Msoi thePost Numero 35

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA ULTIMATUM ALLA POLONIA

Le fratture tra Bruxelles e Varsavia rischiano di divenire insanabili

Di Benedetta Albano A gennaio, in seguito alle leggi approvate riguardo alla Corte Costituzionale e al controllo dei mezzi di comunicazione pubblici, l’esecutivo europeo ha deciso di utilizzare contro lo Stato della Polonia il meccanismo per la tutela dello Stato di diritto negli Stati membri, una procedura entrata in vigore nel 2014 ricorso che può portare fino alla sospensione del diritto di voto del Paese in Consiglio. Lo strumento, a detta di Bruxelles, sarebbe un mezzo per iniziare un dialogo con Varsavia riguardo le garanzie che ogni Paese membro dell’Unione è tenuto a offrire ai suoi cittadini. Negli ultimi tempi, tuttavia, la situazione è precipitata: la Commissione ha infatti minacciato la Polonia di inasprire le sanzioni se la controversia sulla riforma costituzionale non verrà risolta entro tre mesi. Le risposte dai principali membri dell’esecutivo polacco non hanno tardato, muovendo critiche pesanti all’Europa, e accusando di essere nel mirino di Bruxelles per motivi che non hanno nulla a che vedere con la sovranità del popolo polacco e lo Stato di diritto, ma per un semplice divertissement dei burocrati UE.

La Commissione Europea chiede in particolare delucidazioni sulla nomina del Presidente e del Vicepresidente della Suprema Corte, ritenendo che l’organo possa risentire di un’ingerenza politica troppo forte; uno dei punti più discussi della riforma è quello che costringe il Presidente della Corte a inserire i giudici scelti dal governo. La riforma è già stata lievemente modificata, ma secondo l’Unione non a sufficienza per una riforma che dovrebbe essere garanzia dei diritti fondamentali. Non solo Bruxelles è preoccupata: anche il partito liberalconservatore polacco si dice pronto a impugnare la riforma se passerà alla Camera alta e avrà l’approvazione presidenziale. Le varie riforme proposte dagli altri partiti di opposizione, inoltre, non sono state accettate. Minacciando l’utilizzo dell’articolo 7 (quello che prevede la sospensione dei diritti dello Stato, a seguito di decisione presa da un terzo degli Stati membri, Commissione o Parlamento Europeo) e interpellando anche la Commissione di Venezia, l’Unione Europea ha quindi richiesto che la Polonia rispetti le decisioni prese dallo stesso tribunale costituzionale

nazionale nel dicembre scorso, riguardo i giudici eletti a nomina governativa, e riguardo la pubblicazione delle sentenze (un punto che non deve essere lasciato alla discrezione dell’esecutivo). La Commissione di Venezia sui diritti si è anche espressa con preoccupazione riguardo all’efficacia della Corte, che non garantirebbe ai cittadini uno strumento di controllo sul governo, ma sembrerebbe ridursi ad una sua propagine; come suggerisce anche l’imposizione dell’ordine cronologico nella revisione delle sentenze, che implica la discussione fra diversi anni delle riforme attuali. Al Tribunale dovrebbe anche essere riconosciuta la possibilità di revisione della nuova legge, che finora non è stata concessa. La situazione è molto critica, specialmente nel contesto europeo di derive di estrema destra e controlli autoritari, che sembrano minacciare le garanzie costituzionali che l’Unione si è sempre attivata per tutelare; entro tre mesi la Polonia dovrà introdurre quindi modifiche sostanziali alla riforma, o altrimenti rischierà una frattura con Bruxelles difficilmente sanabile. MSOI the Post • 3


EUROPA SVELARE LA GERMANIA?

Dopo Parigi anche Berlino si spacca di fronte al burqa

Di Fabio Saksida Dopo la Francia è la volta della Germania, dalle polemiche sul burkini in spiaggia scoppiate prima a Cannes poi a Nizza, e che hanno portato al suo divieto, si accende un dibattito analogo fra Berlino e Schwerin. Oggetto è il rapporto fra l’esigenze della pubblica sicurezza e l’utilizzo del burqa, il velo integrale presente nell’abbigliamento tradizionale femminile di alcune culture musulmane. “Rifiutiamo all’unanimità il burqa, non è adatto al nostro Paese aperto al mondo” così si è espresso il ministro degli Interni Thomas de Maizière (CDU) , ma nonostante la veemenza dei toni è da escludersi, e lo stesso Ministro lo ha in seguito confermato, un divieto assoluto dell’utilizzo, in quanto sarebbe incostituzionale. Resta pertanto aperta la proposta, per ora sottoscritta da 8 dei 16 lander, di limitarne l’uso in quei luoghi ove la necessità di essere riconoscibili acquista maggiore rilevanza: uffici pubblici, alla guida di veicoli, manifestazioni pubbliche, cortei, scuole ed università. La stessa Cancelliera ha espresso il suo sostegno a questo provvedimento, entrando con forza nel dibattito. Oltre a mettere in luce i problemi inerenti alla pubblica sicurezza Angela Merkel punta il dito sulla necessità d’integrazione e sull’handicap che 4 • MSOI the Post

quest’indumento rappresenterebbe per la donna musulmana. Dello stesso avviso Lorenz Caffier, ministro dell’Interno del Meclemburgo, che ha sottolineato come il burqa “alimenti società parallele” e debba essere quindi “trattato come una contravvenzione”. Il dibattito inoltre si inserisce nella ben più accanita contrapposizione politica fra la CDU e l’emergente AFD di Frauke Petry. Quello del Meclemburgo è infatti il Land, oltre a quello di Berlino, in cui si voteranno le elezioni regionali il mese prossimo. Elezioni in cui i cristiano-democratici sono decisamente sotto pressione; basti pensare che l’AFD è accreditata circa al 20% proprio in Meclemburgo. De Maizière ha negato che sussista un nesso fra i due argomenti, e che quindi questo provvedimento non sia un tentativo di limitare, almeno su un punto, la voragine ideologica che separa i due partiti, e diminuire conseguentemente lo svantaggio elettorale della CDU. I dibattiti di quest’estate pongono numerosi interrogativi, ma soprattutto mettono l’accento sulla parola “integrazione”, dimostrandoci quando sia difficile avere anche solo una comune idea dello stesso significato da attribuirgli. Siamo di fronte infatti ad una pluralità di modelli.

L’esperienza francese è l’esempio più concreto del modello assimilazionista, che considera come condizione sufficiente per l’integrazione socio-culturale nel tessuto della società la cittadinanza politica e l’uguaglianza di fronte alla legge, con l’esclusione quindi di qualsiasi diversità etnica o religiosa dalla vita pubblica. Con tale motivazione fu promossa la famosa “legge anti-velo” del 2004, fortemente sostenuta dall’allora presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, che vieta di indossare nelle scuole capi di vestiario che ostentino una particolare fede religiosa e che dunque impedisce alle fedeli musulmane di vestire il burka. Nel Regno Unito invece fu vincente il modello multiculturale, di ispirazione statunitense. In Germania si è assistito invece allo sviluppo di un sistema ibrido, che promuove l’inserimento del migrante con prevalenza in determinati ambiti sociali, in primis quello lavorativo. È evidente che ciascuno di questi modelli presenta i suoi limiti; limiti che potranno anche giacere in attesa, come la polvere sotto il tappeto, in situazioni di particolare calma e tranquillità, ma che in momenti di caos e paura, come quelli che sta vivendo l’Europa da un anno a questa parte, si risollevano e ci ripropongono gli stessi interrogativi.


NORD AMERICA GUANTÁNAMO CHIUDERÀ?

Continua il confronto tra Obama e il Congresso

Di Sofia Ercolessi Lunedì 15 agosto l’amministrazione Obama ha fatto trasferire 15 prigionieri del carcere militare di Guantánamo Bay, Cuba, negli Emirati Arabi Uniti. È il trasferimento più numeroso di detenuti di tutto il mandato presidenziale di Obama, che ha affermato di aver garantito“un’appropriata sicurezza” e “un trattamento umano” nell’operazione. Forti le critiche, però, da parte repubblicana. Secondo la senatrice Kelly Ayotte, la decisione “ha messo a rischio in modo inaccettabile la sicurezza della Nazione”, mentre Edward Royce, capo della Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti, ha accusato l’amministrazione di “incoscienza”. Durante i suoi 7 anni di presidenza, Barack Obama ha ridotto il numero di detenuti a Guantánamo da 242 a 61, effettuando trasferimenti in numerosi “Paesi amici”, fra cui anche l’Italia. Questo, però, non basta ad adempiere la promessa fatta all’inizio del suo mandato: chiudere definitivamente il carcere. La chiusura di Guantánamo è sempre stata uno dei punti fermi del suo programma politico, ma anche uno di quelli di più difficile attuazione. Tra il dire e il fare, in questo caso, c’è di mezzo

l’opposizione del Congresso e di una buona parte dell’opinione pubblica, che temono per la sicurezza nazionale. Il carcere è stato aperto nel 2002 dall’amministrazione Bush, all’indomani dell’11 settembre e della dichiarazione della “guerra al terrorismo”. L’autorizzazione all’uso della forza varata dal Congresso il 14 settembre 2001 dà al Presidente il potere di “usare tutta la forza necessaria” contro chiunque – Stati, organizzazioni o persone – sia sospettato di avere legami con le organizzazioni dietro l’attacco alle Torri Gemelle. Per questo, i prigionieri vengono spesso trattenuti indefinitamente e senza processo, assistenza legale o accuse formali. Le condizioni di vita a Guantánamo sono notoriamente dure, al limite della legalità (se non oltre, secondo molte organizzazioni). Le testimonianze di ex prigionieri e le denunce di organizzazioni per i diritti umani, in questo senso, sono innumerevoli. Secondo il presidente Obama, questo rende il carcere, più che uno strumento per aumentare la sicurezza nazionale, un facile argomento di propaganda antiamericana per il reclutamento da parte di organizzazioni terroristiche. La maggioranza al Congresso è,

a quanto pare, di tutt’altro avviso. Da qualche anno, con voti da entrambi gli schieramenti, il Congresso ha infatti posto degli ostacoli legali alla chiusura del carcere. Il Dipartimento della Difesa non può più spendere un centesimo per trasferire i prigionieri di Guantánamo negli Stati Uniti, né può costruire o comprare sul suolo americano strutture dove verrebbero ospitati, neanche per essere processati. Per trasferirli all’estero – operazione già complicata per via della riluttanza mondiale ad accettare prigionieri di questo tipo – deve invece dimostrare al Congresso di aver rispettato tutta una serie di requisiti. In breve, che Obama mantenga la sua promessa è ormai quasi impossibile. Il futuro di Guantánamo dipenderà allora dall’esito delle elezioni di novembre e le posizioni dei due candidati non potrebbero essere più diverse. Mentre la democratica Hillary Clinton aderisce pienamente al progetto di Obama, Donald Trump ha promesso di dare nuova vita alla prigione, riempiendola di “cattivi ragazzi”. Il candidato repubblicano ha però anche garantito che ridurrebbe gli attuali costi di 450 milioni di dollari all’anno a “noccioline”. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA IL CETA, TRA LUCI E OMBRE

Speranze e rischi per l’accordo di libero scambio UE-Canada

Di Silvia Perino Vaiga 7 anni di trattative, più di 540 milioni di consumatori, 29 parlamenti nazionali, un trattato commerciale e di libero scambio e tante, troppe controversie ancora aperte. Questo, in pillole, l’accordo economico e commerciale globale negoziato tra UE e Canada, meglio noto come CETA. Le radici del CETA risalgono al 2008, anno in cui vide la luce il primo studio ufficiale che, di fatto, poneva le basi per la promozione del libero scambio tra le due economie. Un anno dopo, nel maggio 2009, il Summit UE-Canada di Praga sancì il lancio ufficiale dei negoziati. Sono seguiti anni di intensi scambi tra Ottawa e Bruxelles, con l’ambizione di concludere un accordo innovativo e vantaggioso, che ben rappresentasse lo slancio globale di due tra le maggiori economie al mondo. Ma gli interessi in gioco sono molti e altrettanti sono stati gli ostacoli che i negoziatori hanno dovuto affrontare. Nonostante il loro pronunciato interesse verso il libero scambio, infatti, il governo canadese e la Commissione europea (l’attore sul quale ricadeva il mandato negoziale UE) hanno trovato 6 • MSOI the Post

non pochi nemici tra i detrattori della globalizzazione economica. Non solo: salutato, soprattutto in Europa, come “il fratello minore del TTIP”, il CETA ha sollevato timori sulla sicurezza dei prodotti, sulla tutela dei consumatori e – non ultimo – su un presunto deficit democratico sia in fase negoziale sia in fase d’approvazione. Non sono mancati, negli anni, episodi di forte opposizione all’accordo da parte della società civile. Ciononostante, l’estate del 2014 ha segnato la fine della fase negoziale. Da lì hanno avuto inizio la revisione legale dei testi, conclusasi nel 2016, e soprattutto la delicatissima fase di promozione del contenuto dell’accordo. Nelle parole del commissario europeo per il Commercio Cecilia Malmström, il CETA è “l’accordo commerciale più ambizioso che l’UE abbia mai concluso”. “Si tratta di un accordo storico, che porterà ai canadesi enormi benefici” le fa eco il ministro canadese per il Commercio internazionale Chrystia Freeland. In effetti, puntando ad abolire il 99% dei dazi doganali esistenti tra le due economie, il CETA si profila come un accordo ambizioso anche a occhi inesperti. Ma quali sono, nei fatti, le

altre novità che il trattato punta a introdurre? Secondo fonti della Commissione europea, altri effetti sarebbero l’apertura degli appalti in Canada per le imprese UE (e viceversa), il rafforzamento della cooperazione normativa, la creazione di condizioni eque per la proprietà intellettuale, la promozione degli investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro. Ufficialmente, insomma, l’ottimismo è molto. Ma sono ancora tanti i passaggi che separano il CETA dalla ratifica. Seguendo una linea di cautela quanto mai appropriata in tempi di Brexit, la Commissione europea ha infatti deciso di proporre il CETA come un accordo misto, richiedendo l’approvazione di ognuno dei 28 parlamenti degli Stati membri. Volta a sanare almeno in parte i timori relativi al deficit democratico, questa mossa porta in sé il rischio reale di fallimento del progetto. Mentre in alcuni stati, quali l’Italia, l’approvazione non dovrebbe risultare controversa, altri parlamenti, tra cui Romania e Bulgaria, minacciano un voto contro. Un successo tutt’altro che scritto, insomma, quello del CETA. Una sfida il cui esito è atteso durante il prossimo Summit UE-Canada, previsto per ottobre.


MEDIO ORIENTE LE POLITICHE DI ACCOGLIENZA DEI RIFUGIATI IN LIBANO E GIORDANIA Come si affronta la crisi fuori dall’Europa

Di Lucky Dalena Mentre in Europa, specialmente dopo gli ultimi avvenimenti, si accende il dibattito su rifugiati e integrazione, molti dimenticano che la piaga europea è nulla in confronto a quella che colpisce altri Paesi vicini al conflitto siriano, come Libano e Giordania. Ma qual è il peso di questa presenza, nelle due nazioni? Come hanno reagito all’arrivo massiccio di popolazioni disperate e in fuga da un conflitto la cui conclusione è ancora lontana? C’è una sostanziale differenza tra le procedure di accoglienza nei due Stati: in Libano, indicato come “modello” per l’accoglienza, i siriani si trovano principalmente al di fuori dei campi; in Giordania, invece, sebbene informalmente la presenza fuori dai campi sia massiccia, la legge prevede la sistemazione dei rifugiati in appositi campi confinati, con sostanzialmente un divieto di uscita. Le ragioni dei due Paesi sono molto probabilmente storiche. Da un lato il Libano è ancora scottato dall’esperienza palestinese: l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con gli accordi del Cairo del 1969, si prese carico della gestione dei campi rifugiati presenti in ter-

ritorio libanese, trasformandoli gradualmente in basi per la guerrilla contro Israele. Questa soluzione causò al Paese, già di per sé poco stabile nelle sue istituzioni e controllo delle violenze, un’ulteriore instabilità e vari disordini. I siriani presenti sul territorio, nonostante siano spesso organizzati in insediamenti informali con le tende dell’UNHCR, non sono per legge ufficialmente organizzati in campi. La Giordania, dall’altro lato, ha subito diverse ondate migratorie. Se la questione palestinese risulta meno recente, il popolo giordano e il suo governo ricordano ancora l’ingente numero di rifugiati iracheni arrivati nell’ultimo decennio. Questi, appartenenti a una borghesia medio-alta e con una buona educazione, arrivarono in Giordania con i propri capitali e si stabilirono nelle città, generando investimenti e ricchezza diffusa. Confinare i rifugiati iracheni nei campi sarebbe stato controproducente e loro stessi non dimostrarono di volersi rassegnare alla chiusura nei campi. La soluzione del cosiddetto non-encampement, d’altro canto, non fu d’aiuto con l’aumentare del flusso di rifugiati in territorio giordano: i numerosi iracheni,

non essendo confinati in una determinata area ma mescolati alla popolazione locale, non erano facilmente contabili, e non richiamavano la stessa attenzione delle organizzazioni internazionali, rispetto ad altri Stati in cui la terribile situazione dei rifugiati era chiaramente visibile all’interno dei confini dei campi. I politici libanesi, insistendo sulle politiche di non-encampement, hanno più volte presentato il problema della sicurezza: i campi, spesso, risultano in focolai di violenza e terrorismo. La Giordania, dal canto suo, perfettamente consapevole dei rischi legati alla sicurezza, cerca di limitare per quanto possibile lo svilupparsi di movimenti radicali all’interno dei campi. Oltre ad una ferrata politica di ingresso, con numerose regole e controlli, il governo giordano confina in un campo speciale, controllato militarmente, circa 2.000 siriani che potrebbero rappresentare una possibile minaccia alla sicurezza del paese. È vero, quindi, che le decisioni politiche, ancora di più rispetto all’Europa, hanno come ragione primaria la garanzia di sicurezza dei propri cittadini, ma la cosa più importante è che è necessaria la stabilità di un governo per poter reagire a questa crisi senza precedenti. Ce la faremo?

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MEDIO ORIENTE IL VOLTO DEL DOLORE

Una riflessione sulle immagini del conflitto siriano

Di Clarissa Rossetti Si chiama Omran Daqneesh, ha 5 anni, ed in pochi giorni è diventato il simbolo della resilienza siriana. È il bambino che i soccorritori hanno estratto dalle macerie di Aleppo, dopo un raid delle forze governative. Nel video che ha fatto il giro del web, Omran resta praticamente immobile davanti ai flash e le telecamere dei media locali e occidentali. Si tocca la testa e fissa la mano macchiata di sangue, non urla, non piange: è sotto shock. Un’immagine dolceamara che ad alcuni ha ricordato Aylan Kurdi, il piccolo trovato sulla spiaggia di Bodrum mesi fa, il volto affondato nella sabbia. L’immagine ha suscitato indignazione, rabbia, tristezza e, in alcuni, anche il pensiero che in realtà quel dolore si potesse lasciare intatto, invece di condividerlo col mondo. Le statistiche suggeriscono tuttavia che la diffusione di immagini forti possa portare risultati concreti. Un esempio: secondo l’US Fund per l’Unicef, le donazioni a sostegno dell’emergenza migranti sarebbero aumentate del 636% e il traffico sulla pagina web dell’organizzazione sia triplicato nella prima settimana dalla diffusione dell’immagine di Aylan. Questi dati sono indicativi di un settore, quello umanitario, 8 • MSOI the Post

tenuto in piedi da un principio paradossale: più tragica è la storia, meglio è per la causa. Sono i dettagli e le immagini strazianti a nutrire l’attivismo sociale e a spingere il pubblico a seguire di più le notizie o a sostenere la causa in prima persona. E allora i media continuano a proporci video e foto di corpi estratti dalle macerie, cadaveri trascinati a riva, madri straziate. Un video diffuso dall’emittente britannica Channel 4 sui social media dopo la liberazione di Manbij, roccaforte siriana Daesh liberata da un’azione congiunta delle forze democratiche siriane e le truppe curde lo scorso 13 agosto, mostra le urla commosse di una donna siriana che, infine, stremata, si accascia a terra. Una scena quasi impossibile da trovare in altre versioni diffuse da altre emittenti, tagliato per ragioni pratiche ma forse anche per rispetto di quel dolore privato, da condividere offline. Secondo Claire Wardle, direttrice del Centro di Ricerca per il Giornalismo Digitale ‘Tow Center’ alla Columbia University intervistata da Al Jazeera, queste immagini avrebbero il potere di far fermare gli spettatori a riflettere sul conflitto ancora in corso e, soprattutto, sulle motivazioni dei migranti ad abbandonare il loro Paese, favorendo un clima di empatia ed accettazione. Tesi condivisa anche da

George Graham, a capo delle politiche umanitarie per Save the Children, il quale non abbandona la speranza che anche i leader mondiali siano spinti a trovare soluzioni efficaci per contrastare la crisi dei rifugiati e misure per permettere agli aiuti umanitari di arrivare alle zone di guerra più difficilmente accessibili. Lo scorso settembre però la foto di Aylan aveva spaccato i giornalisti a metà. L’agenzia stampa italiana ANSA e alcune testate come il Süddeutsche Zeitung avevano deciso di non pubblicare l’immagine in questione, argomentando la scelta con la convinzione che non fosse necessaria la foto per creare consapevolezza dei cambiamenti necessari per far fronte a un conflitto che miete vittime ogni giorno. Le reazioni dal mondo ci sono state, come la svolta nelle politiche del Regno Unito dopo l’annegamento di Aylan o il cessate il fuoco recentemente accordato dalla Russia, secondo alcuni effetto delle pressioni mediatiche in seguito al video di Omran. Però, nonostante l’indignazione pubblica e l’intervento delle organizzazioni umanitarie, queste immagini non sono ancora riuscite a spingere il dibattito internazionale a rispondere alle domande giuste.


RUSSIA E BALCANI LA RINNOVATA COLLABORAZIONE TRA PUTIN ED ERDOGAN I due leader pronti a cooperare in ottica antioccidentale

Di Ilaria Di Donato San Pietroburgo, palazzo Kostantinovskij. Il 9 agosto scorso, in una delle lussuose sale dell’antica residenza degli Zar, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan si sono incontrati e sono sembrati oltremodo distanti dall’inimicizia e dalle ritorsioni economiche che andavano avanti ormai da tempo. I toni distesi, le dichiarazioni rilasciate al margine della visita, i progetti comuni e le posizioni concertate dai due leader nel campo della difesa, della politica estera e dell’economia, non possono affatto ricordare quel clima di tensione che si respirava all’indomani dell’abbattimento del cacciabombardiere russo, avvenuto per mano dell’aviazione turca il 24 novembre dell’anno passato.

Oggi la rappacificazione nasce dalla volontà di operare comunemente in “funzione antioccidentale” per uscire dall’emarginazione tanto europea quanto americana e trovare un fronte comune nel quale convogliare la forza delle due nazioni. Non a caso, lo stesso Putin ha rimarcato come sia stato lui il primo leader mondiale ad esprimere la propria vicinanza al collega turco dopo il tentato golpe di luglio, mentre da parte dell’Unione Europea e della Casa Bianca ci sono state condanne sui modi antidemocratici messi in atto da Erdogan per punire i ribelli. Dopo 4 ore di colloquio, avvenuto a porte chiuse, Putin ed Erdogan hanno tracciato i confini della loro alleanza che si gioca, presumibilmente, sui 3 settori fondamentali dell’economia, della

politica e della difesa. Quanto al primo aspetto, il punto di incontro è stato rintracciato nel ridimensionamento delle sanzioni russe alla Turchia e nella ripresa di relazioni commerciali fra i due Paesi. Sul piano politico, non v’è dubbio che la visita di Erdogan al presidente russo rafforzi di fatto il primato di Putin come interlocutore privilegiato nelle questioni del Medioriente. Non così facile trarre conclusioni sul campo della difesa: la questione siriana resta ancora un nodo da sciogliere in quanto Erdogan considera come terroristi le milizie curde che combattono, invece, al fianco dei russi contro gli islamici. L’asse Mosca-Ankara rischia di avere una posizione dominante nelle questioni mediorientali che preoccupano l’Occidente.

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RUSSIA E BALCANI IL RISIKO DELLO ZAR

Da 0 a 100 in 10 anni: Putin e la ricostruzione dell’esercito

Di Elisa Todesco Il 9 novembre 1989 non crollò solamente il Muro, ma crollò anche una delle due potenze globali, l’Unione Sovietica. Sgretolato il mito, il sogno, l’illusione, esso portò con sé anche la potenza militare che aveva contraddistinto il blocco militare ad est: nel giro di 5 anni l’esercito di Mosca fu ridotto da 5 milioni di unità a circa 1 milione. Al ridimensionamento dell’esercito fece seguito una severa contrazione dell’abilità russa di proiezione internazionale, causata anche dall’incapacità fisica di inviare truppe laddove necessario, con conseguente ridimensionamento degli obiettivi di politica estera della Russia. Questo quadro, tutt’altro che roseo, sembra mal conciliarsi con le notizie di politica estera degli ultimi mesi: l’annessione della Crimea, l’intervento in Siria, il braccio di ferro con la Turchia e con la NATO non sembrano compatibili con un esercito ridotto all’osso, cui erano destinati finanziamenti irrisori, dotato di tecnologie ormai superate e non sempre funzionanti. Se invece oggi si può parlare di nuova dimensione geopolitica russa è perché Putin, consapevole dell’importanza 10 • MSOI the Post

della forza militare delle nuove minacce, ha deciso di aumentare il peso della Russia sullo scacchiere internazionale ripartendo proprio dall’esercito. Il percorso è stato, ed è, tuttora faticoso. Nel 2008 Mosca ingaggiò una breve campagna militare contro la Georgia. Durante la campagna si assicurò i protettorati dell’Abkhazia e Sud-Ossezia e lanciò un messaggio preciso al governo georgiano, sempre più vicino alla NATO. Oltre ai vantaggi materiali, questa campagna portò anche una chiara presa di coscienza dell’inadeguatezza degli armamenti e della preparazione del personale dell’esercito russo: dopo che, addirittura, i soldati dovettero ricorrere ai loro cellulari privati a causa del malfunzionamento delle radio in dotazione, venne avviato un vasto programma (spesa prevista fino al 2020: $700 miliardi) di ammodernamento delle tecnologie e delle tattiche militari. Dopo l’ammodernamento dell’apparato militare, fu la volta di una nuova linea di politica internazionale: ancora memore dello sfinimento cui fu condotta l’Unione Sovietica dalla corsa agli armamenti, la politica di Putin ha abbandonato, almeno per il momento, le sue velleità globali, per abbracciare

un impegno più regionale e concentrato in quella che ritiene la sua area di competenza, ossia la zona Eurasiatica. In questo quadro si collocano principalmente due mosse strategiche. La prima prevede l’annessione della Crimea. Putin non si è solamente dotato di un porto strategico, ma ha posto sotto minaccia perpetua il governo ucraino e sfidato il dominio statunitense nell’area. La seconda mossa riguarda invece l’intervento in Siria: oltre ad aver mostrato al mondo la sua rinnovata potenza, la Russia ha incrinato il monopolio americano della somministrazione della difesa e si è aperta future possibilità commerciali col mondo arabo sciita (fra gli stati Iran, Iraq, Siria e Stakeholder come Hezbollah). Nonostante non possa ancora competere con USA e NATO, la Russia di Putin fa di nuovo parte dei giochi. L’unico nemico con cui Mosca non ha ancora fatto i conti, ma che potrebbe essergli fatale, è la sua popolazione, nel caso in cui un domani non voglia più pagare di tasca propria, rinunciando a servizi pubblici, il braccio armato del Leviatano di ghiaccio.


ORIENTE DUE DECENNI DI ASEM

L’organizzazione che promuove il dialogo

Di Alessandro Fornaroli Circa un secolo fa il mondo occidentale si rese conto dell’importanza dello scenario asiatico e comprese che era essenziale iniziare un dialogo con i Paesi dell’Est. Nel corso del tempo si sono dunque affermate varie istituzioni che hanno l’obiettivo di promuovere la nascita di alleanze politiche e di partenariati economici, culturali e di sicurezza. Una delle organizzazioni più importanti in questo senso è l’ASEM, l’Asia-Europe Meeting, un organo che nelle proprie assemblee unisce la Commissione europea, i 28 membri dell’Unione Europea (UE), i 10 membri dell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN), il loro Segretario Generale e le 3 economie più importanti del Medio e dell’Estremo Oriente, Giappone, Cina e Repubblica di Corea. Negli anni, a questo gruppo si sono aggiunti anche India, Mongolia, Pakistan, Australia, Russia, Nuova Zelanda, Svizzera, Norvegia, Bangladesh e Kazakistan. Tale consesso si è riunito per la prima volta nel 1996, esattamente 20 anni fa. Il vertice, di natura biennale, viene tenuto alternativamente in Asia e in Europa, proprio per sottolineare l’intento di cooperazione.

Il penultimo incontro (2014), di natura finanziaria ed economica, ha avuto Milano come città ospite. Quest’anno invece è stata Ulaanbaatar, la capitale della Mongolia, ad aggiudicarsi il privilegio. Il tema è quello della “Partnership for the Future through Connectivity”. Dall’oggetto dell’incontro si evince chiaramente lo scopo sotteso: migliorare i rapporti, reciprocamente vantaggiosi, tra le due parti del globo. Gli obiettivi dell’ASEM sono dunque trasversali: da un lato tale organismo si pone come strumento per favorire scambi relazionali (dal punto di vista accademico e scientifico), economici e commerciali; dall’altro cerca di individuare delle aree fisiche per cui i vari Stati debbano collaborare ponendosi impegni comuni: una migliore qualità della vita, una connettività generale di trasporti, una maggiore stabilità internazionale, la lotta al terrorismo, il cambiamento climatico e la migrazione. Il presidente della Mongolia Tsakhiagiin Elbegdorj, considerati gli attacchi terroristici subiti quest’anno da molti dei Paesi partecipanti al Summit, ha deciso di aprire un focus proprio sul combattimento contro le organizzazioni terroristiche, chiedendo un’azione comune nel condannare i responsabili

di tali attacchi, secondo quanto afferma anche la Carta delle Nazioni Unite. Al vertice hanno rappresentato l’UE il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri Federica Mogherini. Alla cerimonia di apertura, tenutasi il 15 luglio, i vari leader hanno espresso congiuntamente solidarietà per la strage di Nizza, verificatasi poco prima. Si è anche discusso ampiamente della situazione turca, divenuta particolarmente instabile in seguito al tentato colpo di stato militare. Il contesto nazionale in cui si sono svolti i dibattiti era ed è tutt’ora caratterizzato da proteste sociali. Le manifestazioni sarebbero rivolte contro la stipulazione di un contratto da 4,75 miliardi tra il governo mongolo e la multinazionale anglo-australiana Rio Tinto, atto relativo all’estrazione mineraria nella zona di Oyu Tolgoi. Tale attività consente infatti al Paese di mantenere un forte contatto con Pechino per quanto riguarda l’esportazione di materie prime come oro, rame, carbone, molibdeno, fluorite, uranio, stagno e tungsteno. MSOI the Post • 11


ORIENTE CAMBOGIA, SI AGGRAVANO I CONTRASTI TRA OPPOSIZIONE E GOVERNO Una situazione di stallo che soltanto il dialogo può risolvere

Di Carolina Quaranta Da diverse settimane in Cambogia si respira un clima di tensione politica che non accenna a placarsi. Nel giugno scorso il Cambodian People’s Party (CPP), il cui leader Hun Sen è al governo da ormai 30 anni, ha arrestato e condannato a 7 anni di prigionia alcuni attivisti del partito di opposizione. L’accusa è quella di aver partecipato, nel gennaio di due anni fa, alle manifestazioni di protesta contro il governo, degenerate in scontri violenti con polizia e militari. All’epoca il partito di opposizione, il Cambodia National Rescue Party (CNRP) o Partito della salvezza nazionale, aveva denunciato alcuni brogli elettorali; da allora, esso ha raccolto un gran numero di consensi tra la popolazione, le sigle sindacali, le associazioni di categoria e di cittadini, che oggi scioperano e manifestano contro il governo di Hun Sen, chiedendone le dimissioni. In parallelo alla sentenza, il governo ha rivolto un’accusa di favoreggiamento della prostituzione al leader dell’opposizione Kem Sokha, il quale si è sempre rifiutato di apparire in tribunale. Tale 12 • MSOI the Post

accusa ha però indignato non pochi attivisti, 5 dei quali si sono mossi in sua difesa e sono stati in seguito arrestati per volere dell’esecutivo, che li accusa di aver agito in complicità con Sokha stesso. Divenuti tristemente celebri come i “Kem Sokha Five”, il loro caso ha provocato l’intervento dello stesso Parlamento Europeo, che ha rivolto un appello alla capitale Phnom Penh affinché gli attivisti vengano liberati e la “cultura del dialogo” sia restaurata nel Paese. Ignorare tale condizione, è stato aggiunto, potrebbe significare per la Cambogia la perdita degli aiuti economici annualmente stanziati dall’Unione. La richiesta è stata però rifiutata da Hun Sen, il quale ha commentato: “La Cina non ci ha mai minacciato così. La Cambogia ha la propria indipendenza politica. Pechino non ci ha mai detto di fare questo o quello”. La situazione generale si è ulteriormente aggravata lo scorso 10 luglio, quando nel bar di una pompa di benzina della capitale un colpo di pistola ha ucciso Kem Ley, attivista e scienziato politico, leader e fondatore del Partito Radicale Democratico. Poche ore dopo l’omicidio, la polizia ha arrestato

Oeut Ang, un ex militare, il quale ha confessato di aver commesso il delitto a causa di un debito non saldato di $ 3.000. Le forze dell’ordine non credono a questa versione dei fatti e continuano a lavorare sul caso, incoraggiate dalle Nazioni Unite e dal Dipartimento di Stato statunitense. L’opinione pubblica è invece ormai convinta che dietro l’omicidio si celi un motivo politico: Ley era infatti noto per le sue posizioni antigovernative e aveva di recente commentato con toni aspri una fuga di notizie relative al reddito della famiglia presidenziale. Egli era molto famoso tra i cambogiani e la sua tomba è già diventata meta di pellegrinaggio per gli oppositori del governo. Il presidente del partito di opposizione Sam Rainsy ha definito il delitto come “un atto di terrorismo di Stato”, scrivendo su Facebook: “Credo che ci sia il governo dietro i criminali che hanno sparato a Kem Ley”. Queste parole gli sono costate una denuncia da parte del presidente Hun Sen: dopo gli arresti di giugno e le accuse a Kem Soka, questo è, in poche settimane, il terzo attacco contro i vertici dell’opposizione condotto per vie legali e basato su motivi politici.


AFRICA PARADOSSO AFRICANO

Algeria, Marocco e Tunisia tra i primi Paesi al mondo per importazione di armi

Di Jessica Prieto Il Ministero Federale tedesco per lo Sviluppo e la Cooperazione ogni anno finanzia l’elaborazione del Global Militarization Index (GMI). Per calcolarlo si utilizzano tre categorie applicate ad ogni Paese: il rapporto tra spesa per armamenti e PIL, la relazione tra l’effettivo personale militare e il totale della popolazione e, come ultimo elemento, il rapporto tra l’ammontare di armi pesanti e il totale della popolazione. Si tratta di un contributo importante per esaminare l’importanza delle armi rispetto all’economia e alle condizioni sociali dei diversi Paesi. Come evidenziano gli analisti, un’eccessiva spesa per gli armamenti può essere causa di un deficit nello sviluppo industriale, ma una minima spesa militare potrebbe essere sintomo dell’incapacità di prevenire violenze e conflitti, con risvolti negativi sui livelli di sicurezza. Proprio per questi motivi, il GMI cerca di elaborare una più ampia analisi sullo sviluppo degli Stati e delle regioni del mondo.

Tra i dati utilizzati vi sono quelli pubblicati dal Sipri (Stockholm International Peace Institute), un istituto internazionale indipendente impegnato in ricerche su conflitti, armamenti, loro controlli ed eventuali disarmi. Secondo questi dati, tra i primi 30 Paesi per spese militari compaiono alcuni Stati nordafricani, come Marocco, Algeria e Tunisia. Tale primato africano è dovuto principalmente a fattori interni. Attualmente in Africa sono in corso più di 13 conflitti e il loro finanziamento negli ultimi anni è più che raddoppiato, producendo risvolti devastanti per lo sviluppo economico. Il denaro investito per l’acquisto di armi, infatti, rappresenta una risorsa sottratta all’economia civile e trasferita negli apparati militari, dove, come denuncia l’organizzazione Trasparency Agency, la corruzione è molto diffusa. Spesso sono gli stessi apparati di polizia e le forze armate nazionali ad alimentare il traffico clandestino di armi, aggirando gli embarghi posti dalle Nazioni Unite per vietare la vendita di armamenti da Stato a Stato. Ciò avviene, per esempio, in Burki-

na Faso e in Nigeria. Tuttavia, non si dimentichi che per combattere le guerre è fondamentale anche il ruolo dei principali Paesi esportatori. Sono 10 gli Stati che detengono la quasi totalità dell’arsenale militare mondiale: USA, Regno Unito, Israele, Ucraina, Francia, Italia, Russia, Cina, Canada e Germania. Recentemente Jamie Doward, giornalista del Guardian, ha criticato il Regno Unito perché vende armi a Paesi che il suo stesso Ministero degli Esteri ha inserito nella lista degli Stati con una discutibile reputazione circa il rispetto dei diritti umani, come il Burundi. Nonostante lo scenario desolante, i Paesi dell’Ecowas (Economic Community of West African States) hanno elaborato importanti progetti, come la Convenzione sulle Salw (Small Arms and Light Weapons) e l’ATT (Arms Trade Treaty). Queste iniziative sono volte a controllare a livello internazionale un mercato finora governato da singole normative nazionali, nella speranza di ridurre la violenza ormai radicata nel continente.

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AFRICA GHANA: LA DISCARICA DELLA NOSTRA TECNOLOGIA I rifiuti elettrici ed elettronici importati ad Agbogbloshie

Di Chiara Zaghi Ogni anno vengono prodotti nel mondo 45 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici ed elettrici. Solo il 15% di questi rifiuti viene riciclato in modo efficiente e sicuro, mentre la restante parte viene importata in Africa occidentale, in particolare ad Accra, capitale del Ghana, dove si trova una discarica a cielo aperto chiamata Agbogbloshie. Televisori, telefoni, frigoriferi e computer sono passati al vaglio per decidere se recuperarli, se ricavarne parti da assemblare oppure se scartarli. La discarica di Agbogbloshie è, inoltre, sfruttata dalla popolazione locale, che estrae alluminio e rame dai rifiuti elettronici per poi rivenderlo, ovviamente senza le necessarie misure di sicurezza. Le università dell’ONU e del Ghana hanno denunciato le conseguenze: molte forme di cancro sono direttamente correlate all’esposizione dell’uomo a queste sostanze. Il problema sta diventando transgenerazionale: sono sempre più frequenti in quest’area le nascite di bambini con problematiche legate al sistema nervoso e allo sviluppo celebrale. Nonostante

la

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Convenzione

di Basilea, ratificata nel 1989 da tutti i membri dell’Unione Europea e da altri 182 Stati, vieti il trasferimento tra Paesi di rifiuti tossici, tra cui quelli degli apparecchi elettronici, ogni mese arrivano nel porto di Tema, ad Accra, più di 600 container. Essi provengono soprattutto dai Paesi occidentali, molti dei quali raggirano la legge vendendo gli e-waste, rifiuti elettronici, come beni di seconda mano. Il continente africano importa questi materiali perché non esiste un’industria elettrica o elettronica locale. I ghanesi smantellano gli e-waste per necessità. Wolfgang Mac-Din, fondatore di Help The African Child, un’associazione che si occupa di tutelare i diritti dei bambini che vivono a Agbogbloshie, spiega: “Questi bambini e ragazzi vivono in condizioni di estrema povertà. Arrivano dal nord del Ghana senza alcun appoggio e per non morire di fame sopravvivono così”. D’altra parte, computer e televisioni di seconda mano hanno permesso di fornire alla popolazione, alle scuole e ai centri culturali l’accesso a competenze tecniche e a una maggiore istruzione, attraverso metodi già consolidati da tempo

negli altri continenti. Esistono ormai tecnici altamente preparati in grado di costruire tecnologia assemblando pezzi di diversi rifiuti. Parte della popolazione considera una risorsa il fenomeno con cui da anni convive. Tutti i ghanesi sono consapevoli del fatto che la situazione sia da regolarizzare, al fine di conciliare il loro bisogno di sentirsi parte del resto del mondo (avendo accesso alla tecnologia) e il loro diritto di preservare la propria salute e il proprio territorio. Il problema esiste da oltre 50 anni e nel 2007 le Nazioni Unite hanno ufficialmente denunciato la situazione. Solo nel giugno del 2015 il governo ghanese ha annunciato di voler prendere provvedimenti, ma le prime operazioni di demolizione hanno colpito le case degli abitanti di Agbogbloshie, senza di fatto portare miglioramenti nella zona dove da decenni sono depositati i rifiuti tecnologici importati. Attualmente sono le associazioni presenti nell’area che si stanno coordinando per raggiungere l’obiettivo comune di tutelare gli abitanti e l’ambiente e rimuovere i rifiuti riciclando il possibile.


SUD AMERICA ABORTO E VIRUS ZIKA: TRA ILLEGALITA’ E TABÙ

Di Giulia Botta In molti Stati del Sud America la situazione è allarmante: il virus Zika continua a colpire e ad avanzare. Sono 24 i Paesi dell’area colpiti dal flagello della zanzara Aedes, diffusa in particolare negli ambienti equatoriali e principale veicolo del virus. La febbre Zika spaventa sempre più, soprattutto se sono le donne incinte a essere colpite. Le conseguenze non solo per la madre, ma anche per il neonato sono infatti molto gravi: il feto può sviluppare malformazioni congenite, microcefalia, sindrome di Guillain-Barré e danni alla vista. Proprio per via delle complicazioni portate dal virus e dei rischi della gravidanza, da quando è stato lanciato l’allarme dall’Oms si è registrato un considerevole aumento del numero di aborti. In molti casi si tratta, tuttavia, di aborti clandestini, dal momento che nella maggior parte dei Paesi dell’America Latina (fanno eccezione Cuba, Uruguay e Guyana), dove la tradizione cattolica è fortemente radicata, questa pratica è vietata e considerata illegale. Secondo i dati provenienti da Women on Web, un’organizzazione no profit che aiuta ad

accedere ai servizi per l’aborto nei Paesi in cui l’interruzione di gravidanza non è legale o è troppo costosa, tra il novembre 2015 e il marzo 2016 le richieste di aborto sono raddoppiate in Brasile e in Ecuador e aumentate di oltre un terzo in altri Paesi della regione. In Brasile l’aborto è considerato reato punibile con tre anni di prigione ed è permesso solo in caso di stupro, di morte cerebrale del feto o di situazione di pericolo per la salute della madre. Tuttavia, il ricorso all’aborto clandestino è pratica assai diffusa, in particolare nelle aree più povere del Paese, in cui l’educazione sessuale e i contraccettivi sono rari e le donne sono costrette a ricorrere a estremi rimedi domestici, spesso rischiando la vita. Lo stesso accade in molti altri Stati, come la Colombia, dove gli aborti illegali, ogni anno, sono 450mila, e l’interruzione di gravidanza (igv) in condizioni igieniche precarie è una delle principali cause di mortalità materna secondo Human Rights Watch. La soluzione proposta dai governi dei Paesi in cui vige la legislazione anti-aborto è quella di consigliare alle donne di rinviare eventuali gravidanze. Preoccupante è infatti il numero sempre crescente di neonati af-

fetti da malformazioni e microcefalia: solo in Brasile si contano circa 5mila casi negli ultimi mesi. Per l’Oms e per le Nazioni Unite tali misure proposte dai governi sono insufficienti: al contrario, per contrastare il virus, bisogna favorire la contraccezione e l’aborto terapeutico. Zeid Raad al-Hussein, alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha lanciato un appello ai governi sudamericani, al fine di garantire il diritto universale alla salute, invitando i Paesi coinvolti ad autorizzare la contraccezione e l’aborto e a favorire la diffusione di maggiore educazione e consulenza sessuale, in particolare nelle aree più povere. Inoltre, si muovono sulla stessa onda alcuni movimenti, in particolare in Brasile, che propongono misure per ammorbidire le ferree leggi anti-aborto e creare un’eccezione legale per la microcefalia, nonostante i deputati evangelici stiano cercando di inasprire le pene per gli aborti clandestini. L’aborto, dunque, costituisce ancora un tabù in molte aree, in cui i costumi, le tradizioni e le credenze religiose rappresentano un pilastro apparentemente inamovibile. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA LA SICCITA’ IN GUATEMALA

Da più di quattro anni, una tragedia sempre attuale

Di Daniele Pennavaria Gli effetti del fenomeno conosciuto come El Niño hanno influenzato il clima del continente americano anche nel corso dell’anno passato, anche se l’ondata più violenta risale al 2014. Le inondazioni e le forti perturbazioni verificatesi nell’area caraibica sono state assorbite col tempo anche nei Paesi in via di sviluppo, ma la zona che ha subito un’ondata di siccità a causa dell’alterata circolazione atmosferica stenta ancora a riprendersi. Il Guatemala, che ha sofferto le catastrofiche conseguenze della variazione climatica già dal 2012, si trova a fare i conti con un’agricoltura flagellata dalla siccità. Specialmente nella regione sudorientale del Paese, non a caso conosciuta come “Corridoio Secco”, le ripercussioni di El Niño sembrano non finire mai. L’area, tra le più povere del Guatemala, ha perso a causa dell’incessante aridità gli ultimi quattro raccolti. L’intera economia della regione, basata sull’agricoltura, ha subito un drastico crollo, poiché a stento è possibile mantenere le coltivazioni di sussistenza. L’analoga crisi nei Paesi limitrofi ha anche limitato le possibilità di spostamento dei 16 • MSOI the Post

lavoratori stagionali, che dalle zone povere del Guatemala si spostavano verso Messico e Honduras durante la stagione del raccolto. Le carestie e i problemi sociali collegati alla siccità sono stati gestiti con poca efficacia da un governo regionale e nazionale in crisi. Lo scorso gennaio, dopo una serie di scandali che avevano coinvolto il precedente governo e che avevano rivelato le drammatiche condizioni delle casse dello Stato, è salito al potere, con l’aiuto di un partito di militari, Jimmy Morales, comico di professione e senza esperienza nella gestione dell’amministrazione pubblica. Finora non ha reso pubblici i piani del governo, quando invece sarebbe necessario affrontare con riforme radicali il degrado delle strutture istituzionali, considerato da molti come l’aspetto peggiore della crisi del Paese. Molte organizzazioni internazionali, tra cui il Gruppo Intergovernativo sul Cambio Climatico e Oxfam, avevano avvertito, con anticipo rispetto alle manifestazioni più violente del fenomeno, che El Niño avrebbe avuto severe ripercussioni sulle coltivazioni della regione, anche a lungo termine. Le precauzioni e la reazione non

sono evidentemente state all’altezza della situazione di crisi e ora le decine di organizzazioni di sviluppo che sono impegnate nell’area hanno da svolgere un lavoro decisamente arduo. “La situazione è critica per l’accumulo di impatti sull’economia familiare: non è la stessa cosa che ti si inondi la casa un anno o che per quattro anni consecutivi tu stia perdendo tutto” afferma Iván Aguilar, responsabile del Programma Umanitario di Oxfam Guatemala. A febbraio di quest’anno l’ONU ha lanciato un appello per fronteggiare la siccità, raccogliendo con una petizione alla comunità internazionale 55 milioni di dollari. Il Programma Mondiale Alimentare (PMA) ha raccolto invece aiuti per evitare che fosse dichiarata la situazione di carestia. Sono stati donati oltre 17 milioni di dollari in generi alimentari da vari Paesi, ma rimane il problema della gestione sul territorio. Spesso, per esempio, la distribuzione di questi aiuti non viene subordinata al controllo degli effettivi lavori che dovrebbero essere svolti sul territorio, senza contare la confusione creata dalla sovrapposizione di decine di ONG nella stessa regione.


ECONOMIA LA LUNGA NOTTE DI KIEV Come è cambiato il rapporto tra gli amici-nemici di sempre dal 1991

Di Michelangelo Inverso Venticinque anni fa, il 24 agosto 1991, l’Ucraina guadagnava l’indipendenza formale da Mosca. All’epoca, l’URSS conosceva i suoi ultimi, convulsi, giorni, destinati a concludersi con il fallimento di Gorbaciov e con lo smembramento del Paese. Da sempre considerata dalla Nazione russa come “inseparabile sorella” (nelle parole dello stesso Vladimir Putin), l’Ucraina non ha mai avuto in effetti una reale indipendenza dalla Russia, prima del 1991. Kiev, sostanzialmente, non possedeva una storia autonoma, né una lingua diversa rispetto al russo, né un’economia autosufficiente e neppure personaggi di rilievo storico che non fossero a loro volta legati ai suoi vicini. Tuttavia, la costruzione della Nazione ucraina non è iniziata nel 1991. Almeno dai tempi degli zar esistevano movimenti patriottici nell’Ucraina occidentale, quella che, anche per ragioni geografiche, si sentiva più parte dell’Europa, piuttosto che della Terza Roma. Risultato di questo sentimento nazionalista fu senza dubbio il diffuso sentimento antirusso, prova ne è che durante l’occupazione nazista si ebbe il periodo di massimo successo del nazionalismo ucraino, incarnato nella

persona di Stepan Bandera. Fervente nazionalista e antisovietico, collaborò attivamente con i nazisti attraverso la formazione di un esercito insurrezionale contro l’Armata Rossa e la deportazione di migliaia di ebrei nei campi di concentramento e sterminio. Contro il suo governo collaborazionista si mossero i minatori del Donbass, le cui imprese, a volte eroiche, sono ben descritte da Vassily Grossman nei suoi reportage di guerra. Curiosamente, fu proprio il Donbass ad essere la regione maggiormente colpita negli anni ‘30 dai misfatti staliniani, in particolare dal cosiddetto Olocausto ucraino, l’holodomor, evento che oggi più che mai viene portato dal Governo ucraino come argomento contro la Russia. Approfittando della paralisi terminale dell’URSS, il 24 agosto 1991 il Parlamento ucraino adottò l’Atto di Indipendenza dell’Ucraina. Gli anni che seguirono furono connotati fin da subito da gravissime crisi energetiche e dal controverso rapporto con il potente vicino, legato specialmente agli aspetti geostrategici: Kiev era ora libera di determinare le proprie volontà, anche in contrasto col Cremlino e quindi di scegliere tra Russia o UE.

Ed è proprio su queste basi che è scoppiata la guerra civile ucraina. Il confronto politico tra filorussi e filoeuropei esplose violentemente allorché il presidente Janukovich si oppose all’adesione del suo Paese alla UE, optando per entrare nell’Unione Economica Euroasiatica. Dopo il golpe di Euromaidan, la nuova dirigenza filoeuropea di Kiev (che ha assunto come eroe nazionale Stepan Bandera) ha ingaggiato una guerra contro le regioni russofone che non riconoscevano il governo golpista, tra cui la Crimea. Ovviamente, questa era l’occasione che Mosca aspettava da tempo per risolvere il gap strategico che gravava da 20 anni e, grazie al referendum in Crimea, ha potuto riprendersi una pedina fondamentale. Oggi la situazione appare ancora incerta. Se da un lato pare che il nazionalismo ucraino abbia infine trionfato, dall’altra ha pagato un prezzo in termini territoriali, economici e umani enormi e senza tuttavia essere stata accettata dall’Europa, mentre il Cremlino sorride e attende. 25 anni di indipendenza, 23 di integrità. Quale futuro per i nuovi banderisti? Solo il tempo lo dirà. Come si suole dire, “ha da passà ’a nuttata”.

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ECONOMIA IL PICCOLO PRINCIPE SAUDITA

Cifre a 12 zeri per l’ambizioso piano “Vision 2030”

Di Efrem Moiso Il problema della salvaguardia dell’ambiente si sta diffondendo e radicando in tutto il mondo. La ricerca di fonti di energia pulita e il miglioramento della gestione degli sprechi ad ogni livello della catena produttiva e di consumo sono tra le priorità assolute per ogni ente e governo. Allo stesso tempo, la realizzazione e diffusione di veicoli ad energia elettrica rappresentano una frontiera che si sta raggiungendo velocemente. Assisteremo presto alla fine dell’era del petrolio? Forse no, ma c’è un principe trentenne che si è posto il problema. Mohammed Bin Salman Al Sa’ud è il Vice Principe ereditario, Secondo Vice-Primo Ministro, Ministro della Difesa, nonché Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e di Sviluppo di un Paese che vive di economia petrolifera: l’Arabia Saudita. Con una produzione media di 10.3 milioni di barili al giorno (un barile corrisponde a circa 159 litri) e costi di produzione bassissimi, l’Arabia è il più grande produttore di petrolio al mondo, ma non potrà vivere per sempre di esportazione petrolifera. Fattosi carico della situazione, nella sessione del 18 • MSOI the Post

Consiglio dei Ministri del 25 aprile, il principe Mohammed ha proposto Vision 2030, il più importante pacchetto di riforme della storia del Paese. Il piano strategico si concentra sull’economia e prevede alcuni passaggi grazie ai quali, entro il 2030, l’Arabia diverrebbe indipendente dalla sua principale materia prima, che rappresenta il 90% delle entrate statali. Oltre ai tagli alle spese militari, statali e sussidiarie e all’aumento delle tasse, tra gli obiettivi figurano l’aumento dei flussi turistici e di pellegrinaggio e l’incentivazione allo sviluppo delle piccole e medie imprese. Ciò che ha riscosso particolare attenzione tra i media mondiali è la volontà di diversificare il più possibile le attività, puntando anche sulle industrie energetica, chimica, navale, militare e finanziaria, le quali saranno controllate dalla Saudi Arabia Oil Co., meglio nota con il nome di Aramco. Fondata come California Arabian Standard Oil Co. nel 1933 dalla Chevron, venne rinominata nel 1944 e, nel 1980, quando varie compagnie petrolifere detenevano una partecipazione, l’Arabia comprò il restante 40% che non possedeva con un investimento da 1.5 miliardi di dollari, statalizzando, così, la società. Oggi, il valore della società è stimato

attorno ai duemila miliardi di dollari, più o meno il valore che avrebbero Apple, Alphabet, Microsoft, Exxon Mobil e Amazon - le prime cinque aziende quotate per capitalizzazione - messe insieme, e il Principe ha intenzione di farne quotare in Borsa il 5%, circa 100 miliardi di dollari, per attutire i deficit statali che nell’ultimo anno hanno dilaniato le riserve di liquidità. La stessa Aramco, durante la trasformazione in holding, entrerebbe a far parte, assieme ad altri asset nazionali e non, del PIF, il Public Investment Fund saudita, che già esiste per un valore di 160 miliardi, ma che potrebbe arrivare a sfiorare i tremila miliardi di dollari semi-liquidi e rappresentare un’altra stabile fonte di introiti perlopiù slegata dall’andamento dei prezzi del petrolio. Un piccolo aiuto potrebbe giungere anche dalla Brexit, che potrebbe dare la possibilità all’Arabia di cogliere l’occasione della migrazione delle banche, qualora si verificasse, per attrarle a sé diventando un nuovo polo finanziario. Mohammed sembra avere le idee chiare e, quando si hanno le risorse (che di certo non mancano), tutto può essere realizzato.


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