Msoi thePost Numero 37

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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SPECIALE: LE FORZE IN CAMPO NELLA GUERRA AL DAESH RISIKO 2.0

Di Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania Il fumettista Zerocalcare è stato 2 volte in Rojava, l’enclave curda tra Siria e Turchia: dalla sua esperienza è stato capace di estrapolare delle immagini estremamente vivide del conflitto siriano. Tra queste, una in particolare è capace di sintetizzare il modo in cui gli eventi vengono percepiti dall’opinione pubblica: Ken il Guerriero. Immaginare la Siria e l’Iraq come l’universo postapocalittico di Tetsuo Hara e Buronson significa distinguere nettamente tra bianco e nero, buoni (noi) e cattivi (loro), nessuno spazio grigio, nessun valore ambivalente. Sappiamo chi sono loro, Daesh, la bestia nera dei nostri tempi. Resta da capire chi siamo noi: a differenza di Ken il Guerriero, qui le zone grigie ci sono. Le alleanze non sono chiare, alcuni nomi suonano strani e

non sempre riusciamo a ricollegarli facilmente a questo o quello schieramento. Soprattutto, questo noi che immaginiamo unito nella lotta al gruppo IS, in realtà, non è molto compatto, ma è formato da fazioni spesso in lotta tra loro, in un equilibrio labile e complesso, i cui compromessi influenzeranno il re-shaping della regione nei decenni futuri. Pertanto, vorremmo cercare di fare un po’ di chiarezza su chi siano gli attori in gioco e su come interagiscano tra di loro. USA. Nel conflitto contro Daesh è possibile ritrovare una certa ambivalenza da parte di Washington. Nel 2010, Obama aveva annunciato il disimpegno graduale dall’Iraq. Eppure, nel luglio 2014 è stata lanciata l’operazione Inherent Resolve, nome reso ufficiale solo nell’ottobre dello stesso anno: migliaia di nuove forze sono state schierate in

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Siria e in Iraq e oltre 10.000 attacchi aerei sono stati condotti contro obiettivi militari ai danni del gruppo IS. A questo va aggiunto il supporto tattico, in termini di mezzi e addestramento, fornito ad altre forze in campo, incluse le milizie curde e irachene, attraverso un intervento di vero e proprio capacity building, che ha coinvolto anche altri Paesi. Sostenere le varie fazioni coinvolte ha significato, tuttavia, assumere una posizione ambivalente e non sempre del tutto chiara: i Peshmerga curdi hanno ricevuto varie forme di sostegno da parte degli Stati Uniti, ma ciò non ha impedito al vicepresidente Biden di minacciare l’interruzione di quel sostegno, qualora i curdi non rinuncino alla creazione di un’enclave curda tra Siria e Turchia. Quell’enclave, tuttavia, esiste già: si tratta del Rojava, di cui dovrebbero far parte anche le aree di Hasakah e Jarablus, recentemente consegnate dagli Stati Uniti alla Turchia. Inoltre, a memo di 10 giorni dalla tregua accettata anche dalla Russia (19 settembre), la coalizione USA ha attaccato Aleppo, provocando numerosi morti tra i civili. La Siria non è stata da meno, ma il risultato è la fine virtuale della tregua. Turchia. Se la posizione degli Stati Uniti può essere definita ambivalente, quella della Turchia è di ancor più difficile interpretazione. Erdoğan ha tardato molto ad entrare in azione contro il gruppo IS, fino al 2015, sebbene il Paese fosse stato colpito da attacchi perpetrati dal sedicente Stato Islamico già nel 2013. Nel 2014, il sito americano Al-Monitor accusò la Turchia di aver volontariamente mantenuto una certa fluidità ai confini con la Siria, facilitando il passaggio ai jihadisti internazionali che si univano a Daesh; nello stesso anno, il Guardian riportò che gli attacchi contro Kobane attuati da Daesh 4 • MSOI the Post

fossero partiti dal territorio turco. Attualmente, con l’appoggio degli Stati Uniti, la Turchia sta prendendo possesso di territori occupati dai Curdi, come Hasakah e Jarablus. Secondo alcuni analisti, i Curdi sarebbero il vero nemico della Turchia in questa guerra, per ragioni molto pratiche: alle elezioni dell’estate 2015, Erdoğan ha perso la maggioranza assoluta, mentre un notevole successo è stato ottenuto dal Partito Democratico dei Popoli (HDP), che sostiene le rivendicazioni curde. Per riacquistare la maggioranza, Erdoğan ha cercato il sostegno dell’estrema destra, ultra-nazionalista e avversa ai Curdi. Intanto, il conflitto ha visto l’alternarsi di ostilità e sostegno tra Erdoğan e Putin. Nel novembre 2015, la Turchia abbatté un aereo russo: per la prima volta, in oltre 50 anni, un Paese NATO aveva effettuato un attacco militare diretto alla Russia, fosse esso volontario o accidentale. Putin rispose imponendo un embargo alla Turchia e minacciando di iniziare una rappresaglia armata. Dopo il golpe del luglio 2016, però, si è assistito a un disgelo delle posizioni tra i due Paesi: Erdoğan si è recato a San Pietroburgo, e Putin ha sollevato l’embargo. Rinnovata l’alleanza con la Russia, a fine agosto la Turchia è entrata in Siria, attaccando i combattenti delle Forze Democratiche Siriane (FDS), ribelli che avevano ottenuto sostegno tecnico e tattico dagli Stati Uniti. Intanto, la Turchia non cessa di appoggiare Kiev contro Mosca, in un gioco strategico che le garantirebbe una certa leva su Putin. Curdi. I Curdi sono una minoranza etnica divisa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Il Kurdistan è un’ampia regione che si estende sul territorio dei 4 Stati sopracitati: i Curdi hanno sempre lottato per ottenere dai governi maggiori diritti e, in alcuni casi, l’indipendenza. A partire dalla guerra in Iraq del 2013, la possibilità della creazione di un vero Stato curdo è sembrata concreta, ma è stata osteggiata dagli Stati coinvolti, che avrebbero perso una grossa fetta di territorio.. Nella lotta contro il gruppo ISIS, i Curdi hanno spesso guidato l’avanzata e la conquista di importanti posizioni, inclusa Kobane. Hanno ricevuto il supporto militare degli Stati Uniti. I Curdi fanno riferimento a vari di partiti, ognuno dotato di un braccio armato: • PKK. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, fondato nel 1978 in Turchia e guidato da Abdullah Öcalan. Il PKK chiedeva inizialmente l’indipendenza del Kurdistan, ma dopo il 1999, anno dell’arresto di Öcalan, il partito ha ammorbidito la sua posizione, spingendo per l’adozione di un confederalismo democratico. A causa di numerosi attacchi contro obiettivi militari turchi, dal 2000 il PKK è inserito nelle liste del terrorismo internazionale, sebbe-


ne India, Cina, Russia, Svizzera ed Egitto non lo considerino tale. Impegnato dal 2013 nella lotta al Daesh, il PKK è tra i principali fautori del Rojava, enclave tra Turchia e Siria in cui il partito cerca di implementare la proposta confederalista. Tra le ali militari del PKK figura anche l’YJA-STAR, l’Unità delle Donne Libere. • Peshmerga. I Peshmerga sono combattenti curdi del Kurdistan iracheno. Le milizie peshmerga non sono unite, ma divise tra unità sotto il controllo del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) e unità sotto il controllo dell’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK). Nella lotta al gruppo ISIS, hanno beneficiato di capacity building operations implementate da vari Paesi, compresa l’Italia. Nella pianificazione della riconquista di Mosul, i Peshmerga apriranno la strada per l’esercito che conquisterà effettivamente la città. • PYD. Nato in Siria nel 2003, il Partito dall’Unione Democratica rappresenta la principale formazione politica del Rojava. Accusato di aver attaccato e rapito esponenti di altri partiti curdi, il PYD ha instaurato posti di blocco e controlli in tutta l’area de Rojava. Sebbene sia un partito indipendente, viene considerato dalla Turchia come un’ala del PKK. I gruppi curdi sono saliti alla ribalta nei media per via della presenza attiva di donne nelle milizie. Accettate senza alcuna distinzione etnica

o religiosa, queste donne sono spesso in fuga da violenze perpetrate dalle famiglie. Russia. Inizialmente, la Russia non aveva accettato un diretto coinvolgimento nel conflitto, limitandosi a procurare armi alla Siria. Nell’ottobre 2015, dietro diretta richiesta del governo siriano, Putin è sceso in campo e ha ordinato una serie di attacchi aerei non solo contro Daesh, ma anche contro altre forze di opposizione al governo siriano, tra cui la Coalizione Nazionale Siriana. Dopo un periodo di tensione con la Turchia a seguito all’abbattimento di un aereo nell’autunno 2015, i rapporti tra i due Paesi si sono di nuovo distesi, anche per via degli interessi comuni in gioco: se Erdoğan non vuole che la creazione di un Kurdistan con il benestare degli Stati Uniti smantelli la Turchia, Putin si è sempre dimostrato un sostenitore di Asad e del governo siriano, pertanto contrario alla divisione del territorio siriano in molteplici entità statuali. In occasione dei festeggiamenti di Eid el-Adha, era stata stabilita una tregua, che escludeva il gruppo IS. La tregua avrebbe dovuto garantire l’apertura di un ponte umanitario, nonostante i molti dubbi sulla possibilità di successo. Come previsto, la tregua è durata ben poco: mentre gli Stati Uniti colpivano accidentalmente i civili, la Siria attaccava, senza volere, i convogli umanitari di ONU e SARC, rendendo la posizione della Russia ancora piú ambigua. Siria. Se volessimo esprimere un giudizio sulla

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Siria di Bashar al-Assad, non potremmo senza difficoltà: da un lato le violazioni dei diritti umani e la deriva autoritaria del suo governo sono innegabili, come lo è stata la sua risata nel 2011, durante un’intervista con ABC NEWS, di fronte al numero di civili morti fino all’autunno di quell’anno. Eppure, il governo i al-Assa sembra essere l’unico governo effettivo che potrebbe resistere in Siria quando (e se) si concluderanno le ostilità. Consapevole dell’inferiorità delle sue forze, il Presidente siriano nel 2015 ha chiesto il diretto intervento della Russia e ha concesso l’amnesia a tutti i disertori che fossero tornati nei ranghi dell’esercito. Intanto, la sua leadership è osteggiata da gruppi di ribelli, primi fra tutti l’Esercito Siriano Libero (ESL) e la Coalizione Nazionale Siriana. In particolare, l’ESL è considerato l’entità di maggior forza, con numerosi elementi provenienti proprio dall’esercito siriano: ufficialmente laico, incorpora al suo interno anche alcuni gruppi islamisti. Nonostante goda di ampio supporto internazionale, nel 2012 l’ESL è stato accusato dallo Human Rights Watch di aver perpetrato crimini di guerra, inclusi rapimenti, torture ed esecuzioni. In seguito agli incidenti susseguitisi dopo il 19 settembre, incluso ll raid condotto dalla Siria contro convogli umanitari, al-Assad ha invocato la fine della tregua, accusando addirittura gli Stati Uniti di difendere il gruppo IS. Altre forze in campo. Accanto a questi principali fronti, che interagiscono tra loro in modo non sempre chiaro, altre forze si muovono. Tralasciando l’impegno bellico di molti Paesi occidentali, meritano nota Hezbollah e al-Nusra. Hezbollah, il movimento libanese sciita, è sostenitore di al-Assad, ma è entrato direttamente nel conflitto solo nel 2013, dietro le pressioni

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dell’Iran. Non si hanno stime precise delle forze di Hezbollah impegnate in Siria. Al-Nusra è il ramo siriano di Al-Qaeda: inizialmente al-Nusra stava per fondersi con ISIS, ma l’intervento di Ayman al-Zawahiri, capo di al-Qaeda dal 2011, ha interrotto le trattative. Al-Nusra si trova in opposizione sia rispetto al gruppo IS, che al governo siriano, in quanto mira a costituire un governo islamico in Siria. Noi non siamo il clan di Hokuto, non siamo pacifici, non combattiamo per il bene assoluto e per difenderci. Gli interessi in gioco sono molti, ognuno combatte per l’accesso diretto o indiretto (influenza) a risorse e ricchezza. Questo conflitto dura da ormai 5 anni: i Siriani rifugiati nei campi in Giordania, Libano e Turchia vivono nella prospettiva di un ritorno che potrebbe non realizzarsi mai. Persino le NGO internazionali, nei loro progetti che mirano alla pacifica convivenza tra la comunità locale e i rifugiati, spesso cercano di implementare azioni di capacity building, nell’ottica di un futuro ritorno dei beneficiari in patria. Eppure, è giunto il momento di affrontare la possibilità che molti, se non tutti, debbano essere definitivamente resettled altrove. Libano e Giordania faticano a trovare un equilibrio tra le necessità della popolazione locale, già da tempo afflitta da povertà dilagante e alti tassi di disoccupazione, e quelle dei rifugiati, che impongono una grave pressione sociale e politica sui governi. D’altro canto, le politiche attuate da molti membri della comunità internazionale non sembrano tener conto della grave crisi umanitaria che stiamo affrontando, ma solo delle conseguenze belliche e militari. In questo scenario devastato e disarmante, non è possibile fare previsioni precise, e l’unica cosa che possiamo dire è what’s next?


INTERVISTA A MATTEO BRESSAN Matteo Bressan è Emerging Challenges Analyst presso il NATO Defense College Foundation e docente del corso sul “Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche” presso la SIOI. Ha scritto Hezbollah ‘Tra integrazione politica e lotta armata’ (Datanews, 2013)
e ‘Libano nel baratro della crisi siriana’ (Poiesis, 2014), insieme alla giornalista e conduttrice di Rainews24 Laura Tangherlini.

Le milizie curde sono state, in questi anni, le uniche forze sulle quali gli Stati Uniti hanno potuto contare per fronteggiare l’iniziale avanzata dell’ISIS. Adesso però il contesto è cambiato e dopo il fallito colpo di stato in Turchia e le possibili convergenze turco, russo e iraniane sul futuro della Siria gli Stati Uniti sono stati obbligati a porre un freno alle ambizioni dei miliziani del PYD onde evitare un’ulteriore frattura con Ankara che, è bene ricordarlo, considera il PYD un movimento terroristico. Parliamo di Hasakah e Jarablus. Gli Stati Uniti hanno consegnato i 2 territori alla Turchia, nonostante fossero già controllate dalle milizie curde. Si tratta di aree di confine: alcuni temono che la Turchia approfitti del controllo di questi territori per continuare i suoi traffici con il Daesh.

In Medio Oriente oggi gli attori in gioco sono tanti, ma a un osservatore inesperto può sembrare di trovarsi di fronte a una scacchiera con pezzi bianchi o neri. Quali sono e dove sono le zone grigie? La realtà è che stiamo assistendo alla decomposizione del Medio Oriente tracciato nel 1916 tra Francia e Gran Bretagna con gli accordi di Sykes-Pikot ed è in atto uno scontro totale tra le potenze regionali in quello che ormai molti autorevoli osservatori, Foreign Affairs su tutti, definiscono il Medio Oriente “post – americano”. L’attuale presidenza statunitense in questi anni ha perseguito una politica di parziale disimpegno nell’area e questo ha consentito alla Russia di Putin di tornare a giocare, con un dinamismo senza precedenti, un proprio ruolo in Medio Oriente. Inoltre, allo scontro tra Iran e Arabia Saudita esploso in maniera eclatante in Siria, Yemen e al momento “congelato” in Libano, si è andato a sommare il ruolo di altri attori come la Turchia e il Qatar che con differenti obiettivi hanno svolto e svolgono un ruolo determinante nel conflitto siriano. Per questi motivi non è facile schematizzare i molteplici, interessi che si scontrano in Siria. La posizione degli Stati Uniti non è semplice da inquadrare: i Curdi sono tra i loro principali partner tattici, ma di recente il vice-presidente Biden ha avanzato l’ipotesi della fine di questa alleanza, qualora le forze curde non accettassero di ritirarsi a est dell’Eufrate e di ritirare la richiesta di creare un’enclave curda tra Siria e Turchia.

In questo momento neanche la Russia, che pure lo scorso novembre aveva duramente accusato Ankara di favorire l’ISIS e trafficare petrolio con esso, si pone il problema in questi termini. La riflessione da fare è un’altra. L’ISIS è sulla difensiva, se non proprio in ritirata e in Siria si sta aprendo un altro fronte di guerra che vede contrapposta Ankara e le milizie curde che in questi anni hanno puntato alla creazione di una regione autonoma curda nel Nord della Siria, meglio conosciuta con il nome di Rojava. Intanto, sembra che gli Stati Uniti si stiano preparando a riconquistare Mosul, proprio grazie al supporto tattico dei peshmerga, che dovrebbero aprire la strada ad una coalizione internazionale la cui composizione è tuttora incerta. Vista la posizione ambivalente degli Stati Uniti, quanto sicuro è questo appoggio strategico? La riconquista di Mosul non è solamente un’operazione militare. È un passaggio politico chiave che inciderà sul futuro assetto dell’Iraq. I curdi della Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno hanno più volte manifestato la loro intenzione di sganciarsi definitivamente da Baghdad tramite un referendum e vogliono che questa scissione avvenga di comune accordo con le autorità centrali irachene, la Turchia e l’Iran. Questo significa che in questa fase gli Usa devono bilanciare il loro supporto tra i peshmerga e le autorità irachene. Se quest’ultime venissero ulteriormente delegittimate tutto si aggraverebbe e la ritrovata capacità di combattimento delle milizie irachene, che nel giugno del 2014 di fronte all’avanzata dell’ISIS si disciolsero come neve al sole, sarebbe

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messa a repentaglio.

rappresentano l’unica forma di welfare per i rifugiati. Per quanto rimarrà sicura?

È recente la notizia dei 100.000 miliziani iraniani assoldati dagli Stati Uniti per combattere Daesh in Iraq. Non è un mistero che gli Stati Uniti abbiano già adottato simili strategie. Un errore che si ripete?

La Giordania, dopo la Turchia e il Libano è il paese che ha accolto il maggior numero di profughi siriani arrivandone ad ospitare circa 1,3 milioni (di cui almeno seicentomila si trovano appena all’interno del territorio giordano ed hanno accesso a limitati aiuti umanitari). La situazione è tale che le esigenze superano di gran lunga le possibilità del paese e lo stesso popolo giordano sta pagando un prezzo elevato così come il sistema pubblico e sociale. Inoltre si deve considerare che solo il 35% del costo dei rifugiati è a carico della Comunità Internazionale mentre il restante grava sulle casse dello Stato per più di un quarto del bilancio complessivo. A questa emergenza dobbiamo infine aggiungere la capacità dell’ISIS di infiltrarsi all’interno dei campi profughi palestinesi e siriani per esser poi pronto a colpire il regno hashemita. In tal senso l’azione dello scorso 21 giugno, contro le guardie di frontiera, è un segnale preoccupante che ha determinato la messa in sicurezza e la chiusura del confine con la Siria e l’Iraq.

Non ho sufficienti elementi per valutare la consistenza e gli obiettivi di questa forza. Posso tuttavia confermare i rischi di un’operazione di questo tipo nel momento in cui il Daesh dovesse esser sconfitto militarmente senza che però siano risolte le cause che hanno consentito l’affermazione dello Stato Islamico. Gli Stati Uniti rischierebbero di alienarsi nuovamente le tribù sunnite irachene, che si sentirebbero nuovamente tradite e Washington si troverebbe ad avere a che fare con un Iraq sempre più nell’orbita di Teheran. Russia-USA. A Ginevra erano stati discussi i termini della tregua in Siria entrata in vigore lo scorso 12 settembre. Il principale scopo della tregua era aprire un corridoio umanitario per soccorrere la popolazione. Ciononostante, le violazioni sono state numerose in tutto il Paese: raid sono stati condotti su Aleppo dalla Coalizione guidata dagli Stati Uniti; intanto, la Russia ha attaccato i convogli umanitari di ONU e Sarc. Sebbene solo Russia e USA abbiamo il potere di sciogliere la tregua, per Bashar al Asad è già sciolta. Avevano ragione gli osservatori internazionali che ritenevano questa tregua solo un inutile pericolo? E come cambieranno gli equilibri in gioco ora? La tregua, oltre all’apertura del corridoio per gli aiuti umanitari, si poneva due obiettivi ambiziosi: il coordinamento USA – Russia contro l’ISIS e al Nusra e la separazione dei ribelli moderati dai gruppi jihadisti. Il bombardamento americano, avvenuto per sbaglio contro le truppe siriane a Deir Al Zor, e il raid contro il convoglio umanitario, di cui il regime siriano è accusato di esser responsabile, sono andati ben oltre le criticità della tregua. È onestamente difficile pensare, nonostante i tentativi di queste ultime ore, che Usa e Russia possano trovare, a poco più di un mese dal voto americano, un accordo che non hanno trovato in quasi sei anni di conflitto. Questa considerazione è la riprova di quanto ormai le sorti del conflitto siano decise altrove e che la Siria sia il campo di battaglia dove potenze internazionali, regionali e milizie locali si stanno confrontando per ridefinire i reciproci rapporti di forza. La Giordania è tra i Paesi che accoglie il maggior numero di Siriani: economicamente il Regno di Abdullah II è ormai al collasso, le NGO 8 • MSOI the Post

Date le premesse, il numero di rifugiati è destinato ad aumentare. L’ONU ha definito la crisi siriana come una delle più grandi tragedie dei nostri tempi. Ciononostante, la comunità internazionale non sembra voler accettare i rifugiati, una posiziona condivisa da ampie fasce della popolazione mondiale e dai governi nazionali. Che cosa risponde a chi crede che il sostegno umanitario non sia una responsabilità morale globale? I numeri dei rifugiati che hanno raggiunto il suolo europeo sono numeri che pongono i singoli stati di fronte ad una sfida di credibilità. Dal 2011 ad oggi ci sono paesi come il Libano, la Turchia, la Giordania, la Regione Autonoma del Kurdistan iracheno che hanno accolto all’incirca 5 milioni di profughi siriani. Conosco personalmente l’esperienza del Libano dove sono stato con Laura Tangherlini di Rainews 24 per documentarmi e scrivere “Libano nel baratro della crisi siriana” e posso confermare che è difficile essere credibili di fronte ad un paese, il Libano appunto, grande come l’Abruzzo e con una popolazione di 4 milioni di abitanti che ha accolto più di un milione e mezzo di siriani. Su questa crisi si misurerà la capacità, ma soprattutto la credibilità dell’Europa nell’affrontare le crisi globali che ci attendono. Intervista a cura di Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania


EUROPA LA TURBOLENTA ESTATE DEI LABURISTI BRITANNICI

Corbyn o Smith? Il 24 settembre gli elettori conosceranno il nome del nuovo leader del Partito

Di Federica Allasia Una delle immediate conseguenze della vittoria del Leave al referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno è stata la mozione di sfiducia non vincolante presentata nei confronti del leader laburista Jeremy Corbyn dai membri del suo stesso partito e appoggiata da 172 parlamentari socialdemocratici, pari all’81% del totale. In quella occasione Corbyn, accusato di aver condotto una inadeguata campagna elettorale a favore del Remain e di essere un leader inadatto ad un partito che punta a tornare al governo, non valutò nemmeno la possibilità di rassegnare le dimissioni, considerando il gesto un tradimento nei confronti del 60% degli iscritti al Labour che lo avevano democraticamente eletto soltanto 9 mesi prima e definendo incostituzionale la votazione alla base della mozione. Nonostante i proclami, però, risultò subito evidente come la crisi interna al più grande partito della sinistra britannica avesse ormai raggiunto il suo culmine: alle dimissioni di massa dei membri del Labour Party finalizzate a far cadere Corbyn (19 ministri su 30 rinunciarono al proprio posto), seguì infatti la decisione di organizzare nuove elezioni

interne al Partito. Poche ore dopo l’ufficializzazione della notizia, la parlamentare Angela Eagle annunciava pubblicamente la propria candidatura come sostituta di Corbyn, il quale si dichiarava pronto a combattere ogni tentativo di colpo di stato ai suoi danni, proprio in virtù della legittimazione acquisita nel settembre del 2015. Alla base del burrascoso rapporto tra Corbyn e gli altri membri del Partito vi è infatti la modalità di elezione del capo del Labour: tradizionalmente il nuovo segretario veniva eletto tenendo conto soprattutto dei voti di parlamentari ed europarlamentari, a discapito delle preferenze espresse dagli iscritti al partito e dalle associazioni affiliate, prime fra tutti i sindacati. Questo criterio favoriva inevitabilmente i candidati più vicini ai dirigenti del partito, garantendo di fatto una leadership stabile. La necessità di democraticizzare le modalità di voto, fortemente avvertita all’interno dello schieramento, ha comportato però rilevanti cambiamenti, primo fra tutti l’attribuzione dello stesso peso politico a tutti i voti, siano essi espressi dagli iscritti, dai sindacati o dai parlamentari; in questo modo gli iscritti, molto più numerosi rispetto alle altre categorie, possono più agevolmente

nominare segretario un soggetto non vicino alla dirigenza del partito e questa eventualità si è verificata proprio nel momento in cui Corbyn è stato eletto. Il 22 agosto hanno dunque avuto inizio le lunghe operazioni di voto della durata di un mese destinate a designare il nuovo segretario del Partito Laburista del Regno Unito; in seguito allo strategico ritiro di Angela Eagle, sono rimasti a contendersi il titolo due candidati: l’uscente Jeremy Corbyn da un lato e lo sfidante Owen Smith dall’altro. Nonostante il sostegno dei parlamentari e della maggioranza degli esponenti del partito, Smith non sembra però in grado di compromettere la riconferma di Corbyn: secondo i sondaggi il programma del deputato gallese incentrato su una “rivoluzione socialista” ed una “visione romantica con la quale sconfiggere il capitalismo e tornare al nirvana socialista” non avrebbe convinto gli iscritti e i sindacati, ancora fortemente attratti dal carisma del successore di Miliband. Non resta dunque che attendere il Congresso straordinario di Liverpool del 24 settembre, in occasione del quale sarà proclamato il vincitore, per conoscere il futuro del più grande partito di opposizione britannico. MSOI the Post • 9


EUROPA SUMMIT DI BRATISLAVA: RISPOSTA INSUFFICIENTE AI PROBLEMI DELL’UE?

Alcuni ravvisano la mancanza di una visione chiara e comune per il futuro dell’Europa

Di Andrea Mitti Ruà Per alcuni il più grande risultato ottenuto durante il summit di Bratislava del 16 settembre è stato quello di riuscire a riunire i leader dell’UE, Gran Bretagna esclusa, sotto lo stesso tetto. L’incontro informale, più vicino ad un brainstorming che ad una riunione vera e propria, non passerà alla storia come un punto di svolta nel quadro europeo. Nessuna menzione al problema dei migranti, nessun riferimento alla proporzionalità inversa tra stagnazione economica e crescita dei populismi, nessun accenno al perché il Premier britannico non fosse seduto al tavolo. Potrebbe, al contrario, essere il primo di una serie di “incontri informali” esterni a Bruxelles, specialmente da quando Theresa May deciderà di attivare l’art. 50 e iniziare ufficialmente la Brexit. “Non vogliamo che da questo incontro nasca un documento 10 • MSOI the Post

vago e retorico” ha chiarito il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk “Bisogna semplicemente che vengano indicati i temi su cui è importante lavorare da qui in avanti”. Temi sui quali al momento manca un punto di vista comune; l’elenco solenne di argomenti, fatto circolare tra un ristretto numero di Paesi dal presidente della Commissione Europea Juncker, non ha, infatti, trovato d’accordo i presenti, se non su poche misure. Inoltre, schierare un maggior numero di militari lungo il confine bulgaro o estendere i piani d’investimento della Commissione potrebbe non essere sufficiente per risolvere in maniera concreta i problemi dei 27 né tantomeno a semplificare la vita quotidiana dei cittadini europei. Forti criticità e disappunto sono arrivate soprattutto da Matteo Renzi, non presente alla

conferenza stampa congiunta tra Francois Hollande e Angela Merkel. In particolare il Cancelliere tedesca, in risposta al sempre più forte populismo di estrema destra che la stringe sul fronte interno, ha espresso un forte senso di soddisfazione per il lavoro svolto affermando di aver discusso in maniera approfondita di ogni singolo tema. Non si è fatta attendere la risposta del Primo Ministro italiano il quale secondo cui “Le conclusioni a cui sono arrivati la Cancelliera tedesca e il Presidente francese non sono condivisibili. Se loro si ritengono soddisfatti sono contento per loro, ma non sono partecipe di questa visione”. Il rilancio dell’ideale europeo proposto dai tre appena un mese fa davanti alla simbolica isola di Ventotene sembra già un ricordo lontano.


NORD AMERICA ALLA RICERCA DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE Aggressioni ed esplosioni negli Stati Uniti riattivano il dibattito politico.

Di Erica Ambroggio A partire da sabato 17 settembre gli Stati Uniti hanno subito una serie di attacchi che hanno coinvolto lo Stato del Minnesota, la città di New York ed il New Jersey. Compiute da giovani uomini senza alcun collegamento reciproco, le aggressioni del fine settimana hanno riportato le tematiche della sicurezza interna e dell’immigrazione al vertice dell’aspro dibattito politico. Sabato sera Dahir Adan, ventenne somalo dipendente di una società di sicurezza privata, ha ferito a coltellate 10 persone che si trovavano all’interno del Crossroads Center Mall di St. Cloud, Minnesota. L’aggressore è stato ucciso da Jason Falconer, poliziotto non in servizio di passaggio nel centro commerciale. Domenica pomeriggio, nello sgomento della comunità somala locale, la quale esclude un legame del giovane con organizzazioni terroristiche, il Califfato ha rivendicato il gesto del ragazzo definendolo come “loro soldato”. Attimi di paura anche nella città di New York, dove alle 20.30 (ora locale) di sabato 17 settembre, l’esplosione di una bomba ha avvolto le strade del Chelsea seminando il panico tra i passanti e causando il ferimento di 29 persone. A creare il

caos è stato un congegno rudimentale collocato in un cassonetto della spazzatura sulla 23ª strada e composto da un cellulare-detonatore collegato ad una pentola a pressione carica di esplosivo e di componenti metallici. Poco dopo la detonazione, le indagini delle autorità locali sono giunte, oltre all’identificazione di un secondo ordigno inesploso localizzato poco distante dalla prima esplosione, a rintracciare la presenza di ulteriori ordigni nel vicino New Jersey. Uno di questi era esploso nella mattinata, senza causare feriti, all’interno di un cassonetto strategicamente collocato a Seaside Park; altri 5 ordigni sono stati successivamente rinvenuti all’interno di un zaino lasciato nei pressi della stazione ferroviaria di Elizabeth, New Jersey, luogo di origine del giovane Ahmad Khan Rahami, 28 enne accusato di essere l’autore delle esplosioni. Rahami, americano di origine afgane, è stato arrestato lunedì’ 19 a seguito di uno scontro a fuoco durante il quale è rimasto leso. Il suo gesto non è stato rivendicato da nessuna organizzazione terroristica, ma le indagini, da New York al Minnesota, proseguono incessantemente e non si esclude che gli atti del fine settimana siano stati compiuti con l’aiuto

di altri soggetti. Lo scenario politico si è aperto dinnanzi a quanto accaduto ed immediato è stato l’intervento dei candidati alla Casa Bianca. Donald Trump, promotore di un blocco totale al fenomeno migratorio, ha colto l’occasione per collocare i fatti del weekend tra gli attentati subiti dagli Stati Uniti sotto la guida di Barack Obama, affermando che un futuro guidato da Hillary Clinton riproporrebbe la medesima assenza di sicurezza. Dal fronte democratico, l’ex First Lady, ha dichiarato di essere “l’unico candidato in queste elezioni che abbia preso parte alle difficili decisioni di andare a prendere i terroristi sul campo di battaglia”; focalizzandosi sull’importanza di un controllo preventivo dei comportamenti estremisti. Il tema del terrorismo e il riferimento agli attacchi subiti è stato, inoltre, oggetto di discussione dell’ultima Assemblea Generale ONU dedicata al tema dell’immigrazione, svoltasi martedì 20 a New York. Barack Obama, nel suo ultimo discorso dinnanzi alle Nazioni Unite, ha dichiarato: “Assicuro che giustizia sarà fatta, come americani noi non ci arrenderemo mai alla paura”. MSOI the Post • 11


NORD AMERICA STATI UNITI E ISRAELE: AUMENTANO GLI AIUTI MILITARI Nuovo accordo record nonostante gli attriti

Di Sofia Ercolessi Gli Stati Uniti hanno firmato con Israele il più grande patto di assistenza militare bilaterale della loro storia: più di 10 milioni di dollari al giorno per 10 anni, in totale 38 miliardi, di cui 5 saranno destinati solamente alla difesa missilistica. Il patto, siglato mercoledì 14 settembre come memorandum di intesa, entrerà in vigore nel 2018, allo scadere dell’accordo precedente. Questo era significativamente più basso: “solo” 31 miliardi di dollari per dieci anni. L’aumento di aiuti militari rilancia le relazioni tra i due Paesi, ma è il risultato di 10 mesi di intense e e difficili trattativ . La reciproca ostilità tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama non ha mancato di manifestarsi, soprattutto riguardo all’accordo sul nucleare firmato l’anno scorso dal Presidente statunitense con l’Iran e fortemente osteggiato da Israele. Tra critiche reciproche, le due parti sono rimaste ferme sulle proprie posizioni per mesi, tanto da far pensare che questo accordo non avrebbe visto la luce, almeno sotto l’attuale presidenza. In qualche occasione, Netanyahu sembra aver avuto il dubbio che fosse meglio aspet12 • MSOI the Post

tare le presidenziali, ma non sarebbe stato un rischio troppo grosso? Israele chiedeva ben 45 miliardi in aiuti, ma gli Stati Uniti volevano abbassare la posta e imporre le loro condizioni. In parte ci sono riusciti. Il loro alleato si è impegnato ad abbandonare due proficue abitudini sviluppate nelle precedenti collaborazioni: usare parte degli aiuti americani per investire nella propria industria bellica e chiedere ulteriori fondi al Congresso (in media 500 milioni all’anno). Dopo i risultati con Cuba e Iran, Obama ottiene un rafforzamento statunitense in Medio Oriente. Israele, con i nuovi fondi, potrà invece tenere testa alle formazioni jihadiste in Siria ed Egitto e ai nemici storico iraniano, imbaldanzito dopo l’accordo con gli USA. Non va poi dimenticata, naturalmente, l’importanza della supremazia militare per la questione palestinese, le cui escalation hanno dato un notevole impulso ai negoziati. In aprile, infatti, 83 senatori americani, repubblicani e democratici hanno inviato una lettera alla Casa Bianca in cui sollecitavano, garantendo il proprio appoggio, un potenziale accordo con Israele, per fare fronte alle “sfide di difesa drammatica-

mente in crescita” per l’alleato. L’amministrazione americana, pur auspicando la creazione di uno Stato palestinese indipendente che conviva con quello ebraico, si dichiara unita a Israele nella “cooperazione per la lotta al terrorismo”. Cooperazione non solo economica e politica, ma forte anche negli ambiti degli addestramenti, dell’intelligence, della ricerca militare e dello sviluppo di armi. Con tutta probabilità, il memorandum permetterà agli Stati Uniti di lanciare anche un messaggio al resto della regione. L’Iran potrebbe intuire che gli americani sono molto attenti a bilanciare ogni apertura con nuove concessioni ai propri alleati tradizionali. L’Arabia Saudita, invece, che degli alleati tradizionali fa parte, ultimamente si trova ai ferri corti con gli Stati Uniti. Il Senato ha addirittura approvato una legge che permetterebbe agli americani di citare il governo saudita per sospetto supporto al terrorismo. L’accordo con Israele potrebbe essere perciò un avvertimento ai sauditi, affinché non tirino troppo la corda, se vogliono mantenere il proprio status e ottenere risultati altrettanto importanti.


MEDIO ORIENTE ALEPPO: LE BOMBE DOPO LA TREGUA

Finita con oltre 100 morti la tregua firmata da Washington e Mosca, inizia lo scambio di accuse.

Di Maria Francesca Bottura Gli attacchi non si fermano ad Aleppo, che negli ultimi anni è stata colpita e devastata da una serie di raid aerei e attentati che hanno trasformato la capitale culturale del mondo islamico in un mucchio di macerie. Nonostante il 10 settembre scorso sia stata raggiunta una tregua tra Stati Uniti e Russia, le speranze di riuscire a limitare le vittime e i danni alla città sembrano ormai del tutto disattese. A far precipitare la già precaria situazione, è stato un attacco aereo della Coalizione guidata dagli Stati Uniti. Il 17 settembre è stata, infatti, colpita una base dell’esercito siriano e sono rimasti uccisi ben 62 soldati. Il bersaglio probabilmente erano le truppe dello Stato Islamico che la circondavano. Immediata

la reazione della Russia, che ha ottenuto la convocazione di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Dalla Casa Bianca sono arrivate, invece, dichiarazioni di “rammarico” per queste vittime “non intenzionali”. Prima dell’attacco, Kerry si era detto fiducioso rispetto all’idea che la tregua potesse continuare, e così anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan De Mistura, dichiarando che solo Russia e Stati Uniti possano sancire la fine della tregua. Damasco aveva precedentemente annunciato la “fine del regime di calma”, ponendo così la parola fine alle tensioni, sostenuta da Mosca, concorde nell’affermare che, se i ribelli non rispettano il cessate il fuoco, è inutile sospendere gli attacchi. Il presidente siriano

Bashar al Assad ha poi accusato gli Stati Uniti pubblicamente, asserendo che l’attacco alla base militare siriana sia stato compiuto appositamente per sostenere lo Stato Islamico. I raid sulla provincia di Aleppo si sono susseguiti subito dopo la fine ufficiale della tregua, concentrati nella zona controllata dai ribelli e in cui vivono ancora circa 300.000 civili. Il 19 settembre un raid aereo della fazione russo-siriana ha colpito 10 convogli UNICEF, distruggendo gli aiuti destinati a circa 270.000 persone residenti nell’area di Aleppo; il giorno seguente, un altro attacco delle medesime forze ha messo fine alla tregua in Siria, dopo il bombardamento ad un convoglio di 20 camion dell’ONU e alla conseguente morte di 40 civili, oltre a 12 operatori umanitari. MSOI the Post • 13


MEDIO ORIENTE L’ISTRUZIONE SECONDO ISRAELE

Al via il nuovo anno anche per le scuole cristiane nonostante i problemi

Di Lorenzo Gilardetti Da pochi giorni in Israele è iniziato il nuovo anno scolastico, ma per le scuole cristiane la situazione è nuovamente critica per via della situazione economica. La controversia tra il governo israeliano e l’Ufficio delle scuole cristiane della Custodia di Terra Santa ha attirato l’attenzione mediatica un anno fa, quando le scuole cristiane decisero di posticipare di quasi un mese l’inizio delle lezioni a causa della riduzione dei fondi statali. Il Ministero dell’Istruzione, infatti, aveva precedentemente deliberato di ridurre i fondi destinati a questi particolari istituti che da 400 anni svolgono una proficua attività educativa sul territorio israeliano. Da quei 28 giorni di ritardo rispetto al calendario scolastico, 14 • MSOI the Post

scenario di diversi scioperi, nacque lo scorso anno un negoziato che portò il governo ad impegnarsi a versare alle scuole cristiane 50 milioni di shekel (circa 11,8 milioni di euro) entro il 31 marzo 2016. Ad oggi però, come dichiara padre Abdel Masih Fahim, segretario generale dell’Ufficio delle scuole cristiane, i patti non sono stati rispettati e i fondi promessi non sono ancora stati stanziati, nonostante il regolare servizio delle scuole. Ognuno dei 47 istituti presenti si aiuta con donazioni private, continuando intanto ad aspettare la cifra che per legge spetterebbe loro, ovvero la copertura del 75% circa delle spese totali, contro il 34% ricevuto dopo le diminuzioni del 2015, avvenute contestualmente al provvedimento che ha fissato un tetto massimo alle rette degli studenti. Nelle scuole cristiane in Israele

lavorano 3.000 docenti di diverso orientamento religioso, i quali offrono istruzione a circa 33.000 alunni, in minima parte ebrei, per il 40% musulmani e per il 60% cristiani. Questi alunni, prima dei provvedimenti governativi del 2015, potevano usufruire, oltre alle normali lezioni, di corsi di potenziamento appositi in determinate materie a seconda delle difficoltà individuali, e ciò ha contribuito a far sì che lo stesso Ministero dell’Istruzione segnalasse molti degli istituti tra i migliori del Paese. A causa delle difficoltà economiche, la qualità del servizio rischia di diminuire: All’opposto vi sono le scuole ebraiche ultra-ortodosse, finanziate integralmente dallo Stato e non sottoposte agli interventi del Ministero, godono di libertà speciali dal punto di vista curriculare.


RUSSIA E BALCANI LA VITA AI TEMPI DI KARIMOV

Un’eredità difficile da cancellare in Uzbekistan, dopo 25 anni di regime autoritario

Di Daniele Baldo L’8 settembre il primo ministro dell’Uzbekistan Shavkat Mirziyoyev è stato eletto dal Parlamento Presidente ad interim. Succede a Islam Karimov, morto il 2 settembre all’età di 78 anni. Capo del Partito Comunista uzbeko dal 1989 e poi Presidente della neonata Repubblica indipendente a partire dal 1991, Islam Karimov ha governato per 25 anni una tra le prime Nazioni a liberarsi del suo passato sovietico, senza per questo rinunciare a mantenere le redini del potere con il pugno di ferro. Vivere nell’Uzbekistan di Karimov ha significato per molte persone la condanna all’assenza di diritti, la paura di essere catturati dalla polizia, di essere puniti o di subire violenze e torture. Il lungo periodo della dittatura ha visto l’economia uzbeka soggetta ai diktat del governo, che aveva il controllo delle aziende

e dei terreni. L’Uzbekistan è da sempre Paese fornitore di cotone nell’Asia centrale. Durante il governo di Karimov nelle piantagioni lavoravano bambini, donne o studenti. Solo recentemente, grazie a numerose pressioni internazionali, è stato proibito il lavoro minorile, ma al posto dei bambini ogni anno vengono impiegati gratuitamente insegnanti, dottori e altri lavoratori. Il fatto che il vecchio leader abbia voluto rompere, almeno simbolicamente, i legami con il passato sovietico non lo ha reso una persona amata o divinizzata. Il suo modo di governare restava spietato, senza mezzi termini. Le leggi di Islam Karimov sembravano, e in parte sembrano, realizzate contro la popolazione. Vigeva il divieto di scambio della moneta locale, il Som, e aprire un’attività economica comportava accertamenti asfissianti da parte delle autorità, corrotte e violente. Spesso camminare per strada diventava impossibile per via dei controlli eccessivi e maniacali.

Sono anche stati riorganizzati dei comitati, chiamati mahalla, che dovevano servire come strutture sociali in grado di aiutare le famiglie nei rapporti con lo Stato, ma che di fatto sono diventati gli “occhi” e le “orecchie” del governo, strumenti di controllo, repressione e persecuzione nelle mani di Karimov. Il quarto di secolo sotto il governo del dittatore ha anche visto limitata la libertà di culto, formalmente concessa, ma in realtà sottratta a 13.000 musulmani rinchiusi nelle prigioni e a tanti bambini e ragazzi a cui è vietato frequentare le moschee. Il passato potrebbe trovare continuità nel primo ministro e ora presidente ad interim Mirziyoyev, che ha sempre dato l’impressione di essere più spietato e più corrotto del vecchio leader. Nonostante ciò, il prossimo 4 dicembre gli uzbeki saranno chiamati alle urne ed è quasi certo che il Presidente verrà confermato dal voto.

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RUSSIA E BALCANI LA DUMA È ANCORA DI PUTIN

Russia Unita vince, ma con affluenza ai minimi storici: diffuso disinteresse o diffuso malcontento?

Di Giulia Bazzano Il 16 settembre la Russia è tornata alle urne per il rinnovo della Duma, la camera bassa del Parlamento. Le preferenze degli elettori hanno confermato le previsioni: il partito di Putin, Russia Unita, ha conquistato la maggioranza dei voti, superando addirittura il successo del 2011. Tuttavia, l’affluenza è ai minimi storici: a Mosca ha votato solamente il 28,2% degli aventi diritto. Russia Unita ha centrato il bersaglio in parte grazie al suo cambio d’immagine, cioè rimpiazzando alcune pietre miliari del partito con volti nuovi, come redattori e direttori tv. Il presidente Putin si dichiara soddisfatto e parla di “sfide da affrontare”. I rappresentanti del partito hanno preferito, per l’intera durata della campagna elettorale, non lanciarsi in grandi promesse, e poiché il Paese è già diffident e in balia di una crisi economica di cui non si vede ancora la fine. Con il 54,21% dei voti, il partito di Putin si trova ad avere un controllo della camera bassa senza precedenti: ciò rende più probabili eventuali modifiche costi16 • MSOI the Post

tuzionali. Inoltre, con la nuova legge elettorale, i partiti che non hanno ottenuto almeno il 5% dei voti non avranno accesso alla Duma. Si tratta di un aspetto importante, che condiziona duramente l’operato dei piccoli partiti di opposizione, divisi tra loro e con già poche possibilità di entrare in Parlamento. Anche in questa tornata elettorale non sono mancate le accuse di brogli, provenienti sia dall’opposizione sia da diverse ONG. Le premesse non erano certo buone: poco prima delle elezioni, infatti, sono state introdotte nuove regole sul funzionamento dei seggi. Ogni osservatore poteva monitorare un solo seggio e doveva preannunciare chi l’avrebbe controllato con largo anticipo. La mancata trasparenza aveva già spinto la gente a scendere in piazza nel 2011. Per evitare che ciò si ripetesse, Putin ha preso alcuni provvedimenti, come la nomina dell’ex garante dei diritti umani Ella Pamfilova a presidente della Commissione Elettorale russa. Altrettanti sono stati, però, i passi indietro e i tentativi di oscurare i partiti antagonisti e forse le elezioni stesse. Secondo

molti osservatori, anticipare le elezioni da dicembre a settembre sarebbe stata una mossa al fine di complicare la campagna elettorale degli oppositori, concedendo loro meno tempo per organizzarsi. Il problema reale della Duma e più in generale della Russia è la sua stagnazione. L’opposizione “sistemica”, costituita dai partiti comunista e liberaldemocratico, finisce per allinearsi ideologicamente con la Russia Unita. Le opposizioni extraparlamentari, nel frattempo, non hanno fondi né possibilità di esprimersi. La bassa affluenza potrebbe significare qualcosa di più di un semplice dato statistico. È una forma di protesta? È disinteresse, semplice rassegnazione? Una reale opposizione non esiste ormai da anni e ciò porta i cittadini a pensare che qualsiasi tentativo di cambiamento sia inutile. Il vero pericolo di questa schiacciante vittoria è che la Duma si trasformi definitivamente in un elemento statico, senza reali opportunità di dialogo con chi non si riconosce nel pensiero della maggioranza.


ORIENTE TOKYO PUNTA SULL’AFRICA

Miliardi di dollari investiti a sostegno dello sviluppo dei Paesi africani

Di Gennaro Intoccia, Sezione MSOI Napoli Le nuove frontiere della competizione fra Cina e Giappone sono state fissate ben al di là del Pacifico, giungendo al cuore del continente africano. La crescente influenza economica di Pechino, infatti, ha costretto Tokyo a un considerevole impegno in Africa. La decisione di tenere la VI edizione della Tokyo International Conference on African Development (TICAD) in Kenya è indicativa della ferrea volontà del Giappone di imporsi come interlocutore diplomatico sul continente e di presentarsi, agli occhi dei governanti locali, come promotore dello sviluppo africano. Lo scorso 26 agosto il primo ministro giapponese Shinzo Abe, accolto dal presidente keniota Uhuru Kenyatta, ha dunque inaugurato a Nairobi il TICAD. Kenyatta si è espresso a favore di una cooperazione bilaterale, finalizzata soprattutto all’industrializzazione del continente africano. La VI edizione del summit sullo sviluppo dell’Africa è stata la prima ad aver luogo al di fuori del Giappone. Shinzo Abe ha garantito l’arrivo

di 30 miliardi di dollari per la realizzazione di più di 60 progetti che riguardano infrastrutture e impianti. Parte dei fondi sarà destinata al settore energetico e alla ricerca di gas naturale in Mozambico. Un altro cospicuo contributo finanzierà il rafforzamento della rete di trasporto urbano di Nairobi e l’istituzione di programmi di scambio culturale fra studenti africani e giapponesi. Si tratta di investimenti che si aggiungono a quelli stabiliti dall’Ufficio di Assistenza allo Sviluppo (ODA) del governo giapponese. Ai 30 miliardi giapponesi se ne sommano altri 60 promessi da Pechino. I consistenti aiuti economici forniti dalla Cina sono parte di un più esteso e complesso piano strategico che contempla la realizzazione di una via marittima, la Maritime Silk Road. Lo scopo è quello di agevolare gli scambi commerciali fra Pechino e i Paesi africani, irrobustendo gradualmente la dipendenza degli ultimi dai primi. Il Giappone, in visibile difficoltà nella competizione economica e commerciale con la Cina, punta tutto sulla qualità delle proprie merci. I giapponesi, inoltre, hanno in parte sfruttato le opportunità di mercato che l’Africa può offrire. La Toyota,

per esempio, negli ultimi vent’anni ha venduto automobili usate, limitandosi a guadagnare sui pezzi di ricambio e senza mettere in funzione nuovi stabilimenti sul territorio. Alla conferenza del 26 agosto, Shinzo Abe ha ribadito l’importanza del ruolo rivestito sul suolo africano dalle aziende giapponesi, che contribuiscono a soddisfare la massiccia domanda interna di lavoro. Ha inoltre assicurato un generale miglioramento delle condizioni d’impiego per i lavoratori delle industrie nipponiche dislocate in Africa e il rigoroso rispetto delle norme in materia ambientale. Il progetto politico di Abe, tuttavia, sembra essere più ambizioso. Le dichiarazioni del premier sulla sicurezza dell’Africa, rese note durante la conferenza di Nairobi, rispecchierebbero la tenace volontà di proporsi come garante della difesa e della stabilità del continente. Abe mira, infatti, a scongiurare l’eventualità di una più stretta ed energica cooperazione, anche militare, tra Africa e Cina. Il rischio, infatti, sarebbe quello di consentire a quest’ultima di espandere la propria influenza su gran parte dell’oceano Indiano e di accaparrarsi le risorse che l’Africa custodisce.

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ORIENTE INDIPENDENTISMO UIGURO: UNA NUOVA STAGIONE? I significati dietro all’attacco contro l’ambasciata cinese in Kirghizistan

Di Tiziano Traversa Il 30 agosto un kamikaze si è fatto esplodere davanti ai cancelli dell’ambasciata cinese a Biškek, nel Kirghizistan. L’attacco, durante il quale un’automobile carica di tritolo ha cercato di sfondare i cancelli dell’ambasciata, ha causato 5 feriti tra gli agenti di sicurezza e ha avuto come unica vittima l’attentatore. Dopo aver formulato svariate ipotesi riguardo al motivo dell’attacco, i servizi di sicurezza hanno dichiarato che l’evento è stato organizzato da un gruppo di indipendentisti uiguri. Un attentato suicida costituirebbe una svolta inaspettata per gli attivisti uiguri, che per decenni si sono limitati a meri attacchi verbali e a manifestazioni di protesta contro il governo cinese, con l’eccezione dell’attentato dell’ottobre 2013, quando una vettura guidata da terroristi di etnia uigura uccise 5 persone in piazza Tienanmen. Gli Uiguri sono parte di un gruppo etnico, storicamente 18 • MSOI the Post

insediato in Mongolia, che nel passato fu una delle più importanti tribù di lingua turca in Asia. L’area di appartenenza storica, lo Xinjiang, nonostante sia da tempo sotto il controllo di Pechino, costituiva una regione con sufficiente autonomia di organizzazione durante gli anni dell’Impero. Le mire indipendentiste del gruppo, però, furono spazzate via dalla Repubblica Popolare Cinese. Il nuovo sistema politico in Cina non tollerava la volontà separatista dello Xinjiang e il governo iniziò così a reprimere aspramente l’etnia uigura, costringendo alcuni alla fuga. Durante l’ultima decade del secolo scorso, alcuni gruppi vicini al fondamentalismo islamico risultarono legati alla minoranza uigura e dunque Pechino inasprì la repressione nei confronti della popolazione e del movimento degli indipendentisti. Con l’avvento del XXI secolo, gli Uiguri hanno spesso criticato le scelte messe in atto dalla classe politica cinese nei loro confronti, accusando Pechino di

continue violazioni dei diritti umani a danno della loro etnia. Il movimento indipendentista, negli ultimi anni, ha boicottato le scelte del governo in diverse occasioni, assumendo anche posizioni fortemente ostili, che hanno notevolmente inasprito il disprezzo cinese per la cultura uigura. Dopo l’attentato del 2013, l’esercito cinese è intervenuto ripetutamente nello Xinjiang e ha represso con durezza gli insorti, nel tentativo di confinare gli 8 milioni di persone di etnia uigura nella loro regione di appartenenza. Poiché gli indipendentisti non avevano mai preso parte ad azioni violente al di fuori del territorio cinese, se fosse confermata la matrice uigura dell’attentato del 30 agosto, si potrebbe ipotizzare che gli obiettivi del fronte separatista si siano spostati oltre i confini cinesi. Pechino, effettivamente, teme che le violenze possano crescere dentro il Paese ed espandersi al di fuori dei confini.


AFRICA FREEDOM HOUSE: TERMOMETRO GEOPOLITICO DEL MONDO?

Nel rapporto sulla libertà nel mondo pochi i Paesi africani ritenuti democratici, molte le critiche ai parametri

Di Francesco Raimondi Diverse analisi geopolitiche in tema di democrazia e diritti civili, nonché numerosi studi in seno alle scienze sociali in senso lato, prendono le mosse dai dati forniti da Freedom House. Fondata nel 1941 da alcuni esponenti di spicco del Gotha democratico statunitense, fra i quali l’allora first lady Eleanor Roosevelt, questa associazione non governativa stila annualmente il Freedom in the world, un dossier che mira a classificare le Nazioni del globo in base al loro tasso di libertà tramite l’assegnazione di indici parametrizzati. “Attraverso le sue analisi, azioni di sensibilizzazione e di azione sostiene l’ONG - Freedom House funziona come un catalizzatore

per la libertà, la democrazia e lo Stato di diritto”. Al contempo, l’associazione ritiene che “la leadership americana negli affari internazionali sia essenziale per la causa dei diritti umani e della libertà”. Per quanto concerne l’Africa, il rapporto del 2015 traccia uno scenario dominato dall’assenza quasi incontrastata di libertà, soprattutto nell’area centroorientale: tra i Paesi classificati come “not free” si rileva in particolare il caso della Somalia che, in una scala da 0 a 100, non supera il 2 come grado di libertà. Sono solo 7 i Paesi che superano l’esame della democraticità: Tunisia, Senegal, Ghana, Benin, Namibia, Botswana e Sudafrica. Tra questi, con un indice di 1 (il massimo) per i diritti politici e di 2 per le libertà civili, è il Ghana

a poter vantare il punteggio complessivo più elevato: 83, pari a quello della Grecia. Il Maghreb paga in termini di diritti il difficile scenario geopolitico mediorientale: solo il Marocco viene ritenuto “partly free”, con un indice di libertà di 41 punti. È bene tuttavia sottolineare che i criteri di giudizio adottati da Freedom House sono stati criticati da più parti e in taluni casi ritenuti parziali. Oggetto di discussione sono anche i finanziamenti della ONG, sostenuti per il 90% dal governo degli USA e da numerosi colossi aziendali quali Google e Facebook, che, secondo alcuni, utilizzerebbero la propria influenza sull’associazione per scopi particolaristici. MSOI the Post • 19


AFRICA LA CRISI MIGRATORIA DELL’EUROPA Tra finanziamenti e ipocrisia

Di Francesco Tosco I governi europei si trovano ormai da qualche anno sotto la pressione continua delle ondate migratorie, che dopo l’inizio della guerra in Libia hanno preso a riversarsi sul continente sia per mare sia per terra. Circa un anno fa, il 28 novembre scorso, è stato siglato a Roma il Processo di Khartoum. Presentato come “aiuto ai Paesi africani per lottare contro l’immigrazione illegale”, è un accordo che prevede la costruzione di centri di accoglienza negli Stati dell’Africa attraversati dai flussi migratori e lo stanziamento di 100 milioni di dollari per il rafforzamento delle frontiere e della polizia locale. Tra i destinatari di questo accordo, ancora non totalmente attuato, ci sono l’Eritrea, la Somalia e il Sudan, Paesi retti con il pugno di ferro da dittatori ac20 • MSOI the Post

cusati a più riprese di violazione sistematica dei diritti dell’uomo.

fondi per il controllo dei confini e per il progresso tecnologico.

Venerdì 2 settembre, a Khartoum, gli alti vertici dell’esercito e della polizia sudanesi hanno organizzato una conferenza stampa per segnalare all’Europa il valore dei loro contributi e le loro esigenze nella lotta all’immigrazione. Mohamed Hamdan Daglo, comandante del gruppo paramilitare sudanese Rapid Support Force (RSF), ha elencato gli innumerevoli sforzi e le perdite subite per aiutare l’Europa. Le perdite nelle ultime operazioni ammonterebbero a circa 25 uomini morti, 315 feriti e 151 automezzi distrutti. 800, invece, i migranti eritrei rimpatriati. Dalle dichiarazioni di Daglo e dalle richieste del rappresentante del Dipartimento per l’Immigrazione si deduce che il Sudan vorrebbe un maggior impegno economico europeo, stanziando

Le RSF, in realtà, sono un gruppo noto perché riunisce i membri dei Janjaweed, corpi militari provenienti da tribù arabe, usati dal 2003 per terrorizzare, bruciare villaggi, rapire bambini ed uccidere civili durante la guerra del Darfur e accusati di genocidio, stragi e sistematica violazione dei diritti umani. Omar Al Bashir, Presidente del Sudan salito al potere con il colpo di Stato del 1989, è stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale dei Diritti Umani proprio per l’uso di questi carnefici come esercito. Il gruppo fu sciolto perché sotto i riflettori internazionali e pochi anni fa, nel 2013, è stato ricostruito con nome diverso e subordinato al NISS, il Dipartimento dei Servizi Segreti sudanesi.


SUD AMERICA A 10 MESI DOPO DA COP21

L’America Latina si mette in gioco all’interno della comunità internazionale

Di Stefano Bozzalla Cassione Poco meno di un anno fa, a Parigi, si è svolta una delle più grandi e importanti conferenze sul clima che si ricordi, la cosiddetta COP21, passata alla storia per la grande partecipazione (ben 195 Paesi) e per il grande interesse mediatico e sociale che ha attirato su di sé. L’accordo raggiunto ha come obiettivo il rallentamento del riscaldamento globale: ciascun Paese si impegnerà a diminuire le emissioni di gas serra, in modo tale da contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi centigradi a partire dal 2020. Per entrare in vigore, il progetto dev’essere ratificato da almeno 55 Stati che siano responsabili complessivamente del 55% delle emissioni mondiali. Ciascun Paese ha a disposizione un anno di tempo per sottoscrivere l’accordo e ad oggi già 180 Stati hanno terminato la pratica. La ratifica è arrivata già da 23 tra questi Paesi. Gli Stati latinoamericani, che si sono presentati alla conferenza sul clima singolarmente e non come unica alleanza, hanno

dimostrato fin da subito la loro volontà di ridurre le emissioni. Allo stesso tempo, però, desta preoccupazione l’economia, basata principalmente sui combustibili fossili. Negli ultimi anni, questi Paesi sono stati al centro di manifestazioni popolari contro i notevoli danni all’ambiente causati dal riscaldamento globale; alcuni di essi si erano quindi già mossi in anticipo per cercare soluzioni interne. Durante la conferenza gli i Paesi sudamericani sono stati molto attivi ed esigenti su determinati punti, come l’erogazione di fondi da parte dei Paesi industrializzati per la diffusione di tecnologie verdi in quelli in via di sviluppo, ottenuta per un ammontare di circa 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020. I Paesi latinoamericani rappresentano circa il 10% delle emissioni globali e su 20 hanno attualmente firmato in 18. Restano fuori il Cile, il quale dovrebbe aderire a breve, e il Nicaragua, che invece è apertamente contrario all’accordo, poiché sostiene che dovrebbe essere previsto un risarcimento da parte di quei Paesi sviluppati che stori-

camente hanno inquinato di più. Nei grandi Stati sudamericani coinvolti si è già cominciato a elaborare strategie che attenuino la gravità della situazione. Esse sono basate principalmente sui settori agricolo, idrico e forestale, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di una percentuale tra 15% e 30% entro il 2030. Nell’America Latina, il Paese che più incide sulle emissioni nocive è il Brasile, ovvero il quinto al mondo più inquinante. Una sua partecipazione attiva è quindi di cruciale importanza nella lotta all’inquinamento. Lo Stato ha preso l’impegno di diminuire le emissioni del 37% entro il 2025 e del 43% entro il 2030, oltre ad aver già ratificato l’accordo di COP21, anche grazie alla fortissima pressione popolare causata dalla feroce deforestazione degli ultimi anni. L’accordo di Parigi ha suonato come un campanello d’allarme e ha contribuito a smuovere l’opinione pubblica e non solo. Ora la palla passa ai singoli Paesi, che dovranno essere capaci di mettere in pratica le numerose promesse fatte.

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SUD AMERICA VECCHI MEMBRI, NUOVI CONTRASTI Il Venezuela rischia di rimanere fuori dal Mercosur

Di Daniele Pennavaria Il Mercosur, il più grande blocco economico del Sud America, è ai ferri corti con la Repubblica Bolivariana di Venezuela, che rischia di trovarsi estromessa dal club commerciale per aver mancato gli obiettivi fondamentali della sua partecipazione. Il Venezuela aveva raggiunto lo status di membro a pieno titolo dell’organizzazione del Mercato Comune del Sud nel 2012, dopo un percorso di 6 anni, reso più complicato dall’ostilità di alcuni membri. Secondo il trattato di adesione, avrebbe avuto a disposizione 4 anni per aggiornare le leggi sul libero commercio. Anche a livello di legislazione doganale, il Paese è stato criticato per aver continuamente ritardato l’approvazione della normativa comune. “Tra gli altri quattro Paesi abbiamo raggiunto l’azzeramento dei dazi da moltissimo tempo e ancora il Venezuela non ha portato a compimento le riforme” commenta Miguel Ponce, esperto argentino per il Mercosur. La data limite era lo scorso 12 agosto, ma questa scadenza è stata prolungata dalle cancellerie di Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay – gli altri membri a pieno titolo dell’orga22 • MSOI the Post

nizzazione – fino al prossimo 1 dicembre. “Il vincolo si è deteriorato politicamente e ha portato a una reazione sui temi economici che prima si perdonavano” afferma ancora Ponce riferendosi alla solidarietà sempre dimostrata dalle amministrazioni di sinistra di Brasile e Argentina, entrambe recentemente sostituite (in Argentina da poco più di un anno e in Brasile negli ultimi mesi). Lo scenario politico ha nettamente virato a destra, mettendo in contrasto con l’atteggiamento del Venezuela i due Paesi con il maggiore peso economico all’interno dell’organizzazione. La cancelleria brasiliana ha insistito sui ritardi in materia di diritti umani, evidenziando come l’amministrazione di Maduro sia l’unica all’interno del Mercosur a non aver ratificato il Trattato sulla Promozione e Tutela dei Diritti Umani del 2005 e l’Accordo di Residenza per gli Stati membri del Mercosur (volto a facilitare la mobilità di persone nel territorio comune). Il comunicato del ministro degli Esteri brasiliano José Serra ha complicato la relazione tra i due Paesi, portando Delcy Rodríguez, sua omologa venezuela-

na, a sottolineare l’illegittimità dell’attuale governo brasiliano, non riconosciuto dal governo di Maduro perché ritenuto il risultato di un colpo di Stato. Gli organi del Mercosur hanno deciso di risolvere al più presto la diatriba, vista la necessità di proseguire i negoziati con l’Unione Europea in assenza di debolezze e instabilità interne. Al Venezuela si chiede però di conseguire in poco più di due mesi le riforme che in 4 anni non è riuscito a realizzare. Malgrado le critiche alla durezza delle cancellerie da parte degli altri Stati membri, il governo venezuelano deve riconoscere che l’appoggio dell’organizzazione è stato più volte un’ancora di salvezza per l’economia, soprattutto riguardo i problemi legati al prezzo del petrolio e al rifornimento di generi di prima necessità. Continuare a opporsi a Brasile e Argentina, fossilizzandosi sulle differenze politiche, potrebbe rivelarsi già a breve una mossa svantaggiosa per il Venezuela, sia che esso voglia mantenere dei rapporti di buon vicinato, sia per questioni di ordine interno, sovente legate ai problemi economici.


ECONOMIA THE NEW NORMALITY

L’Istat conferma come le riforme anticicliche adottate siano inefficaci

Di Michelangelo Inverso

dalla domanda aggregata.

Alla fine anche l’Istat ha certificato lo stato dell’economia italiana: il Paese è fermo al palo. Se l’anno dovesse chiudersi oggi, il PIL sarebbe aumentato dello 0.8%, una crescita asfittica per una Nazione già provata da quasi 10 anni di recessione e di stagnazione. Che la situazione in Italia si sia incancrenita non è una novità. Basta osservare l’andamento del valore assoluto del PIL dal crack Lehman Brothers, che è passato da circa 425000 milioni di euro (a prezzi costanti), nel 2008, a 385000 nel 2015, lo stesso livello del 2000. Un quindicennio perduto in termini di creazione di valore nel Belpaese, ma la situazione è in realtà ben più grave.

La timida ripresa dei salari dal 2014 (+0.45%) non deve essere fraintesa: ci troviamo in un periodo di deflazione, cioè di abbattimento del livello dei prezzi, innescato dal calo del prezzo del lavoro e del petrolio e, quindi, se i prezzi calano più dei salari questi ultimi salgono, ma solo relativamente, non in termini assoluti. Sul calo del livello dei prezzi delle materie prime, in particolare il petrolio, è necessario riflettere con maggior attenzione. È naturale pensare alle materie prime come ad un costo per il sistema industriale: se queste si deprezzano, allora i costi complessivi delle imprese calano, l’offerta aumenta, i prezzi calano e di conseguenza i consumi aumentano. Quindi, risulta evidente che il calo del prezzo del petrolio, di circa 60 dollari in quattro anni, sia stato un fattore positivo della crescita economica italiana.

La crescita economica, infatti, dipende da alcune variabili strutturali come il livello salariale e il prezzo delle materie prime (come il prezzo del petrolio). Se osserviamo queste componenti e le politiche economiche ad esse riferite otteniamo una situazione ben più tetra. Anzitutto, dal 2008 il livello salariale è regredito ai livelli del 2004, influendo molto negativamente sui consumi e, di conseguenza, sulla produzione di beni e servizi, che dipende

Ma, nonostante la presenza di un fattore cosi decisivo per la crescita, l’Italia è cresciuta solo dello 0,8% nel 2015. Numerose ricette sono state adottate dalla Banca Centrale Europea, basti pensare al Quantitative Easing, il famoso “bazooka di Mario Draghi”. Ma la politica monetaria non basta a

risollevare l’economia, sarebbe necessario un intervento deciso sull’economia “reale” da parte della politica. La prima delle cause che si dovrebbero affrontare è, quindi, il livello salariale che continua a scendere e che dimostra che il primo motore del PIL - il consumo privato - resta guasto. Fattore che, da solo, determina la stagnazione, perché senza capitali privati non c’è domanda e l’offerta resta insoddisfatta e regredisce. Ma, nonostante il problema sia sotto gli occhi di tutti, le risposte dei Governi in Europa mirano ad abbattere ulteriormente i costi industriali piuttosto che ad aumentare la ricchezza privata (basti pensare ai Jobs Act francese e italiano). La teoria seguita sosterrebbe quindi un ulteriore calo dei prezzi dei beni allo scopo di raggiungere al ribasso i salari. Ma questa è una manovra sostanzialmente fallimentare in un momento in cui tutti mirano al risparmio. E, infatti, l’Istat conferma, ancora una volta, l’inconsistenza di tali riforme e il rischio che, alla prossima ondata recessiva, l’inguarita cancrena italiana potrebbe risultare fatale. MSOI the Post • 23


ECONOMIA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA O PREQUEL CINEMATOGRAFICO? Benvenuti nell’era in cui i robot rimpiazzeranno il lavoro umano, e non solo.

Di Martina Unali Un dato di fatto. L’informatica, l’hi-tech e l’intelligenza artificiale sono, ormai, largamente diffuse nella nostra quotidianità. Ma, secondo recenti studi, stiamo per assistere ad un upgrade delle tecnologie esistenti, ancora più innovativo. Un déjà-vù. Ci aveva visto bene lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov, il quale, basandosi sulle leggi della robotica, nella sua antologia “Io, Robot”, descrisse il rapporto uomo-automi. Il riferimento temporale era il 2035, data entro la quale i robot sarebbero stati alla portata di tutti. Questa volta, sembra proprio che gli automi stiano irrompendo delle nostre vite, decisamente prima del previsto. E non è la trama avvincente di un film fantascientifico. I primi segnali. L’allarme arriva dalle mansioni sharing, ossia quelle poco qualificate e a basso costo, facilmente delegabili ai robot. Insomma, l’automazione sta per venire letteralmente spazzata via dalla robotizzazione. Numerose stime ed analisi comparative, evidenziano risultati assai differenti nel prevedere, in quale percentuale, le mansioni lavorative potrebbero essere potenzialmente affidate alle macchine. Rimangono salve, 24 • MSOI the Post

per il momento, le competenze dei manager e professionisti vari, in quanto caratterizzate da un alto tasso di formazione. In ogni caso, l’unica conferma riguarda l’intelligenza emotiva e la creatività, qualità caratteriali difficilmente riproducibili artificialmente. Gli impatti sul sistema economico. Secondo Harm Bandholz, direttore degli analisti economici di una unit bancaria, la produttività dei robot non può che avere ricadute positive sulle economie dei Paesi più avanzati, in termini di PIL e di posti di lavoro. Ma non è tutto oro quello che luccica. Infatti, siamo in presenza di un forte trade-off: preferire dei sofisticati alter ego metallici condurrebbe ad un livello dell’educazione non adeguato agli standard della nuova economia robotica. Di conseguenza, i giovani dovrebbero essere eruditi secondo raffinati parametri emozionali-relazionali. Come se non bastasse, questi studi qualificati creerebbero un’ulteriore scrematura: solo gli studenti più abbienti potrebbero ambirvi. Inesorabilmente, tutto ciò condurrebbe alla precarietà, recando danno all’essere umano e violando le leggi della robotica, enunciate dallo stesso Asimov. Gli ulteriori sviluppi. Un altro rapporto dell’Università di

Stanford asserisce che le novità non finiscono qui: secondo uno scenario, entro il 2030, i robot potrebbero entrare nelle scuole a fianco dei docenti, nei distretti di polizia, coadiuvando gli agenti nel pattugliamento o per smaltire il traffico urbano, fino ad entrare nelle nostre cucine, nelle vesti di frigoriferi smart, in grado di stilare la lista della spesa. La situazione attuale. Tutto ciò riguarda un futuro che, a quanto pare, non sembra poi così lontano. Le tecnologie artificiali sono già insediate tra di noi: per citarne alcune, basta pensare alle assistenti vocali di smartphones e altri devices, come Siri e Cortana, o al riconoscimento dei volti sui social network. Notizie dal mondo. Una recente mozione al Parlamento Europeo del Partito Socialista del Lussemburgo ha chiesto di assegnare ai robot, colpevoli di aumentare i livelli di disoccupazione, la personalità giuridica in modo da poter essere tassati. Una provocazione a tutti gli effetti. Ma, alla luce di tutto questo c’è da chiedersi se l’avvento degli androidi sarà in grado di raggiungere l’ottimizzazione del benessere per tutti. Ai posteri l’ardua sentenza.


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