, creando malcontento nella società civile.

Vi è infatti il fondato pericolo che l’instabilità possa propagarsi nei paesi limitrofi, sfruttando anche situazioni favorevoli allo scoppio di nuove ondate di rivolte e proteste contro i governi locali appartenenti alla cosiddetta Comunità Economica della regione Centrafricana. crisi economiche (in Angola e Guinea), sociali e politiche (in Congo) e persino conflitti di matrice etnico-religiosa (come quello tra le varie milizie locali in Repubblica Centrafricana).

Diversi gli appelli alla cooperazione e alla pace: Jean Ping si è subito rivolto alla comunità internazionale – e in particolare alla Francia e all’Unione Europea, chiedendone l’intervento come mediatore in un conflitto che rischia di dilaniare ulteriormente

Le possibilità che la situazione si risolva repentinamente sono praticamente nulle e sicuramente non senza un intervento da parte della comunità internazionale, che deve mettere un freno alle tensioni del Gabon prima che queste si diffondano in tutta l’area e si trasformino in vere e proprie guerriglie civili.


SUD AMERICA LA PARABOLA DI DANIEL ORTEGA

Da paladino della democrazia a verosimile dittatore

Di Sara Ponza Tra i numerosi personaggi latino americani del XX secolo, figura di spicco è il controverso leader Daniel Ortega, protagonista della scena politica del Nicaragua da oltre 30 anni. Membro durante la resistenza nicaraguense, Ortega – attuale presidente della Repubblica Democratica del Nicaragua - ha animato la guerriglia rivoluzionaria di stampo marxista contro Somoza. Emblematico il suo appoggio alla Rivoluzione Popolare Sandinista (RPS) del 19 luglio del 1979, primo movimento armato rivoluzionario successivo alla rivoluzione cubana che ha determinato la fine dell’influenza statunitense sui processi rivoluzionari (e non) in America Latina. Dopo la decadenza del dittatore, Il 4 novembre 1984, il partito di Ortega – Fronte sandinista di liberazione nazionale – vinse le elezioni con il 67% delle preferenze elettorali. Il voto venne contestato dagli Stati Uniti, contrari ad un regime di stampo comunista. Il a

governo Ortega, ispirato quello del suo omologo

cubano Fidel Castro, ebbe immediatamente numerose difficoltà. Di fatti, il suo impegno per la ricostruzione socioeconomica del Paese fu minato sia dall’embargo imposto dagli Stati Uniti, i quali temevano un governo di stampo comunista, sia dalla guerriglia armata di Contras sostenuta dalla CIA. Ortega è stato comunque in grado di guidare il Nicaragua verso il cambiamento. Inoltre, la trasformazione nicaraguense ha apportato un grande contributo al processo di innovazione in tutta l’America Latina. Dopo la sconfitta elettorale del 1990, che aprì parzialmente la strada ad altri movimenti politici dell’America Latina, il 5 novembre 2006 vinse nuovamente le elezioni presidenziali contro il candidato filostatunitense Montealegre e fu poi riconfermato Presidente nel 2011. Oggi, lo sguardo è rivolto verso le elezioni del prossimo 6 novembre, che avranno come candidato alla presidenza solo Ortega. Infatti, dopo due mandati consecutivi, il leader nicaraguense punta alla terza elezione consecutiva senza avversari: contrariamente alla sua impostazione politica, il

Presidente, a circa due mesi dalle elezioni, ha eliminato ogni possibile opposizione. Significativa l’azione della giunta direttiva dell’Assemblea nazionale che ha esonerato 28 deputati eletti nel 2011 facenti parte del Partito Liberale e del Movimento Innovatore Sandinista. Ad osteggiare la leadership di Ortega vi saranno quindi solo 5 partiti di centro-destra, che secondo le statistiche, non raggiungeranno il 6% dei voti. Oltre all’estromissione dei suoi principali competitori, Ortega ha deciso di puntare sulla sua consorte Rosario Murillo, primera dama e poetessa nicaraguense. Murillo, di fatti è a capo degli enti autonomi e di tutti i ministeri, mentre gli organi dello Stato rispondono alla “vecchia guardia” fedele a Ortega. “La primera dama sta consolidando la sua influenza –afferma l’ex deputato José Pallais – mettendo persone di sua fiducia nei posti chiave delle istituzioni”. Dure anche le parole dei quotidiani stranieri: “Per gli oppositori - afferma il Corriere della Sera - è la conferma di un ‘regime di coppia’ che da tempo si spartisce il potere in Nicaragua, senza esclusione di colpi bassi”.

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SUD AMERICA LA FINE DEL GOVERNO ROUSSEFF

Genesi ed epilogo della destituzione della ‘Presidenta’

Di Daniele Ruffino Come molti si aspettavano, la Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, è stata destituita dal suo incarico in modo permanente il 31 agosto, dopo il voto conclusivo del Senato. L’iter che ha portato all’impeachment è iniziato nel dicembre scorso, quando l’opposizione ha mosso pesanti accuse alla Rousseff per via delle “pedalate fiscali” sui bilanci statali e per aver approvato due leggi senza il consenso del Parlamento. In seguito, il 12 maggio i suoi detrattori (presentandosi come difensori del popolo) sono riusciti a destituirla temporaneamente dalla carica di Presidente con una votazione alla Camera. Già pochi giorni prima della votazione di maggio, il New York Times aveva affermato che la Rousseff stava per essere giudicata da un “Parlamento di ladri”. In effetti la maggior parte dei deputati (dell’opposizione e della maggioranza) sono indagati per lo scandalo Petrobras e molti di loro sono rei davanti ai tribunali brasiliani. Dopo la prima votazione, che 16 • MSOI the Post

ha visto trionfare l’opposizione, molti hanno gridato al golpe politico. Infatti, poiché le “pedalate fiscali” sono l’evergreen di quasi di ogni presidenza, la destituzione del caso Rousseff ha destato scalpore. Inoltre, l’allora vicepresidente Temer (membro del partito avversario PMDB) ha immediatamente revocato la fiducia al governo, destabilizzandolo definitivamente; infine, hanno fatto nascere dei sospetti le pressioni - più o meno dirette - degli USA, che hanno recentemente manifestato il loro compiacimento per l’impeachment.

Con 61 voti a favore e 20 contro, il Senato del Brasile ha quindi destituito ufficialmente la Rousseff agli inizi di settembre, abbonandole però la pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici per 8 anni. Appena salito al potere, Temer ha annunciato che il suo governo farà di tutto per risanare i conti pubblici (svuotati dai Mondiali prima e dalle Olimpiadi dopo) e per riorganizzare un welfare al collasso e un’economia stagnante che tarda a decollare.

A favore della Rousseff erano, oltre a diversi capi di Stato, molti dei quali dell’America latina, i costituzionalisti e gran parte della popolazione brasiliana, coloro che hanno visto nell’impeachment un’astuta manovra politica con lo scopo di far salire al potere il vicepresidente Temer. Egli, politicamente più liberale, dovrebbe restare in carica fino al 2018 senza essere stato votato da nessun brasiliano. Il suo esecutivo potrebbe allora essere il risultato del gioco politico di una piccola élite, a vantaggio dei grandi sostenitori della politica neo-liberista americana.

La risposta a livello internazionale non ha tardato ad arrivare. Cuba, Ecuador, Venezuela e Bolivia hanno immediatamente richiamato i loro diplomatici e chiuso le rispettive ambasciate per protestare circa la destituzione della Rousseff. Molti Paesi dell’ALBA stanno tutt’ora chiedendo se ritirare anche i loro ambasciatori oppure no. Il Brasile, inoltre, dovrà cercare di mantenere la sua posizione nel Mercosur: la stessa Presidente aveva affermato che, in caso di una sua destituzione, la partecipazione all’accordo non sarebbe più stata certa.


ECONOMIA I GIOVANI D’OGGI

La piaga della disoccupazione giovanile

Di Luca Bolzanin

mano la gravità del problema.

Nessuno è immune alle conseguenze di una crisi economica. Ma alcuni sono più vulnerabili di altri. I giovani sono stati i principali sconfitti della Grande Recessione causata dalla crisi finanziaria globale del 2008. Si tratta di un fenomeno globale, ma non tutte le regioni del mondo ne sono colpite allo stesso modo. Nei Paesi avanzati, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile spazia dal 7,3% della Germania all’inquietante 50% della Grecia. In Asia orientale la media è del 12%, mentre in Nord Africa e Medio Oriente si supera il 30%. Come ha sostenuto Jean Pisani-Ferry, “è molto peggio essere giovani oggi di quanto non fosse venticinque anni fa”.

Ad ogni modo, i dati sulla disoccupazione giovanile richiedono un’analisi accurata. Non bisogna dimenticare, infatti, che buona parte degli individui tra il 16 e i 24 anni sono studenti, con scarsi rapporti con il mercato del lavoro. Non è un dettaglio tecnico. Nel 2015, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile in Grecia si aggirava attorno al 50%, sebbene la quota di teenager inoccupati (n.d.r., individui che non hanno mai lavorato) fosse solo del 7,5%. Da questa prospettiva, sembrerebbe che l’Eurozona non abbia un grave problema di disoccupazione giovanile. Ma ciò, purtroppo, non è del tutto vero.

L’ILO stima che, a livello globale, 73 milioni di persone tra i 16 e i 24 anni siano disoccupate. Cifra in calo rispetto agli oltre 76 milioni del 2009, ma il ritmo di miglioramento non è esattamente incoraggiante. In breve, circa il 45% dei giovani in età lavorativa sarebbe o disoccupato o in stato di povertà, anche possedendo un impiego. E, considerata la scarsa attendibilità dei rapporti statistici di molti Paesi poveri, dove la popolazione tende ad essere più giovane, queste cifre quasi certamente sottosti-

Al giorno d’oggi, l’aspetto più preoccupante per i giovani è quanto poco sia migliorato l’ambiente economico dalla crisi del 2008. L’alto grado di marginalizzazione giovanile sta privando l’economia globale del suo più potente propulsore. Nell’Europa continentale, il mercato del lavoro è sbilanciato verso i lavoratori più anziani e, contrariamente ai loro coetanei statunitensi, i giovani imprenditori europei sono sempre più frustrati dalla soffocante regolamentazione. A ciò si aggiunga l’ossessione per l’austerità fiscale e il risultato

è ciò che il Premio Nobel Joseph Stiglitz chiama “follia economica” dell’Europa. La questione è resa ancor più complicata dalla “quarta rivoluzione industriale”, termine coniato da Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, per descrivere come le nuove tecnologie stiano cambiando “la natura del lavoro, rendendo interi settori e occupazioni obsoleti e, allo stesso tempo, creando nuove industrie e categorie professionali”. Ciò si traduce nel cosiddetto mismatch delle competenze. In altri casi, tuttavia, il problema è la sovrabbondanza, come dimostra il caso della disoccupazione giovanile in Cina, legata all’egemonia del settore manifatturiero, che impiega più diplomati che laureati. Da più parti arrivano proposte di rimedio alla piaga della disoccupazione giovanile e tutte condividono due elementi cruciali: da un lato, una riforma dei sistemi educativi in senso market-oriented che riduca il mismatch tra competenze richieste e offerte; dall’altro, una riforma del mercato del lavoro che renda più semplice per i giovani entrarvi e, soprattutto, passare da contratti a tempo determinato ad altri a tempo indeterminato.

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ECONOMIA BASTA CONTANTI!

La proposta di Rogoff sulla limitazione del denaro liquido

Di Giacomo Robasto Il mondo è stracolmo di denaro contante, con le banche centrali dei principali Paesi che emettono centinaia di miliardi di dollari ogni anno, principalmente in denominazioni elevate, come le banconote da $ 100, che rilevano per l’80% dell’offerta monetaria pro capite statunitense. Situazione analoga in Giappone, dove la banconota da ¥ 10000 (circa $ 98) costituisce circa il 90% della carta moneta complessiva. Come sostiene il celebre economista Kenneth Rogoff nel suo ultimo libro, The Curse of Cash, tutto questo contante sta facilitando la crescita dell’economia sommersa, anziché di quella legale. Con l’aumento delle carte di debito e dei pagamenti elettronici, l’uso dei contanti sta declinando da tempo nell’economia legale, specialmente per le transazioni di media ed elevata portata. Secondo le ricerche della FED, a riprova di ciò, solo una piccola percentuale delle banconote di grosso taglio viene utilizzata per gli acquisti ordinari. I contanti, d’altro canto, sono una manna per i criminali, perché sono anonimi, facili da traportare e da nascondere. Un milione di dollari in banconote da $ 100 può essere messo in una valigetta; 18 • MSOI the Post

un milione di dollari in biglietti da $ 500 entra in una borsetta. Certo, esistono vari modi per corrompere funzionari, fare pagamenti illegali ed evadere le tasse senza i contanti. Ma molti implicano elevati costi di transazione, o un elevato rischio che vengano scoperti, come avviene per le transazioni bancarie o i pagamenti con carta di credito. Anche le criptovalute come i Bitcoin, che sono quasi impossibili da rintracciare, presentano i loro problemi: il loro valore fluttua rapidamente, e i governi hanno diversi strumenti con i quali possono limitarne l’uso, ad esempio impedendo che siano accettati da banche e negozi. I costi dell’evasione sono da soli sbalorditivi, stimati attorno ai $ 700 miliardi all’anno per gli Stati Uniti e persino maggiori in Europa, dove la tassazione è più alta. Crimine e corruzione, sebbene difficili da quantificare, quasi sicuramente producono costi persino maggiori. Ridurre i contanti difficilmente debellerà criminalità e evasione, ma obbligherà l’economia sommersa ad impiegare metodi di pagamento più rischiosi e meno liquidi. C’è da dire, però, che qualcosa si sta muovendo. La BCE, superata la resistenza di Germania e Austria, ha recentemente

annunciato che cesserà di produrre le banconote da € 500. Inoltre, alcuni governi dell’Europa meridionale hanno preso la situazione nelle proprie mani, sebbene non possano intervenire sulla creazione di moneta. Per esempio, la Grecia ha provato a scoraggiare l’uso dei contati imponendo un tetto all’utilizzo di denaro liquido per gli acquisti superiori ai € 1500. Il piano proposto da Rogoff per controllare il denaro contante è guidato da tre principi. Primo, bisogna permettere ai cittadini di continuare ad usare i contanti per fare acquisti anonimi di portata ragionevole, cessando contemporaneamente la produzione di banconote di grosso taglio e continuando a produrre quelle di valore minore. Secondo, il piano dovrebbe svilupparsi gradualmente (in un decennio o due), consentendo eventuali correzioni in corso d’opera nel caso sorgano problemi inaspettati. Terzo, le riforme devono essere sensibili ai bisogni delle famiglie a basso reddito, specialmente quelle senza conto corrente. L’implementazione di un progetto simile, secondo l’economista statunitense, produrrebbe benefici più grandi di quanto si possa pensare nell’epoca della finanza globale.


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