Msoi thePost Numero 33

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA LA LOI DU TRAVAIL FRANCESE

Una sintesi della contestatissima riforma sul lavoro

Di Benedetta Albano L’ultimo anno è stato particolarmente turbolento per la Francia. Gli attentati di Parigi hanno portato all’imposizione dello stato di sicurezza nazionale e a un clima di preoccupazione crescente. In un contesto segnato da profonda tensione e militarizzazione statale è stata anche approvata la nuova legge riguardo al sistema lavorativo, che ha suscitato polemiche e conflitti in tutto il Paese. Proposta dal ministro del governo socialista Myriam El Khomri, è stata criticata da molti esponenti del suo stesso partito come riforma che realizza obiettivi sostanzialmente opposti a quelli prefissati dal governo. Non a caso la legge è stata approvata ricorrendo al terzo comma dell’articolo 49 della Costituzione, che prevede la possibilità di far passare il testo senza un voto, permettendo quindi al governo di bypassare il Parlamento. La scelta è stata anche influenzata dalla mancanza di un accordo fra il governo e la maggioranza dei sindacati e la legge è stata ufficialmente approvata il 10 maggio 2016.

I punti più controversi sono quelli riguardanti la gestione aziendale: il datore di lavoro potrà decidere se aumentare le ore di lavoro o ridurre gli stipendi e i dipendenti potranno solo accettare le nuove condizioni, pena il licenziamento in tronco.

timanali, che al momento sono 35, ma potrebbero arrivare a 46.

Si è anche molto discusso del licenziamento economico, il termine “ombrello” che prima della riforma indicava la possibilità di licenziare dipendenti nel caso in cui l’azienda rischiasse il fallimento. Ora questo è diventato un provvedimento a spettro più ampio: anche quando l’azienda non rischia la chiusura o si trova in difficoltà economiche, essa potrà utilizzarlo a fini di “reinserimento di competitività sul mercato”.

L’approvazione di questa riforma ha scatenato in tutta la Francia fortissime contestazioni sociali non soltanto per il contenuto, ma anche per la modalità utilizzata per la sua adozione. Molti cittadini francesi hanno promosso petizioni per l’abolizione della legge e sono stati indetti vari scioperi generali. Si sono verificati, specialmente a Parigi, anche scontri ed episodi di violenza e in tutto il territorio si è assistito a cortei e manifestazioni. Diverse critiche provengono anche da membri stessi del Parlamento e del partito al governo, a causa della perdita di legittimazione subita.

Diventerà anche più difficile ottenere l’indennizzo a seguito di un licenziamento senza giusta causa: il licenziato dovrà rivolgersi ai prud’hommes (l’organo competente nel sistema francese) e potrà ottenere un risarcimento che andrà dai 3 (per persone con meno di due anni di anzianità) ai 15 mesi (per persone con più di 20 anni.). Vi sarà inoltre un possibile aumento delle ore lavorative set-

Il governo si trova in un momento di profonda difficoltà anche economica: la Francia infatti aveva già dichiarato a novembre che non avrebbe rispettato il tetto massimo di spese previsto dall’Unione Europea a causa della minaccia terroristica. Le prossime elezioni potrebbero quindi rispecchiare il malcontento dei cittadini nei confronti del governo e delle nuove riforme approvate. MSOI the Post • 3


EUROPA L’IMPOTENZA DELL’EUROPA DI FRONTE A ERDOGAN La debolezza dell’UE nei confronti del Presidente turco

Di Matteo Candelari Nel vorticoso susseguirsi di eventi che stanno infiammando questa estate, il 15 luglio si è assistito a un tentativo di “golpe” per rovesciare il presidente Erdogan. Organizzato da una componente minoritaria dell’esercito, si è concluso dopo appena 4 ore, sconfitto dalla discesa nelle piazze di gran parte della popolazione, che ha risposto all’invito di Erdogan a resistere. Il Presidente turco è così rientrato trionfalmente a Istanbul, promettendo il pugno di ferro contro i golpisti. Dal giorno successivo ha avuto inizio una serie di epurazioni che sono andate a colpire non solo i responsabili, ma anche tutti i simpatizzanti. Le purghe hanno militari, imam, giudici, giornalisti, insegnanti e dipendenti pubblici, con oltre 10.000 arresti. Senza scomodare nessuna teoria complottista, è evidente che Erdogan abbia beneficiato del fallimento del colpo di Stato per imporre un regime ancora più autoritario, rendendo inerme qualsiasi forma di dissenso. Le purghe su vasta scala, accompagnate da violenza e accanimento, hanno iniziato a preoccupare la comunità in4 • MSOI the Post

ternazionale. Le preoccupazioni si sono ulteriormente aggravate quando Erdogan ha ventilato la possibilità di ripristinare la pena di morte per punire i golpisti. Tuttavia, le reazioni di UE e USA sono state molto timide e si sono limitate a moniti di portata generale. Le varie cancellerie europee hanno ribadito l’opposizione alla violenza nei confronti dei cittadini e l’importanza del rispetto dello Stato di diritto. E’ stato inoltre fatto presente che la reintroduzione della pena capitale sarebbe incompatibile con il processo di adesione all’UE. Questi ammonimenti, però, non hanno minimamente rallentato l’azione del governo turco. Erdogan si è anzi scagliato a più riprese contro gli Stati UE. In riferimento alla pena capitale il Presidente ha ricordato che la Turchia attende da 53 anni di entrare nell’Unione, mentre altri Stati le sono passati davanti. Pertanto se il Parlamento decidesse per la pena di morte lui la approverebbe. Un’altra frecciata è stata lanciata alla Francia. Erdogan ha affermato che si rifiuta di prendere lezioni di democrazia da uno Stato che ha sospeso la Convenzione Europea dei Diritti Umani e proclamato lo stato di emergenza in tutto il Paese dopo gli

attentati di Parigi. In realtà sia gli USA sia l’UE sono ben consapevoli che la Turchia è un partner strategico fondamentale per il ruolo e la posizione che occupa. Tirare troppo la corda e inimicarsi uno degli eserciti più potenti della NATO sarebbe estremamente rischioso, soprattutto per la situazione siriana. Inoltre l’UE ha recentemente garantito alla Turchia 6 miliardi di euro perché blocchi i migranti e non li faccia arrivare in Grecia. Questo dà alla Turchia una posizione di forza, per non dire di possibile ricatto, nei confronti dell’UE. Un fatto appare ormai certo: l’UE sembra aver smarrito la grande forza di potenza normativa che ha avuto per parecchi anni. Si è spesso guardato all’UE come baluardo dei diritti umani e delle libertà democratiche. Questo riconoscimento a livello mondiale le ha permesso di influenzare, all’interno della comunità internazionale, tutti quegli Stati che guardavano ad essa come a un modello a cui ispirarsi. Al giorno d’oggi questa forza pare essere molto indebolita, tanto che la voce dell’UE rimane inascoltata e ignorata.


NORD AMERICA US e UN: quale futuro?

Perché la relazione dovrebbe stringersi sotto la futura amministrazione

Di Alessandro Dalpasso Secondo uno schema ben noto, quando sorgono problematiche in merito all’applicazione di una norma indigesta, o al rispetto di un impegno internazionale ritenuto sconveniente dall’elettorato, si tende a dare la colpa al “livello superiore”. Se per i Paesi europei questo è rappresentato dalle istituzioni comunitarie, nel caso degli Stati Uniti si ha la tendenza ad accusare le Nazioni Unite per le scelte più impopolari portate a termine dall’Amministrazione. La relazione tra questi due colossi della scena internazionale è stata disfunzionale fin dal suo inizio: il personale fornito dagli Stati Uniti era composto da ex militari, veterani della seconda guerra mondiale, con una determinata visione del mondo. Questo ha portato l’allora URSS ad agire in modo speculare, creando una contrapposizione di blocchi fin dentro il Palazzo di Vetro. Con l’avvento del Maccartismo, poi, Turtle Bay venne sempre più percepita come un covo di spie dall’amministrazione statunitense che vi installò un ufficio dell’FBI, dismesso solo dal Segretario Dag Hammarskjold.

Negli anni seguenti numerose fonti di conflitto hanno esacerbato questo rapporto: la contrapposizione con l’allora altra grande potenza, l’Unione Sovietica, in seno al Consiglio di Sicurezza, le questioni di budget a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, il fallimento del Quick Fix per riformare il direttorio delle potenze e concedere a Giappone e Germania un seggio permanente e, infine, i conflitti sorti sulla questione irachena all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre.

Ban Ki-moon è stato un Segretario Generale con un’agenda solo parzialmente incisiva per quanto riguarda il ruolo nel mondo dell’Organizzazione. Se un personaggio riformatore e con il forte carattere è essenziale, lo è altrettanto la sua futura forte relazione con Washington, sia per ovviare al suddetto rapporto difficile sia perché è innegabile che una struttura così composita come le Nazioni Unite rischia di collassare sul suo proprio peso se questo appoggio viene a mancare.

Questo gennaio, durante il suo ultimo Discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente Obama ha posto una domanda, per alcuni versi retorica, che potrebbe essere invece un punto di svolta. Chiedendosi infatti “come fosse possibile mantenere l’America al sicuro e al tempo stesso guida del mondo, ma senza diventarne il poliziotto”, la risposta implicita che egli ha dato è sull›East River di New York.

Interdipendenza tra Casa Bianca e Palazzo di Vetro. L’ultima volta in cui gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo di effettivo catalizzatore e di guida è stato per la lotta al terrore ad inizio anni 2000. Oggi le sfide sono differenti sotto alcuni aspetti e assicurare al mondo una pace effettiva è forse ancora più complicato ma un partner globale come le Nazioni Unite sarà di sicuro utile alla nuova amministrazione. Perché è vero che potrà rimanere la paura che l’Organizzazione diventi troppo forte, ma sarebbe di gran lunga peggio se essa fosse indebolita ancora.

Le misure per tentare di migliorare la situazione, della prossima amministrazione potrebbero muoversi su due direttrici. Elezione del nuovo Segretario Generale.

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NORD AMERICA PERCHÉ PIACE DONALD TRUMP

Il punto sul politico e sul perché piace agli elettori

Di Alexander Virgili, Sezione MSOI Napoli Tra i nomi più discussi dell’ultimo periodo, sicuramente quello di Trump è ai primi posti. Da quando il noto imprenditore ha deciso di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti partecipando alle primarie del partito Repubblicano, non è stato insolito a commenti ed attacchi che hanno fatto molto discutere il mondo della politica e della società in tutto il mondo. I quesiti su che cosa attragga gli elettori che lo hanno supportato durante queste primarie, sul perché una parte delle masse lo sostenga pur apparendo poco o per nulla politically correct è un interrogativo che si sono posti in molti. La testata inglese The Guardian ha addirittura parlato del più grande “mistero” americano del momento, evidenziando come alle classi medie, generalmente sostenitrici della democrazia, dei diritti civili e di un certo modo i far politica, continuerà ad apparire incomprensibile ciò che invece alle classi popolari americane suona vicino al proprio sentire. Anche alcuni editorialisti del New York Times sembrano 6 • MSOI the Post

aver rinunciato all’idea di comprendere gli eventi, se non citando una sorta di odio sociale strisciante, reso più forte dalla presenza di un Presidente di colore. Analizzando i contenuti dei discorsi di Trump, al di là delle affermazioni provocatorie ed estreme, egli sembra richiamarsi ad una sorta di spirito nazionalista che vuole riportare in auge al centralità degli USA, della sua economia, evitando che si perdano posti di lavoro con la delocalizzazione produttiva. Al di là del razzismo, quindi, coinvolgere gli interessi reali di quella maggioranza di americani che non è ricca e che si vede anzi impoverita dal liberismo estremo, sarebbe una scelta strategica. Un’altra caratteristica che potrebbe aiutare a comprendere il successo di Trump è il suo uso di un linguaggio molto semplice, addirittura “primitivo”, secondo qualche osservatore, che lo rende ancora una volta vicino a quella massa di votanti che si rispecchia in un modo di parlare non artificioso e più diretto. Un ulteriore e cruciale fattore

che raccoglie consensi da parte di Trump è il fatto che sia un esterno alla politica. In una fase della storia statunitense in cui il gradimento del Congresso è ai minimi storici, così come l’establishment politico di Washington, un uomo forte e critico nei confronti di questa èlite riscuote molto successo. Inoltre, Trump non ha mancato di ricordare più volte di come la sua campagna elettorale sia finanziata autonomamente, grazie ad una elevata possibilità economica personale, e che non riceva donazioni dalle grandi multinazionali e gruppi di potere forti che potrebbero compromettere la sua libertà ed integrità. In ultima istanza, vi è la sua indiscutibile esperienza con i mezzi di comunicazione. La copertura mediatica dei suoi comizi elettorali è superiore a quella di ogni altro candidato aumentando così i consensi e quindi, di nuovo, la copertura sulla sua campagna elettorale. La sua abilità di far parlare di sé sia in modo positivo che negativo gli consentono di essere e rimanere il candidato più discusso e più popolare del momento.


MEDIO ORIENTE LE COMBATTENTI CURDE CONTRO DAESH Da anni le donne Peshmerga difendono il Kurdistan iracheno dagli attacchi degli jihadisti

Di Maria Francesca Bottura Risale al XI secolo l’idea di un esercito curdo di sole donne. Fu il sovrano Saladino a decretare che sarebbero dovute essere le donne curde a combattere al suo fianco, ammirandone le capacità di combattenti. Cinque secoli più tardi le donne Peshmerga resistono ancora, ultimo baluardo contro le forze jihadiste. Nel settembre 2014 i servizi di intelligence americani e britannici hanno rivelato che un punto debole dei miliziani jihadisti starebbe proprio nella componente femminile dell’esercito curdo. Infatti, secondo il Corano, un soldato che muore in battaglia ucciso da un altro soldato finirà in Paradiso accolto da 72 vergini, ma che cosa potrebbe accadere ad un soldato ucciso in combattimento da una donna? Un rischio troppo alto per i miliziani del sedicente Stato Islamico, che più di una volta hanno preferito ritirarsi. Nessrin Abdalla, la comandante

in prima linea a Kobane, è stata tra le prime ad accorgersi del timore dei miliziani avversari, nonostante la loro fama li dipinga sanguinari e spietati, soprattutto con le donne. “L’obiettivo più urgente oggi è far cessare le crudeltà disumane inflitte dallo Stato Islamico e costruire la libertà per noi curdi” ha asserito più di una volta la comandante, fiduciosa nelle capacità del suo battaglione. Il reggimento Peshmerga ha una storia relativamente recente, nonostante le donne curde siano da secoli riconosciute per le loro capacità di combattenti; solo nel 1996 fu istituita la prima unità, composta di sole 11 reclute. Con gli anni si è giunti a contare quattro battaglioni, con un comandante per brigata e un corpo ufficiali fino al grado di colonnello. A spronare le soldatesse, oltre alla difesa del Kurdistan, ci sono anche i crimini dei miliziani jihadisti contro le donne, con stupri, rapimenti, omicidi e matrimoni forzati. “La

nostra motivazione contro lo Stato Islamico è forte, vogliamo combattere per difendere il Kurdistan e anche difendere noi stesse perché da quanto visto a Mosul i miliziani jihadisti attaccano proprio noi donne” ha detto il soldato Shaimaa Khalil alla BBC nel 2014. Le soldatesse curde, però, non sono le uniche a combattere contro lo Stato Islamico: si fanno chiamare Sun Girls, il plotone di sole donne sopravvissute alle torture e agli stupri dei miliziani jihadisti che ora reclamano vendetta. A guidarle Xate Shingali, prima una rinomata cantante yazida, ora una soldatessa. Il plotone, solo un anno fa contava già 123 donne tra i 17 e i 30 anni. La rabbia e il desiderio di vendetta è talmente forte che le donne yazide, nonostante nessun addestramento o preventiva preparazione, si sono dette pronte a combattere accanto all’esercito delle donne Peshmerga. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE QUANDO LA DIGNITÀ È UNA SOTTILE LINEA ROSSA Libertà di espressione: due casi emblematici

Di Martina Scarnato Anche quest’anno Reporter Senza Frontiere (RSF) ha stilato la classifica mondiale della libertà di stampa. Generalmente, per valutare il grado di “libertà”, l’ONG si basa sul grado di indipendenza dei mezzi d’informazione, il pluralismo, sulla qualità del quadro giuridico e sulla sicurezza dei giornalisti. Per quanto concerne la zona MENA, troviamo casi come la Tunisia, che dal 126° posto è arrivata al 96°, ma anche casi come l’Egitto e la Turchia, rispettivamente al 159° e 151° posto. Sono questi ultimi due Paesi in cui si assiste sempre di più ad una drastica riduzione delle libertà fondamentali e, quindi, anche della libertà di espressione. Il giornalista di origine palestinese Rami G.Kouri, in un articolo uscito su Internazionale, afferma: “La libertà di espressione e di assemblea nelle società arabe è l’ultimo baluardo contro un controllo totale dello Stato sul pensiero, sulle azioni e sulle vite delle persone. […]i regimi autoritari hanno prosciugato ogni forma di dinamismo e di pluralismo sociale, fiaccando sia le strutture statali che la popolazione”. 8 • MSOI the Post

Nello stesso articolo, Kouri critica in particolar modo la critica situazione egiziana, a partire da un episodio emblematico: il 1° maggio, la polizia ha fatto irruzione nella sede di un sindacato di giornalisti arrestandone due, Amr Badr e Mahmud el Sakka, con l’accusa di aver diffuso informazioni false e aver incitato a protestare contro il governo durante le manifestazioni del 25 aprile. In seguito il Sindacato dei giornalisti ha portato avanti un’iniziativa, scrivendo sul muro di un edificio : “ La dignità dei giornalisti è una linea rossa” e centinaia di cronisti avrebbero manifestato al Cairo urlando davanti alla sede del sindacato che “ il giornalismo non è un crimine!”. Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), l’Egitto sarebbe “ la seconda peggiore prigione per giornalisti al mondo”, preceduto solo dalla Cina. Attualmente vi sarebbero almeno 23 giornalisti in carcere , di cui 2 sono i reporter di Al Jazeera condannati a morte poiché accusati di aver venduto dei segreti di Stato al Qatar. Per quanto riguarda la Turchia, invece, RSF ha giustificato la sua valutazione scrivendo che :

“le autorità hanno continuato a usare le leggi antiterrorismo per arrestare giornalisti, per censurare i media presenti in Internet, le notizie legate alle rivolte curde e il conflitto in Siria, oppure per espellere i corrispondenti esteri dei giornali stranieri”. Un caso significativo è quello del direttore della testata Cumhuriyet, Can Dundar, che sarebbe scampato ad un attentato organizzato davanti al tribunale di Istanbul dopo esser stato accusato di “spionaggio, minaccia alla sicurezza e sostegno a gruppi terroristici armati”. Inoltre, ha fatto scalpore la notizia della chiusura del quotidiano Zaman il 15 maggio, che già ad inizio marzo era stato teatro di un blitz della polizia, che si era concluso con la dispersione dei manifestanti radunati di fronte alla sede con i fumogeni. In realtà la notizia si è poi rivelata essere falsa, tuttavia la redazione del giornale vicino al magnate Fethullah Gulen è stata completamente cambiata, con la nomina di un nuovo direttore favorevole ad Erdogan. Per citare le parole dell’ex direttore del giornale, questa sembrerebbe essere una “ pagina nera per la storia della democrazia”.


RUSSIA E BALCANI LA LENTA AGONIA DEL LAGO D’ARAL

Storia del prosciugamento di uno dei bacini più estesi al mondo

Di Lorenzo Bardia

compiuti dall’uomo.

Sessant’anni fa era il quarto lago più esteso al mondo. Oggi del lago d’Aral, chiamato anche “mare d’Aral” per le sue dimensioni, non rimane pressoché nulla.

Alla base di questo sconvolgimento sta un piano agricolo di irrigazione sovietico che deviò il corso di due dei fiumi più grandi della regione, l’Amu Darya e il Syr Darya, al fine di favorire l’irrigazione necessaria per incrementare le coltivazioni di cotone della zona. I responsabili dell’URSS ritenevano che così facendo il lago sarebbe andato incontro a una “serena morte” che l’avrebbe reso una grande palude acquitrinosa, un luogo favorevole alla coltivazione del riso. Per lasciare posto alle piantagioni, le cooperative agricole hanno quindi fatto un massiccio uso di diserbanti e pesticidi, che hanno inquinato il terreno circostante.

Situato al confine tra il Kazakistan e l’Uzbekistan, questo grande mare interno registrava all’origine un’ampiezza di circa 68.000 km², che però sono andati progressivamente diminuendo a partire dal 1960. Il lago, così, ha finito per misurare meno del 10% della sua estensione originaria. Secondo gli osservatori della NASA, alla fine del 2015 il livello del lago è sceso ai minimi storici a causa dei bassi livelli nevosi nelle catene montuose circostanti, che lo riforniscono d’acqua. Sebbene il lago abbia attraversato fasi di ritiro e di espansione e quest’area dell’Asia centrale sia da sempre al centro dello sfruttamento degli uomini, la situazione che oggi vive il bacino idrico del lago d’Aral è catastrofica: siamo di fronte a quello che gli esperti definiscono uno dei più grandi disastri ambientali

Ma al posto del previsto acquitrino è nato un deserto di sabbia salata. Philip Micklin, professore di geografia alla Western Michigan University, ha dichiarato che “probabilmente è la prima volta che il lago si è completamente prosciugato da 600 anni a questa parte, cioè dall’essiccazione, risalente al Medioevo, collegata alla diversione del fiume Amu Darya verso il Mar Caspio”.

Come contrastare quindi un destino che pare ormai inevitabile? Con l’aiuto della Banca Mondiale il Kazakistan ha costruito una diga lunga 12 kilometri, nella speranza di salvare una parte del lago. I risultati ottenuti sono stati al di sopra delle attese, comunque non pienamente soddisfacenti. Oggi, secondo gli ultimi rapporti delle Nazioni Unite, nella regione del lago d’Aral e dei suoi affluenti risiedono circa 60 milioni di persone. Il disastro ecologico ha distrutto l’economia locale e danneggiato profondamente le famiglie che vivevano grazie all’ecosistema lacustre, il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli record e ha spinto molti ad abbandonare il territorio. Alcuni esperti sostengono che il lago sarà completamente prosciugato entro il 2020. Nei prossimi decenni il controllo delle risorse idriche produrrà nel mondo tensioni e conflitti in misura sempre maggiore: che questo disastro ambientale sia quindi un segnale di avvertimento per le generazioni future?

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RUSSIA E BALCANI DIRITTI LGBT IN RUSSIA

Dopo un passato incerto, un presente e un futuro sempre più bui

Di Leonardo Scanavino La vita della comunità omosessuale in Russia iniziò a complicarsi in epoca imperiale: fino allo zar Pietro I, infatti, l’omosessualità era tollerata. Con la rivoluzione di ottobre e l’istituzione dell’URSS si osservarono periodi di apertura (sotto il segretariato di Lenin, Chruščëv e Gorbačëv) e altri di chiusura (in presenza degli altri segretari del PCUS). Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1993, sotto le presidenze di Eltsin, Medvedev e Putin iniziarono le limitazioni ai diritti della comunità LGBT e conseguentemente le battaglie pubbliche dei movimenti che la rappresentavano. L’atteggiamento di chiusura della società civile russa nei confronti della popolazione omosessuale risente molto dell’ingombrante presenza della Chiesa ortodossa russa e delle sue ingerenze nella vita politica del Paese. Nel luglio 2013 il patriarca russo Kirill ha affermato che “l’idea del matrimonio omosessuale è un segno inequivocabile dell’avvicinarsi dell’apocalisse”. In occasione dell’incontro svoltosi a Cuba tra lo stesso Patriarca e papa Francesco nel febbraio 2016 è stata firmata una dichiarazione congiunta nella quale si afferma: “Ci rammari10 • MSOI the Post

chiamo che altre forme di convivenza siano ormai poste allo stesso livello di questa unione” [in riferimento all’art. 19 della dichiarazione: unione tra uomo e donna, nda]. Dal 2006 a Mosca non è mai stato concesso ai gruppi LGBT il diritto di manifestare e ogni loro iniziativa è stata ostacolata dalla polizia con l’uso della forza. Gli episodi di schern e violenza, nonché gli omicidi, a danno di persone omosessuali si sono moltiplicati negli ultimi anni e l’orientamento sessuale delle vittime viene utilizzato sempre di più come attenuante, anziché come aggravante. Dal 2013 è stata adottata una controversa legge federale che non consente la “propaganda” dell’omosessualità in presenza di minori: questo ha creato un impedimento formale a manifestare pubblicamente in favore dei diritti delle minoranze sessuali. I motivi addotti riguardano la possibilità che le giovani leve pensino di essere gay o lesbiche e che, di conseguenza, i tassi di natalità raggiunti negli ultimi anni tornino a scendere. Un numero inferiore di nascite potrebbe, tra le altre cose, sguarnire le file dell’esercito della Federazione Russa. Sul fronte internazionale si sono mossi in molti: organizza-

zioni per i diritti umani, alcuni capi di Stato europei (tra cui Cameron, Merkel e Hollande) e anche esponenti del mondo musicale (tra cui Elton John e Madonna). Per quanto riguarda il fronte extra-europeo, il presidente USA Barack Obama, al G20 di San Pietroburgo nel settembre 2013, in una situazione di forte tensione con Putin per via della situazione ucraina, ha voluto incontrare i rappresentanti delle associazioni LGBT russe. In reazione a questa legge è nata una campagna internazionale di boicottaggio di prodotti di export russi, soprattutto vodka e caviale. Inoltre, si sono registrate molte iniziative in concomitanza dei Giochi Olimpici di Sochi del 2014: alcuni atleti minacciarono di non partecipare, altri si limitarono a gesti di sostegno alla comunità omosessuale (alcune atlete, per esempio, si dipinsero le unghie con i colori dell’arcobaleno). Nel 2015 il tentativo di tenere un Gay Pride nel centro di Mosca si è concluso con violenti scontri e una quindicina di arresti. La situazione attuale non fa presagire miglioramenti, soprattutto per la mentalità tradizionalista delle popolazioni rurali, oltre che per la presenza di un governo conservatore.


ORIENTE DUTERTE, HOMO NOVUS E FIGURA CONTROVERSA La presidenza Duterte nelle Filippine è oggetto di pareri contrastanti.

Di Giulia Tempo Le Filippine, indipendenti dal 1946, sono una Nazione arcipelagica composta da più di 7.000 isole, anche se i 96 milioni di abitanti risiedono in prevalenza su 11 di esse. Lo scorso 9 maggio hanno avuto luogo le elezioni presidenziali, che hanno sancito la fine della carica di Benigno Aquino. Questi, come previsto, ha lasciato il potere il 10 giugno, divenendo il primo Presidente dopo Fidel Ramos – nel 1998 – ad assumere e lasciare la carica mediante una transizione a tutti gli effetti democratica. Ha vinto le elezioni Rodrigo Duterte, che per gran parte degli ultimi 25 anni è stato sindaco di Davao, maggiore città dell’isola meridionale di Mindanao, a maggioranza musulmana. Le voci critiche sottolineano la durezza di alcune posizioni assunte da Duterte, in particolare nei confronti del Congresso, che egli afferma di voler sciogliere, qualora venisse messo in minoranza. Qualche giorno dopo la pubblicazione dei risultati delle elezioni, inoltre, l’Economist riportava la minaccia di Duterte di gettare nella baia di Manila i cadaveri di 100.000 criminali. Questa dichiarazione, unita

ad alcune altre, irriverenti, su questioni relative allo stupro e perfino sulla figura del Pontefice, parrebbe delineare il profilo di un politico molto diverso rispetto ai suoi pacati predecessori. Il 6 giugno, poco prima dell’ascesa ufficiale al potere, Duterte, interrogato sul problema della criminalità nel Paese, ha esortato i cittadini a farsi promotori della soluzione: “Se possedete un’arma, fateli fuori tutti”, ha dichiarato davanti alle telecamere. Le elezioni hanno avuto luogo in un clima di insofferenza generale nei confronti delle poche grandi famiglie che da decenni dominavano lo scenario politico del Paese. I dati economici rivelano tuttavia una buona gestione dell’economia nazionale negli ultimi anni. Con Aquino le Filippine hanno visto un accrescimento della governabilità, dei consumi e della trasparenza nella gestione del potere, mentre è stata portata avanti con successo la lotta alla disoccupazione. Sono state promosse riforme fiscali ed è stata incrementata la spesa sociale e per le infrastrutture. La presidenza Aquino ha accresciuto il rating delle Filippine, permettendo un più facile indebitamento del Paese e incentivando gli investimenti

esteri sul territorio nazionale. La popolazione, tuttavia, ha tratto scarso beneficio dalla crescita economica. A livello locale la corruzione non ha mai smesso di rappresentare un problema e circa 1/3 dei filippini vive con meno di 3,10 dollari al giorno. Era prevedibile l’elezione di un candidato con scarso supporto dal mondo politico ma notevole carisma, in uno scenario dominato dalle grandi personalità più che da un sistema partitico strutturato efficacemente. Carlos Dominguez, il neoministro delle Finanze, ha stilato una lista delle priorità economiche dell’amministrazione entrante. Si prevede di mantenere invariato il rapporto tra spesa per infrastrutture e PIL (5%), ridurre la criminalità con lo scopo di attrarre nuovi investitori, fornire servizi di supporto a piccoli commercianti e agricoltori, promuovere il turismo e incentivare la scolarizzazione. Il vice amministratore delegato di Metrobank, Francisco Sebastian, ha tuttavia messo in luce svariate incongruenze nell’articolata agenda economica di Duterte, che rischia di lasciarsi trasportare dalla vis riformistica.

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ORIENTE LA NUOVA VIA DELLA SETA

Le origini millenarie del sogno commerciale asiatico

Di Tiziano Traversa Duemila anni fa la Via della Seta correva per 8.000 chilometri: attraversando l’intero continente asiatico, collegava Roma con il celeste impero. Tramite essa giungevano nel Mediterraneo merci rare e storie di un mondo meraviglioso e imperscrutabile. La Via della Seta fu nell’antichità una straordinaria realtà, i cui benefici andarono oltre il semplice commercio: il corridoio tra l’Oriente e il Vecchio Mondo permise, in 1.500 anni di storia, quello scambio tra raffinate culture che andò a tracciare i fondamenti della cultura occidentale moderna. Era il 2013 quando il presidente cinese Xi Jinping annunciava la volontà di realizzare una grande rete di infrastrutture volta a favorire gli scambi economici tra l’Oriente e l’Occidente. Questo ambizioso progetto, definito come Nuova Via della Seta, è iniziato ufficialmente nel 2015 e prevede la realizzazione di due canali commerciali, terrestre e marittimo, che attraversino l’Oriente per approdare in Occidente. 12 • MSOI the Post

L’idea cinese è quella di costruire un’imponente rete di comunicazione che permetta scambi rapidi e sicuri, nella volontà di rivoluzionare il panorama economico di Asia, Medio Oriente ed Europa in alternativa alle attuali condizioni commerciali. Il progetto prevede la costruzione di una nuova e tecnologica linea ferroviaria che colleghi la Cina con Mosca. Dalla capitale russa le merci sarebbero poi indirizzate verso la loro meta finale. In campo marittimo-portuale, invece, il colossale progetto si prefigge la realizzazione di una rotta commerciale diretta che, partendo dalla Cina e attraversando i Paesi del Sud Pacifico e dell’Oceano Indiano, giungerà, attraverso Suez e il Mediterraneo, fino a Venezia. Lungo tutta la rotta è prevista la costruzione di una rete di piattaforme portuali di scalo, che permetteranno l’attracco in alto mare delle grandi navi cargo: ciò al fine di far navigare le merci su imbarcazioni più agili e veloci, capaci di attraccare anche nei porti più piccoli. A questi due progetti principali si somma un’infinita serie di interventi e di miglioramenti

strutturali più o meno rilevanti. La Cina ha già stanziato una cifra iniziale di 60 miliardi di dollari, mentre i Paesi interessati, direttamente o indirettamente, hanno abbracciato la proposta con grande entusiasmo, rendendosi disponibili a investimenti importanti per un progetto che potrebbe rivelarsi uno dei più maggiori progetti di cooperazione internazionale mai realizzati. Si tratta, dopotutto, di un’iniziativa rivoluzionaria e innovativa, che lascia intravedere enormi benefici economici per l’area euroasiatica ma che, ovviamente, necessita di costi piuttosto consistenti. Nonostante le spese siano, al momento, non ancora stimabili, si è istituito un fondo internazionale di investimento che ha già raccolto 40 miliardi di dollari. La Nuova Via della Seta è un progetto che trae certamente spunto dall’antica via commerciale, ma anche se oggi il mondo, fortemente globalizzato, lascia poco spazio allo scambio culturale, sul piano economico questa potrebbe essere un’interessante opportunità.


AFRICA L’ALTRA FACCIA DI NAIROBI

Gli slum della capitale keniota tra miseria, droga e aiuti umanitari

Di Francesco Raimondi Nairobi, come quasi tutte le metropoli sub-sahariane, è una città la cui conformazione urbana scaturisce dal confronto dialettico tra contraddizioni apparentemente insanabili: cuore finanziario del continente e polo industriale privilegiato in Kenya, ha una periferia costellata di numerosi slum, immani baraccopoli dove regnano il degrado e la malattia. I numeri sono impressionanti: si stima che qui abiti il 50% circa dei 4 milioni di persone che popolano il capoluogo keniota. A due passi dall’aeroporto locale sorge lo slum di Mitumba: con un tasso di sieropositivi che sfiora il 60% degli abitanti e un indice di scolarizzazione che stenta a raggiungere il 5% è il sobborgo più povero della città. Kibera, invece, che ospita tra le 170.000 e le 240.000 persone, è lo slum più esteso di Nairobi, ad appena 5 chilometri dal prestigioso Central Business District. Dato questo contesto dominato

dalla miseria, non stupisce che nel 2001 le Nazioni Unite abbiano assegnato a Nairobi la categoria “C” in termini di sicurezza, dichiarandola uno dei centri urbani più pericolosi al mondo. A indirizzare i giovanissimi senzatetto della città verso le vie quasi obbligate del malaffare, oltre alla povertà assoluta, contribuisce l’assunzione di sostanze stupefacenti a portata di tutti. La più usata tra i 300.000 bambini kenioti che vivono per strada, secondo quanto rilevato da un reportage realizzato da Pablo Trincia l’8 maggio 2016, sarebbe la colla. Reperibile presso ogni calzolaio della città per l’equivalente di pochi centesimi di euro, essa - se inalata - induce effetti psicotropi talvolta mortali. In rapida crescita è poi lo sballo dovuto all’assuefazione da jet fuel, carburante per aerei, anch’esso molto economico e pericolosissimo, dal momento che espone a rischi elevati di crisi cardiache e respiratorie. I cumuli di immondizia che caratterizzano l’orizzonte urbano

dello slum di Mathare si popolano quotidianamente di schiere di bambini che portano alla bocca stracci imbevuti di tale mix letale di idrocarburi e solventi chimici: drammatico tentativo di stornare da sé l’idea di un futuro che non offre speranze di riscatto sociale. Esistono, tuttavia, alcune organizzazioni internazionali attive sul territorio, molte delle quali battono bandiera italiana: tra queste Amani, che all’interno del suo Kivuli Centre offre gratuitamente visite ed esami clinici, oltre a ospitare 196 bambini di strada in 6 strutture di accoglienza residenziali sparse fra Kenya, Zambia e Sudan. Altro progetto virtuoso è quello avviato nel 2008 dall’Orchestra Giovanile Keniota, che riunisce oltre 600 ragazzi delle baraccopoli di Nairobi con l’intento di “trasformare le loro vite utilizzando l’arte e la disciplina che lo studio della musica classica implica”, secondo quanto sostiene la direttrice Elisabeth Njoroge.

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AFRICA STOP ALL’INFIBULAZIONE IN NIGERIA?

I risultati concreti del provvedimento adottato per proteggere i diritti delle donne

Di Francesca Schellino È passato più di un anno da quando, il 5 maggio 2015, il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha firmato una legge che bandisce ufficialmente l’infibulazione e la MGF (mutilazione genitale femminile). Il provvedimento fa parte del Violence Against Persons Act, un documento che tutela anche le vedove e proibisce che le donne separate vengano ripudiate dal marito senza ricevere sostegno economico per se stesse e per i figli. Da allora, chi è accusato di aver praticato un’infibulazione dovrebbe scontare 4 anni di galera e pagare una multa di 200.000 naira (circa € 1.000). Ma dopo la sua entrata in vigore la legge è stata effettivamente applicata? Alcuni dei 36 Stati nigeriani avevano proibito già da tempo questa pratica, ma lo scopo della nuova legislazione era di uniformare la disciplina a livello federale. Già in precedenza la Nigeria, lo Stato africano più popoloso, aveva preso posizione rispetto a questo delicato argomento. È stato infatti uno dei primi Paesi a ratificare il Protocollo di Maputo, una convenzione adottata dall’Unione Africana ed entrata 14 • MSOI the Post

in vigore nel 2005, che chiedeva con forza ai rappresentanti dei governi l’impegno a eliminare tutte le forme di discriminazione e violenza verso le donne. Nonostante il documento fosse stato firmato da 48 Stati africani, le pratiche di MGF avevano continuato a essere praticate per mancanza di controlli sul territorio da parte dei vari governi. Con la legge del 5 maggio 2015 la Nigeria ha assunto una posizione più definita nella lotta all’infibulazione e dopo un anno iniziano a vedersi i risultati. I dati aggiornati ai primi mesi del 2016 mostrano come la percentuale delle MGF sia scesa del 20% rispetto all’anno precedente. Un segnale importante, se si pensa che secondo le stime dell’OMS ¼ delle donne sottoposte a interventi di questo tipo vive in Nigeria, anche se il Paese in cui viene praticata più frequentemente l’infibulazione è la Somalia. La legislazione nigeriana è dunque un esempio per gli altri Stati africani: Paesi come il Gambia, che ha annunciato nel novembre 2015 di aver pronto un disegno di legge simile a quello di Goodluck Jonathan, stanno seguendo un percorso analogo.

Queste pratiche hanno carattere puramente culturale e non, come si potrebbe pensare, religioso: in nessun libro sacro, incluso il Corano, si parla d’infibulazione. In Eritrea, Etiopia e Niger le MGF sono più diffuse fra le comunità cristiane che fra quelle musulmane. Nonostante ciò, nel mondo islamico questa pratica è consigliata per conservare l’illibatezza della donna; una ragazza non infibulata viene infatti considerata impura, non trova marito e può essere allontanata dalla società. La battaglia contro la mutilazione genitale femminile è fondamentale per tutelare la salute delle donne. L’infibulazione, infatti, non è praticata da personale competente in strutture ospedaliere, bensì dalle madri delle ragazze, senza anestesia e attraverso strumenti rudimentali come schegge di vetro e coltelli. Tutto ciò provoca danni fisici e psicologici permanenti. Molte delle bambine sottoposte a questa pratica muoiono per emorragia, per infezioni o per il collasso neurologico provocato dall’intenso dolore e dal trauma. I danni aumentano nel momento del concepimento: è frequente la rottura dell’utero durante il parto, con conseguente morte della madre e del bambino.


SUD AMERICA SE LA CRESCITA NON È SVILUPPO

In Amazzonia, una nuova diga minaccia la popolazione munduruku

Di Giulia Botta São Luiz do Tapajós è il nome del progetto di una gigantesca diga a sbarramento del fiume Topajos, che è stato proposto, per $ 9,9 miliardi, da un consorzio formato dalla compagnia elettrica statale Eletrobras e da alcune fra le più importanti compagnie energetiche europee. Si tratterebbe della più grande diga dell’Amazzonia (alta 53 m, lunga 7,6 km, capacità installata di 8.000 megawatt), dopo quella di Belo Monte. Sono previsti poi altri 40 progetti, come svela il rapporto di Greenpeace “Amazzonia sbarrata”. Il megaprogetto idroelettrico è un grave rischio per l’Amazzonia, area immensa e ricca di biodiversità e, in modo particolare, per la regione del Tapajos, affluente del Rio delle Amazzoni lungo 800 km. Si tratta di uno dei fiumi più lunghi del Brasile, fonte di vita non solo per una quantità inestimabile di specie animali e vegetali, ma anche per le tribù che abitano le sue rive. 12.000 Munduruku, popolazione indigena insediata in villaggi negli Stati di Parà e Amazonas, lungo i fiumi Madeira e Tapajós. Quest’ultimo rap-

presenta ricchezza e sostentamento per queste tribù, che dunque gli attribuiscono un forte significato simbolico, venerandolo e avvolgendolo di un’aura di sacralità. Gravissimo è l’impatto ambientale e di cambiamento climatico previsto, se il progetto si realizzerà. Si parla, oltre che di un aumento delle emissioni di CO2 e di danni ambientali, dell’allagamento di un’estesissima area della Foresta Amazzonica e dell’inondazione delle terre dei Munduruku, che sarebbero costretti alla diaspora. La lotta dei Munduruku per il riconoscimento e la difesa dei propri territori è stata ardua. Una strenua resistenza e opposizione ha però permesso loro di ottenere la sospensione della licenza per la costruzione della diga, grazie all’appoggio dell’Ente Brasiliano per l’Ambiente e le Risorse Naturali (IBAMA). La questione, tuttavia, resta aperta: il governo brasiliano, preoccupato per la domanda energetica sempre crescente, potrebbe ancora rovesciare la decisione dell’IBAMA, vista soprattutto la situazione politica attuale, fragile a causa dell’avvenuto impeachment.

I Munduruku hanno a lungo lottato per i propri diritti, ottenendo solo recentemente, grazie all’Agenzia Brasiliana per le Popolazioni Indigene (FUNAI), il riconoscimento di un territorio di oltre 1.000 km quadrati, noto come “Sawre Muybu”. Di questo territorio rivendicano possesso, integrità e diritti, contro i progetti del governo e lo sradicamento dalla loro terra ancestrale. Con l’appoggio di ONG per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente (come Greenpeace) e delle Nazioni Unite, a cui hanno presentato la questione, hanno ottenuto il riconoscimento di quello che è un diritto sancito dalla Costituzione brasiliana: le popolazioni indigene possono decidere se consentire o meno al governo di usare la loro terra. Secondo la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, adottata dal Brasile, inoltre, tutti i cittadini e le popolazioni locali vanno coinvolte nei processi decisionali, come nel caso della costruzione di imponenti centrali idroelettriche, la loro voce dev’essere ascoltata e i loro diritti rispettati. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA IL CILE DI PINOCHET Un salto indietro nel tempo

Di Sara Ponza L’eco della rivoluzione cubana e l’intervento degli Stati Uniti affinché gli ideali rivoluzionari non si diffondessero hanno causato in America Latina, nei decenni dal 1960 al 1980, numerosi golpe guidati dai militari. Un caso emblematico è stato il regime militare cileno di Augusto Pinochet. Nel 1972, dopo un lungo scontro elettorale, il socialista Allende diventò il 29° Presidente cileno. Egli dovette subito fare i conti con una crisi economica che lo costrinse a varare consistenti riforme nel settore economico e sociale - emblematica fu la massiccia nazionalizzazione di piccole imprese, banche e miniere. I cambiamenti effettuati da Allende non furono però apprezzati dal ceto borghese e dagli investitori stranieri. La classe media, sollecitata dalle riforme, iniziò ad accaparrarsi i beni alimentari di prima necessità, aggravando così la crisi economica e sociale nel Paese. Inoltre, l’ingente inflazione (il prezzo del rame, di cui il Cile è uno dei maggiori esportatori, era salito del 140%) portò a numerosi scioperi, promossi soprattutto dalla destra. Di conseguenza, oltre al crollo 16 • MSOI the Post

economico si scatenò una grave crisi politica, che culminò, nel 1973, in due tentavi falliti di golpe da parte del generale Souper. La situazione venne quindi presa in mano dai cristiano-democratici e dall’ala destra del Partito Nazionale, che esortò i militari a ristabilire la democrazia. Nel 1973 il generale dell’esercito Augusto Pinochet assediò il palazzo presidenziale e lo bombardò. Le circostanze indussero Allende a togliersi la vita. L’11 settembre 1973 il potere di governo in Cile venne acquisito dalla Junta militar e nel giugno del 1974 trasferito a Pinochet, di orientamento conservatore. Il dittatore, appena salito al potere, sferrò un vigoroso attacco all’assetto istituzionale democratico, sciogliendo i partiti politici e aderendo a una politica liberista. Il suo governo fu inoltre caratterizzato da atroci crimini contro l’umanità (commessi soprattutto nei confronti dei dissidenti politici). A partire dagli anni ‘80, Pinochet iniziò a subire varie pressioni internazionali e, quando l’appoggio statunitense venne a mancare, si stemperò la furia con cui egli esercitava il potere. Nel 1988, dopo aver revisionato

la Costituzione, indisse un plebiscito per votare a favore di un suo nuovo mandato presidenziale, con la convinzione di ottenere il consenso popolare. Inaspettatamente, anche grazie all’ispezione di osservatori stranieri neutrali, il 55,99% del corpo elettorale cileno si oppose alla proroga del mandato presidenziale di Pinochet. Il referendum fu considerato regolare e nel 1990, dopo l’abbandono della carica da parte del dittatore, venne eletto presidente Patricio Aylwin. Nel 1988 Pinochet venne arrestato a Londra per i crimini contro l’umanità commessi. Rimpatriato, non sarà mai processato a causa della sua presunta infermità mentale. Nel 2006, il dittatore morì in seguito a uno scompenso cardiaco. Ancora oggi i cileni sono divisi sulla reputazione di Pinochet. C’è chi lo considera un feroce e autoritario dittatore e chi lo ritiene il fautore della moderna economia cilena. Anche se attualmente il riconoscimento della brutalità di Pinochet è diffuso e rilevante, in molti giustificano ancora le sue azioni a causa dell’emergenza di gruppi armati rivoluzionari negli anni ‘60.


ECONOMIA LA “TIGRE CELTICA” TORNA ALL’ATTACCO

L’ Irlanda rivede le stime del PIL per il 2015 e sorprende i mercati

Di Giacomo Robasto Come ha confermato l’Istituto di statistica di Dublino pochi giorni fa, la Repubblica d’Irlanda si conferma una meta più che attraente per imprese ed investitori grazie agli ottimi risultati economici conseguiti nel 2015. I dati sulla variazione del PIL conseguiti quest’anno, che stimavano a marzo 2016 un incremento del prodotto interno lordo del 7,6 % rispetto al 2014, sono stati rivisti al rialzo, registrando un incredibile aumento del 26,3%. Tale performance si attesta sopra ogni più rosea previsione, soprattutto se confrontata ai ritmi di crescita delle maggiori economie asiatiche, come la Cina e l’India. Le ragioni di tale successo sono attribuibili sia alla apertura e flessibilità dell’economia irlandese, sia all’interesse di molte multinazionali americane, che proprio nel 2015 vi hanno trasferito la sede principale, nonché numerose attività. Tra queste ultime, sono degne di nota la Perrigo Co. e la Jazz Pharmaceuticals Plc. Corporation, note case farmaceutiche americane che hanno trasferito asset dal valore di oltre 527 miliardi di euro. La convenienza fiscale per

le imprese favorisce pertanto la dimensione dell’economia irlandese, dal momento che i profitti totali delle multinazionali che qui hanno sede posso essere considerati parte integrante del PIL locale. In una nota rilasciata il 12 luglio, il ministro del Tesoro irlandese Michael Noonan ha espresso ovviamente molta soddisfazione per questi ultimi dati, ricordando come la recente crescita abbia contribuito ad abbassare il debito pubblico, pari a circa l’85% del PIL. D’altra parte, i dati relativi al primo trimestre del 2016 non sono così entusiasmanti come si era previsto: vi è stata infatti una decrescita del 2,1% rispetto all’anno precedente, che ha deluso le aspettative di numerosi statistici ed economisti, avendo questi ultimi previsto un ribasso intorno all’1,5%. In questi giorni, a Dublino, vi sono timori fondati che l’economia irlandese, strettamente connessa a quella del Regno Unito, possa risentire negativamente degli effetti di Brexit: l’Istituto di statistica irlandese prevede, infatti, che un’Unione Europea senza la Gran Bretagna peserà sul benessere del Paese, incidendo negativamente nel prossimo quinquennio. La Gran Bretagna è senza dubbio il primo partner commerciale dell’Irlanda:

basti pensare, infatti, che un terzo delle importazioni irlandesi provengono da qui, soprattutto petrolio (14%), gas (6,4%) ed energia elettrica (2%). Quanto alle importazioni, invece, l’Irlanda esporta nel solo Regno Unito un sesto dei propri prodotti, in particolare medicinali (12%), componenti meccanici (5%) e prodotti agricoli (4%). Per questo motivo, il primo ministro Enda Kenny ha auspicato che tra i due Paesi possa continuare un rapporto privilegiato che non metta a rischio gli scambi commerciali. Se così sarà, il ministro del Tesoro Noonan ha stimato che la crescita continuerà a progredire, a tassi compresi tra lo 0,5% e l’1,6% nei prossimi cinque anni. La vera sfida nei prossimi anni sarà la creazione di nuovi posti di lavoro e l’apertura di nuove attività da parte delle imprese che in Irlanda hanno il quartier generale. Gli effetti benefici maggiori sull’economia, infatti, si hanno quando le aziende non solo traslocano uffici e centri direzionali, ma, soprattutto, quando investono in nuove attività creando valore per il territorio in cui operano. L’Irlanda avrà bisogno anche di questo per continuare questo ciclo positivo per la sua economia.

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ECONOMIA EVOLUZIONE DEL CONTENZIOSO BANCARIO Ennesima incrinatura del rapporto con i correntisti?

Di Martina Unali Famiglie e imprese, in un contesto caratterizzato da crisi finanziarie e di liquidità, ricorrono al capitale di debito per sopperire al loro fabbisogno finanziario. Attualmente, lo strumento bancario per eccellenza è il conto corrente, sul quale poggiano le forme di finanziamento per cassa a breve termine. Tali accordi, però, sono tanto numerosi e funzionali quanto onerosi. Vediamo perché. I principali addebiti. Le voci di costo sono distinte in due tipologie: costi diretti, ossia corrispettivi richiesti legittimamente dalla banca come controprestazione all’adempimento dell’obbligazione sottoscritta nel contratto, e costi indiretti, ovvero oneri addebitati senza remunerare direttamente una specifica attività svolta in favore del cliente e, di conseguenza, non legittimamente giustificabili in una controprestazione bancaria. Enucleando la seconda tipologia, emblematica è - o meglio dire era - la commissione di massimo scoperto (CMS). Il “balzello”. La CMS rappresentava un corrispettivo da versare alla banca sulla massima esposizione, oltre le proprie reali disponibilità, nell’arco del periodo di chiusura concor18 • MSOI the Post

dato, con tasso convenuto massimo dello 0,5%. L’incidenza della CMS penalizzava, in particolar modo, i conti correnti che presentavano un andamento irregolare del saldo. Nullità e abolizione ex lege. Tale balzello risultava applicabile in modo tutt’altro che comprensibile, a causa della non trasparente ratio economica, alla mancanza di una definizione ex lege, alla non univoca applicazione nella prassi bancaria e ai contratti privi delle modalità di calcolo. Nelle aule dei tribunali si tentava di porre fine al contenzioso, ma le critiche aumentavano, sia per l’innalzamento progressivo dell’aliquota, sia perché la CMS andava ad aggiungersi al pagamento degli interessi convenzionali. La diretta conseguenza fu, quindi, il sollevarsi di dubbi sulla sua legittimità. Le criticità, furono riconducibili all’indeterminatezza dell’oggetto del contratto, dovuta al deficit informativo, e alla mancanza di causa, legata alla sua distorsione applicativa. Risultati operativi. Il legislatore intervenne svariate volte in materia e, sebbene nel 2009 sembrò presentarsi una svolta, anziché confermare l’abolizione della CMS, rendendo più acces-

sibile il denaro per la clientela; al contrario, venne ripristinata, a remunerazione sull’accordato e sull’utilizzato, per i conti affidati, mentre non fu possibile applicarla a scoperti di conto per conti non affidati. Il risultato fu un peggioramento delle già critiche condizioni economiche dei correntisti. Oltre il danno, la beffa. Commissioni alternative. Un nuovo intervento normativo si ebbe nel 2011, mediante l’inserimento del nuovo articolo 117-bis del TUB, il quale sancì la fine della CMS, non consentendo più alle banche di definire liberamente tipologia ed entità di tali addebiti. Tale articolo introdusse due nuove ed esclusive commissioni: la commissione per disponibilità fondi (CDF) sulle linee di credito accordate e la commissione di istruttoria veloce (CIV) sulle procedure di istruttoria degli affidamenti. Ecco come da una commissione si è passati a ben due commissioni. Facilmente percepibile è come l’aspetto economico influisca, ineluttabilmente, sul profilo sociale del rapporto banca-cliente. L’aumento delle voci di costo, giustificato o meno, da parte degli istituti di credito, sembra essere la causa diretta dell’inasprimento delle condizioni già critiche dei correntisti, ulteriormente onerati.


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