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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino
RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane
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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino
MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post
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N u m e r o
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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!
RUSH TO THE WHITE HOUSE Sei approfondimenti per capire le elezioni americane
Prima parte CLINTON Vs. TRUMP: DIBATTERE AL TEMPO DELLA POLARIZZAZIONE Di Vladislav Krassilnikov CAPIRE IL DIBATTITO Lunedì 26 settembre si è tenuto, presso la Hofstra University, il primo dibattito presidenziale fra Hillary Clinton e Donald Trump. Il confronto – fra i più importanti della storia recente per via del sostanziale testa a testa nei sondaggi, del significativo numero di elettori ancora indecisi e della rappresentazione radicalmente diversa degli Stati Uniti che i due candidati incarnano – si è articolato attorno a tre temi principali: la direzione del Paese, creare prosperità e garantire la sicurezza nazionale. Tutto è andato come da copione. La preparazione al duello ha fatto la differenza. Il candidato espresso dal Partito Democratico ha metodicamente preso parte a molteplici simulazioni del dibattito con
i suoi consiglieri, tenendo sempre conto dell’imprevedibile personalità del suo avversario, a volte disciplinato, altre volte sregolato, altre volte ancora persino irriverente. Ha perfezionato le proprie risposte ad ogni possibile domanda e le proprie controffensive ad ogni probabile attacco e ha studiato il profilo psicologico del suo rivale per elaborare le stoccate più efficaci e dimostrare, inequivocabilmente, come Trump sia caratterialmente inadatto a ricoprire il ruolo di comandante in capo. Il candidato repubblicano, invece, si è per lo più accontentato di riunire la sua informale cerchia di consiglieri presso il suo campo da golf in New Jersey per testare le più taglienti battute e rifinire il suo messaggio, accompagnando il lavoro di preparazione con cheeseburger al bacon, hot dog e Coca-Cola. La strategia adottata è stata quella di concentrarsi sui grandi temi, senza dedicare eccessiva attenzione a fatti e cifre e affidandosi alla padronanza del mezzo televisivo sviluppata in anni di reality show. Non sorprende, allora, che nel
corso dei 90 minuti a disposizione, Hillary Clinton abbia dato prova di preparazione, concentrazione e compostezza, apparendo naturale, a proprio agio e genuinamente sé stessa, mentre il magnate newyorkese, dopo una solida partenza con dure critiche nei confronti delle politiche commerciali sostenute dai Clinton – e in particolare del controverso North American Free Trade Agreement – ha ceduto alle incalzanti provocazioni dell’ex-Segretario di Stato. Hillary Clinton, navigato animale politico, ha deciso di non sfruttare tanto le debolezze del candidato repubblicano, bensì di attaccarlo, mettendo in dubbio la sua principale prerogativa: il successo nel mondo degli affari. Tramite una serie di infamanti accuse, Hillary ha minato alle basi la paradossale immagine del multimiliardario Trump come paladino della classe media, insinuando che egli si rifiuti di rendere pubblica la propria dichiarazione dei redditi perché dimostrerebbe come da anni egli non paghi le tasse federali, mettendo in luce il ruolo centrale del sostegno economico e delle connessioni politiche di Fred
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Trump nella carriera del figlio e argomentando che la politica economica efficacemente ribattezzata “trumped-up trickle down” propugnata da Trump andrebbe a vantaggio delle classi sociali più abbienti. Donald Trump è stato, dunque, costretto a condurre il resto del dibattito sulla difensiva, se non per sporadici ma incisivi commenti volti a dipingere il suo avversario come una personalità espressione di una vecchia classe politica inerte, che in decenni di servizio pubblico non ha fatto altro che creare nuovi problemi. Né l’equilibrio del dibattito si è spostato a favore dell’esponente del Partito Repubblicano quando si è affrontato il delicato tema della tutela delle minoranze – con Trump impegnato a giustificare l’indifendibile campagna dai toni razzisti del birtherism condotta in prima persona contro il Presidente Obama, accusando maldestramente il suo avversario di esserne l’artefice originale. Frequenti sono stati in questa fase i richiami di Trump alla diade law and order di nixoniana memoria, un’espressione che si inserisce nel più ampio contesto di una lunga tradizione politica, consistente nello sfruttare una singola minaccia evocativa – in questo caso il crimine – per 4 • MSOI the Post
rappresentare una complessa pluralità di ansie, insicurezze e risentimenti di un’America che si scopre sempre meno omogenea, sia etnicamente, sia culturalmente. Allorché il confronto si è spostato sulla cruciale tematica della sicurezza nazionale, la totale impreparazione di Trump negli ambiti della cybersecurity e della postura nucleare degli Stati Uniti è stata dolorosamente evidente. Particolarmente interessanti si sono rivelate le discussioni su NATO e gruppo ISIS. Il candidato repubblicano si è dimostrato sorprendentemente lucido nel suo appello – per quanto problematico in termini di credible commitment – ai
membri dell’Alleanza Atlantica, perché essi aumentino le proprie spese per la difesa fino al 2% dei loro rispettivi PIL, come sancito dalla Dichiarazione del Summit del Galles, e ha, inoltre, espresso la necessità di ridefinire il mandato dell’Organizzazione per includervi esplicitamene anche il contrasto al fenomeno terrorista – un dibattito quanto mai attuale fra gli addetti ai lavori. Inoltre, Trump è stato abile ad argomentare come il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq – secondo alcuni analisti avvenuto prematuramente – abbia lasciato un vuoto di potenza, prontamente colmato dal sedicente califfato. Sebbene sia noto che Hillary Clinton, allora Segretario di Stato nella prima amministrazione Obama, si attestasse su posizioni più caute – o, stando ai suoi detrattori, più hawkish – in sede di dibattito sarebbe stato politicamente sconveniente discostarsi dall’operato di un Presidente che gode attualmente di ampia popolarità. È stato, tuttavia, il candidato democratico ad avere l’ultima parola con un affondo finalizzato a corteggiare l’elettorato femminile. L’ex-First Lady ha, infatti, ricordato le numerose dichiarazioni sessiste del suo avversario, costringendolo a
rievocare le sue passate dispute con diverse celebrità. Trump ha poi fatto alcune velate allusioni all’infedeltà coniugale di Bill Clinton, che il candidato repubblicano ha richiamato indirettamente, pur affermando di non avere intenzione di menzionarle. Ironicamente, per quanto “The Donald” si sia impegnato per portare il tema delle condizioni di salute della Clinton al centro del dibattito a seguito di alcuni incidenti, nel corso del confronto quello apparso più nervoso – tanto da interrompere il suo avversario ben 51 volte – e provato, fin quasi ad ammutolirsi nelle fasi finali, è stato proprio lui. Eppure, la percezione della maggior parte degli osservatori è che questo primo dibattito presidenziale non è stato letale per Donald Trump, bensì soltanto un’opportunità mancata, laddove si considerino le non poche ombre nella storia politica di Hillary Clinton che non sono state sfruttate nel confronto televisivo. In sintesi,
il miliardario di Manhattan ha pagato la propria inesperienza. I sondaggi, d’altro canto, indicano universalmente che almeno la metà dell’elettorato ritiene la Clinton la vincitrice del dibattito, mentre soltanto fra il 20% e il 30% degli intervistati a seconda delle diverse stime attribuisce la vittoria a Trump. Sul piano nazionale, il candidato democratico ritiene, seppur di misura, un vantaggio sul suo avversario, confermato da pressoché tutte le fonti giornalistiche rilevanti, dall’autorevole Reuters-Ipsos (42%-38%) alla conservatrice Fox News (43%-40%). QUANTO CONTA IL DIBATTITO È opportuno, a questo punto, compiere una riflessione sull’importanza dei dibattiti presidenziali. Sovente i media tendono a presentare tali confronti dialettici come potenziali punti di svolta nella sfida elettorale. È indiscutibile che i dibattiti presidenziali svolgano una
funzione utile, nella misura in cui contrappongono direttamente i candidati alla Presidenza, testandone la preparazione sui temi più diversi dinanzi alla vasta platea nazionale. La scienza politica, tuttavia, interviene a dimostrare che l’impatto dei dibattiti sugli orientamenti di voto non è che marginale. Si pensi all’illuminante studio di James Stimson, secondo cui “non esiste nemmeno un caso in cui una sostanziale variazione [nell’equilibrio elettorale] possa essere imputata ai dibattiti”, i quali possono nel migliore dei casi fornire il proverbiale nudge o spintarella nei sondaggi al candidato dimostratosi più abile. Non dissimile è la conclusione cui pervengono Robert Erikson e Christopher Wlezien nella loro dettagliata ricerca: l’evidenza di significativi effetti degli esiti dei dibattiti sull’elettorato è fragile e “la migliore previsione delle conseguenze dei dibattiti è il verdetto iniziale precedente ai dibattiti”. Impossibile, infine, non citare The Gamble, l’influente saggio
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di John Sides e Lynn Vayreck, i quali hanno impiegato una metodologia in tempo reale, misurando istantaneamente le reazioni dell’opinione pubblica all’andamento dei dibattiti. I due scienziati politici hanno dimostrato in maniera cogente che persino i momenti maggiormente memorabili dei confronti televisivi hanno un impatto modesto e di breve termine sulle decisioni elettorali. Sarebbero, invece, altri fattori fondamentali, quali lo stato dell’economia nazionale e la crescente polarizzazione dell’elettorato, ad influire in modo più determinante sull’esito dell’elezione presidenziale. L’AMERICA DIVISA A fronte di queste promesse, è bene, dunque, interrogarsi su come una corsa alla Casa Bianca apparentemente così impari sia, invece, alla prova dei fatti un sostanziale testa a testa. Esistono numerose variabili di grande forza esplicativa, ma in questa sede verrà esaminato un importante nesso causale in particolare: la polarizzazione politica. Si tratta di un fenomeno cui gli analisti hanno rivolto crescente attenzione negli ultimi anni, in quanto fornisce un’utile chiave interpretativa per spiegare il comportamento del popolo americano in cabina elettorale.
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Un recente studio del Pew Research Center illumina questo aspetto. A partire dalla metà degli anni ’70, i due maggiori partiti americani sarebbero diventati non soltanto sempre più ideologicamente connotati, ma anche sempre più ideologicamente divergenti. I repubblicani liberali e i democratici conservatori, che pure fino a tempi recenti costituivano una fetta non trascurabile dell’elettorato, hanno lasciato il posto ad un popolo sempre più politicamente diviso e ostile verso la propria controparte politica. Se nel 1994 un americano su cinque esprimeva un’opinione fortemente negativa riguardo il partito avversario, oggi il numero è salito a tre persone su cinque. Un impressionante 90% del campione preso in considerazione esprime, invece, un’opinione soltanto negativa della propria controparte politica. Inoltre, l’elettorato americano si identifica in misura sempre maggiore con la piattaforma politica del proprio partito di riferimento. Mentre nel 1994 soltanto un americano su dieci esprimeva opinioni uniformemente liberali o conservatrici su un’ampia varietà di questioni, oggi un americano su cinque assume posizioni
riconducibili interamente o al Partito Democratico, o al Partito Repubblicano sui medesimi problemi. Si aggiunga, inoltre, il fatto che gli elettori più radicalizzati esercitano un peso maggiore della media, essendo essi più inclini ad impegnarsi attivamente nel processo politico – e, non da ultimo, a votare. Analogamente, è sempre più raro che i membri del Congresso votino rompendo le linee di appartenenza partitica, sottraendo così spazio al compromesso legislativo e minando alle basi essenziali pratiche di buona governance. In ultima analisi, ne consegue che l’elettorato americano è sempre meno incline a cambiare la propria affiliazione partitica, anche in una tornata elettorale atipica in molteplici aspetti. È giocoforza, quindi, che i candidati canalizzino le proprie energie, come d’altra parte stanno già facendo in queste settimane, verso quei cosiddetti swing states – quel fenomeno particolarmente recente, manifestatosi di pari passo alla polarizzazione politica, in virtù del quale è rimasta soltanto una manciata di Stati nei quali un partito non gode di un sostegno predominante – dove si gioca la vera partita per la Presidenza.
EUROPA 7 Giorni in 300 Parole BELGIO 5 ottobre. Tre agenti di polizia sono stati feriti in centro a Bruxelles con un arma da taglio al collo e allo stomaco; sul caso indaga la magistratura belga che non esclude nessuna pista, compresa quella del terrorismo. ESTONIA 3 ottobre. Con 81 favorevoli su 101 il Parlamento estone ha eletto, per la prima volta nella storia del Paese, un Presidente donna; Kersti Kaljulaid, già membro della Corte dei Conti europea, ha 46 anni ed è un’esponente del partito conservatore estone. La carica, essenzialmente onorifica, ha quindi un importante valore storico. ITALIA 3 ottobre. Più di 6.000 migranti sono stati tratti in salvo dalla Guardia Costiera italiana durante la giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Sui 40 barconi partiti dalle coste libiche erano presenti anche 11 cadaveri, 9 dei quali su un singolo gommone insieme ad altre 720 persone di cui 200 minorenni.
POLONIA 3 ottobre. Città paralizzate e sedi governative inagibili in Polonia a causa della manifestazione che ha visto migliaia di donne scendere in piazza per protestare contro la legge anti aborto. Vestite di nero, hanno scioperato e intonato cori in opposizione alla normativa di matrice cattolica volta ad eliminare, in qualsiasi caso, la possibilità di abortire. “Lo sto facendo per mia figlia” ha
TICKET TO RIGHTS
I diritti dei lavoratori nel Regno Unito dopo la Brexit
Di Giulia Capriotti Domenica 2 ottobre il partito Tory si è riunito alla Symphony Hall di Birmingham per il primo congresso dopo l’elezione di Theresa May. Il Primo Ministro inglese ha introdotto, con un discorso di 15 minuti, le modalità e le tempistiche previste per fare in modo che la Brexit diventi realtà. La May ha annunciato che l’articolo 50 del Trattato di Lisbona verrà invocato entro marzo 2017 e ha inoltre ricordato che, stando allo stesso articolo, è necessario che i negoziati durino almeno due anni per ottenere l’uscita definitiva. Rispettando questa scadenza, quindi, il Regno Unito non dovrebbe più far parte dell’Unione Europea a partire da marzo 2019. Tra i vari argomenti toccati da Theresa May durante il suo discorso c’è quello dei diritti dei lavoratori europei residenti nel Regno Unito. I diritti in questione saranno “garantiti in pieno”, ha dichiarato il Premier inglese, “almeno finché io sarò Primo Ministro”. A fare ulteriore chiarezza in merito è stato Fabrizio Daverio, giuslavorista e rappre-
sentante italiano di Innangard, network internazionale specializzato nel diritto del lavoro. Daverio ha spiegato che particolare attenzione va dedicata, oltre che all’annuncio di Theresa May, alla proposta di legge “Workers’ Rights”, elaborata da un membro del Parlamento e votata a larga maggioranza lo scorso 7 settembre. Il documento non è ancora stato reso pubblico, ma già se ne conosce sommariamente il contenuto. Si sa, ad esempio, che la proposta entri nel merito dei diritti dei lavoratori nel Regno Unito e del mantenimento della legislazione europea. Nel documento, inoltre, si fa riferimento alle figure interinali, ai comitati aziendali europei, alla direttiva sull’orario di lavoro e alla normativa a tutela del lavoro minorile. Infine, tra gli argomenti trattati ci sono quello dell’informazione e della consultazione dei dipendenti e quello della salute e della sicurezza, presente all’interno della normativa sul trasferimento d’azienda. Daverio crede che “il prossimo passo sarà la prima lettura della proposta”, prevista per il prossimo 18 novembre.
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EUROPA affermato una delle dimostranti. PORTOGALLO 5 ottobre. Sarà Antonio Guterres il nuovo Segretario Generale delle Nazioni Unite che dovrà raccogliere l’eredità di Ban Ki-moon. Già Primo Ministro lusitano dal 1995 al 2002, si è detto estremamente onorato per la decisione presa da assemblea generale e consiglio di sicurezza
UNGHERIA 3 ottobre. Pesante sconfitta per il premier ungherese Viktor Orban alle urne referendarie. Il capo del Governo aveva, infatti, indetto un referendum popolare affinché i cittadini ungheresi potessero decidere se accettare o meno le quote di ricollocazione dei rifugiati previste dall’Unione Europea. Il quorum per la validità referendaria è stato però mancato, in quanto solamente il 43% dei cittadini si è presentato alle urne, il 98% dei quali ha comunque votato no. UNIONE EUROPEA 4 ottobre. Il recente Accordo sul Clima di Parigi è stato ratificato dal Parlamento Europeo. L’approvazione passa adesso ai 28 Paesi membri che entro la settimana dovranno dare una risposta per decidere se prendere parte all’accordo che, in caso di esito positivo, entrerà in vigore a partire dal 2020. “Con l’azione intrapresa dal Parlamento, sono fiducioso che saremo in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati molto presto, è solo una questione di pochi giorni” ha commentato Ban Ki-moon dopo il voto. A cura di Andrea Mitti Ruà 8 • MSOI the Post
UNGHERIA: REFERENDUM QUOTE MIGRANTI NON RAGGIUNGE IL QUORUM Duro colpo per il primo ministro Orbán, si cerca il consenso plebiscitario
Di Michele Rosso Domenica 2 ottobre il governo ungherese ha indetto una consultazione referendaria, circa la liceità del meccanismo di ripartizione dei richiedenti asilo tra gli Stati europei, stabilito nel Settembre 2015 dal Consiglio dell’Unione europea. Tale meccanismo, com’è noto, è nato in seguito alla consistente ondata migratoria di inizio 2015 e all’impatto che essa ha avuto su Paesi europei quali Grecia e Italia Il sistema UE prevede il ricollocamento di 120.000 richiedenti asilo dagli Stati citati verso gli altri Paesi membri dell’Unione, attraverso un meccanismo di ripartizione per quote. All’Ungheria ne spettano 1.294, cifra esigua ma sufficiente a sollevare il malcontento del governo, che aveva richiesto invano alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di annullare la decisione del Consiglio. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán, leader del partito conservatore ed euroscettico Fidesz, si è più volte espresso contro tale meccanismo di ripartizione. La decisione da lui avanzata di indire un “referendum sulle quote” (kvótanépszavazás) risale al 24 febbraio. Al referendum di domenica (volto, considerando il quesito posto, a verificare se i cittadini volessero o meno che l’Unione
Europea potesse prescrivere la collocazione obbligatoria in Ungheria di cittadini non ungheresi senza l’approvazione del Parlamento) ha partecipato il 43,23% degli aventi diritto. Ciò ha impedito il raggiungimento del quorum, fissato dalla Costituzione ungherese del 2012 al 50%. Tra i votanti, il 98% si è espresso per il no. Il fallimento del referendum rappresenta forse la prima sconfitta considerevole per il leader populista, abituato a scontrarsi con i meccanismi di integrazione europea perché ritenuti lesivi dell’identità e della sicurezza della popolazione ungherese. Orbán non ha comunque smorzato i toni nei confronti dell’Unione Europea, ribadendo che “Bruxelles non potrà imporre la sua volontà all’Ungheria” e promettendo un’ennesima modifica della Costituzione, volta questa volta a inasprire proprio le regole di accoglienza. Su come terminerà lo scontro sui migranti che contrappone l’Unione europea all’Ungheria (ma anche agli altri stati membri componenti l’ormai famoso Gruppo di Visegrád) regna l’incertezza. Quello emerge dopo il risultato di domenica, è che, almeno questa volta, non si è prodotto quel consenso plebiscitario antieuropeista che avrebbe ulteriormente incrinato una relazione più che complicata.
NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole NORD AMERICA 4 ottobre. La Russia ha fatto sapere che sospenderà l’accordo in vigore con gli Stati Uniti che riguarda lo smaltimento delle armi al plutonio. Alla base della decisione ci sarebbe, secondo il Cremlino, “una serie di mosse poco amichevoli nei confronti della Russia” da parte di Washington. Gli Stati Uniti stanno in effetti usando un nuovo metodo di smaltimento molto più economico che consiste nell’immagazzinare il materiale inerte in strutture sotterranee che permette però, eventualmente, di recupere lo stesso.
4 ottobre. Ennesima bufera su Yahoo!. Reuters rivela che in gran segreto l’azienda avrebbe messo a punto un software in grado di spiare le mail in entrata dei suoi clienti sulla base di parole-chiave fornitegli da parte di FBI e NSA. 5 ottobre. Si è svolto il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza. Il democratico Tim Kaine e il repubblicano Mike Pence si sono confrontati soprattutto su politica estera e alcune delle affermazioni dei candidati alla presidenza durante la campagna elettorale. Alla fine, stando ai sondaggi, il più calmo Pence sembrerebbe essere risultato vincitore. 5 ottobre. Il sud est degli Stati Uniti è oramai sotto allarme e sono stati dati ordini di evacuazioni già in 4 Stati (Florida, Georgia, South e North Carolina) per un totale di oltre un milione di persone coinvolte. Si teme infatti
LA ROTTURA FRA STATI UNITI E RUSSIA
Disattesi gli accordi bilaterali stipulati a Ginevra tra i due Paesi
Di Lorenzo Bazzano Non è un clima da guerra fredda quello che si respira tra Stati Uniti e Russia circa la guerra al sedicente Stato Islamico in Siria, ma i ricordi di quel periodo affiorano ugualmente. Ai primi di settembre, a Ginevra, il segretario di Stato USA John Kerry e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov avevano abbozzato un piano per ridimensionare il conflitto siriano e per delineare un percorso verso la risoluzione. Le operazioni militari in Siria da parte del governo e della Russia, però, sono riprese molto presto, incrinando i rapporti fra le due potenze. Il 25 settembre 2016 il quotidiano La Stampa riportava il resoconto della riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in cui John Kerry avrebbe accusato la Russia di “sponsorizzare la barbarie” siriana. Mosca ha risposto prontamente, tacciando gli Stati Uniti di aver distrutto gli equilibri del Medio Oriente. Pochi giorni fa gli Stati Uniti, di fronte alla mancata cessazione dei raid su Aleppo, che secon-
do la diplomazia statunitense si sarebbero intensificati e avrebbero colpito soprattutto aree civili, hanno deciso di sospendere la cooperazione con la Russia, dichiarando che la loro pazienza è finita. Crescono le accuse: Kerry, riporta l’agenzia ANSA, accusa la Russia di aver volontariamente ignorato l’uso di armi chimiche da parte di Assad, mentre il Cremlino ribatte che gli Stati Uniti non hanno rispettato gli accordi e stanno scaricando la responsabilità all’esterno. La rottura degli accordi bilaterali non significa che gli Stati Uniti rinunceranno a un ruolo all’interno del conflitto siriano, ma significa che d’ora in poi adotteranno una strategia indipendente. Inoltre, il presidente uscente Barack Obama ha dichiarato che valuterà eventuali sanzioni ai danni della Russia. Intanto, in Siria la guerra prosegue e continua a causare morti. Solo qualche giorno fa, un kamikaze si è fatto esplodere a una festa di nozze ad Hassakeh, nel nordest del Paese, uccidendo circa 14 persone, che vanno ad aggiungersi ai circa 290.000 morti provocati dal conflitto dal 2011 ad oggi.
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NORD AMERICA che dopo aver colpito Haiti l’uragano Matthew possa portare devastazione anche negli USA.
UN AMBASCIATORE AMERICANO A CUBA
Nuovo importante tassello per il riavvio di relazioni più strette tra i due Paesi
6 ottobre. Il Dipartimento del Commercio ha diffuso in giornata i dati relativi al deficit commerciale degli Stati Uniti che è salito sorprendentemente a 40,73 miliardi in agosto. La causa sarebbe un aumento delle importazioni superiori alla capacità di export.
Di Alexander Virgili, Sezione MSOI Napoli CANADA 4 ottobre. Il governo di Ottawa a fatto sapere che a breve sarà approvata una Carbon Tax a livello nazionale. Questa notizia conferma l’impegno del governo Trudeau sul fronte ambientalista nonché, come ha riferito lui stesso, il fatto che “un’economia sostenibile che si basi sulla crescita pulita è essenziale per la salute […] e la sicurezza collettiva”. 5 ottobre. Il Canada invierà in Iraq un team di esperti per trovare le migliori soluzioni possibili per aiutare i rifugiati Yazidi che stanno scappando dal genocidio portato avanti dalle truppe del sedicente Stato Islamico. L’iniziativa era prevista fin da questa estate, ma il ministro per l’immigrazione John McCallum ha voluto attendere per evitare operazioni affrettate e portare effettivo aiuto alle popolazioni in fuga dalla guerra. 6 ottobre. Il Parlamento canadese ha ratificato l’Accordo sul clima di Parigi con la quasi totalità dei voti a favore. A cura di Alessandro Dalpasso 10 • MSOI the Post
Dopo oltre mezzo secolo, durante il quale gli Stati Uniti e Cuba non hanno avuto relazioni diplomatiche, il presidente Barack Obama ha nominato il diplomatico Jeffrey DeLaurentis nuovo Ambasciatore statunitense a Cuba. A renderlo noto è stato lo stesso Obama, il quale ha affermato di essere “orgoglioso della nomina del primo Ambasciatore” e che essa ”è un passo avanti richiesto dal buon senso verso relazioni più produttive e normali tra i [...] due Paesi“ Jeffrey DeLaurentis ha prestato servizio a Cuba come incaricato d’affari e capo delegazione dal 2014, quando gli Stati Uniti hanno deciso di riaprire il dialogo con il Paese vicino, e ha partecipato agli storici incontri del luglio 2015 tra Washington e L’Avana per il ripristino delle relazioni. “Il ruolo di Jeff è stato di vitale importanza per tutta la normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e Cuba”, ha poi dichiarato lo stesso Obama. Anche se DeLaurentis si trova già a L’Avana, adesso dovrà affrontare la conferma della nomi-
na ad ambasciatore dal Senato, come previsto dall’ordinamento statunitense. Il risultato non è troppo scontato, vista la forte opposizione da parte dei senatori cubano-americani al riavvicinamento dei due Paesi e al riavvio di relazioni stabili con l’isola caraibica. Tra gli altri, i senatori Marco Rubio e Ted Cruz, volti noti del Partito Repubblicano in quanto ex candidati per la nomination relativa alla presidenza, si sono già dichiarati contrari alla ratifica della nomina di Obama. Rubio ha infatti dichiarato che “dopo il rilascio dei terroristi di Guantanamo e dopo l’invio dei soldi dei contribuenti al regime iraniano, la scelta di premiare il governo di Castro con un ambasciatore è solo l’ultimo disperato progetto di un Presidente che dev’essere fermato”. Diversi sono i motivi che hanno spinto Washington a riavvicinarsi a Cuba, a eliminare l’embargo economico e a riavviare le relazioni. Tra essi vi sono le compensazioni per le proprietà statunitensi confiscate dopo la rivoluzione del 1959 e la volontà degli Stati Uniti di ottenere il rientro di diversi fuggitivi ricercati negli USA, che si sono rifugiati sull’isola.
MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole
AIUTI UMANITARI IN SIRIA: CROCE ROSSA IN PRIMA LINEA
Molti gli appelli della Croce Rossa, molti gli aiuti inviati, ma oggi si contano le vittime tra i volontari
AFGHANISTAN 4 ottobre. L’esercito, in una controffensiva guidata dalle forze speciali U.S.A., ha respinto le milizie taleban che nella giornata di lunedì avevano occupato Kunduz. Oltre 100 le vittime totali dello scontro. IRAN 30 settembre. Condannata a 10 anni di carcere Narges Mohammadi: la giornalista iraniana è stata accusata di aver fondato e gestito un gruppo contrario alla pena capitale. Molte le proteste internazionali, da Reporter Senza Frontiere al premio Nobel Shirin Ebadi. ISRAELE 5 ottobre. Continua la tensione con la Palestina dopo la presenza di Abu Mazen ai funerali di Shimon Peres dello scorso 30 settembre: con diversi attacchi aerei Israele ha risposto al razzo partito da Gaza e diretto a Sderot. PALESTINA 3 ottobre. La Corte Suprema Palestinese ha dato l’ok per votare alle municipali pur avendole posticipate di almeno 4 o 6 mesi, ma esclusivamente per la Cisgiordania. Reputata inadeguata la Striscia di Gaza “per l’illegalità in cui operano i tribunali”.
Di Maria Francesca Bottura Nel 2014 il CICR (Comitato Internazionale della Croce Rossa) cominciò a lanciare appelli ai governi internazionali per mobilitare gli aiuti necessari in Siria. Il 4 giugno 2014 il rapporto UNICEF “Emergenza Siria” aveva dato conto di una situazione più che disastrosa: 800.000 gli sfollati all’epoca (circa una famiglia al minuto), di cui 500.000 solo ad Aleppo. Nel febbraio 2016, a soli due anni di distanza, il Syrian Centre for Policy Research riporta numeri ancora più allarmanti: sarebbero 470.000 i morti dall’inizio del conflitto (2011), mentre la metà della popolazione è fuggita, rischiando di trasformare la Siria in un “Paese fantasma”. Si è dunque deciso di mettere in atto un massiccio invio di aiuti umanitari, nel tentativo di dare soccorso ai feriti e agli sfollati (tra cui, sempre nel 2014, si contavano circa 2 milioni di bambini) e per cercare di dare loro assistenza medica e cibo. La guerra siriana, però, non ha colpito solo la popolazione, ma anche i volontari. Come riportato dal sito del
CICR, il Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa è la più vasta rete umanitaria del mondo, e ha come scopo quello di proteggere la vita e la dignità delle vittime dei conflitti armati, portando loro assistenza. Il movimento non è composto da una singola organizzazione, ma dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, con sede a Ginevra, dalla Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa e da ben 189 società internazionali, che operano insieme al fine di aiutare i civili rimasti bloccati nelle zone di guerra. Cosa che oggi accade in Siria. Tra i volontari inviati dal Movimento Internazionale della Croce Rossa molte sono state le vittime. L’Osservatorio Nazionale per i Diritti Umani in Siria (ONDUS) riporta che nel 2014 se ne contavano 37. Quest’anno se ne sono aggiunte 21, vittime dei bombardamenti ai convogli umanitari avvenuti lo scorso settembre. Yves Daccord, direttore generale della Croce Rossa Internazionale, in un recente intervista riportata da Il Fatto Quotidiano ha affermato che “il bombardamento delle strutture sanitarie è ormai routine” in Siria. Ciò rende difficile aiutare i feriti e le persone rimaste nelle zone più colpite.
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MEDIO ORIENTE IN ARABIA SAUDITA LE DONNE FIRMANO PER I PROPRI DIRITTI #Stopenslavingsaudiwomen: basta con il sistema della tutela maschile
SIRIA 3 ottobre. Sospesi i contatti bilaterali tra Russia e U.S.A. riguardanti la Siria. Lo ha reso noto il Dipartimento di Stato americano, che accusa il Cremlino di aver perseguito la via militare non in linea con gli accordi per la fine delle ostilità. Annullato, dunque, il vertice con l’ONU a Ginevra. 3 ottobre. Almeno 3 i civili morti in seguito a un bombardamento su uno dei maggiori ospedali ad Aleppo est. È la terza volta che l’ospedale viene colpito nell’ultima settimana. 05 Ottobre. Raid aereo da parte dei turchi contro il villaggio curdo di Tathana, a pochi km da Manbij, centro del scontro turco-curdo: 18 le vittime e 40 i feriti, sono tutti civili.
TURCHIA 5 ottobre. 12.801 poliziotti, tra cui 2.500 ufficiali dell’aviazione , sono stati sospesi per sospetti contatti con gli U.S.A. e in particolare con Gülen, principale accusato per il colpo di Stato fallito nel mese di luglio. Sale così a 100.000 sospesi e 32.000 arrestati tra le forze dell’ordine e i funzionari civili il conto dei provvedimenti successivi al tentato colpo di Stato. Intanto Ankara ha confermato l’estensione dello stato di emergenza per altri 90 giorni. A cura di Lorenzo Gilardetti 12 • MSOI the Post
Di Martina Scarnato
sono di mentalità aperta”.
L’ossatura e l’ispirazione di questo articolo giungono dall’articolo Thousands of Saudis sign petition to end male guardianship of women, di Mazin Sidhamed, comparso su The Guardian il 26 settembre 2016.
Secondo Hamid M. Khan della University of South Carolina, il riferimento alla tutela maschile non è presente nel Corano. In quanto legge secolare e governativa essa andrebbe pertanto abolita. Non sono mancate le voci di protesta provenienti anche dalle stesse donne: in molte, infatti, si sono riunite dietro l’hashtag #TheGuardianshipIsForHerNotAgainstHer, affermando che il sistema andrebbe solo riformato, non eliminato. Nel 2009 e nel 2013 il governo si era già impegnato ad abolire il sistema della tutela maschile, promuovendo delle riforme che, per esempio, permettevano alle donne di votare alle elezioni municipali e di farsi eleggere.
L’abolizione della male guardianship, il sistema della tutela maschile, è oggetto di una petizione firmata da circa 14.700 donne, che hanno chiesto di essere finalmente riconosciute come “cittadine a pieno titolo”. La protesta è iniziata un decennio fa, ma solo da due mesi gli hashtag #StopEnslavingSaudiWomen o #IamMyOwnGuardian hanno cominciato a circolare su Twitter. In Arabia Saudita le donne non sono libere di prendere decisioni, in quanto soggette alla “tutela” del parente maschio più prossimo: il padre, il marito, il fratello o, nel caso delle vedove, il figlio. Secondo la legge, una donna ha bisogno del “permesso del tutore” per poter svolgere qualsiasi attività, come viaggiare, sposarsi e persino accedere alle cure mediche. In alcuni ospedali, infatti, per poter svolgere determinate pratiche è richiesta l’autorizzazione scritta dell’uomo, cosa che, come affermano alcuni attivisti, “non è un problema ottenere se gli uomini
Con l’approvazione del National Transformation Plan (NTP), un piano di riforme economiche che dovrebbero diversificare l’economia saudita e renderla meno dipendente dal petrolio, è previsto che le donne vengano maggiormente integrate nel mercato del lavoro. Secondo le stime, il tasso di occupazione femminile dovrebbe aumentare dal 23 al 28% entro il 2020. Il sistema di tutela maschile ostacola l’assunzione delle donne, in quanto queste ultime devono chiedere il permesso per poter lavorare.
RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole ALBANIA 1° ottobre. Un gruppo nutrito di cittadini albanesi è sceso in piazza per protestare contro la decisione del governo di importare rifiuti idonei al riciclo. I manifestanti chiedono al Presidente di non firmare la legge, poiché il premier Edi Rama si era impegnato in campagna elettorale a non accettare rifiuti provenienti da altri Paesi. Il governo risponde che i rifiuti accettati secondo il nuovo testo di legge sarebbero solo quelli riciclabili e non ne verrebbe concesso l’incenerimento o il sotterramento.
AZERBAIJAN - GEORGIA 5 ottobre. Si è concluso il secondo viaggio di papa Francesco nel Caucaso. Il pontefice ha deciso di recarsi in Georgia ed Azerbaijan nella prospettiva di creare dialogo e distensione in un’area dello spazio post-sovietico nella quale persistono differenze religiose e socio-culturali a tratti apparentemente incolmabili. Durante i suoi incontri il Papa ha sottolineato la necessità di maggiore dialogo per creare un ambiente favorevole alla crescita della prossima generazione di cittadini. RUSSIA 3 ottobre. Il presidente russo Putin ha firmato un decreto che dichiara la sospensione dell’accordo con gli USA che
LE INDAGINI SUL VOLO MH17
Emergono nuovi dettagli sul disastro aereo di due anni fa
Di Daniele Baldo Per oltre due anni il gruppo internazionale incaricato delle indagini ha raccolto e analizzato 5 miliardi di pagine Internet, mezzo milione di documenti audio e video, più di 200 testimonianze e 150.000 conversazioni telefoniche riguardo al disastro del volo MH17. L’inchiesta ha finora rivelato che il missile terra-aria BUK di fabbricazione russa che distrusse l’aereo della Malaysian Airlines il 17 luglio 2014 nei cieli della regione di Donetsk, in Ucraina, era stato portato dalla Russia in un territorio allora controllato da ribelli filorussi. Il volo MH-17, con a bordo 298 persone, era partito da Amsterdam e sarebbe dovuto atterrare a Kuala Lumpur. Nel settembre del 2014, l’ente per la sicurezza aerea olandese aveva reso noto che non c’era stato alcun guasto tecnico a bordo e con il rapporto finale dell’ottobre 2015 le autorità avevano stabilito che era stato un attacco militare proveniente dall’est dell’Ucraina a far precipitare il velivolo. Nel luglio 2015, l’istituzione da
parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di un tribunale internazionale che facesse luce sulla vicenda è fallita per via del veto posto dalla Russia. Il JIT (Joint Investigation Team) ha allora assunto un ruolo primario per il proseguimento delle indagini. Il 28 settembre gli investigatori hanno tracciato il percorso fatto dal sistema missilistico verso il territorio ucraino e ristretto il numero dei sospetti, appartenenti a gruppi di ribelli russi. La Russia ha sempre rifiutato di collaborare con le autorità olandesi e il portavoce del premier, Dmitry Peskov, ha respinto le nuove rivelazioni, che potrebbero portare a richieste di estradizione di cittadini russi. Maria Zakharova, ministro degli Esteri russo, ha bollato l’intero processo investigativo come “tendenzioso”, sostenendo che le indagini hanno seguito motivazioni politiche e non la verità degli avvenimenti. Dunque, non è ancora noto chi abbia dato l’ordine di distruggere l’aereo malese, ma i governi coinvolti e impegnati nelle indagini non sembrano voler trovare compromessi per favorire l’inchiesta.
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RUSSIA E BALCANI prevedeva la diminuzione significativa dello stock di plutonio arricchito. La decisione arriva a causa del rinnovo delle sanzioni imposte alla Russia a causa del suo intervento in Ucraina.
L’ALBANIA E I RIFIUTI DELL’UE Associazioni e ambientalisti in piazza contro la decisione del governo
3 ottobre. Tutti gli imputati nel processo per l’omicidio dell’oppositore politico Boris Nemtsov sono stati dichiarati non colpevoli. Lo riporta la Tass, sottolineando la rapidità con cui si è svolto il giudizio. 4 ottobre. Memorial, ONG fondata nel 1989 dal premio Nobel per la pace Andrei Sakharov, è stata dichiarata “agente straniero” dal Ministro degli Interni russo. Sin dalla sua fondazione l’associazione si è occupata di preservare la memoria delle vittime delle repressioni sovietiche. Il Ministero, invece, la descrive come un’associazione che porta avanti un’attività politica grazie al finanziamento di altri Stati. 5 ottobre. Il segretario di Stato americano Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov hanno avuto un colloquio telefonico nonostante il fallimento dell’approccio bilaterale nel conflitto siriano. I due hanno discusso anche sulle sanzioni in Ucraina e di un’azione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nei confronti della Corea del Nord. SERBIA 4 ottobre. Un gruppo di 300 migranti si è recato dalla stazione degli autobus di Belgrado verso il confine con l’Ungheria per protestare contro l’impossibilità di attraversare la dogana serbo-ungherese. All’interno del gruppo si sono registrate divergenze sulle modalità della protesta e si sono anche verificati degli scontri durante il tentativo di raggiungimento della frontiera. A cura di Leonardo Scanavino 14 • MSOI the Post
Di Lorenzo Bardia Era il 2013 quando il governo appena insediatosi in Albania, presieduto da Edi Rama, abrogò la legge che permetteva l’importazione dei rifiuti dall’estero, approvata dal precedente governo di centrodestra guidato da Sali Berisha.
Rama si è difeso dalle critiche affermando: “La nostra legge vieta l’incenerimento e la possibilità di interrare i rifiuti. È stata permessa solo l’importazione di cinque articoli della lista verde, tra cui carta, plastica e legno. Stavamo rischiando di far chiudere l’industria del riciclo”.
Oggi, la retromarcia. La Commissione Parlamentare per le Attività Produttive, il Commercio e l’Ambiente ha, infatti, riproposto una legge sull’importazione dei rifiuti con lo scopo di favorire l’industria locale di riciclaggio. Dopo un aspro scontro in aula, la legge è passata giovedì scorso, con i soli 63 voti della maggioranza.
Le proteste, però, non accennano a placarsi. Un manifestante ha dichiarato all’agenzia giornalistica Reuters che “il provvedimento contiene delle scappatoie subdole, che permettono l’importazione di rifiuti anche per produrre energia elettrica tramite gli inceneritori. Ciò sarà causa inevitabile di maggiore inquinamento”.
Migliaia di cittadini, ambientalisti e rappresentanti della società civile albanese sono quindi sc nelle piazze per manifestare contro la legge, armati di sacchi di immondizia e foto del Premier da depositare davanti alla sede del governo. In seguito, hanno imbrattato i cassonetti della spazzatura della capitale con i nomi dei deputati che hanno votato la legge.
Per questa ragione, gli oppositori alla legge hanno deciso di rivolgere un appello al Presidente della Repubblica d’Albania, affinché non firmi le modifiche che permettono l’importazione dei rifiuti. Secondo loro, Rama avrebbe tradito la fiducia degli elettori, ai quali aveva garantito che non avrebbe mai permesso l’importazione di rifiuti stranieri.
ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole KASHMIR 6 ottobre. Dopo l’evacuazione di alcune zone nel Kashmir al confine con il Pakistan per le azioni dell’esercito Indiano dei giorni scorsi, la situazione non sembra placarsi. La polizia riporta che 3 ribelli sono stati uccisi dopo uno scontro a fuoco con le truppe governative. La regione del Kashmir è attualmente contesa tra le duepotenze Nucleari, India e Pakistan che continuano a scambiarsi accuse tra chi starebbe fomentando le ostilità ai confini l’una dell’altra. RUSSIA 6 ottobre. La Russia ha annunciato la creazione di una divisone aerea adibita al bombardamento strategico che partendo dalle basi in Siberia, dovrebbe occuparsi di pattugliare le zone dalle Hawaii a Guam al Giappone, un area piuttosto grande in cui sono già attive molte unità da combattimento degli Stati Uniti, che hanno infatti criticato i voli russi. Si aggiunge un nuovo attore in una zona che ha visto negli ultimi tempi controversie tra gli Stati Uniti e la Cina, con un rafforzamento ad esempio della presenza di Marines in Australia. Per tutta la Presidenza Obama infatti, il pacifico è stato ritenuto di interesse centrale e non a caso Pivot To Asia, è il nome dato alla strategia. Il ministro della difesa russo, ha dichiarato che la nuova divisone di aerei da bombardamento sarà stanziata a Belaya e a Ukrainka, nella Siberia Occidentale, e sarà composta dagli aerei Tupolev Tu95MS e dai Tu-22M3s, gli ultimi già utilizzati nei bombardamenti
KASHMIR: UNA GUERRA MAI CONCLUSA Nuove tensioni tra India e Pakistan
Di Alessandro Fornaroli Le due potenze nucleari hanno ricominciato a compiere azioni di disturbo nello Stato del Jammu e Kashmir, territorio storicamente conteso ma de facto sotto l’amministrazione di Nuova Delhi. Giovedì 29 settembre un soldato indiano è stato fatto prigioniero dopo che aveva inavvertitamente sconfinato in territorio pakistano. Pochi giorni prima, l’apertura del fuoco lungo la linea di confine aveva causato la morte di due militari. Venerdì il governo del Pakistan ha accettato di fissare una riunione per discutere la crisi, che nel solo mese di settembre ha provocato numerose morti. Il 18 settembre 4 fedayeen (miliziani appositamente addestrati per compiere azioni tattiche di guerriglia e di incursione) avrebbero attaccato la base militare indiana di Uri, situata proprio a ridosso del confine. Lo scontro ha portato alla morte di 17 militari, generando forti proteste tra la popolazione. Il primo ministro Nerendra Modi ha attribuito l’attacco al gruppo jihadista Jaish-e-Mohammed che, secondo le fonti locali, sarebbe direttamente collegato al governo pakistano. Quest’ultimo, tuttavia, ha negato connessioni con i gruppi terroristici. L’India, dopo un’estate di forti scontri tra polizia locale e
manifestanti, ha agito in una duplice prospettiva. Dal punto di vista tattico/ difensivo ha deciso di proteggere il confine: il 29 settembre ha annunciato un’operazione militare transfrontaliera con lo scopo di prevenire gli attacchi degli indipendentisti. Sotto l’aspetto logistico, invece, il governo avrebbe chiesto l’evacuazione dalla regione di 10.000 persone, per proteggere i civili nel caso di una degenerazione dei rapporti tra i due Paesi. Per intensificare l’attività di controllo, la Premier ha inoltre richiesto un incremento delle misure di sicurezza da parte delle forze statali e federali. Secondo altre fonti, tra cui l’International Business Times, le persone coinvolte nello sgombero della striscia di circa 15 chilometri situata al confine sarebbero addirittura 200.000. La differenza tra i dati riportati è significativa: bisognerebbe capire se questi siano stati falsati per motivi politico-diplomatici o se si tratti semplicemente di un errore grossolano dei media. Il Kashmir è sede di lotte da circa 70 anni ed è stato causa di due guerre, combattute rispettivamente nel 1947 e nel 1965. Alla luce di questi fatti, il cessate il fuoco stilato nel 2003 tra le due parti sembra essere stato un accordo debole, oggi venuto meno.
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ORIENTE in Siria. KOREA DEL SUD 6 ottobre. Le autorità hanno comunicato che almeno 6 persone sono morte a causa del Tifone Chaba, che ha colpito nelle ore passate il paese, colpite soprattutto le città di di Busan e Ulsan. Attualmente il Tifone si è spostato verso il Giappone, tutti i voli sono stati cancellati. HONG KONG 5 ottobre. L’attivista prodemocrazia Joshua Wong, protagonista della manifestazione che nel 2014 aveva interessato tutto il mondo, è stato bloccato in Thailandia all’aeroporto di Suvarnabhumi e rimandato ad Hong Kong. Il suo viaggio era stato programmato da tempo, e la sua speranza era quella di partecipare ad un incontro organizzato da Netiwit Chotipatpaisal, uno studente attivista e universitario thailandese, all’università Chulalongkorn, in occasione del 40esimo anniversario del massacro degli studenti nel 1976. Secondo il giovane di Hong Kong, sarebbe la Cina a non aver voluto che si recasse in Thailandia. Già l’anno scorso la Thailandia era stata condannata dall’Onu per la deportazione di due dissidenti cinesi, che secondo le organizzazioni umanitarie sono stati prima incarcerati e poi ricondotti in Cina. A cura di Emanuele Chieppa
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PECHINO CONTRO IL THAAD
Il nuovo piano antimissilistico in Corea del Sud scatena polemiche in Cina
Di Tiziano Traversa La Corea del Sud e gli Stati Uniti hanno deciso di installare nuove strumentazioni antimissile entro il 2017. Esse consistono nel THAAD (Terminal High Altitude Area Defense), un avanzato sistema difensivo statunitense capace di sventare possibili attacchi di missili a medio e corto raggio. Le apparecchiature saranno installate a 300 km a sud-est di Seul e dovrebbero fungere da deterrente nei confronti delle intemperanze di Pyongyang. Il progetto è partito a luglio 2016 e, dopo i test nucleari del 9 settembre effettuati dalla Corea del Nord, è stata presa la decisione di accelerare i lavori per l’installazione dei sistemi antimissile. Queste tecniche di difesa, del resto, vengono impiegate dagli Stati Uniti in zone strategicamente rilevanti e particolarmente a rischio oramai da anni. Com’era prevedibile, viste le precedenti dichiarazioni contrarie al progetto, la Cina non ha apprezzato la decisione di installare il THAAD, considerandola come l’ennesima ingerenza statunitense nelle realtà politiche orientali. Il Quotidiano del Popolo, organo di informazione ufficiale del Partito Comunista Cinese, ha commentato la notizia affermando che “gli USA e la Corea sono destinati a pagare il prezzo per queste decisioni e a ricevere un contrattacco ade-
guato se tali decisioni minacceranno la politica di sicurezza della regione”. Le affermazioni cinesi esprimono preoccupazioni condivise da più Paesi dell’area orientale. Benché gli apparati antibalistici abbiano una funzione puramente difensiva, la Cina e le altre potenze regionali sono preoccupate dall’installazione di un sistema missilistico statunitense in una zona particolarmente sensibile alle tensioni internazionali. Queste si sono ulteriormente acuite da quando Pechino ha inasprito le proprie posizioni nei confronti di Pyongyang, appoggiando le proposte di sanzione dell’ONU. La Cina e, indirettamente, la Russia, oltre a non tollerare l’“invadenza” USA nelle questioni orientali, teme che le installazioni di apparati militari, incrementando la conflittualità tra le due Coree, mini i suoi interessi. Il progetto Seul-Washington ha causato molte reazioni contrarie anche a livello interno. Doversi sudcoreani hanno criticato fortemente tale decisione sia per l’aspetto economico - sono stati investiti circa 100 milioni di dollari - sia per la più delicata questione riguardante la politica di sicurezza della regione, che potrebbe essere compromessa in modo grave.
AFRICA 7 Giorni in 300 Parole ETIOPIA 2 ottobre. Durante il raduno religioso annuale del popolo Oromia a Bishoftu, sono morte 55 persone. La polizia è intervenuta sparando e creando un’ondata di panico dopo che alcuni manifestanti hanno lanciato slogan antigovernativi. Il governo di Abbis Abeba, capitale etiope, ha proclamato 3 giorni di lutto nazionale. 5 ottobre. È stata inaugurata la nuova linea ferroviaria elettrica che unisce la capitale etiope Addis Abeba al porto di Gibuti. L’infrastruttura, lunga 750 Km, è opera della China Railway Group e la China Civil Engineering Construction Corporetion. ITALIA-AFRICA 4 ottobre. Il Consiglio dei Ministri ha stabilito che verranno aperte tre nuove ambasciate italiane in Niger (Niamey), in Guinea (Conakry) e Repubblica Dominicana (Santo Domingo). La proposta è stata avanzata dal ministro degli Esteri Gentiloni dopo aver colto la necessità di instaurare maggiori legami politici, economici e culturali con questi Paesi. KENYA 2 ottobre. La nuova città di Konza, nei pressi di Nairobi, ospiterà il primo polo tecnologico del Paese. Il progetto,finanziato da una start-up di Tel Aviv, prevede una zona dedicata alla scienza, ai congressi, al business, alla scuola e tutto ciò che riguarda l’high-tech.
UN MASSACRO LUNGO 13 ANNI
Darfur: la “soluzione finale” del regime sudanese.
Di Jessica Prieto Nella regione del Darfur, a ovest del Sudan, dal 2003 è in corso un violento conflitto armato che è stato indicato più volte, per via della recrudescenza degli scontri, come genocidio e pulizia etnica. I combattimenti vedono contrapporsi i Janjawid, miliziani reclutati tra le tribù nomadi dei Baggara e sostenuti dal governo sudanese, e la popolazione non baggara della regione. Secondo l’ultimo rapporto presentato in Senato da Antonella Napoli (Presidente dell’associazione Italians for Darfur), quella in Darfur sarebbe la crisi umanitaria più lunga del secolo e avrebbe causato la distruzione di migliaia di villaggi e fatto migliaia di vittime. Ingente è anche il numero degli sfollati, che acuisce la crisi migratoria degli ultimi anni. Nel suo intervento la Presidente, accompagnata da Niemat Ahmadi, una sopravvissuta al genocidio, ha chiesto un maggior impegno da parte dell’Italia e dell’Europa, che già all’inizio dell’anno hanno stanziato 100 milioni di euro per arginare la crisi migratoria. L’organizzazione per i diritti umani Amnesty International ha inoltre raccolto prove dell’utilizzo di armi chimiche da parte
del governo sudanese di Omar Al-Bashir in una delle zone più isolate del Darfur, Jebel Merra. Gli attivisti, attraverso la raccolta di immagini satellitari, ricerche e interviste sul campo, hanno potuto constatare che dall’inizio dell’anno sono stati compiuti almeno 30 attacchi con armi chimiche, probabilmente iprite. Tali armi hanno causato dalle 200 alle 250 vittime, soprattutto bambini. Coloro che invece sono sopravvissuti riportano ancora gravi disturbi, come emicranie, vomito, diarrea e vesciche sulla pelle. Tirana Hassan, direttrice della Ricerca sulle Crisi di Amnesty International, ha dichiarato che “l’uso di agenti chimici costituisce una nuova arrogante sfida del governo sudanese alla comunità internazionale”. La Hassan ha perciò richiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di esercitare adeguate pressioni politiche sul governo del Sudan, affinché le agenzie umanitarie possano avere accesso alle popolazioni delle aree più remote del Darfur. Ha chiesto, inoltre, che l’embargo sulle armi, attualmente in vigore, sia applicato rigorosamente e che, nel caso di prove sufficienti sull’utilizzo di armi chimiche, vengano processati e puniti i responsabili.
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AFRICA MALI 4 ottobre. Sono stati uccisi due caschi blu e parecchi altri sono stati feriti in seguito a un attacco combinato contro il campo delle Nazioni Unite Minusma a Aguelhok nel Nord Est del Paese al confine con l’Algeria. L’attacco è avvenuto da parte di un gruppo di jihadisti legati ad al Qaeda.
THE OIL RIVERS
Il Delta del Niger rappresenta le contraddizioni di un intero continente.
Di Fabio Tumminello
MAROCO 3 ottobre. L’Ufficio di investig azioni giudiziarie (BCIJ) ha arrestato 10 donne appartenenti a una presunta cellula del gruppo ISIS; le jihadiste nascondevano prodotti chimici utili alla fabbricazione di esplosivi. Il Ministero dell’Interno ha dichiarato che le donne avrebbero giurato fedeltà al sedicente Stato Islamico e sarebbero in rapporti di parentela con sospetti terroristi. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 4 ottobre. Il presidente Joseph Kabila, in carica dal 2001, ha rinviato al 2018 le elezioni presidenziali che si sarebbero dovute tenere a novembre. La ricandidature di Kabila è anticostituzionale e l’opposizione ritiene che il Presidente voglia rimanere in carica e stia prendendo tempo per cambiare la costituzione a riguardo. SOMALIA 1 ottobre. La polizia locale ha dichiarato che sono morte due persone, e almeno sei sono rimaste ferite a causa di un auto bomba scoppiata contro il ristorante Blu Sky a Mogadiscio. A cura di Chiara Zaghi 18 • MSOI the Post
Da quasi 25 anni il delta del Niger non conosce pace, insanguinato da conflitti locali causati dal colonialismo britannico, che si è lasciato alle spalle una società devastata, martoriata da divisioni interne insanabili. Con 20 milioni di abitanti e quasi 200 gruppi etnici, ciascuno con dialetti, usi e costumi diversi, il delta del Niger è sempre stata un’area caratterizzata da instabilità, anche a causa della abbondanza di risorse naturali, contese sia da signori locali che da potenze straniere. L’Inghilterra, per gran parte del XX secolo, ha sfruttato le fertili rive del Niger per la produzione intensiva di olio di palma ed è da questo momento che il fiume Kworra (così chiamato dalle popolazioni locali) si è guadagnato l’appellativo di Oil River. Ma un altro tipo di oil ha cambiato per sempre la storia della Nigeria: il petrolio. A metà degli anni ’70, il paese, al tempo guidato da una feroce dittatura militare, divenne il principale esportatore di petrolio del continente; la sua produzione arrivò persino ad eguagliare quella dei paesi della penisola arabica. Le maggiori compagnie petrolifere (ENI, Chevron,
Exxon) cominciarono a fondare stabilimenti nella regione, sfruttando anche un governo favorevole agli investimenti stranieri ed una manodopera a bassissimo costo. L’attività di queste compagnie ha però acuito la già profonda crisi sociale ed economica in cui la Nigeria versava, nonostante le ricchezze del suo sottosuolo: le trivellazioni hanno causato incalcolabili danni ambientali, cancellando interi ecosistemi; gli abitanti, privati delle loro originarie terre, sono diventati sfollati, assoldati come mercenari dalle stesse compagnie per la difesa degli stabilimenti; il divario tra poveri e ricchi e le disuguaglianze sociali aumentano sempre di più. Le Nazioni Unite ed alcune ONG, tra cui Amnesty e Greenpeace, hanno denunciato le sistematiche violazioni dei diritti umani da parte delle compagnie straniere e del governo locale, accusato di aver lasciato carta bianca all’attività delle aziende petrolifere. Nel dicembre del 2012 anche la Corte di Giustizia della Comunità Economica Africana si è espressa sul tema con la celebre sentenza ECOWAS, che riconosce le responsabilità del governo nigeriano.
SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole ARGENTINA 6 ottobre. Horacio Rodríguez Larreta, sindaco di Buenos Aires, nel suo progetto di “tolleranza zero per la corruzione” ha deciso una riduzione delle competenze della polizia. Le forze dell’ordine saranno ora affiancate dalla partecipazione civile nella gestione dei fondi, già gestita da funzionari, e nel controllo disciplinare. BRASILE 3 ottobre. Il Partito dei Lavoratori brasiliano incassa una dura sconfitta a Sao Paolo. Fernando Haddad, il sindaco uscente, considerato l’erede dell’ex presidente Lula da Silva, non ha superato il primo turno delle elezioni amministrative del 2 ottobre. A vincere è stato il candidato de partito socialdemocratico Joao Doria. 5 ottobre. L’ex presidente Lula da Silva torna ad essere accusato di corruzione. Al leader del Partito dei Lavoratori è stato contestato, secondo informazioni pubblicate nella rivista Època, un aiuto indebito a Exergia, impresa di suo nipote Taiguara Rodriguez, in relazione con le attività dell’imponente impresa edile Odebrecht in Angola. COLOMBIA 6 ottobre. La mancata approvazione dell’accordo di pace tra governo colombiano e FARC ha portato ad un acceso dibattito tra le parti, includendo anche il fronte del NO al referendum. Mentre si attende la ripresa dei negoziati diverse organizzazioni universitarie del paese hanno convocato manifestazioni in 14 città per convincere il governo di Santos per accelerare il riavvio del processo di pace.
PROMESSE NON MANTENUTE
Il calo di consensi, la crisi economica e le rivolte popolari in Cile
Di Stefano Bozzalla Cassione In Cile la situazione del governo e la posizione della presidente Michelle Bachelet vacillano sotto il peso di promesse non mantenute. La situazione economica del Paese, intanto, continua ad aggravarsi. Dall’inizio degli anni Novanta, si sono alternatati governi di sinistra, capaci di sviluppare le politiche neo liberiste lanciate già da Pinochet. Il Cile ha conosciuto quindi un periodo di forte crescita, soprattutto economica. Tale situazione ha attirato un notevole interesse estero, sia per quanto riguarda i capitali sia per gli investitori. In seguito, la crisi economica legata ai prezzi delle materie prime ha colpito duramente il Cile, così come altri Paesi del sud America, provocando la fuga dei capitali esteri. Ciò ha causato un ovvio rallentamento nell’economia e, di conseguenza, un calo di consensi verso la presidente Bachelet: i consensi sono scesi dal 62% del post elezioni al 28% di inizio settembre. Inoltre, la Presidente non ha attuato le riforme promesse,
che avrebbero dovuto portare ad un’educazione superiore accessibile a tutti, alla revisione della Costituzione e a quella del sistema tributario. Infine, in un contesto di sempre maggiore difficoltà economica, il fatto che la gestione delle cosiddette risorse pubbliche, per esempio quelle idriche, sia, nella maggior parte dei casi, affidata a privati ha ulteriormente aggravato il malcontento. La popolazione cilena, costretta a diverse privazioni e delusa dal suo leader politico, si è riversata nelle piazze sia per chiedere che l’acqua torni a essere un bene comune sia per porre l’attenzione del governo sulla necessità di mantenere le promesse effettuate durante la campagna elettorale, in primis quella della riforma dell’educazione. La Bachelet è il fulcro della contestazione popolare. Rispettare le promesse fatte e quindi adottare le riforme potrebbe, però, risollevare la fiducia della popolazione nell’esecutivo e riportare il Cile alla precedente condizione di stabilità e benessere economico. MSOI the Post • 19
SUD AMERICA NO ALLA PACE CON LE FARC
I colombiani non confermano il progetto di pace con le Forze Armate Rivoluzionarie
HAITI 6 ottobre. Drammatiche condizioni dopo il passaggio dell’uragano Mattew. La perturbazione, ormai già passata anche su Cuba e diretta verso la Florida, ha generato una situazione definita “catastrofica” da parte del presidente ad interim Jocelerme Privert. Le elezioni presidenziali, previste per la prossima settimana, sono state posticipate per far fronte all’emergenza. MESSICO 29 settembre. Grandi manifestazioni nel Distretto Federale di Città del Messico per richiedere la depenalizzazione dell’aborto, legale solamente nel resto del paese. In passato era già stato proposta una legge per la depenalizzazione, bocciata dalla Corte Suprema Messicana nel giugno 2016. VENEZUELA 6 ottobre. Il vicepresidente Cabello annuncia che Leopoldo López, leader dell’opposizione, sarà accusato di omicidio dalle famiglie dei 43 morti nelle proteste del 2014. I fatti si riferiscono al febbraio 2014 quando dalla marcia contro il governo avviata da López scaturirono numerose proteste nel contesto delle quali si registrarono anche dei morti. A cura di Daniele Pennavaria
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Di Daniele Pennavaria Il 3 ottobre, giorno che avrebbe dovuto essere celebrato come il culmine del processo di pace con le FARC, si è trasformato per la Colombia nel brusco risveglio da quello che sembrava un sogno di conciliazione. Con un’affluenza estremamente limitata - 37,4% - e un’esigua maggioranza, gli elettori colombiani anno detto no al progetto di pace firmato lo scorso settembre. “Un risultato che nemmeno gli esperti avevano previsto” recitano le colonne de El País. Effettivamente, il rifiuto del progetto, concordato dal governo di Juan Manuel Santos nel corso di 4 anni di trattative, è dovuto soltanto alla silenziosa campagna per il no, sostenuta dall’ex presidente Álvaro Uribe. Santos, evidentemente sicuro della vittoria, per convincere parte degli indecisi aveva affermato, tempo fa, che non ci sarebbe stato un piano B. Ora è dovuto correre ai ripari e ha così nominato una commissione di mediatori, per ridefinire l’accordo includendo la prospettiva della fazione vincente. Intanto il Presidente, insieme al leader delle FARC Rodrigo Londoño, ha assicurato che non c’è nessuna intenzione, da parte di nessuna delle due fazioni, di violare il cessate il fuoco, che regge ormai dal 29 agosto. Tornare alle trattative per un
accordo che includa la prospettiva della fazione vincente sembra ora l’unica opzione possibile. I sostenitori del no, infatti, non sono contrari in maniera categorica a una pace con le FARC, ma sottolineano alcuni punti che devono essere modificati rispetto al progetto celebrato a Cartagena. Tra questi, i più importanti sono i seguenti: l’interdizione dei pubblici uffici per ex combattenti che siano stati condannati, un periodo di detenzione da imporre ai leader delle FARC, che i guadagni illeciti dell’organizzazione siano usati per compensare i famigliari delle vittime e che non vengano apportati cambiamenti alla Costituzione colombiana. Il blocco del processo di pace ha portato anche alla paralisi del piano di normalizzazione dei combattenti che, sotto il controllo di una missione ONU, stavano consegnando le armi in diverse zone rurali per fare ritorno alla vita civile. Della svolta inaspettata ha risentito anche l’economia, a causa di una svalutazione del peso colombiano rispetto al dollaro. La Colombia deve adesso dimostrare alla comunità internazionale di poter ricostruire quanto crollato con l’inaspettato esito del referendum, arginando la spaccatura interna dovuta alle contese tra Santos e Uribe per i meriti della pace.
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PROMESSE E RISULTATI DEL LIBERISMO
I fallimenti delle riforme economiche destabilizzano il sistema UE
UNA “MELA” AL GIORNO … LEVA LE “MORE” DI TORNO! Ennesimo colpo mandato a segno dalla casa del melafonino, e non solo Di Michelangelo Inverso
Di Martina Unali Lo scenario. La settimana scorsa si è caratterizzata per il profilo social-tecnologico. Si sono susseguite una serie di acquisizioni ed altre operazioni, alcune ancora in fase di trattativa, che porteranno delle novità anche per i posti di lavoro. I top. Deloitte Consulting Llp, una delle principali aziende mondiali nel campo dei servizi di consulenza professionale, ha stretto una partnership con Apple. Il sodalizio consentirebbe di monetizzare il brand di Cupertino, sviluppando soluzioni per la clientela delle grandi multinazionali e indirizzandola verso i device californiani. Siamo di fronte alla digital transformation, ossia la trasformazione digitale che si propone di creare delle best practices a livello aziendale, al fine di implementare il back e offic , gli hardware, i software e i servizi. Ancora in cantiere è l’accordo tra Spotify, la società svedese di streaming audio, e SoundCloud, nota per aver realizzato una piattaforma dedicata alla
Quasi quotidianamente si sente parlare della necessità di una maggiore integrazione tra i mercati internazionali e una superiore mobilità dei flussi di capitale e di lavoro come rimedio alla crisi. Ma ne abbiamo ancora bisogno? Supponiamo di integrare maggiormente il mercato cinese o quello sudamericano con il mercato dell’UE. L’aumento dei prodotti disponibili, stando alla teoria economica, dovrebbe comportare una maggiore competitività fra i produttori, che tenterebbero di conquistare quote di un mercato in cui i consumatori hanno sempre lo stesso budget spendibile in beni di consumo. La competitività spingerebbe i produttori da un lato ad abbassare i prezzi e dall’altro a differenziarsi maggiormente per distinguersi rispetto ai competitor. Questo porterebbe ad un aumento dei consumi e ciò, a sua volta, spingerebbe a nuovi investimenti e verso un trend economico positivo. La perversione di questo ragionamento, a cui si sono ispirate tutte le politiche europee post-crisi, è quella di considerare il mercato come un’entità scollegata dal contesto socio-politico. Considerando la situazione specifica, possiamo riconsiderare il ragionamento precedente in questo modo: una maggior apertura dei mercati
(come ad esempio profilato nel Ttip) porterebbe ad una superiore competitività. Ma, essendo le condizioni dei mercati del lavoro ben diverse (basti pensare ai differenziali salariali tra UE e Cina o USA), i produttori europei sarebbero costretti a scegliere tra abbattere i salari o delocalizzare, aumentando così la disoccupazione strutturale. I lavoratori europei si troverebbero cosi ben più poveri e privi di apparati di sicurezza sociali rispetto a prima. Questo si rifletterebbe sul livello dei consumi, che in questo momento è già molto basso dopo quasi 10 anni di crisi economica che hanno eroso i risparmi. E, d’altro canto, è proprio quello a cui si assiste: uno smantellamento degli ammortizzatori sociali e una decrescita dei salari a cui non si accompagna una riduzione del livello dei prezzi tale da spingere al consumo i lavoratori nonostante la sistematica precarizzazione del lavoro. Forse i policy maker dovrebbero interrogarsi sui risultati ottenuti dalle proprie proposte (emblematico il caso del Jobs Act) prima di predicarne l’indubbia bontà. Raccontare la stessa storia indefinitamente non la renderà una storia vera e chi ne sta facendo le spese inizia a perdere la pazienza: basta guardare il Regno Unito per farsene un’idea. MSOI the Post • 21
ECONOMIA condivisione di brani musicali, con sede a Berlino. La compagnia scandinava raggiunge oltre 30 milioni di utenti paganti (senza tener conto di coloro che accedono in modalità gratuita), mentre la tedesca vanta ben 175 milioni di utenti attivi. L’operazione consentirebbe una migrazione dei brani musicalmente significativi di SoundCloud verso Spotify. Una bella musica è nell’aria. E i flop. Se per Deloitte, Spotify e SoundCloud è stata una settimana fortunata, per BlackBerry non è stato affatto così: la “Mora” non produrrà più direttamente a smartphone e si affiderà ad un joint venture indonesiana. Il marchio di Waterloo si trova così a tirare le somme nel mercato dell’hardware. Tutto ciò sembra non essere una novità. Molti se lo aspettavano già da tempo. I dati di vendita ne sono la conferma, soprattutto l’ultimo rosso da 372 milioni di dollari. Scontro fra titani. Ma chi è il colpevole? Forse sarebbe meglio dire i colpevoli, principalmente Apple con i suoi smartphone rivoluzionari ed il vano acquisto di Nokia. Ma il colpo di grazia per BlackBerry giunge da Mark Zuckerberg. Infatti, da qualche mese, l’app di Facebook non viene più aggiornata per alcuni sistemi operativi del Blackberry, con l’intenzione di dismetterla definitivamente. La fine dell’era degli eleganti smartphone neri è stata accelerata anche dalla negazione da parte di altre app, predominio di Menlo Park: Instagram non è mai arrivato, Messenger richiedeva determinati dispositivi e WhatsApp ha deciso di abbandonare la piattaforma con il nuovo anno.
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LO SCENARIO DI UNA “HARD BREXIT” SPAVENTA I MERCATI La valuta britannica ha ceduto oltre il 2% del proprio valore in un solo giorno
Di Giacomo Robasto Il primo ministro britannico Theresa May ha ribadito lunedì scorso la propria volontà di non tradire l’esito del referendum popolare del 23 giugno, rendendo sempre più plausibile l’uscita del Regno Unito dalle istituzioni comunitarie europee nel corso dell’anno venturo. Infatti, come ella stessa ha affermato al Congresso del Partito Conservatore a Birmingham, il governo di Sua Maestà ha intenzione di attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona più tardi a marzo 2017. Quindi, la presenza di una tempistica precisa su Brexit, unita alla determinazione del governo a procedere in tal senso, ha generato incertezza nei mercati valutari, che si è manifestata in un vistoso crollo del tasso di cambio SterlinaDollaro. Martedì scorso, una sterlina era scambiata per $ 1,27 - il valore più basso mai registrato dal 1985. Il deprezzamento della Sterlina ai danni delle altre maggiori valute (tra le quali l’Euro) è in realtà in corso sin dal referendum di fine Giugno, mese a partire dal quale essa ha perso circa il 14% del valore. Inoltre, il “Bloomberg Pound Index”, indicatore che paragona il valore della Sterlina con quello di altre valute estere, è calato in questa sola settimana di oltre l’1,5%, valore più basso dal 2004. Visti tali indicatori sulle performance della Sterlina, la
maggior parte degli analisti, tra cui HSBC, prevede che entro fine anno il tasso di cambio sul dollaro potrebbe attestarsi a quota $ 1,20. Se la debolezza della valuta d’oltremanica è una delle principali preoccupazioni degli oppositori di Brexit, a causa delle ripercussioni negative sui costi di importazione soprattutto dai paesi UE, essa non rappresenta necessariamente una cattiva notizia per tutti gli attori dell’economia. Infatti, un tasso di cambio più basso può da una parte favorire la crescita economica con l’incremento delle esportazioni in favore dell’industria manifatturiera, dall’altra aiutare la Banca d’Inghilterra a perseguire un aumento più rapido dell’inflazione. A trarre beneficio dalla situazione attuale sarebbero non soltanto le imprese, ma anche i numerosi turisti europei presenti nel Regno Unito ogni anno, che aumenterebbero la spesa in virtù del maggior potere d’acquisto dovuto al deprezzamento della valuta locale. Nelle prossime settimane il governo britannico, che prevede un’uscita definitiva dalla UE entro il 2019, procederà a redigere una road map dettagliata di Brexit. Spetterà ai mercati e agli investitori reagire nel modo più opportuno nell’interesse del Regno Unito.
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