Msoi thePost Numero 34

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA LA LEGALIZZAZIONE DELLA MARIJUANA La normativa in Europa

Di Claudia Cantone, Sezione MSOI Napoli Il 25 luglio, per la prima volta in Italia, è stata discussa alla Camera la proposta di legge n. 3235 per la legalizzazione della marijuana e dei suoi derivati. La normativa che attualmente disciplina questo settore risale al 1990, anno della legge Jervolino-Vassalli, in base alla quale nel territorio italiano sono illegali consumo, produzione e spaccio di droga. Il disegno di legge, la cui discussione è stata rimandata a settembre per l’eccessivo numero di emendamenti presentati dall’opposizione, prevederebbe una serie di importanti novità. Innanzitutto sarebbe possibile, per i maggiorenni, detenere fino a 15 grammi di marijuana in casa e fino a 5 grammi al di fuori della propria abitazione; il limite di piante coltivabili, ad uso esclusivamente personale, è fissato a 5. Sarebbe consentito, inoltre, istituire delle associazioni, senza scopo di lucro e con un tetto massimo di 50 iscritti, per la coltivazione in comune della canapa (con un limite di 5 piante per socio). Per quanto riguarda la commercializzazione, invece, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli potrà autorizzare soggetti privati alla vendita al dettaglio in deter-

minati luoghi. In Europa il quadro generale in tema di legalizzazione si presenta piuttosto eterogeneo. Nei Paesi Bassi, famosi per la loro politica della tolleranza, l’acquisto e la coltivazione di cannabis è accettato e regolamentato dal 1976. Nei coffeshop olandesi è autorizzata la vendita di marijuana ai maggiorenni, con un limite massimo di 5 grammi al giorno. In Spagna chi intende fumare marijuana può iscriversi ai Social Cannabis Club: in ognuno vi sono uno o più delegati addetti alla coltivazione comune dei semi di canapa e ogni socio, all’atto dell’iscrizione, indica la quantità di cannabis che intende consumare in un mese. È legale, dunque, il consumo delle cosiddette droghe “leggere”, ma soltanto all’interno di questi luoghi ed è assolutamente proibita la vendita al di fuori. In Portogallo, invece, nel 2001 è stata approvata una legge, all’epoca molto discussa, che ha depenalizzato l’uso di tutte le droghe. Il consumo ed il possesso di marijuana, quindi, non costituisce più reato, ma è trattato al pari di un illecito amministrativo: chi viene trovato in possesso di una determinata quantità di droga

è invitato a comparire dinanzi a una Commissione per la Dissuasione dalle Dipendenze dalla Droga, composta da 3 membri (un medico, un avvocato e un assistente sociale), che ha il compito di consigliare un percorso di riabilitazione (non obbligatorio) e, in ultima istanza, di comminare sanzioni (molto rare). In Germania la normativa non è né chiara né conforme: è tendenzialmente tollerato il possesso di marijuana per uso personale, ma la quantità consentita varia a seconda dei lander. Nei mesi scorsi il governo tedesco ha valutato la possibilità di legalizzare la coltivazione per scopi terapeutici a partire dal 2017. In Repubblica Ceca nel 2010 è stato depenalizzato il possesso di marijuana, il cui limite tollerato è di 15 grammi. Anche nel Regno Unito è stata seguita la via della depenalizzazione: la cannabis e i suoi derivati sono considerati una droga di serie B, il cui possesso non è punibile con l’arresto. In generale è prevista un’ammonizione e la confisca della quantità che si possiede. Nel maggior parte degli Stati europei il consumo di qualsiasi tipo di droga è illegale ed è severamente punito dalla legge. MSOI the Post • 3


EUROPA DARKNET MARKET

Proliferazione della vendita di armi nel deep web

Di Giulia Ficuciello A seguito dei recenti attentati che hanno colpito diversi paesi dell’Unione Europea, si riaccende il dibattito su una modifica dell’unica direttiva sulle armi, la 2008/51/CE. Punto debole di tale direttiva è che, in quanto tale, viene applicata con mezzi diversi da ogni Stato membro e questo ne compromette portata. Se, infatti, da un lato vi sono Stati che adottano misure molto incisive, in grado di rendere inoffensive le armi e ridurne la diffusione, altri hanno, invece, un atteggiamento “meno invasivo”. Di rilevante importanza per la proliferazione delle armi è oggi anche il darknet market, website all’interno del dark web la cui funzione principale è il mercato nero. Negli anni ‘90 venne creato il software TOR (The Onion Routing) per la US Naval Research Laboratory che permetteva alle intelligences comunicazioni cifrate ed anonime sulla rete. Proprio grazie alla garanzia dell’anonimato, adesso la rete TOR viene utilizzata spesso per il compimento di attività illecite (dalla vendita di armi alla pedopornografia fino alle cd. cyber-arms). 4 • MSOI the Post

Come funziona la compra-vendita di armi nel deep web? Considerando che questi siti sono utilizzati da criminali è molto facile incorrere in truffe. Numerosi sono infatti gli scam, ossia siti che mettono in atto tentativi di truffe pianificate. La maggior parte delle volte al compratore di armi da fuoco di grosso calibro vengono chieste, come anticipo, notevoli somme di denaro, senza che poi egli riceva effettivamente l’arma in cambio. Esistono però gli accordi di escrow, cioè acconti di garanzia presso un terzo che permetta appunto di garantire entrambe le parti da un’eventuale truffa. È diverso il discorso per quanto riguarda la vendita di armi da fuoco di piccolo calibro, la cui diffusione è molto più estesa grazie anche al fatto che in questi casi gli utenti comprano, nella maggior parte dei casi, a scopo di autodifesa o collezionismo. Il legame che c’è tra estremismo e queste nuove forme di vendita illegale non è nuovo per l’Unione Europea che già nel 2013, all’indomani dell’attacco alla sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, affermava la propria preoccupazione per la proliferazione della vendita illegale di armi da fuoco e la necessità di demilitarizzazione delle armi.

La proposta di direttiva della commissione del 2015, che quindi modificherebbe la EU firearms directive del 2008, è stata ed è sottoposta a diverse critiche. Il testo è stato giudicato da molti come impreciso, dettato solo dalla fretta di reagire agli attacchi e poco approfondito. Dall’altro lato sono fondamentali le proposte di armonizzare le norme in UE per una più facile tracciabilità delle armi, l’ottimizzazione dello scambio di informazioni tra Stati membri, l’obbligo di interconnessione dei registri nazionali delle armi. A questa serie di provvedimenti si aggiunge un piano d’azione contro il traffico illegale di armi da fuoco ed esplosivi, implementando la coordinazione tra servizi segreti e forze di polizia dei diversi Stati membri. Secondo il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker si tratta di un ottimo testo al fine di “combattere la minaccia che le armi finiscano nelle mani dei terroristi”. Da tutto ciò si potrebbe concludere che l’utilizzo del deep web, inizialmente concepito per garantire, a fin di bene, la riservatezza degli utenti, è diventato esso stesso un’arma.


NORD AMERICA IL ‘FRACKING’ E IL MERCATO DEL PETROLIO

Conseguenze della nuova tecnica di estrazione sul mercato mondiale

Di Lorenzo Bazzano Negli Stati Uniti e in Canada, negli ultimi anni, l’innovazione tecnologica ha permesso di estrarre grandi quantità di petrolio dalle rocce bituminose. Le sabbie bituminose sono uno dei tanti prodotti compresi nella categoria del petrolio non convenzionale, il petrolio non facilmente estraibile. Complice l’aumento del prezzo del petrolio di qualche anno fa, alcune società petrolifere hanno iniziato a investire in nuovi metodi per l’estrazione del greggio. Ma a essere all’avanguardia in questa ricerca sono le compagnie statunitensi e canadesi, grazie alla scoperta del fracking. Il fracking, o fratturazione idraulica, è una tecnica che consiste nell’iniettare nelle rocce acqua unita a sabbia e agenti chimici per creare una microfrattura all’interno, che a sua volta crea una via di fuga per il greggio, facendolo fluire verso l’alto. È un metodo di estrazione molto innovativo che permette di ridurre i costi del petrolio. Per questo gli effetti sul mercato mondiale sono stati molto significativi.

Grazie alla diffusione del fracking, gli Sati Uniti producono il 65% di petrolio in più rispetto a 6 anni fa e il Canada è diventato uno dei maggiori produttori di petrolio. Alcuni studiosi ritengono che i due Paesi in futuro potrebbero addirittura raggiungere l’indipendenza energetica. Questo ha creato un eccesso di offerta a livello globale che, accompagnata dalla contrazione della domanda, ha provocato una diminuzione dei prezzi del petrolio. A pagarne le conseguenze sono stati i Paesi produttori di petrolio, primo fra tutti l’Arabia Saudita, che ha cercato di aumentare la produzione per difendere la sua fetta di mercato. Ma sono danneggiati dalla concorrenza degli Stati Uniti anche la Russia, che ha ridotto le spese interne, il Venezuela, che ha quindi ridotto il welfare, l’Iran e la Nigeria. Quei Paesi, insomma, la cui economia dipende fortemente dalle esportazioni di petrolio. Il fracking è stato anche oggetto di critiche da parte degli ambientalisti: gli aspetti più negativi di questa tecnica sono il rischio di inquinamento delle

falde acquifere, l’impatto ambientale, le emissioni di gas serra e il rischio di provocare sismi. Michael Le Page ha scritto in proposito sul New Scientist che il calo del prezzo del greggio rischia di vanificare la lotta ai cambiamenti climatici, perché stimola l’aumento dei consumi e riduce gli investimenti nell’energia verde. Nel 2015, evidenzia, le vendite di auto negli Stati Uniti hanno toccato livelli record. Quest’ultimo aspetto è centrale per Stati Uniti e Canada: Obama e Trudeu hanno affermato la necessità di porre al centro della loro agenda politica la lotta al cambiamento climatico nel rispetto degli accordi stipulati a Parigi. La comunità scientifica mondiale, rappresentata dalla IPCC, è d’accordo sul fatto che se si vuole contenere l’aumento della temperatura globale a 2 gradi, almeno due terzi delle riserve di petrolio di Stati Uniti e Canada non devono essere estratti: quello che sarebbe un vantaggio per l’ambiente sarebbe uno svantaggio per l’economia del Nord America. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA LA CARTA DEL VICEPRESIDENTE Trump e Clinton alla conquista del centro

Di Federico Palmieri, Sezione MSOI Roma Nelle scorse settimane, le convention dei due maggiori partiti politici americani hanno chiuso la lunga stagione delle primarie, dando il via alla fase finale del ciclo elettorale. Oltre alle nomination per la presidenza di Donald Trump e Hillary Clinton, durante le convention i due partiti hanno ufficializzato anchequelleallavicepresidenza:Tim Kaine, senatore della Virginia, per i Democratici e Mike Pence, governatore dell’Indiana, per i Repubblicani. Salutata dagli osservatori come la safest choice su entrambi i fronti, la nomina di Kaine e Pence dice molto delle strategie elettorali di Democratici e Repubblicani. Da un lato, i due incarnano le fasce di elettorato che Clinton e Trump puntano a inseguire; dall’altro si pongono, per temperamento e carriera, come complementari ai due candidati e capaci di colmarne le rispettive mancanze.

rappresentazione esemplare del democratico centrista. Ha una buona esperienza nell’esecutivo e nel legislativo (anche in politica estera): le sue caratteristiche non scontentano nessuno. Verso sinistra, ha credenziali di tutto rispetto: in particolare, in tema di aborto è pro-choice anche se cattolico ed è da sempre a favore di forti limitazioni al secondo emendamento. Al centro, la sua biografia parla per lui: è sposato da più di trent’anni con la figlia di un ex governatore repubblicano della Virginia, unione che lo rende simbolo di un pragmatismo bipartisan tutto clintoniano. A ciò si aggiunge una carta preziosa: può contare su un buon ascendente sulla comunità ispanica, grazie al uno spagnolo fluente e alla fede cattolica. A livello personale, Kaine punta ad apparire come un uomo semplice, onesto e, tutto sommato, simpatico: il contrario dell’immagine pubblica di Clinton, elemento che potrebbe equilibrare il ticket democratico.

In campo democratico, l’elettorato da rincorrere è quello moderato, che include anche i Repubblicani in fuga da un partito sempre più spostato a destra. Proprio per questo, Tim Kaine sembra porsi come la

Fra i Repubblicani, l’elettorato da (ri)conquistare è quello tradizionale del partito, sacrificato sull’altare del voto a destra. Proprio per questo, Mike Pence si è presentato, nel suo discorso alla convention, come un repubblicano classico.

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Pence si è lanciato nell’impresa inedita di adattare all’era di Trump il messaggio politico tradizionale del Partito Repubblicano: ai valori reaganiani Pence ha unito l’isolazionismo, il machismo e la political incorrectness che sono la cifra del candidato repubblicano. Pur senza risparmiare attacchi alla Clinton, Pence ha calibrato il proprio messaggio per apparire come il volto più equilibrato, rassicurante ed esperto del candidato repubblicano: più pacato nei modi, più freddo nelle parole, una mano ferma nello Studio Ovale e, all’occorrenza, l’apologist-in-chief di Trump. Con la scelta di Kaine e Pence, Democratici e Repubblicani sono sfuggiti alla trappola di fare del vicepresidente uno strumento per accattivarsi segmenti di elettorato difficili da espugnare. Invece di rischiare tutto per conquistare donne e ispanici (Trump)oppureiliberalpro-Sanders (Clinton), i due candidati – con un occhio alla situazione negli swing States – si sono lanciati verso il centro. Sarà infatti questo il vero terreno di scontro di elezioni che avranno un’influenza senza precedenti sulla definizione del messaggio politico dei due principali partiti americani.


MEDIO ORIENTE COME “RESTARE UMANI”

Le parole di Vittorio Arrigoni chiedono ancora di essere ascoltate

Di Lorenzo Gilardetti Il 15 aprile di 5 anni fa giungeva dal Medio Oriente la notizia che un attivista italiano era stato ucciso: Vittorio Arrigoni, 36 anni e una vita spesa a fianco degli ultimi. Arrigoni era un personaggio scomodo. I servizi segreti israeliani lo avevano inserito nella lista degli indesiderati già nel 2005, poco prima di espellerlo in Giordania. Avevano infatti compreso il potenziale che poteva raggiungere, in un’Europa spesso annichilita, la sua informazione diretta e libera da vincoli editoriali e dal veto di poteri forti. Nell’agosto del 2008, però, il ragazzo originario della Brianza era tornato a Gaza per proseguire la sua opera di aiuti umanitari nella terra a cui più era legato e aveva ricevuto lì la cittadinanza onoraria. Le sue testimonianze divennero una fonte di informazione fondamentale durante l’operazione militare Piombo Fuso, tramite la quale l’esercito israeliano puntava a colpire centri nevralgici di Hamas. Guerrilla Radio, il blog di Arrigoni, divenne il più cliccato in Italia e Vittorio collaborò inoltre con Il Manifesto, Radio 2, Peace Reporter,

InfoPal e Radio Popolare, essendo uno dei pochissimi reporter a trovarsi nella Stiscia di Gaza. Il governo israeliano lo incarcerò, per poi espellerlo nel novembre dello stesso anno per aver difeso alcuni palestinesi, secondo lui accusati ingiustamente. In seguito a questa vicenda Arrigoni scrive Gaza, Restiamo Umani, suo primo libro, che verrà pubblicato nel 2009. Si tratta di un’autentica testimonianza delle durissime condizioni in cui sono costretti a vivere i palestinesi, ma sono presenti anche attacchi al governo israeliano e ad Hamas: la chiara e distinta voce di una terra senza diritti, spesso ignorata dai Paesi più potenti, a cui si chiede con diversi appelli di spostare l’attenzione su quel che sta succedendo ai civili palestinesi. Tornato a Gaza definitivamente il 21 dicembre del 2008 grazie a Free Gaza Movement, Arrigoni riprende la sua attività, lunga ormai 16 anni, prima di venire assassinato da jiahdisti salafiti nel 2011. Ma se egli è stato uno dei più irriverenti e dei più conosciuti, tanti altri attivisti sono partiti e continuano a partire da tutto il mondo per portare un aiuto concreto in Palestina, principalmen-

te nella critica Striscia di Gaza. Sono diverse le organizzazioni di cooperazione internazionale che assistono i civili cercando di garantire loro i diritti primari, spesso negati da leggi e abusi del governo israeliano. A 5 anni dalla morte di Arrigoni, infatti, in Palestina il Presidente è lo stesso Mahmoud Abbas, in carica dal 2005, anno successivo alla morte di Arafat e in cui si sono svolte le ultime elezioni presidenziali (le ultime parlamentari risalgono invece al 2006). Abbas legalmente è decaduto da 7 anni. Il leader dell’Autorità Palestinese non è di fatto riuscito a opporre resistenza all’espansione coloniale israeliana e sono stati vani i suoi tentativi di svincolare l’economia palestinese dalle rigide restrizioni imposte da Israele. La responsabilità va anche alla corruzione interna e ai contrasti con Hamas e Fatah. Molti cooperanti sono un punto d’appoggio fondamentale per le famiglie palestinesi, in uno scenario politico statico, che stenta a vedere una via d’uscita, e in un conflitto che quando non è militare continua a imperversare sul piano economico e governativo, ben lontano da una risoluzione pacifica.

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MEDIO ORIENTE UNA CITTA’ DIVISA

Le truppe ribelli rompono l’assedio del regime dei quartieri nord di Aleppo

Di Jean-Marie Reure La città di Aleppo, o Halab in arabo, seconda città per importanza nella moderna Siria, disputa con poche altre città del Medio e Vicino Oriente il titolo di “insediamento più lungamente abitato”. Antichi testi Egiziani infatti testimoniano la presenza di comunità insediatesi in quelle zone sin dal XX secolo a.C. Capitale dell’impero Hittita, crocevia commerciale sotto i regni ellenici, nel VII secolo d.C. sarà conquistata dalle popolazioni arabe, che vi costruiranno la Grande Moschea. La città nel corso dei secoli sarà conquistata dai Mongoli, dai crociati e sempre ripresa. Nel 1516 entrerà a far parte dell’impero Ottomano ed al suo crollo si vedrà imposta l’egida dei mandati francesi ed inglesi. Questa breve carrellata storica tuttavia non ha il proposito di decantare le meraviglie che Aleppo cela (la città antica è patrimonio mondiale dell’UNESCO) quanto più quello di illustrare il ruolo strategico che questa ha sempre avuto. Stupiva, infatti, che allo scoppio delle ostilità, a marzo del 2011, a differenza di molte altre città, questa fosse rimasta silenziosa. Tuttavia, nonostante le minacce di rappresaglie violente da parte delle autorità locali in caso di ribellioni, a febbraio del 2012 8 • MSOI the Post

due esplosioni nei pressi di un compound dell’intelligence causano 28 morti. A luglio scoppiano apertamente le ostilità, si combatte sin nel centro della città e il minareto della Grande Moschea, monumento dell’XI secolo, viene ridotto in polvere. È il momento più difficile per i lealisti di Assad, le truppe perdono terreno ovunque, numerosi gruppi ribelli incalzano sotto tutti i fronti e il regime vacilla. Tuttavia l’alleato d’eccezione del regime non è ancora intervenuto, ma quando lo farà, ne si percepirà la forza. Gli ingenti aiuti della Russia infatti, prima sotto forma di armi e missili, poi direttamente con i propri velivoli, rimettono in sella Assad che nel 2013 inizia una pesante offensiva aerea, sganciando indiscriminatamente su popolazione e ribelli armati centinaia di barili bomba. Ci vorranno ancora mesi però prima di vedere l’esercito regolare riprendere terreno. Lentamente i ribelli verranno scacciati dalle zone a nord della città (le più pesantemente bombardate), in seguito dalla periferia ed infine da alcuni quartieri centrali. Si trovano così stretti in una morsa, intrappolati ad ovest della città e presi d’assedio. Eppure, proprio quando l’esercito regolare siriano pareva essersi rafforzato al

punto da imporsi nuovamente sul territorio, dopo aver sconfitto a più riprese gli uomini di Daesh, in una città chiave come Aleppo vengono sconfitti. Dal 6 agosto una controffensiva su vasta scala è in atto da parte dei ribelli, i quali sono riusciti a spezzare l’assedio e ad impadronirsi dell’accademia d’artiglieria, ove si trovavano numerose munizioni e armi. Nel corso delle operazioni sono morti più di 11 civili e 5 soldati lealisti hanno perso la vita. I ribelli hanno agito con l’aiuto dei jihadisti di Fateh Al Cham (ex fronte Al Nusra, separatosi da Al Quaeda). È piuttosto peculiare in questa vicenda il fatto che la coalizione nell’ultimo anno si sia abituata a vedere Assad come uno dei pochi interlocutori locali di peso (grazie, ovviamente, a Vladimir Putin). Inoltre gli attentati in Francia (e altrove) hanno spostato i riflettori sul monstrum Daesh, divenuto la priorità, così da lasciare al Presidente siriano un più ampio spazio di manovra ed un relativo e momentaneo anonimato. Cionondimeno l’esercito regolare si mostra ancora debole e incapace, senza un uso della forza eccessivo, di tacitare un’opposizione che appare ormai come “interna” (rispetto a Daesh, il Vero Nemico esterno, l’Invasore). Cosa ne sarà della Siria, una volta schiacciato il Califfato?


RUSSIA E BALCANI USA E RUSSIA, L’ETERNA COMPETIZIONE TRA DUE GRANDI POTENZE Dai rapporti alla fine della guerra alle cause del conflitto di oggi

Di Giulia Andreose USA e URSS, potenze vincitrici dalla seconda guerra mondiale, nella prima parte del dopoguerra vissero quello scontro ideologico, politico e militare, che sarà poi chiamato guerra fredda. Da una parte gli USA, con il capitalismo e le libertà politiche e civili. Dall’altra il comunismo, ideologia ufficiale dell’URSS, e il potere politico di un unico partito, il PCUS. A partire dalla fine del 1986 si avviò un processo di distensione. Ronald Reagan e Michail Gorbačëv si incontrarono a Reykjavik e nel 1987 si giunse al trattato INF sull’eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio in Europa. Ciò diede inizio al processo di dissoluzione dell’URSS. Gorbačëv si dimise nel dicembre del ‘91 e gli successe Boris Eltsin, primo Presidente della Federazione Russa, mentre negli Stati Uniti presiedeva George Bush senior. Durante il governo di George Bush junior e in occasione dell’attacco terroristico dell’11 settembre, il presidente Vladimir Putin offrì appoggio agli Stati Uniti e mise a disposizione l’esperienza russa per combattere il terrorismo qaedista.

Nel 2002 fu istituito un apposito Consiglio NATO-Russia per promuovere la collaborazione e la consultazione, ma ciò non diede i risultati sperati. Nonostante i tentativi NATO di inclusione della Russia ai suoi tavoli e la rinuncia al dispiegamento del sistema di difesa anti-missilistica in Polonia e Repubblica Ceca, l’invasione dell’Iraq e l’influenza esercitata dagli USA nelle “Rivoluzioni colorate” di Ucraina, Georgia e Kirghizistan crearono nuove tensioni, che raggiunsero il culmine nella guerra russogeorgiana nel 2008. Con l’elezione di Barack Obama, nel gennaio 2009, si cercò di costruire un rapporto più disteso con la Russia. Nacquero ugualmente tensioni diplomatiche, con schermaglie e scontri, come la legge voluta da Putin che vietava alle famiglie statunitensi l’adozione di bambini russi. Nel 2013, dopo l’attentato terroristico a Boston, il presidente Putin rinnovò l’offerta di assistenza agli Stati Uniti, ma Obama non seguì la strada del suo predecessore. Oggi c’è chi parla di una “nuova guerra fredda”, riferendosi a scenari come quello ucraino, caro al Presidente russo, che non vuole perdere influenza e

terreno nelle aree appartenute all’Unione Sovietica, ma anche ad Obama, preoccupato che il coinvolgimento russo nel conflitto sia la prova che Putin voglia ripristinare l’URSS. Dopo l’annessione della Crimea a Mosca, gli americani sono ancora più attenti a limitare la presenza della Russia in Ucraina, come dimostrano le sanzioni stabilite dagli USA e dall’Europa a danno di Mosca. La guerra in Siria è un’altra delle criticità nei rapporti Russia e USA: Obama combatte il sedicente Stato Islamico, ma vorrebbe che Assad non fosse più protagonista della vita politica di Damasco. Per contro, Putin è, politicamente, il migliore amico del Presidente siriano. Infine, altra causa di conflitto è il settore dell’energia: la ricerca di un controllo sul flusso di gas verso Europa e Cina da parte di Mosca preoccupa gli Stati Uniti, che hanno ricominciato ad esportare il medesimo bene, contendendosi il primato con Mosca. Le relazioni tra Russia e Stati Uniti si alternano dunque tra desiderio di cooperazione e continua competizione. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI SAN PIETROBURGO, LA CITTÀ COSTRUITA SU OSSA E FANGO Viaggio nella storia dell’antica capitale russa, la terza città più grande d’Europa

Di Daniele Baldo Al contrario di quanto raccontato dalla leggenda, nel maggio del 1703 Pietro il Grande non era presente all’atto fondativo di quella che sarebbe stata la futura San Pietroburgo. Per essere precisi, la nascita della città ebbe luogo sotto la guida del generale Alexander Menshikov, che diede il via alla costruzione della Fortezza di Pietro e Paolo, sull’Isola di Zayachiy. Edificata su un terreno paludoso e inospitale, scelta che costò di migliaia di vite, la città venne fondata su ordine dello Zar, che desiderava un porto e una fortezza per difendere la Russia dagli svedesi. Sarebbe dovuta diventare la sua “finestra verso l’Europa”, una nuova capitale dove nuove riforme militari, amministrative e culturali, vicine a quelle occidentali, avrebbero preso forma. La storia della nascita di San Pietroburgo è stata sia celebrata sia condannata in Russia. Mentre i libri di storia ne osannano la creazione, molti autori lamentano la sua innaturale e sanguinolenta fondazione: Dostoevskij la chiamò “la città più premeditata e astratta del mondo intero” e il 10 • MSOI the Post

poeta Pushkin provò a riguardo sentimenti contrastanti, come si evince dal suo Cavaliere di bronzo, che descrive l’alluvione del 1824 e la statua di bronzo di Pietro al centro della piazza del Senato. A partire dalla costruzione della fortezza di Pietro e Paolo, lo Zar costrinse milioni di reclute, condannati e prigionieri di guerra a erigere la città partendo da zero, in un luogo in cui la neve può cadere da settembre fino a maggio. Questi uomini erano obbligati a vivere in quartieri diroccati, con strumentidilavoroinsufficienti o del tutto inesistenti, finendo per scavare e trasportare la terra con le proprie mani. A migliaia morirono, portati via dalle malattie o dalle frequenti inondazioni. Per questo motivo San Pietroburgo è conosciuta come “la città costruita sulle ossa”. Cercando un antidoto alla caotica Mosca, Pietro stilò tre regole principali per la sua città: gli edifici avrebbero dovuto essere costruiti uno a fianco all’altro, le strade avrebbero dovuto essere dritte e non curve e tutte le costruzioni sarebbero state fatte di pietra.

San Pietroburgo sarebbe così diventata un centro dell’alta società, sede di cene e balli sfarzosi, concerti e opere, il tutto sorretto da un vero e proprio esercito di servi della gleba. San Pietroburgo è dunque sopravvissuta a un inizio difficile, alla Rivoluzionedel1917, al catastrofico assedio della seconda guerra mondiale e ai 70 anni di dominio comunista, per poi diventare la terza città più grande d’Europa. Oggi, ad ogni modo, deve affrontare una doppia sfida: preservare il suo passato cercando di risolvere i problemi di qualità della vita che affliggono i suoi cittadini. Ci si trova, infatti, a dover fare i conti con un centro storico riconosciuto Patrimonio dell’Unesco, ma con una periferia troppo trascurata dalle autorità, pur essendo ricca di edifici storici: oltre 15.000 degli edifici della città risalgano a prima del 1914. San Pietroburgo, inoltre, è stata classificata come la metropoli meno green d’Europa e se resterà solo una cittàmuseo difficilmente riuscirà ad attrarre nuove persone e investimenti.


ORIENTE THAILANDIA, TRA TURISMO E COLPI DI STATO Nel Siam la macchina della democrazia continua a non funzionare

Di Emanuele Chieppa Nell’immaginario collettivo occidentale, la Tailandia è la perfetta meta turistica, alla portata di tutti, offre giungle selvagge, paesaggi marini onirici e grandi metropoli. In passato è stato l’unico Paese del sud-est asiatico immune al controllo coloniale e l’unico ad aver evitato l’influenza del comunismo, a differenza dei vicini Laos, Cambogia e Vietnam. Dal 1932, infatti, la Tailandia è una monarchia costituzionale, ma nella sua storia recente le parentesi democratiche sono state poche e il Paese è stato perlopiù guidato dai militari. Il 22 maggio 2014 ha avuto luogo l’ennesimo colpo di Stato, il dodicesimo, messo in atto per “ripristinare l’ordine” e fermare gli scontri che perduravano da mesi e in cui hanno perso la vita almeno 27 persone. I contadini e i componenti delle fasce più povere della popolazione di Bangkok sostenevano il Partito Pheu Thai (PTP), a cui apparteneva l’ormai ex primo ministro Yingluck Shinawatra, giovane donna in carriera salita al potere nel 2011. Già sotto il governo guidato dal fratello di Yingluck, Thaksin Shinawatra, il PTP, legato non solo alle classi più povere ma anche

a diversi intellettuali, aveva dovuto affrontare un’opposizione molto dura, proveniente dai partiti appoggiati dalle classi benestanti, dall’esercito e dalla monarchia. Tra essi spicca il DP o Partito Democratico, legato anche all’Alleanza del Popolo per la Democrazia (PAD), le cosiddette camicie gialle. Prima del colpo di Stato, l’organizzazione dei partiti era principalmente divisa in due fazioni, il Comitato popolare per le riforme democratiche (PDRC), di cui facevano parte il DP e le camicie gialle, opposto al Fronte unito per la democrazia contro la dittatura (UDD), i cui sostenitori vengono chiamati camicie rosse e a cui aderiva l’ex Thai Rak Thai (TRT), partito dell’ex primo ministro Thaksin, e i suoi successori (tra cui il PTP della sorella Yingluk). L’esercito ha preso il potere nel maggio 2014, dopo le dimissioni di Yangluck: è stato quindi istituito il Consiglio nazionale per la pace e l’ordine (CNPO), guidato dal generale Prayuth Chan-Ocha, e sono stati introdotti la legge marziale e il coprifuoco. Il 21 agosto del 2014 il generale è stato nominato Primo Ministro da un’assemblea militare. Il CNPO ha in seguito annun-

ciato una “tabella di marcia per la democrazia” e l’intenzione di indire nuove elezioni. Queste avrebbero dovuto tenersi nel 2015, ma la data è slittata più volte. La giunta ha anche introdotto una costituzione provvisoria, in sostituzione di quella del 2007, che, pur riconoscendo lo status di democrazia alla Thailandia, ha concesso l’amnistia generale ai membri del CNPO, riservando al loro leader un potere inappellabile per l’attuazione di riforme e politiche di sicurezza. Sul testo del 2014 è stata vietata ogni discussione pubblica e l’8 agosto 2016 la nuova costituzione, voluta dalla giunta militare, è stata approvata tramite referendum popolare, con il 62% di voti a favore. Ha votato il 55% degli aventi diritto. Il colpo di Stato ha suscitato le reazioni di UE e Stati Uniti. Questi ultimi hanno ridotto il sostegno economico e militare all’esercito tailandese e hanno annullato le esercitazioni militari congiunte. L’Unione Europea ha condannato il colpo di Stato e nel 2015 ha ammonito la Tailandia per la violazione della regolamentazione sulla pesca (INN). Al contrario, i rapporti con la Cina sono migliorati, sia dal punto di vista militare e di collaborazione sia dal punto di vista diplomatico.

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ORIENTE TENSIONI, PROSPETTIVE E SVILUPPI IN LAOS Investimenti significativi nell’idroelettrico

Di Alessandro Fornaroli Da diversi anni l’area indocinese sta attraversando una fase di tensione silenziosa. I motivi risiederebbero nella costruzione di ulteriori dighe lungo il corso principale del Mekong. Il Laos, per via della conformazione geografica, non può basare il suo sviluppo economico sullo scambio di materie prime, che presuppone un sistema infrastrutturale sviluppato. Dunque la rete fluviale del Paese ha sempre rivestito un’importanza fondamentale. Consapevole di questo potenziale, il Laos ha deciso di sfruttare tale fattore dal punto di vista energetico, costruendo diverse dighe idroelettriche. I progetti in discussione ridurrebbero la dipendenza del Paese da prestiti e aiuti internazionali, obiettivo sostenuto anche da diverse agenzie, come la stessa Banca Mondiale. La collaborazione con ditte estere per la costruzione delle dighe immetterebbe inoltre valuta straniera, estremamente vantaggiosa per le casse dello Stato. Sono due le dighe che hanno 12 • MSOI the Post

causato malcontento sul fronte popolare (internamente al Laos) e sul fronte nazionale (nei rapporti con altri Stati). La prima è la diga Don Sahong, la cui realizzazione è stata annunciata da Vientiane nel 2013. L’appalto dell’opera, che sorgerà lungo le rapide di Si Pha Don, al confine con la Cambogia, è stato vinto da una ditta malaysiana, la MegaFirst Corporation. Questa piccola centrale da 260 MW ha subito allarmato gli Stati vicini, Cambogia e Vietnam, che hanno accusato il Laos di non aver rispettato i termini di preavviso imposti dal PNCPA (Procedures for Notification, Prior Consultation and Agreement). Infatti, secondo una convenzione siglata nel 1995 tra Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam, qualunque progetto avrebbe dovuto essere discusso preventivamente dalle parti e vagliato dalla Mekong River Commission, un’agenzia inter-governativa composta da collaboratori di tutti i governi dei Paesi coinvolti. Tuttavia tale trattato, che interessa gli interventi effettuati sull’alveo principale del fiume e non opere sui corsi secondari, non prevede sanzioni in caso di mancato rispetto; l’unico modo per assicurarsi una cor-

retta interpretazione è il continuo dialogo tra gli Stati. La seconda è la diga Xayaburi, situata nel basso Mekong, nella parte settentrionale del Paese. La costruzione, avviata nel 2010, trasferirà più del 90% dell’energia prodotta alla Thailandia, rendendo il Laos la “batteria del sud-est asiatico”. Amnesty International, WWF, UN e la stessa MRC stanno conducendo analisi approfondite riguardo i danni sociali e ambientali che le dighe causeranno. International Rivers, una delle più grandi ONG a livello mondiale, ha denunciato che 2.100 famiglie dovranno spostarsi nell’immediato a causa dell’allagamento del loro territorio. Si andrà a ledere profondamente anche la biodiversità marina, bloccando la migrazione di un numero compreso tra le 23 e le 100 specie diverse di pesci. Potrebbe infine verificarsi la logica del “beggar thy neighbour” a cascata: con le acque del Mekong sempre più intrappolate dalle dighe a monte, i Paesi a valle sono incoraggiati a fare lo stesso, per sfruttare il più possibile l’acqua rimasta, con conseguenze sempre maggiori sulla Nazione più a valle.


AFRICA TRIBÙ E NAZIONI

L’Africa tra identità e politica

Di Sara Corona Milano, dicembre 2012, assemblea dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI): il primo ministro ugandese Mbabazi interviene denunciando la cronica instabilità politica africana come conseguenza del colonialismo perpetrato per decenni dalle potenze europee nel continente. Le attuali dinamiche sociopolitiche dell’Africa sarebbero, infatti, conseguenza di una situazione instabile originatasi con la prima decolonizzazione, intorno agli anni ‘70 del secolo scorso. Con l’acquisizione dell’indipendenza, nel continente vennero costituite circa 50 Nazioni. I confini di questi territori furono modellati su quelli delle preesistenti colonie, in quanto la maggior parte dei colonizzatori preferì assecondare l’emancipazione africana per conservare buona parte della propria influenza sui nuovi Stati. Questi confini artificiali, però, non consideravano la distribuzione delle tribù preesistenti sul territorio. Ciò comportò, in alcuni casi, l’isolamento di singole parti di uno stesso popolo; per contro, costrinse etnie tradizionalmente rivali nel medesimo Stato, generando forti tensioni e mancanza di unità etnica e politica nei nuovi Paesi.

Nell’Africa contemporanea, dunque, manca una chiara coscienza nazionale e il forte potere dei gruppi tribali è l’unico vero collante identitario della popolazione. I problemi interni dei nuovi Stati postbellici erano molteplici e persistono tuttora più o meno immutati: arretratezza economica, tensioni interne a carattere etnico e forti disuguaglianze sociali fanno sì che alle élite di privilegiati che detengono un potere “europeizzato” e ripudiano la culture tribale si affianchi la maggior parte della popolazione, con un basso tenore di vita e uno scarso accesso all’istruzione. Le contrapposizioni etniche sono aggravate dalle profonde divisioni religiose, riemerse con l’affermarsi dell’integralismo islamico. In alcuni casi i conflitti interni agli Stati vedono contrapporsi il governo ufficiale e le tribù stanziate sul territorio. Emblematico è l’esempio dei Boscimani, popolo di cacciatoriraccoglitori che abita da decine di migliaia di anni i territori di Botswana, Namibia, Sudafrica e Angola. Negli anni ‘90, dopo la scoperta di alcuni giacimenti di diamanti nella regione, il governo botswano li espulse dalle loro terre. Solo vent’anni dopo, nel 2006, una sentenza storica proclamò l’incostituzionalità

del provvedimento e impose la loro riammissione nel territorio del Kalahari. Ma, nonostante la vittoria legale, il governo continuò a contrastare il loro ritorno. Attualmente i Boscimani sono costretti a vivere in campi di reinsediamento e dipendono in gran parte dalle razioni di cibo distribuite dal governo. Nel corso degli ultimi decenni i numerosi problemi degli Stati africani hanno giustificato l’instaurazione di forme di governo fortemente autoritarie, fondate sul partito unico o su regimi militari, che hanno soppresso violentemente ogni forma di opposizione. Attualmente, in Africa, una decina di regimi totalitari è in mano a dinastie familiari. La tendenza delle nazioni africane a dotarsi di regimi autoritari avrebbe le sue radici nel forzato e imposto processo di democratizzazione all’occidentale, che non può funzionare in assenza di una collettività condivisa. I sistemi elettorali democratici diventano, per una popolazione frammentata e disunita, “l’occasione per prevaricare su altre etnie, su altre tribù, su altri clan” (R. Pasca di Magliano, L. Liguori. 2015. Cooperazione, integrazione regionale e sostenibilità per lo sviluppo. Roma: Edizioni Nuova Cultura) MSOI the Post • 13


AFRICA DA COSA FUGGONO I MIGRANTI? Tra guerre, dittature e fame

Di Francesco Tosco Nonostante nelle migrazioni verso l’Europa la componente siriana risulti la più consistente, il flusso migratorio che quotidianamente investe il Vecchio Continente comprende anche persone provenienti da altre realtà, tra cui alcuni Paesi africani. Di seguito un’analisi di tali scenari. Eritrea. Paese basato su un’economia di sussistenza, non vi sono mai state elezioni democratiche e dal ’93 si è instaurata una dittatura spietata, guidata dal Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, il cui Presidente è Isaias Afewerki. Chiunque gli si opponga viene recluso in veri e propri campi di prigionia per dissidenti. Il 30% dei migranti che arrivano sulle coste italiane proviene da questo Paese. A fuggire sono soprattutto i giovani, 14 • MSOI the Post

che spesso hanno rifiutato la leva obbligatoria istituita dal Presidente. Da qui sorge anche il problema dei rimpatri, tanto discusso nel nostro continente. Chiunque giunga qui, se fosse rimpatriato, sarebbe trattato come disertore o dissidente e per entrambi i crimini sono previste solo due pene: un’esecuzione sommaria o i lavori forzati. Pochi mesi fa alcuni bambini sono stati fucilati a vista mentre cercavano di varcare il confine. Nigeria. Nonostante la Nigeria sia tra i Paesi africani più industrializzati e possegga dei consistenti giacimenti di petrolio e carbone, la popolazione vive nella più totale povertà. Negli ultimi anni, inoltre, gli orrori di Boko-Haram hanno lasciato il segno, soprattutto nel nord del Paese. Ma la campagna anti-jihadista sta procedendo e le speranze sono concrete, così come sembrano concrete

le promesse di aiuti che arriveranno per la costruzione di infrastrutture di base, come strade e scuole. Somalia. Dopo la caduta del regime di Siyaad Barré nel 1991 e una guerra ventennale per il potere, il Paese è ora in ginocchio. La comparsa di Al-Shabaab, che ha preso il controllo temporaneo su una parte del Paese, ha destabilizzato ulteriormente la situazione. L’economia di sussistenza si basa prevalentemente sull’allevamento nomade e su piccole imprese agricole. Oggi la sopravvivenza dipende quasi esclusivamente dagli aiuti umanitari. Nel sud del Paese, il Somaliland e il Puntland, i due auto-dichiaratosi “Stati indipendenti”, godono di una relativa tranquillità.


SUD AMERICA L’ONDATA, NON SEMPRE PULITA, LIBERALE

La crisi del socialismo, i nuovi scenari politici e l’influenza degli U.S.

una formazione accademica e politica negli Stati Uniti, lavorando e collaborando con l’upper class economica americana, la stessa classe dall’influenza della quale, in passato, gli Stati latini volevano liberarsi. Molti esponenti (come Kuczynski o Macrì) sono infatti facoltosi imprenditori, economisti o consulenti finanziari di Wall Street, lobby e multinazionali. Si può quindi parlare di una restaurazione americana che si sviluppa non più sull’aspetto economico–militare, ma su quello politico–sociale, attraverso la formazione della prossima classe dirigente latina.

successo. In Argentina, per esempio, dove a governare sono i conservatori di Propuesta Republicana, le politiche liberiste hanno portato all’aumento del 700% sulle bollette e le concessioni edili hanno ingrandito e peggiorato le situazioni delle bidonville (come “Villa 31” a Buenos Aires). Il Brasile, invece, è stato teatro di un vero e proprio golpe da parte dell’ala liberale del Parlamento: la grande coalizione di destra (gran parte della quale indagata per lo stesso motivo per il quale è stata processata la Rousseff) è riuscita a destituire per 6 mesi la Presidente, rimpiazzandola con il liberale Temer.

Ma in questi ultimi anni le elezioni politiche hanno portato in molti Stati un drastico cambiamento: l’ala liberal– democratica e conservatrice ha sorpassato la secolare sinistra, divenendo maggioritaria in gran parte dell’America meridionale (per esempio in Argentina, in Venezuela, in Perù, in Paraguay e in Brasile).

I partiti liberali e neo–liberisti, però, sono davvero il futuro dell’America meridionale? La maggior parte di essi si è trovata a fare propaganda in Paesi molto poveri, nei quali il welfare è al collasso, l’ambiente viene sfruttato con metodi sia estensivi sia intensivi dalle multinazionali locali e dilagano la criminalità, l’analfabetismo e il degrado delle periferie.

Nella politica i colpi di scena sono frequenti, ma non bisogna tralasciare alcuni particolari: molti esperti hanno notato che la maggior parte dei dirigenti e dei leader liberali hanno ricevuto

In situazioni del genere, in cui le popolazioni sono in conflitto con i governi e la società implode, catturare l’attenzione e il consenso è assai facile, ma questo non spiana la strada al

Probabilmente è ormai aria di cambiamento e il “sol dell’avvenire” dell’America Latina sta tramontando: Cuba ha addirittura dato il via al disgelo con Washington, inaugurando un nuovo capitolo della politica estera dell’intero meridione. Il nuovo panorama che la destra liberale vuole offrire, tuttavia, non è più roseo e progredito di quello che ha costruito la sinistra in anni di governo; gli States, dal canto loro, non hanno esitato ad approfittare della situazione per poter ristabilire la loro egemonia economico–politica nell’intero continente.

Di Daniele Ruffino Dopo il successo della rivoluzione cubana degli anni ‘60, l’America Latina è stata considerata la “roccaforte” del socialismo occidentale, nemica dell’imperialismo e terra fertile per costruire una società libera dal frenetico e autodistruttivo giogo del capitalismo yankee. Per diversi decenni nei vari Stati latini si sono susseguiti presidenti e coalizioni di sinistra. In Venezuela si è formato il partito socialista con più iscritti di tutta l’America (il PSUV), mentre in altri Stati, come il Brasile o il Messico, i partiti di sinistra possedevano una forte egemonia politica.

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SUD AMERICA VIOLENZA: LA PANDEMIA SOCIALE DELL’AMERICA LATINA Perché 41 delle 50 città più pericolose al mondo sono latinoamericane?

Di Viola Serena Stefanello Secondo i dati della ONG messicana Consejo Ciudadano para la seguridad pùblica y justicia penal, 41 delle 50 città più pericolose del mondo sono latinoamericane. La città più violenta del mondo è Caracas, ma per quantità in cima al drammatico podio sta il Brasile che ospita 21 dei centri più pericolosi del mondo. Segue il Venezuela, con 8 città, e il Messico con 5. Se già nel secolo scorso la Pan American Health Organization aveva già affermato che la violenza era “la pandemia sociale più estesa” del continente sudamericano, questa malattia sembra continuare ad estendersi, più che placarsi. Quali sono, allora, le cause principali di questo grande male che attanaglia l’America Latina? È, prima di tutto, la criminalità organizzata a farne la regione più violenta del mondo. Questa è, infatti, spesso frammentata ed impegnata in guerre tra fazioni: la mancata unità sotto una forte entità criminale capace di condurre traffici a livello internazionale porta queste bande a vivere di attività più localizzate, ma allo stesso tempo più violente in senso proprio, quali l’estorsione o i rapimenti. 16 • MSOI the Post

Frequentissime sono anche le lotte tra i vari gruppi per il controllo territoriale che sfociano in sparatorie ed omicidi. Laddove, invece, la criminalità organizzata gestisca il traffico di droga, questo causa ulteriori problemi: un esempio lampante è il Brasile, divenuto il secondo mercato della cocaina al mondo dopo gli U.S.A. Quei Paesi “di transito” dei commerci illegali diventano a loro volta dei centri criminali sofisticati e altamente violenti, corrompendo il tessuto sociale e politico. Spesso il legame tra organizzazioni criminali e governo locale è stretto e palese. In molti casi – clamoroso è quello dello Stato messicano di Guerrero – l’amministrazione corrotta collabora con la criminalità tenendola al riparo da operazioni delle forze dell’ordine e chiudendo gli occhi davanti a qualsiasi attività criminale. Questa connivenza, che talvolta ingloba anche il mondo dell’informazione, porta a poter parlare di una vera e propria cultura della violenza in alcuni Paesi della regione. Le ragioni non sono però tutte da imputare soltanto al crimine organizzato: è fortissimo il disagio sociale in cui versano interi quartieri di città grandissime,

che crescono disordinatamente e a vista d’occhio. La crescita, di pari passo, dei centri urbani e della disuguaglianza sociale porta alla nascita di ampie zone grigie abbandonate dallo Stato, dove non esistono giustizia, infrastrutture e servizi di base quali ospedali o scuole. È questo un terreno fertilissimo per la microcriminalità: il mancato intervento ed interesse del governo nei confronti di queste realtà degradate porta infatti a situazioni di vera e propria segregazione sociale, dove regnano violenza, povertà e analfabetismo. Accanto a queste ragioni non è poi da escludere la scomoda eredità storica di alcuni Paesi latinoamericani. Il recente passato di guerrilla e guerra civile in nazioni come El Salvador, Guatemala o Colombia è, infatti, ancora cronaca in alcune aree dei diversi Paesi, dove gruppi paramilitari combattono per instaurare il proprio controllo. Le conseguenze di tanta violenza non si contano soltanto in termini di costi umani ma anche in termini sociali e politici. A rimetterci sono certo, come sempre, lo sviluppo economico e sociale e il difficile e lento consolidamento democratico nella regione.


ECONOMIA L’IMPRESA COME SOGGETTO POLITICO Dalla Csr alla responsabilità civile dell’impresa

Di Ivana Pesic L’impresa assolve la propria funzione sociale concentrandosi sul profitto e sulla creazione di ricchezza o deve allargare lo sguardo e occuparsi anche di ciò che avviene attorno ad essa e, con ciò, dotarsi di una coscienza sociale? L’economista statunitense Milton Friedman sosteneva la prima impostazione, spesso riassunta nella famosa frase “the business of business is business”, che sta a significare come l’unica responsabilità sociale delle imprese consista nell’incrementare i propri profitti misurandosi sul libero mercato in una sana competizione rispettosa delle regole. Si tratta di uno schema che ad alcuni sembra riduttivo. Tutto il filone della corporate social responsability, sviluppatosi soprattutto a partire dagli anni Settanta, altro non è che il tentativo di annettere all’impresa una dimensione d’impegno extra-economica, con forti connotazioni morali. La responsabilità civile dell’impresa è il nuovo paradigma su cui si comincia a dibattere, una seconda evoluzione che ambisce a fare dell’impresa un soggetto politico. L’assunto è che non basti più che, nello

svolgere la propria attività, l’impresa s’impegni a rispettare l’ambiente, i dipendenti e i clienti rimanendo dentro il sistema delle regole date, ma che - nella fase attuale - serva invece attivarsi proprio per incidere sulle regole. Diciamo che un’impresa è civilmente responsabile quando, insieme ad altri soggetti non necessariamente politici, si adopera per modificare le regole che non funzionano più, leggi comprese, e le fa muovere verso il bene comune. Il che può valere, ad esempio, per le leggi sul lavoro o sulla concorrenza. Nel 2010, il Congresso degli Stati Uniti ha dato formalizzazione giuridica alle benefit corporation, riconoscendo il modello di quella tipologia di azienda profit che come propria missione vuole generare un impatto positivo su tutta la società e sull’ambiente, dotandosi di obiettivi statutari diversi da quelli delle aziende tradizionali. Anche in Italia, primo Paese europeo, le società benefit sono state riconosciute nel diritto societario con la legge di stabilità 2015, entrata in vigore a partire dal gennaio 2016. Alle B-corp non viene riconosciuto alcun tipo di vantaggio fiscale o finanziario ed esse rimandano in tutto e per tutto al diritto societario ordinario, il che fa capire che non è lì che

si deve cercare il movente che porta a dar vita a questo tipo di società. Ci si muove, invece, in una dimensione di tipo reputazionale, dal momento che la stessa legge prevede che le stesse Società Benefit potranno dotarsi di un marchio di riconoscimento, appunto “SB”, da utilizzare in tutte le forme di comunicazione. È importante sottolineare che le imprese civilmente responsabili esistono perché rispondo a esigenze di determinati soggetti. Non è un caso che da indagini di mercato emerga come il trend delle vendite dei prodotti a brand caratterizzato sia in crescita e che il 66% dei consumatori si dica disposto a spendere un po’ di più per un acquisto responsabile. Inoltre, ben l’87% dei Millennials ritiene che il successo di un business dovrebbe determinarsi in termini non solo finanziari e formulano giudizi su un’azienda sulla base di quello che essa fa e di come tratta le persone. La partita in ambito di responsabilità civile è aperta, con i diversi attori sociali sempre più alla ricerca di interconnessioni al fine di conseguire effetti moltiplicativi positivi. Di certo c’è che sempre più società evolveranno in questa direzione.

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ECONOMIA LO SCANDALO ENRON-ARTHUR ANDERSEN Alla fine, il denaro vince sempre

Di Edoardo Pignocco “Money, money, money”. Il celebre titolo della canzone degli ABBA sintetizza in modo ottimale il mondo della finanza. Scommesse, manipolazioni, elargizioni, ecc.; tutto a servizio di Sua Maestà la regina Avidità, che regna sovrana sulla psiche umana. Chi cerca, invano, di opporsi, viene allontanato. Tuttavia, in virtù di ciò, la colpa non può essere attribuita, se non in parte, al modello economico-finanziario in sé. Capitalismo, socialismo o altro che sia, importa fino ad un certo punto. Il funzionamento del sistema, infatti, è sempre incentrato sull’etica dell’uomo. Sicuramente, è innegabile che il capitalismo finanziario agevoli la pratica della truffa, ma ciò non vuol dire che un derivato sia la chiave della rovina. Piuttosto, gli oscuri intrighi che vi sono dietro. Come si è ben potuto vedere nel 2008, il caso Enron non è servito di esempio agli Stati Uniti e al mondo intero. È stata, infatti, l’avidità, citata anche dallo stesso Gordon Gekko nel film Wall Street, ad indurre il top management di Enron a convertire il suo business model. In origine, Enron era una fra le migliori imprese energetiche al mondo, soprattutto per quanto riguarda 18 • MSOI the Post

l’estrazione del petrolio e la costruzione di oleodotti e gasdotti. Nel periodo 19851989, i massimi dirigenti si accorsero che i mercati non regolamentati offrivano la possibilità di guadagni ancora più ingenti dell’attività core di Enron. Così, nel 1990, venne creata la divisione Enron Capital and Trade. Questo è il punto critico della gestione, in quanto si cambiano le modalità di “fare affari”. Dalla distribuzione di energia ad un mix, nel quale tutti gli sforzi economici e umani sono orientati al commodity trading, gestito attraverso la piattaforma EnronOnline, nella quale tutti quanti avevano la possibilità di speculare sulle materie prime. Nel frattempo, la società decide di operare sempre meno investimenti nel settore regolamentato dell’energia, ovvero il fulcro reale e sano dell’impresa texana. Jeffrey Skilling, direttore della divisione finanziaria, fu il primo a introdurre nel mercato delle commodities i contratti a termine per il gas: una mossa rivoluzionaria. Ma in che direzione? Per massimizzare i guadagni, la Enron pagò delle tangenti ai politici che presidiavano il governo, in cambio di liberalizzazioni e deregolamentazioni sul

settore delle utilities. Nel 2001, il valore azionario della società aveva raggiunto il suo apice: $ 90,00 per azione. Come è stato possibile che, nel giro di poco più di un anno, la Enron dichiarasse bancarotta? Nel quarto trimestre dello stesso anno, durante la crisi delle DotCom, l’impresa fu costretta a dichiarare ingenti perdite, a causa del crollo di valore relativo ad alcune sue società partecipate. Inoltre, la SEC scoprì che la Enron era complice di manipolazione del mercato, in quanto il prezzo azionario in Borsa, non sembrava riflettere il valore effettivo. Nel mese di dicembre, dopo che furono scoperte altre perdite molto consistenti apparentemente invisibili, la Enron capitolò definitivamente. E non fu la sola. la sua società di revisione, Arthur Andersen, ostacolò la giustizia, nascondendo le perdite e bonificando il bilancio, tramite la distruzione di documenti contabili in loro possesso. Di conseguenza, perse innumerevoli clienti, e, dopo il fallimento della WorldCom, la prima delle big five scomparve. Di chi è la vera colpa, dunque, del sistema o dell’uomo? Esiste un modello perfetto di economia o basterebbe essere meno avidi?


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