Msoi the post Numero 8

Page 1

MSOI thePost

25/12 - 8/1

www.msoitorino.org | twitter: @MSOIthePost | Fb: Msoi Thepost


2

MSOI Torino

M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario MSOI Torino

MSOI thePost

MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di MSOI Torino, desidera proporsi come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulterà riconoscibile nel mezzo di informazione che ne sarà l’espressione: MSOI thePost non sarà, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost

REDAZIONE: Direttore Jacopo Folco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa e Davide Tedesco Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Timothy Avondo, Daniele Baldo, Giulia Bazzano, Giada Barbieri, Lorenzo Bardia, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Stefano Bozzalla, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Alessio Destefanis, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Simona Graceffa, Luca Imperatore, Andrea Incao, Michelangelo Inverso, Daniela Lasagni, Giulia Mogioni, Silvia Peirolo, Daniele Pennavaria, Silvia Perino Vaiga, Emanuel Pietrobon, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Michele Rosso, Silviu Rotaru, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Martina Terraglia, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Francesco Turturro, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Le nostre copertine sono realizzate dall’artista Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA

SPAGNA: ADDIO AL BIPARTITISMO Come leggere questi risultati? Che futuro per l’UE? na, ma con il problema che non vi sarebbero stati degli italiani a gestirla.

Di Matteo Candelari Le elezioni svoltesi lo scorso 20 dicembre per eleggere il nuovo Parlamento in Spagna hanno segnato un punto di rottura e discontinuità con il passato. Per la prima volta dalla transizione democratica post-franchista, a lottare per il governo non ci sono più soltanto socialisti e popolari, i due partiti che hanno segnato la storia della Spagna negli ultimi quarant’anni. Due nuovi contendenti entrano di prepotenza sulla scena politica nazionale: Podemos e Ciudadanos. La composizione del Parlamento che comportano i risultati delle urne sancisce l’impossibilità per un unico partito di governare in solitudine e anzi obbliga alla formazione di una coalizione di governo tra più partiti per poter disporre della maggioranza assoluta, che al Congresso, la camera che vota la fiducia al Primo Ministro, corrisponde a 176 seggi su 350. Un editoriale de El Pais, uno dei principali quotidiani spagnoli, esordiva la mattina dopo le elezioni con il titolo “Benvenuti in Italia”, tracciando un parallelo tra la politica italiana e l’inedito scenario post-elettorale spagnolo. Persino Felipe Gonzalez, ex premier socialista, aveva predetto, nelle settimane precedenti al voto, che si sarebbe andati verso una situazione anomala, molto simile a quelle che hanno spesso contraddistinto la politica italia-

Dopo una campagna elettorale estenuante, in cui i quattro duellanti che si contendevano la Moncloa (la sede del Presidente) non si sono risparmiati affondi feroci, la Spagna si ritrova frammentata.

I due “vecchi” partiti ne escono notevolmente ridimensionati, anche se, pur perdendo milioni di consensi, riescono comunque a limitare i danni e a rimanere i due partiti più votati. I socialisti si ritrovano a dover fare i conti con il peggior risultato della loro storia, mentre i popolari perdono oltre 3 milioni di voti dal 2011, quando conquistarono la maggioranza assoluta con il 44% dei consensi. Ad ogni modo, il Partito Popolare si è classificato al primo posto della contesa elettorale con il 28,7% e 123 seggi. Alle sue spalle si è piazzato il Partito Socialista Operaio Spagnolo, che con il 22% dei consensi conquista 90 seggi. Poco dietro Podemos con il 20,6% e 69 seggi, mentre in quarta posizione Ciudadanos con il 13,9% e 40 seggi. Chiudono la composizione del Parlamento spagnolo partiti e liste minori. Ma chi sono Podemos e Ciudadanos? Podemos è un partito fondato nel 2014 sulla scia delle prote-

ste degli Indignados. Ha fatto il suo debutto sulla scena politica alle europee dello scorso anno ottenendo un 8%. E’ schierato apertamente contro le politiche di austerità ed è alleato di Tsipras al Parlamento Europeo. Ciudadanos è un partito fondato già nel 2005, ma inizialmente radicato nella sola Catalogna. In questi ultimi anni si è diffuso nel resto del Paese grazie all’abilità del suo leader, Albert Rivera. Al Parlamento Europeo gli eurodeputati di Ciudadanos siedono nel gruppo dei liberali. La Spagna rappresenta l’ennesimo esempio di un Paese in cui la fiducia nei partiti tradizionali è ai minimi storici, mentre cresce il consenso a nuovi partiti “anti-casta” che possono costituire una seria alternativa allo status quo. Il caso spagnolo è dimostrazione dell’insofferenza verso le politiche adottate dalla “vecchia” classe dirigente e contemporaneamente della richiesta di cambiamento da parte di una grossa fetta della popolazione. La scelta di dare fiducia a partiti (di destra o di sinistra) che si contrappongono all’establishment è un campanello d’allarme per l’attuale classe dirigente dell’Unione Europea e casi simili non possono essere più ignorati o fatti passare per isolati.

3


4

IL WHATEVER IT TAKES DI JUNCKER La risposta della Commissione alla crisi dei migranti.

Di Andrea Mitti Ruà Quando nel 2012 Draghi riassunse in tre parole quello che sarebbe stato il suo programma per risollevare un continente stremato dalla crisi finanziaria, fu chiaro a tutti quale fosse il fine ultimo del suo agire: salvare, insieme alle economie dei Paesi membri, la stessa Unione Europea. Allo stesso modo Juncker, oggi alle prese con una crisi migratoria che ricorda per proporzioni quella della seconda guerra mondiale, ha deciso di fare tutto il possibile per tutelare l’Europa. In questo senso si muove la proposta che la Commissione ha presentato al Parlamento Europeo: creare una guardia di frontiera europea dipendente dall’Unione e in grado, quindi, di intervenire in qualsiasi Stato membro anche contro la volontà di esso. “La crisi ha messo in evidenza carenze e lacune dei meccanismi finora utilizzati per accertare il rispetto delle norme UE. È giunto quindi il momento di passare a un sistema di gestione delle frontiere realmente integrato” ha dichiarato il vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans. La nuova agenzia, che raggiungerà i 1.000 effettivi entro il 2020, potrà disporre di un personale doppio rispetto a Frontex, oltre che di un’ulteriore equipe di 1.500 esperti, dispiegabili ovunque necessario in tre

giorni. I fondi previsti a partire dal 2016 ammontano a 322 milioni di euro: con essi, l’organo potrà acquistare i propri equipaggiamenti, utilizzando in parallelo gli strumenti forniti dagli Stati membri. Verrà inoltre creato un apposito centro di monitoraggio, che avrà il compito di condurre “analisi di rischio”, quali valutazioni su crimini transfrontalieri e sul pericolo di terrorismo. Importante sarà anche il ruolo riservato i all’ufficio ritorn , il quale dovrà gestire squadre d’intervento composte da accompagnatori, addetti al monitoraggio e specialisti che lavoreranno per rimpatriare chi entrasse illegalmente all’interno dello spazio Schengen.

Affinché l’agenzia riesca a vigilare sui confini esterni dell’Unione in maniera costante, verranno dispiegati ufficiali di collegamento sia nei Paesi terzi confinanti sia negli Stati membri i cui confini sono considerati maggiormente a rischio. Nel caso in cui si osservasse un’eccessiva vulnerabilità di essi, l’organismo potrà invitare lo Stato in questione a provvedere entro un determinato limite di tempo, allo scadere del quale sarà l’UE ad agire direttamente. Una volta che la Direzione dell’organo avrà stabilito la modalità di azione, o se dovesse verificarsi una pressione migratoria tale da far risultare inef-

ficace il controllo alle frontiere esterne, la Commissione potrà chiedere che siano dispiegati gli operativi della guardia di frontiera. Affinché ciò avvenga, i Paesi membri dell’area Schengen dovranno votare favorevolmente con maggioranza qualificata, e se anche lo Stato in esame fosse contrario ad un intervento sul proprio territorio, esso non potrà opporsi alla decisione, né bloccare l’atto esecutivo della Commissione. Francia e Germania sono stati tra i maggiori sostenitori della proposta, la quale, invece, non ha trovato seguito in Polonia ed Ungheria. “In uno spazio di libera circolazione, senza frontiere interne ha specificato Timmermans - la gestione delle frontiere esterne dell’Europa deve essere una responsabilità condivisa.” Nonostante permangano differenze profonde, la Commissione spera che questo possa essere un primo passo verso una gestione comune delle crisi. Future ed attuali.


USA

UNITED STATES OF FACEBOOK NSA: controlli ai profili social degli immigrati

di Alessandro Dalpasso

N

on è certo una novità il fatto che i social network abbiano rivoluzionato per sempre le nostre vite. È invece una notizia recente quella che vorrebbe il dipartimento della Homeland Security in testa ad una battaglia tesa ad azzerare ogni tipo di privacy “social” dei futuri richiedenti asilo. Secondo quanto trapelato, l’Agenzia per la Sicurezza Interna, all’indomani della strage di San Bernardino, è ormai convinta che il sistema di rilascio visti da parte del governo sia superato. Di conseguenza, per riuscire a tenerlo al passo con i tempi e a renderlo più efficace, la soluzione prospettata sarebbe quella di passare al vaglio il profilo social dei richiedenti, al fine di trovare facilmente indizi di un’eventuale simpatia, se non di un vero e proprio legame, con gruppi terroristici che minano la sicurezza interna americana.

Questa idea di riforma, che secondo il Wall Street Journal ha radici più profonde, avrebbe imboccato la via della definitiva approvazione solo dopo la scoperta che Tashfeen Malik, una dei killer di San Bernardino e moglie di Syed Farook, era entrata negli Stati Uniti con un visto di tipo K-1 (tipologia rilasciata ai futuri sposi di cittadini americani), nonostante fino al 2014 avesse vissuto fra Pakistan ed Arabia Saudita e avesse manifestato apertamente di sostenere la jihad e di voler farne parte.

il presidente Obama è cauto e ha affermato che per il momento il governo si muoverà solo nella direzione di una modifica della suddetta tipologia di visto, anche se ha riconosciuto che sia innegabile che una procedura del genere avrebbe potuto evitare questo episodio e che in futuro potrebbe rivelarsi utile.

E se da un lato si procede sul fronte della sicurezza interna per chi viene da fuori, dall’altro si lavora anche per impedire che possa verificarsi un eventuale indottrinamento in rete degli statunitensi più giovani. Per questo si dibatte se alzare ancora l’età minima Passare al vaglio il profilo consentita per l’uso di social social dei richiedenti, al come Facebook e Whatsapp, fine di trovare facilmente ad oggi fissata a 13 anni.

indizi di un’eventuale simpatia, se non di un vero e proprio legame, con gruppi terroristici

5


6

UN ANNO IN UN’ORA

Obama nel tradizionale discorso di fine anno alla Nazione

Di Erica Ambroggio Attesa e ricca di temi scottanti la consueta conferenza stampa di fine anno tenutasi venerdì 18 dicembre nella sala stampa della Casa Bianca dal presidente Barack Obama. Rivolgendosi all’intera Nazione, il leader americano ha tracciato i punti salienti dell’ormai trascorso 2015, dando particolare rilievo alle questioni che maggiormente hanno impegnato la sua amministrazione negli ultimi mesi. Le prime dichiarazioni riguardano la lotta al terrorismo. Dinanzi a un Paese preoccupato e titubante, il Presidente ha espresso totale fiducia nelle azioni intraprese contro lo Stato Islamico, rimarcando la profonda serietà con la quale il problema è sempre stato affrontato e ricordando al popolo americano come la “libertà sia più potente della paura”. “Sconfiggeremo l’ISIS con la sistematica riduzione delle loro risorse, strappando loro il territorio, togliendo di mezzo i leader e smantellando le infrastrutture. Non avranno alcun posto sicuro”: incisive, dunque, le parole del Presidente, il quale ha descritto come vittoriosa la strategia americana nella lotta contro il terrorismo. Una tattica che avrebbe comportato per il gruppo estremista una perdita

di controllo territoriale in Iraq del 40%. Strumento essenziale per la distruzione dello Stato Islamico, ribadisce il leader, è l’invio di raid aerei che, “più duramente che mai”, stanno colpendo il cuore del Califfato Islamico e i suoi vertici di comando. A facilitare l’azione antiterroristica, sempre venerdì 18 dicembre arriva da New York la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, votata all’unanimità dai Paesi membri dell’International Syria Support Group. L’accordo ha come obiettivo primario lo “stop” della guerra civile in Siria. Da gennaio il governo di Damasco e l’opposizione dovranno avviare negoziati di pace, tuttavia risultano assenti riferimenti circa il destino di Bashar Al-Assad. Su tale questione le distanze prese dagli Stati Uniti rimangono invariate e lo stesso Obama, nel discorso di fine anno, ha dichiarato: “Assad deve lasciare affinché finisca questa carneficina”. Il Presidente non ha perso, inoltre, l’occasione di rinnovare alcune importanti promesse fatte alla Nazione fin dall’inizio del suo mandato. Ad esempio, la chiusura di Guantanamo, tassello chiave nella lotta al terrorismo e da sempre una delle grandi batta-

glie del leader americano, sarà tra le priorità di Obama durante le ultime battute del suo governo. Il Presidente ha, infatti, ribadito che “Guantanamo è costosa ed è centrale nel reclutamento di jihadisti”. Su questo punto Obama preferirebbe, tuttavia, raggiungere un’intesa con il Congresso, evitando quindi un diretto utilizzo del potere esecutivo. Immancabili i riferimenti all’accordo sul clima raggiunto a Parigi e al fondamentale contributo americano: “Sarebbe stato impossibile senza la leadership degli Stati Uniti”, ha dichiarato il Presidente. In risposta ad un GOP intenzionato ad osteggiare l’applicazione dell’intesa raggiunta, ha poi continuato: “Il Partito Repubblicano è l’unico nel mondo avanzato che nega il cambiamento climatico.” Obama annovera dunque il 2015 come un anno pieno di successi, ricordando anche le attività diplomatiche intraprese con Iran e Cuba. Tra i migliori risultati raggiunti dalla sua amministrazione cita la riduzione della disoccupazione al 5% e la decisione della Corte Suprema di legalizzare i matrimoni gay in tutto il Paese. “Eppure - ha detto - ho in programma di fare molto di più nel 2016. Non sono mai stato più ottimista di ora sull’anno futuro”.


MEDIO ORIENTE AIDEZ LA SYRIE! La Siria una nuova Spagna?

Di Martina Scarnato

affiliate ad Al-Qaeda.

“La Storia”, diceva Vico, “si ripete”. Osservando le dinamiche dell’attuale conflitto civile siriano, si può tracciare un paragone con la guerra civile spagnola (1936-1939). Tralasciando le debite differenze geografiche e storiche, esistono, infatti, almeno 3 punti in comune.

L’importanza delle alleanze internazionali. Nel caso spagnolo, il bando derechista era appoggiato dalla Germania nazista e dall’Italia fascista. I repubblicani, invece, potevano beneficiare dell’aiuto dell’URSS e delle Brigate Internazionali, gruppi di volontari giunti in Spagna per combattere le forze della destra. Il governo siriano, invece, è sostenuto dalla Russia, dall’Iran e dagli Hezbollah, mentre i ribelli sono finanziati principalmente da Arabia Saudita, Qatar e Turchia (da “Enciclopedia Treccani” ).

All’origine del conflitto: il fallimento di una sollevazione. Nel caso spagnolo, a fallire è stato il golpe dei militari che non avevano accettato la vittoria del Fronte popolare alle elezioni; in quello siriano, a portare alle armi è stato il fallimento della Primavera Araba. Infatti, nel 2011, quelle che erano cominciate come rivolte popolari sono degenerate in una guerra civile. Due fazioni antagoniste ma molto eterogenee. In Spagna vi erano il bando sublevado - costituito per la maggior parte dai militari filofascisti della Falange e filomonarchici di destra - ed il bando republicano - costituito da anarchici, comunisti, repubblicani e socialisti. Analogamente, in Siria si contrappongono le Forze Armate Siriane, fedeli ad Assad, e l’Esercito Siriano Libero, formato da siriani sunniti contrari al governo sciita. Inoltre, i ribelli sono sostenuti dal Daesh e dalle organizzazioni jihadiste

Tuttavia, come fa notare il professore di Storia Paul Preston su “ Le Monde”, esistono anche delle notevoli differenze. In primo luogo, in Spagna l’obiettivo dei militari era rovesciare un governo democraticamente eletto. Al contrario, in Siria la rivolta popolare aveva come scopo quello di contestare il regime autoritario di Assad. In secondo luogo, un’ evidente differenza sta nel ruolo delle democrazie occidentali. Se in Spagna, infatti, potenze come la Gran Bretagna e la Francia decisero di non intervenire ufficialmente perché temevano l’affermarsi del comunismo, in

Siria le democrazie si sono mobilitate, ma appaiono avverse tanto al Daesh quanto ad Assad. Inoltre, mentre le Brigate Internazionali, tra le cui file si annoveravano molti italiani e tedeschi, lottavano contro l’affermarsi del fascismo, in Siria la situazione è assai differente, in quanto la maggioranza dei combattenti volontari europei lottano in nome della jihad, che ha assunto ormai il significato di “lotta contro gli infedeli”, tra i quali vi sono anche i musulmani sciiti (Assad stesso è uno sciita alawita). Infine, nel 1939, si stima che i profughi fossero circa mezzo milione. Secondo fonti UNHCR, i profughi siriani sarebbero già quattro milioni. “Si tratta - secondo l’UNCHR - della popolazione di rifugiati più massiccia, provocata da una sola guerra, nell’arco di una generazione”. Le conseguenze della guerra civile spagnola sono ormai tristemente note: nel 1939 si instaurò un regime autoritario che durò circa quarant’anni ed il conflitto fu il preambolo della Seconda Guerra Mondiale. Il 18 dicembre l’ONU ha approvato una Risoluzione che prevede, tra i diversi punti, l’istituzione di un processo di pace che porterà alla convocazione di libere elezioni entro 18 mesi.

7


8

DISTRUZIONE DELLA MEMORIA L’ISIS rade al suolo siti archeologici millenari

Di Sara Corona L’iconoclastia è una delle caratteristiche principali della dottrina fondamentalista sunnita dello Stato Islamico: è proibita qualsiasi raffigurazione del mondo terreno o dell’aldilà e quindi, in particolare, ogni forma di rappresentazione della divinità. Più volte durante quest’anno 2015 l’Isis è stato autore in Medioriente di distruzioni perpetrate a danno di siti archeologici Patrimonio dell’umanità, diffuse con video e fotografie auto celebrative su internet e condannate dall’UNESCO come veri e propri crimini di guerra. A febbraio vengono abbattuti a colpi di piccone e martello statue e bassorilievi conservati in un museo della città di Mosul, antica Ninive, capitale del regno assiro. Alcuni di questi manufatti risalivano a 3.000 anni fa. Poco tempo prima, nella stessa città erano stati bruciati più di 8.000 libri antichi rari sottratti alla biblioteca pubblica. A marzo viene distrutta buona parte della vicina Nimrud, fondata nel XII secolo a.C. dal re assiro Salmanassar I, e pochi giorni dopo anche Hatra, fondata dalla dinastia seleucide nel III secolo a.C. In estate i miliziani conquistano Palmira, la sposa

del deserto, sito archeologico romano nel centro della Siria, distruggendone il tempio Baal Shamin e uccidendo il direttore, l’archeologo Khaled al-Asaad, accusato di aver nascosto loro centinaia di statue antiche. Come affermato dal direttore del Centro Regionale Arabo per il Patrimonio Mondiale, Mounir Bouchenaki, non si tratta più soltanto di azioni occasionali legate alla guerra, bensì di azioni sistematiche, tipiche dei conflitti moderni: i terroristi “mirano ai simboli culturali perché la distruzione del patrimonio culturale di un popolo, simbolo della sua identità e delle sue tradizioni, equivale al suo annientamento non solo materiale, ma anche morale”. L’ONU, però, ritiene che l’azione distruttiva abbia soprattutto ragioni economiche: la vendita dei reperti depredati dall’ISIS costituisce una delle principali fonti di finanziamento per il gruppo terroristico, insieme alla vendita del petrolio e ai riscatti dei rapimenti. Secondo Ibrahim al Yaburi, uno dei massimi esperti delle strategie dell’ISIS nei siti archeologici, “le città antiche vengono letteralmente smontate perché i jihadisti vogliono ottenere

il massimo profitto con i reperti più piccoli e facilmente trasportabili”. Si ha la certezza quindi che l’Isis si avvalga di esperti di archeologia in grado di definire il valore di ogni reperto e hanno contatti con i contrabbandieri internazionali, in Europa e soprattutto negli Stati Uniti. Gli occhi del mondo sono puntati con preoccupazione su tutti i siti, culla della nostra civiltà, che ora rischiano di scomparire per sempre. Un’importante iniziativa per combattere la distruzione è quella del Centro scavi di Torino, che da sessant’anni lavora in Iraq accanto alle organizzazioni locali: il docente universitario e presidente del Centro, Carlo Lippolis, ha deciso di riprendere gli scavi in Iraq lavorando a titolo di volontario. Con il suo team vivrà per un mese nella zona a sud di Baghdad, scavando e documentando un sito in cui sono stati trovati reperti che vanno dal III millennio a.C. all’epoca di Nabucodonosor, un periodo di 2000 anni. L’azione, oltre che a salvare reperti di grande valore dall’ISIS così come dagli scavi clandestini, continuerà a permettere alle scolaresche di visitare i siti e porterà avanti un rapporto di cooperazione con la nazione irachena.


RUSSIA E BALCANI IL MONTENEGRO SOTTO I RIFLETTORI L’invito della NATO incontra l’opposizione russa e accende dibattiti nella regione balcanica le ipotesi di un possibile coinvolgimento russo si sono susseguite nei giorni seguenti, dopo che l’Arcivescovo della Chiesa serba ortodossa, vicina a Mosca, si è pubblicamente lamentato del distacco del Montenegro dalla “madre Russia”.

Di Daniele Baldo Invitando formalmente il Montenegro ad unirsi alla NATO all’inizio di dicembre, l’Organizzazione del Trattato ha compiuto un passo importante nel tentativo di impedire alla Russia di avere spazi di manovra in un Paese piccolo ma comunque significativo nei Balcani. Se la NATO dovesse fallire nel portare a termine l’accordo, Mosca potrebbe intravedere ulteriori aperture per destabilizzare la regione e minare gli interessi occidentali. Per completare il processo di ingresso nell’Alleanza Atlantica, il Montenegro dovrebbe tuttavia risolvere alcuni cavilli tecnici. Inoltre, gli apparati legislativi della NATO, che includono anche il Senato statunitense, dovrebbero approvare i protocolli formali. Tutto questo richiede tempo e, intanto, il Montenegro attende le elezioni politiche del prossimo autunno. La potenziale interferenza russa nella situazione montenegrina risulta sempre più evidente da questo ottobre, quando alcuni manifestanti scesi in piazza contro il presidente Djukanovic si sono scontrati con le forze dell’ordine. Anche se le autorità russe hanno respinto le accuse di Djukanovic di aver organizzato le proteste,

La Russia avrebbe a disposizione gli strumenti necessari per influenzare le elezioni del prossimo ottobre (ad esempio, la Chiesa ortodossa e alcuni partiti serbi). Inoltre, l’ingresso del Montenegro nella NATO non trova l’approvazione di molti cittadini russi poiché il Paese sarebbe il primo tra quelli dell’ex Iugoslavia a maggioranza ortodossa. Il Montenegro, infatti, ha legami storici con la Bosnia e la Serbia e se il processo dovesse andare a buon fine, l’estensione ad essi dell’invito di adesione diventerebbe più che plausibile. Sorprendentemente, i leader nazionalisti serbi hanno già fatto sentire il loro supporto per l’offerta della NATO al Montenegro, una mossa che deve aver preoccupato Mosca, che possiede la compagnia petrolifera serba e vede i Balcani come parte del proprio dominio energetico. La chiara e totale opposizione di Mosca all’espansione della NATO è comunque una presa di posizione recente. Lo stesso Montenegro godeva di buoni rapporti con la Russia anche dopo il distacco del 2006 dalla Serbia ed era già allora deciso nella sua strada di adesione a UE e NATO. Tutto è cambiato lo scorso anno, quando, con lo scoppio della crisi in Ucraina, i Paesi balcanici hanno dovuto decidere

se applicare o meno le sanzioni europee imposte alla Russia. Mentre la Serbia si è astenuta dal farlo, il Montenegro ha seguito la guida di Brussels, attirandosi però anche l’ira di Mosca, che ha subito iniziato a ostacolare gli obiettivi occidentali nei Balcani. Per gli Stati Uniti, portare il Montenegro nell’Alleanza significherebbe eliminare la possibilità di avere una base navale russa nell’Adriatico. L’ingresso nella NATO darebbe, inoltre, inizio al processo di integrazione europea dei Balcani, che sia gli USA sia l’UE vedono con favore. Il Montenegro riceverebbe ampi benefici soprattutto nel settore del turismo, portante per l’economia del Paese, e potrebbe godere dell’apporto di numerosi nuovi investimenti stranieri. Le parti sperano di chiudere l’accordo prima di ottobre e delle elezioni, visto anche l’incalzare di situazioni difficili per la regione, come la crescente minaccia di radicalizzazioni islamiste legate all’ISIS.

9


10

SCHENGEN E IL KOSOVO

Respinta la richiesta di ingresso nell’area Schengen

Di Giulia Bazzano I cittadini di Ucraina e Georgia, a partire dalla seconda metà del 2016, potranno beneficiare di una maggiore libertà di circolazione grazie alla liberalizzazione dei visti Schengen. Lo spazio Schengen, uno dei progressi più significativi dell’UE, è una zona di libera circolazione, dove i cittadini dell’Unione e quelli di Paesi terzi possono spostarsi liberamente senza essere sottoposti a controlli alle frontiere, eccetto casi particolari. Per conciliare libertà e sicurezza, la libera circolazione è stata affiancata dalle cosiddette “misure compensative”, volte a migliorare la sicurezza interna degli Stati membri Almeno per il momento, nessun aumento della libertà di circolazione è, invece, stato concesso agli abitanti del

Kosovo. Il Paese sta affrontando la peggiore crisi politica dal 2008, anno in cui si è autoproclamato indipendente e oggi ha ancora molti problemi irrisolti sia a livello economico sia a livello politico. Il 19 gennaio 2012 ha ricevuto da parte dalle istituzioni europee i criteri da rispettare per la liberalizzazione dei visti (mappa riguardavano i passaporti, la firma di accordi di riammissione dei migranti irregolari, la lotta all’immigrazione clandestina, la demarcazione dei confini con i Paesi vicini, i registri civili e l’adozione di una serie di leggi relative alla difesa dei diritti umani). Tale liberalizzazione fu poi negata dalla Commissione Europea nel 2012, 2013 e 2014. Oggi, il governo kosovaro ritiene di essere stato discriminato: in quanto sostiene di aver raggiunto tutti i requisiti richiesti per la liberalizzazione dei visti, non vede il motivo per cui l’UE non dia un parere positivo e ritiene che la decisione sia esclusivamente politica. Il ministro degli esteri Thaçi afferma che mantenere isolati i cittadini del Kosovo incoraggia l’estremismo nel Paese e aumenta l’insoddisfazione. Negli ultimi mesi i partiti in disaccordo hanno ripetutamente bloccato le sessioni del Parlamento, addirittura

lanciando lacrimogeni al suo interno durante la discussione sulla normalizzazione dei rapporti con la Serbia, che dovrebbe prevedere la creazione di una comunità cittadina a maggioranza serba (ZSO). L’opposizione, tuttavia, evidenzia le responsabilità del governo kosovaro di Mustafa Thaçi e riconosce che il Paese non ha raggiunto i parametri stabiliti dalle linee guida per la liberalizzazione del regime dei visti, come riportato anche dal Rapporto 2015 sul Kosovo inviato al Consiglio UE dalla Commissione Europea. Altro interrogativo per molti i cittadini kosovari è perché Paesi con problemi di governance come l’Ucraina e la Georgia siano riusciti a raggiungere questi obiettivi, mentre il loro governo è ancora in rilevante difficoltà. D’altra parte, il Paese si è dichiarato indipendente con vari anni di ritardo rispetto agli altri Stati balcanici e nel frattempo i requisiti della zona Schengen si sono evoluti. Sarebbe dunque inappropriato paragonare il processo di liberalizzazione seguito dal Kosovo a quello degli altri Paesi dell’area, anche se lo scorso ottobre ha firmato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione Europea.


ORIENTE

IL GIAPPONE CONTINUA A METTERE IL CAPPIO sta mettendo in cattiva luce a livello internazionale. I numeri parlano chiaro, nel 2014 i paesi che hanno ancora utilizzato la pena di morte sono stati solo 22, mentre i paesi abolizionisti sono in totale 140. Ultima è stata, nel novembre 2015, la Mongolia ad abolire totalmente l’esecuzione capitale.

Di Simona Graceffa Il 18 dicembre si sono tenute in Giappone due impiccagioni. Queste due esecuzioni sono state le prime ad essere decise anche di fronte ad una giuria popolare che si affianca a quella dei giudici togati. Da quando il partito liberal democratico di Shinzo Abe è salito al governo, nel 2012, le esecuzioni sono state 14, comprese queste ultime due. Nonostante le svariate richieste da parte di organizzazioni internazionali ma anche di governi, di abolire queste pratiche, il governo di Tokyo continua a fare orecchie da mercante. Contraria è anche la Federazione degli avvocati giapponesi, che si è schierata contro a questi metodi “barbari”, più e più volte. Il governo cerca di nascondersi dietro ai dati delle statistiche che fanno risultare circa l’80 per cento della popolazione a favore della pena di morte. Amnesty International è dura nei confronti di questo paese che continua ad usare questi metodi per fare giustizia. L’utilizzo della pena di morte è risultato inutile per combattere la criminalità e viene considerato solo una “punizione crudele”. In questo modo il Giappone, paese sviluppato e all’avanguardia, si

La pena di morte, in Giappone, è prevista per 13 reati ma i giudici la applicano, nella pratica, solo per l’omicidio plurimo. È stata sospesa per un periodo che va dal 1989 al 1993 in quanto lo stesso ministro della giustizia era personalmente contrario, ma poi cambiando governo è cambiata anche politica ed è stata subito ripresa. Dal 1946 al 2003 sono state condannate a impiccagione 766 persone con 608 condanne eseguite.

mancanza di garanzie giudiziarie all’interno del processo. Le testimonianze pongono l’attenzione sul fatto che spesso non viene data la possibilità di difendersi tramite un legale, e numerose sono state le voci di chi dice di essere addirittura stato sottoposto a torture e maltrattamenti durante gli interrogatori. Ma non è tutto, perché, le esecuzioni vengono fatte in una situazione di segretezza e di silenzio. I condannati vengono avvisati solo poche ore prima, mentre le famiglie, spesso, non vengono avvisate, o poste a conoscenza solo tempo dopo l’esecuzione. In questo modo è evidente la mancata possibilità di fare ricorso per la condanna inflitta. Per il momento sono circa 130 i prigionieri in attesa dell’esecuzione, tra questi ci sono anche persone con disabilità psichiche, che come accade in altri paesi, dovrebbero ricevere un trattamento diverso proprio a causa di questo loro status. Al contrario di quanto sperato dalla comunità internazionale, non si vedono cambiamenti e tanto meno la volontà di apportarne.

La stessa Italia e Unione Europea hanno cercato di richiamare l’attenzione del Giappone considerandola una pena crudele e disumana, senza però ottenere alcun risultato. L’Amnesty International insiste sul fatto che la sua abolizione è necessaria proprio per proteggere la dignità umana. Già nel 2013 il Giappone è stato esaminato con preoccupazione dal Comitato contro la Tortura delle Nazioni unite. Le stesse hanno criticato, inoltre, la

11


12

CINA: IL SOGNO “ARMONICO” DI XI JINPING Pechino vuole cinesi colti e recupera la tradizione confuciana

Di Tiziano Traversa Durante gli ultimi anni si è molto discusso sul fatto che la Cina di Xi Jinping, a livello di governo, focalizzi le proprie attenzioni sulla politica interna, non curandosi delle riforme riguardanti la politica e le relazioni internazionali. La Cina fa accordi, perlopiù in campo economico, con i più svariati Paesi del mondo, tuttavia, le istituzioni cinesi concordano sul fatto le che riforme sul piano della politica estera non saranno ritenute prioritarie negli anni a venire. Da qualche tempo a questa parte, il presidente cinese ha idea di attuare un ambizioso progetto di ristrutturazione radicale e profonda della società cinese. Xi Jinping è un uomo colto, che, a dispetto di quanto gli occidentali possano essere portati a credere, rispetta e ammira le antiche tradizioni del suo Paese, credendo fermamente che la cultura sia la conditio sine qua non per la stabilità di una nazione. Il suo grande sogno sarebbe quello di traghettare la grande potenza cinese nell’armonia confuciana.

Se Mao Zedong aveva tentato, a suo tempo, di smembrare la cultura confuciana spazzando via gli ultimi residui della corte imperiale, Xi Jinping lavora oggi affinché il popolo la riscopra e la pratichi. Nel suo modo di vedere, il riavvicinamento del popolo a quella cultura che ha guidato per secoli l’élite burocratica e culturale del Celeste Impero, farebbe da collante per l’unità nazionale. E tutto questo in un periodo di importanti sfide per un Paese che si è affermato nuovamente come grande potenza internazionale.

Il sogno cinese (zhongguo meng) - come è stato nominato questo processo di riavvicinamento alla spiritualità che punta al mondo armonico della visione di Confucio (convivenza pacifica e libertà) - si appoggia d’altronde su 5.000 anni di storia ininterrotta del popolo cinese.

Il suo grande sogno sarebbe quello di traghettare la grande potenza cinese nell’armonia confuciana.

La Cina si è parzialmente disinteressata alle relazioni internazionali per potersi concentrare su se stessa e sui bisogni che la riguardano dall’interno. Xi Jinping ha affermato chiaramente che la Cina non deve accettare i valori propugnati dall’occidente, ma concentrarsi sulla sua rinascita spirituale e nazionale. La nuova politica del PCC, il partito-Stato, volge il suo sguardo al patrimonio storico-culturale per riaffermare la propria leadership: l’obbiettivo che il governo vuole raggiungere è quello di avere una popolazione benestante, in una nazione ricca, ma senza l’obbligo di sostenere ideali non conformi alla propria cultura per assicurarsi un futuro prospero. La Cina deve altresì evitare che il rifiuto verso i valori dell’occidente non si risolva in una chiusura fisica dei rapporti con il resto del mondo. In fondo, fu proprio il conservatorismo intransigente della colta burocrazia confuciana del potente impero Ming che non accettava il contatto con valori culturali differenti, a portare all’inizio del XV secolo ad un isolazionismo forzato, che trasformò la grande potenza cinese in un Paese decadente che non sarebbe riuscito a risollevarsi per quasi 500 anni.


AFRICA I SIGNORI DELLA GUERRA FANNO RITORNO I condannati per crimini contro l’umanità Lubanga e Katanga di nuovo in Congo

Di Francesco Tosco Due ex leader della milizia congolese, Thomas Lubanga e Germain Katanga, condannati per crimini contro l’umanità, verranno trasferiti dai Paesi Bassi alle prigioni della Repubblica Democratica del Congo. La Corte Penale Internazionale ha, infatti, deciso di soddisfare la volontà dei due detenuti di trascorrere il resto della pena nel loro Paese d’origine. La loro detenzione nella Repubblica Democratica del Congo dovrà rispettare gli standard internazionali e sarà supervisionata dalla Corte stessa. Thomas Lubanga, comandante e fondatore del gruppo ribelle Unione Dei Patrioti Congolesi, fu tra i protagonisti del Conflitto dell’Ituri, uno dei teatri della Seconda Guerra del Congo. Human Rights Watch l’ha accusato di “massacri etnici, uccisioni, torture, stupri di guerra, schiavitù e mutilazioni”, di aver forzato 60.000 persone a lasciare le proprie case e,

infine, del reclutamento forzato di bambini soldato. Nel 2003, Lubanga gestiva in operazioni di guerra un “esercito” di circa 3.000 bambini soldato tra gli 8 e i 15 anni. Sono tutti crimini punibili in base all’art. 8 comma 2 dello Statuto di Roma del 17 luglio 1998, ratificato l’11 aprile 2002 dal governo congolese. Il 19 marzo 2005, Lubanga venne arrestato perché trovato responsabile dell’uccisione di 9 peacekeepers avvenuta pochi mesi prima. Nel 2006 la Repubblica Democratica del Congo lo consegnò alle autorità internazionali. Lubanga fu la prima persona ad essere arrestata e processata all’Aia in base ad un mandato di cattura emanato dalla Corte Penale Internazionale. Fu condannato il 10 luglio 2012 a 14 anni di reclusione. Germain Katanga, comandante del Fronte della Resistenza Patriottica dell’Ituri, si rese responsabile nel 2002 dell’attacco a un ospedale nella città di Bunia, nel quale morirono oltre 1200 civili. Un anno dopo, nel 2003, comandò un attacco al villaggio di Bogoro, dove altri 200 civili furono uccisi e il resto degli abitanti ridotto in schiavitù. Fu accusato di sei capi di imputazione per crimini di guerra e per due capi di imputazione per crimini contro l’umanità. Tra questi spiccano omicidio, massacro, tortura, uso dello stupro come strumento di guerra, uccisione sistematica ed intenzionale di civili, schiavitù e utilizzo di bambini soldato in

operazioni militari. Fu arrestato nel 2007 ed il processo iniziò al Tribunale dell’Aia il 24 novembre 2009. La condanna arrivò nel 2014 sotto forma di una pena detentiva di 12 anni di reclusione. Nel 2015 una commissione ha deciso di ridurre la pena sulla base del “rimorso” e della buona condotta, che sarà scagionato il 18 gennaio 2016 e sconterà così solo 9 anni di detenzione. Nel conflitto dell’Ituri persero la vita, tra il 1999 ed il 2003, circa 50.000 civili, numero compreso nelle vittime della più ampia Seconda Guerra del Congo, chiamata anche “Guerra Mondiale Africana”, che vide protagonisti 8 Paesi e 25 differenti gruppi armati. Il conflitto ha ucciso circa 5,4 milioni di persone, lasciandone altrettante senza dimora. Thomas Lubanga e Germain Katanga furono rispettivamente la prima e la seconda persona giudicate colpevoli dalla Corte Penale Internazionale di Giustizia per crimini contro l’umanità. Il 19 dicembre 2015 la Corte ha deciso di rimpatriare i due condannati: ciò rappresenta una forma di apertura della Corte, oltre che un’occasione per la Repubblica Democratica del Congo di adeguarsi agli standard internazionali per la detenzione.

13


LA RINASCITA DI UN POPOLO I Tuareg affrontano la sfida della modernità

di Fabio Tumminello Sono quasi un milione gli individui che appartengono al popolo tuareg: una cultura millenaria, che mantiene, nonostante il trascorrere del tempo, una tradizione unica nel suo genere. Presenti in quasi tutto il Sahara occidentale (in particolare in Libia, Algeria, Mali e Niger), i Tuareg sono una popolazione nomade o semi-nomade, storicamente dedita al commercio trans-sahariano. Da sempre legato alla religione islamica, questo popolo di origine berbera si è però distinto per i suoi usi e costumi peculiari. Gli uomini, ad esempio, hanno l’obbligo di indossare il tagelmust, un velo utile per proteggersi dalle tempeste di sabbia sahariane, diventato un simbolo del popolo tuareg stesso. Meno noto, invece, è che le donne tuareg, note come “Regine del Sahara” per via della loro bellezza, possono divorziare dal marito e hanno un ruolo attivo, quasi centrale, all’interno della comunità. Numerosi gruppi integralisti (tra

14

cui persino lo Stato Islamico, che si sta espandendo in Libia) vedono nel questo diffuso progressismo dei Tuareg una vera e propria minaccia, soprattutto per quanto riguarda quei diritti e benefici che generalmente non vengono concessi alle donne. Padroni incontrastati del deserto per larga parte della storia, i Tuareg si sono però dovuti scontrare, durante il XX secolo, con la realtà della decolonizzazione: la creazione dei confini tra Mali, Niger ed Algeria ha reso più difficili gli spostamenti, mettendo a rischio la loro stessa identità di nomadi. Sono quindi nati gruppi autonomi e gruppi di ribelli, spesso in lotta con le autorità locali, che richiedono l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo Tuareg. Il governo del Mali ha siglato, nel giugno di quest’anno, un accordo di pace con i ribelli tuareg che chiedevano una maggior rappresentanza nelle assemblee locali; ciò è stato possibile anche grazie al supporto dell’ONU e, in particolare, della Francia.

La grande libertà negli spostamenti di cui continuano a godere li ha inevitabilmente resi protagonisti delle rotte dei migranti attraverso il Sahara. Molti Tuareg, abbandonando i tradizionali dromedari, continuano a battere le rotte commerciali attraverso il deserto, questa volta portando con sé uomini e donne in fuga da Burkina Faso, Nigeria e Ghana. Su queste nuove vie sono sorti piccoli centri urbani, autentiche “oasi” nel deserto che spesso vengono utilizzate anche come basi per il contrabbando.


SUD AMERICA

HASTA LA VICTORIA… SIEMPRE? Come l’eredità di Chavez sta crollando insieme al petrolio

Di Michelangelo Inverso Il popolo venezuelano è andato al voto il 6 dicembre 2015: i due terzi del Parlamento sono stati conquistati dall’opposizione liberista riunita ne “La Mesa de la Unidad Democratica”. Ma per capire l’importanza di questa votazione dai risultati così netti e le sue implicazioni occorrerà riavvolgere il nastro di circa 15 anni. Nel 1998 il colonnello Hugo Chàvez, un singolare militare marxista, vinse le elezioni venezuelane. Non era una novità, in un Paese che dal XIX secolo al 1958 era stato guidato da governi militari. Tali regimi, tuttavia, furono più modernizzatori paternalisti che feroci dittature militari come quelle cilene o argentine. Al contrario di altri Paesi sudamericani, infatti, il Venezuela non ebbe mai sacralizzazioni del potere o personaggi carismatici come Peròn in Argentina. Fino a Hugo Chàvez. Inizialmente le elitès economiche del Paese pensarono di potersene servire come fecero con altri, ma il caudillo rispose proponendo misure sociali antiliberiste, tra cui la nazionalizzazione delle più grandi società private del

Paese. Per questa ragione, nel 2002 si susseguirono due tentativi di golpe: il primo in aprile, manu militari, e il secondo a dicembre, attraverso uno sciopero dei petrolieri. Entrambe le volte il colonnello ne uscì vincitore, anche grazie all’incredibile intervento popolare, che arrivò addirittura a scendere in piazza per liberare Chavez tenuto prigioniero dai militari nell’aprile 2002. L’intero progetto politico socialista e bolivariano di Chavez si reggeva sul capitale naturale del Venezuela: il petrolio. A partire dalla sua scoperta durante la Grande Guerra, è sempre stato sia la benedizione sia la maledizione del Venezuela. Con la rendita del greggio, lo Stato sovvenzionava alimenti, carburante, sanità e altri servizi sociali essenziali, a discapito della cosiddetta “società civile” e originando una “dipendenza” dall’assistenzialismo. In 15 anni di potere, il governo è però riuscito a migliorare l’Indice di Sviluppo Umano, stabilito dall’ONU, e a ridurre le disuguaglianze sociali, calcolate con l’Indice di Gini. Gran parte della popolazione povera dei Barrios ha tratto grandi benefici dalla redistribuzione delle risorse petrolifere e ha

praticamente sacralizzato figura del colonnello.

la

Nel 2013, alla morte di Chavez, è salito al potere Nicolàs Maduro, con il 50,6% dei voti, ma non sembra essere riuscito a raccogliere la pesante eredità del suo predecessore. Nel 2014, infatti, crolla il prezzo del greggio e con esso le fondamenta su cui poggiava il progetto bolivariano. La dipendenza dagli idrocarburi, unita al sistema di cambi fissi adottato dalla Banca Centrale e al blocco dei prezzi di molti generi di prima necessità, ha fatto piombare il Paese in una profonda crisi economica. Maduro si è quindi trovato al centro di una tempesta perfetta, stretto tra il ricordo del comandante supremo ed eterno e una crisi economica in parte indipendente dalle proprie azioni e in parte causata dalla scelta del suo predecessore di attuare politiche fortemente redistributive, su cui, tuttavia, poggia tutta la propria esistenza politica. E cosi il 6 dicembre 2015 il popolo ha deciso di spezzare questo immobilismo politico generato dall’ingombrante presenza del fantasma di Chavez.

15


16

L’APPARENZA INGANNA Costa Rica, clean energy ed emissioni

Di Stefano Bozzalla Cassione

bustibili fossili.

Dopo circa 75 giorni in cui il Paese si “nutre” solamente di “energia pulita” il Costa Rica (primo nel mondo a raggiungere questo traguardo) tira le somme. A trarne maggior profitto, oltre all’ambiente, è stata sicuramente la popolazione, che si è vesta ridurre notevolmente le spese energetiche.

L’abbondanza delle risorse naturali, combinate alla sensibilità del Governo verso l’ambiente, hanno spinto i politici stessi a fissarsi come obiettivo quello di “liberarsi del carbone” entro il 2021. Se ci riuscisse raggiungerebbe un altro primato mondiale, ma, ovviamente, ci sono parecchi ostacoli. Ci si affida all’imprevedibilità della pioggia per far funzionare gli impianti idroelettrici. Questo significherebbe che, in assenza di precipitazioni abbondanti, le compagnie elettriche dovrebbero comprare combustibile fossile per produrre e in un’era di forti cambiamenti climatici non è certo che le grandi scorte d’acqua oggi presenti in Costa Rica rimangano tali in futuro. Ad ogni modo, anche se il Paese fosse in grado di produrre il 100% di energia pulita, il Costa Rica rimarrebbe “schiavo” del petrolio per quanto riguarda i mezzi di trasporto, pubblici e privati. Bisogna altresì tenere conto che il Governo si è impegnato a raggiungere questi traguardi salvaguardando la natura. Il che rende queste ambizioni ancora più impegnative.

Esistono, però, diverse criticità. Il modello energetico del Costa Ricae difficilmente potrebb adattarsi ad altri Paesi. Infatti, il Costa Rica gode di una notevole “forza naturale” che favorisce lo sviluppo di progetti alternativi ed è relativamente di piccole dimensioni, con una popolazione inferiore ai 5 milioni di abitanti. Inoltre l’energia pulita prodotta deriva in grande maggioranza dagli impianti idroelettrici, i quali funzionano a pieno regime grazie alle piogge straordinarie. Ad ogni modo grazie all’apporto dell’energia geotermica (possibile per la presenza dei vulcani) e, in piccola parte, all’energia eolica anche in condizioni climatiche ordinarie il Costa Rica arriverebbe a produrre approssimativamente il 90% della sua energia senza bruciare com-

Quindi, se uno Stato “piccolo”,

senza grandi industrie, geograficamente avvantaggiato e realmente impegnato nello sviluppo di energie rinnovabili, deve affrontare ugualmente una serie di ostacoli, è facilmente intuibile come possa essere complesso lo stesso discorso in uno industrializzato, di dimensioni maggiori e con una sensibilità ambientale differente. Questi Paesi che potrebbero permettersi investimenti economici in energie alternative più produttive, come ad esempio lo sfruttamento dell’energia solare, mancano però di iniziativa e di volontà politica ed è ciò che ha relegato il mondo all’utilizzo dei combustibili fossili per circa il 90% della sua energia fin dal 1999. Il progetto della Costa Rica, ad oggi, è un modello non realistico per le grandi economie mondiali, ma costituisce sicuramente un esempio per gli Stati che si limitano a investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie rinnovabili, senza un impegno più fattivo. Questo, quindi, non è tanto un traguardo raggiunto dalla scienza o grazie a nuove tecnologie, ma piuttosto un risultato dato dalla volontà e dagli ideali di chi sta provando a fare la differenza, almeno nel suo piccolo.


MSOI thePost Torino Ogni settimana un focus sulle nostre attività

Cari lettori, I primi mesi del nuovo anno accademico e delle attività di M.S.O.I. Torino sono come volati in un battito di ciglia. La pausa natalizia è alle porte e, nel rinnovare l’invito del Direttivo a partecipare alla attività del nuovo anno, desidero rivolgere a Voi il nostro ringraziamento più sentito: sono proprio i soci, infatti, con il loro impegno ed entusiasmo, a rendere interessanti, appassionanti ed uniche le attività del Movimento, partecipando alle proposte del Direttivo e proponendone altre nuove. Tengo particolarmente a fare una menzione speciale all’appassionata redazione di MSOI thePost: i numeri del settimanale online di politica internazionale hanno ricevuto il pauso del coordinamento nazionale del Movimento e saranno inviati, con il nuovo anno, a tutte le sezioni. Complimenti per il magnifico lavoro svolto in questi mesi. A titolo personale, un ringraziamento speciale va anche anche ai ragazzi del Direttivo, con cui si condividono onori e oneri, e a Lorenzò Aprà, nostro collaboratore di fiducia che anche quest’anno non ci fa mancare il suo preziosissimo aiuto. A nome del Direttivo, un ringraziamento speciale va alla S.I.O.I. Piemonte e Valle D’Aosta, nelle persone del professor Edoardo Greppi, suo presiden-

te, del professor Oddenino, suo segretario, e del dottor Matteo Arrotta, suo responsabile amministrativo nonché spalla fondamentale per M.SO.I. Torino. Un ringraziamento particolare anche ai dipartimenti di Giurisprudenza e di Cultura, Politica e Società, nostri riferimenti in università, guide e collaboratori preziosissimi per le attività di M.S.O.I. Le vacanze invernali coincidono con la pausa dalle nostre attività, che torneranno nel 2016. Siamo già all’opera per l’organizzazione delle attività del prossimo semestre, tra le quali ricordiamo l’EU MODEL TORINO 2016 (dal 21 al 25 marzo 2016); il WORKSHOP ALLA CERTOSA DI AVIGLIANA, attività di due giorni sul tema delle migrazioni e che coinvolgerà personalità accademiche ed esponenti della società civile nel quadro di conferenze e dibattiti; l’immancabile appuntamento con il VIAGGIO STUDIO, che quest’anno si terrà a Ginevra nella tarda primavera. Chiuderà le attività dell’anno accademico 20152016 il tradizionale GALÀ ESTIVO di giugno. Nella speranza di vedervi numerosi alle attività che il nuovo anno porterà con sé, a nome del Direttivo, il nostro più caloroso augurio di buone feste. Giulia Marzinotto, Segretario MSOI Torino

17



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.