Skialper 118

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inspired by mountains

t r a v e r s a t a

Poste Italiane S.p.A. Sped. in Abb. Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1. LO/MI

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6 EURO NUMERO 118

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AT T E N Z I O N E : L EG G E R E C O N M O D E R A Z I O N E , C R E A D I P E N D E N Z A

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E D I T O di Davide Marta

©Federico Ravassard

Semi na volta mi preoccupavo di cose molto pratiche quando veniva il momento di discutere in redazione il contenuto del numero nuovo della rivista. Pensavo innanzitutto che ci volesse coerenza, che ciò che si leggeva in quei due mesi in cui Skialper sta in edicola dovesse corrispondere a ciò che più o meno si può fare in quel periodo dell’anno, condizioni permettendo. Poi ho cambiato atteggiamento, un po’ alla volta. Ho capito che forse è meglio seminare, dove i nostri semi sono le esperienze di vita e l’energia di chi ha avuto la voglia, il coraggio e la follia di inventarsi qualcosa. Così si è scelta via via un’altra strada e chi se ne frega della coerenza e delle mezze stagioni. Su questo numero, ad esempio, si parla di traversate. Perché questo è un bellissimo seme da buttare nella terra, è la voglia di andare

oltre i confini geografici, le barriere interiori, è il desiderio di togliere le rotelle alla bicicletta e filare via da soli, di tracciare una propria linea. È quella voglia di andare a vedere cosa c’è di là, un po’ più in là, con i propri occhi. Non importa se questo numero si legge a giugno e ci sono storie di neve. Certo, ce ne sono anche di ambientazione estiva, ma non è questo il punto. È lo stile che conta. Il fatto che in ogni pagina ci siano esperienze autentiche, tanti stili di scrittura, di fotografia, modi di raccontare, di vivere, di sciare, di correre e camminare. Sono tutti semi, per stare nella metafora, stanno lì e sono a disposizione. In fondo il nostro obiettivo è proprio di ispirare, trasferire conoscenza, stimolare. E poi stare a vedere se qualcuno di quei semi ce la farà a tramutarsi in una pianta. Sì, alla faccia della coerenza.

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#inspiredbymountains

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Photos by Fred Marmsater

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S S O M M A R I O

EVENTI

Sentinelle senza frontiere Poche regole: sci sopra i 100 al centro, divieto di abbigliamento attillato e iscrizioni tramite una lettera scritta a mano. Benvenuti alla Sentinelle, il raduno inventato dalla skibum aristocracy, alias Bruno Compagnet & Minna Riimaki di Federico Ravassard

48 PEOPLE

Paul Bonhomme Il ripido come esplorazione Chi è lo sciatore francese che a maggio ha cercato di concatenare le discese più belle e impegnative dell’Aiguille Verte in una giornata?

di Andrea Bormida

54 TRAVERSATE

Ski Trans Alt Tirol La traversata del Tirolo Storico unisce il confine più meridionale della regione dell’Impero Asburgico, il Lago di Garda, con quello orientale. Una fantastica cavalcata dagli ulivi ai ghiacciai, passando per le Dolomiti. A cui nessuno aveva ancora pensato di Alessandro Beber

Vi aspettiamo in edicola a inizio agosto!

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indice TRAVERSATE

L’avventura dietro casa

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Da Courmayeur a Courmayeur, quasi 30.000 metri di dislivello sulle due alte vie che fanno il periplo della Valle d’Aosta, con sci larghi e abbigliamento da freeride. Il tutto raccontato in una delle produzioni video più interessanti dell’anno, La Promenade. di Veronica Balocco

IN COPERTINA spot: verso la Schönbielhütte, Svizzera runner: Kim Strom fotografo: Dan Patitucci Fine agosto 2017, lungo la Glacier Haute Route da Chamonix a Zermatt in versione fast & light. L’ultimo giorno bisogna affrontare una corda fissa per arrivare alla Schönbielhütte, sul percorso che porta a Zermatt.

L’ALTRA COPERTINA

108 TRAVERSATE

Glacier Haute Route Fast & light Correre la Chamonix-Zermatt lungo la famosa alta via dello scialpinismo, tra roccia e ghiacciai che inesorabilmente si sciolgono di Kim Strom

118 TRAVERSATE

Sibillini. Nelle pieghe dell’Appennino Da Montemonaco a Foce lungo le creste del Monte Sibilla e del Monte Vettore, tra le crepe che il terremoto ha creato nella montagna e nel cuore di chi ci vive

Rubriche Edito

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Contributors

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Backstage

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Login

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Controcopertina

di Luca Parisse

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Altri servizi Storia (e fascino) dello sci di raid nelle Alpi 66

TransAlp Tour 92

Da Est a Ovest

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Der Lange Weg

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Cacciatori di emozioni

Attraverso l’Italia a passo d’asino

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La traversata dell’amicizia

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H.R.D. Haute Route delle Dolomiti

Ironfly, 458 km di strategia

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Direttore editoriale DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it Direttore responsabile CLAUDIO PRIMAVESI claudio.primavesi@mulatero.it Il nostro team ANDREA BORMIDA, LUCA GIACCONE, EMILIO PREVITALI, FEDERICO RAVASSARD, GUIDO VALOTA Amministrazione SIMONA RIGHETTI simona.righetti@mulatero.it Magazzino e logistica FEDERICO FOGLIA PARRUCIN magazzino@mulatero.it Segretaria di redazione ELENA VOLPE elena.volpe@mulatero.it

Photo © Claudia Ziegler

Progetto grafico e impaginazione NEXT LEVEL STUDIO info@nextlevelstudio.it Cartografia Marco Romelli Webmaster skialper.it Silvano Camerlo Collaboratori Luca Albrisi, Leonardo Bizzaro, Caio, Gianluca Gaggioli, Danilo Noro, Luca Parisse, Andrea Salini, Flavio Saltarelli, Davide Terraneo Hanno collaborato a questo numero Veronica Balocco, Alessandro Beber, Tatiana Bertera, Carlo Cosi, Giorgio Daidola, Alberto De Giuli, Giacomo Miglietta, Matteo Pavana, Simone Sarasso, Teddy Soppelsa, Kim Strom Hanno fotografato Damiano Benedetto, Andrea Chiericato, Alfredo Croce, Max Kroneck, Achille Mauri, Giacomo Meneghello, Dan Patitucci, Luca Parisse, Matteo Pavana, Federico Ravassard, Alice Russolo, Andrea Salini I nostri tecnici Igor Chiambretti, Renato Cresta, Alessandro Da Ponte, Eros Grazioli, Massimo Massarini, Fabio Meraldi dedicato a Matteo Tagliabue, per sempre uno di noi

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Autorizzazione del Tribunale di Torino n. 4855 del 05/12/1995. La Mulatero Editore srl è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.

Pensa a quante sciate nel bosco in più potresti fare senza tutti gli alberi abbattuti per produrre nuova carta!

© copyright Mulatero Editore - tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge

MULATERO EDITORE | Via Giovanni Flecchia, 58 - 10100 - Piverone (TO) tel 0125.72615 - mulatero@mulatero.it - www.mulatero.it



c C O N T R I B U T O R S

QUELLI BRAVI, PRIMA O POI, PASSANO TUTTI DA SKIALPER E se non ci sei ancora passato, fatti una domanda (o scrivici una mail…)

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1. ALESSANDRO BEBER Trentino, classe 1986, dal 2008 lavora a tempo pieno come Guida alpina e dal 2016 è istruttore nazionale delle Guide alpine. Nel 2010 ha pubblicato il libro Lagorai - Scialpinismo d’avventura su quelle che considera le montagne di casa. Appassionato di sci ripido, ha effettuato diverse prime discese di rilievo, come la parete Sud di Cima Brenta, la parete Nord di Cima Dodici in Valsugana o la parete Nord-Ovest del Cardinal. «In montagna ciò che mi attrae maggiormente è la componente esplorativa, per questo ho un debole per lo scialpinismo di traversata» dice senza esitazione. 2.MATTEO PAVANA Scalare e fotografare sono la sua linfa vitale. Vorrebbe poter dire che entrambe sono state frutto di una scelta sapiente, ma non lo sono. Fa fatica a scrivere e fare fatica a lui piace. Per questo scrive anche. Rendere i pensieri parole lo aiuta a trovare un equilibrio. L’arrampicata sportiva gli ha aperto la strada a vivere la montagna nella sua forma più pura, quella in cui le cime sono innevate, i riflessi infiniti e gli uomini dei pellegrini alla conquista dell’inutile. Ecco, si definisce proprio un conquistatore dell’inutile.

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3. CARLO COSI Classe 1988, padovano, va in montagna fin da bambino e da quando aveva 25 anni è Guida alpina. Laureato in Scienze Motorie, per lui anche una breve parentesi come freerider con un secondo posto alle finali dell’I-Free a Sella Nevea del 2013, ma è la montagna nella sua accezione più ampia il suo vero regno e gli è valsa anche una candidatura al Piolet d’Or e alla Grignetta d’Oro per l’apertura di una nuova via in Perù. Le Dolomiti però sono sempre le Dolomiti e su questo numero di Skialper è tornato tra le sue amate montagne. 4. VERONICA BALOCCO Chi l’ha detto che per scrivere di montagna si debba essere dei fenomeni dell’alpinismo? Veronica di questo mondo scrive da anni. Riflette sulle sue dinamiche, analizza i cambiamenti, i pensieri, la filosofia. Ma lo fa senza vantare curriculum da Guida alpina. Scia, passeggia, sale e scende come tutti. E a questo aggiunge la sua voglia di guardare oltre. È stata a lungo redattrice dell’Eco di Biella, ma ha deciso da poco di cambiare strada. È un’Accademica degli Scrittori di montagna, ma soprattutto una freelance appassionata di un mondo unico.

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5. DAN PATITUCCI Originario della California, ha passato gli ultimi 17 anni a correre, arrampicare e sciare sulle Alpi ed ha finito per mettere su casa tra le valli alpine. Fotografo outdoor tra i più quotati, ha lavorato per diversi marchi, da Dynafit ad Outdoor Research e MSR e testate come Trail Runner US, Trail Running UK e Ski Tour Magazine. La sua valigia è sempre pronta, per andare a correre sulla Glacier Haute Route e seguire i sentieri del trekking in Nepal. 6. ACHILLE MAURI Ventisette anni, lecchese, grazie allo sport ha viaggiato fin da piccolo, d’estate per arrampicare e andare in skateboard, d’inverno per lo snowboard e l’alpinismo. Dopo un anno di liceo in Canada, ha studiato nuove tecnologie dell’arte, specializzandosi nei video pubblicitari sportivi. Il videomaker è un lavoro e la fotografia, più pratica e semplice nel suo essere, una compagna di viaggio. In antitesi all’estrema definizione richiesta nei video, ama talvolta tornare indietro nel tempo, utilizzando macchine fotografiche a pellicola che trova nei mercatini dell’usato. Buon sangue non mente visto che suo zio era l’esploratore-fotografo Carlo Mauri.


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B B A C K S T A G E

Storie dietro aLLE STORIE che leggerete su Skialper di GIUGNO 1

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1. Gardasee

2. Un’altra magia di Adam

3. Artista mancato

4. La Promenade per uno

Un luogo ricorrente di questo numero è il lago di Garda. Se ne parla nel servizio sulla traversata del Tirolo Storico, che è partita proprio da Malcesine e dal Monte Baldo. E per realizzare le fotografie del servizio sui test delle giacche in Gore-Tex abbiamo pensato bene di andare a vedere come cambiavano quei panorami, tanto belli in inverno (come potete vedere nelle foto del servizio sul Tirolo storico). Effettivamente la scelta è difficile, anche con il verde è uno spettacolo!

Che Adam Ondra sia il più talentuoso climber in circolazione ci sono pochi dubbi. Che sia stata una delle star della serata per i 90 anni di La Sportiva al Muse di Trento, ancora meno. Tra l’altro non si è fatto prendere dall’atmosfera di festa e ha anche vinto il contest di boulder organizzato per l’occasione. Però a un certo punto l’abbiamo anche visto arrampicare sulla facciata del museo nel pieno della notte. E non era l’effetto di qualche bicchiere di Ferrari in più, ma dell’incredibile spettacolo son et lumière.

Se cerchi su Google sotto il suo nome viene fuori assistenza e consulenza legale, sia stragiudiziale che giudiziale. Eppure a vederlo dipingere a mano schizzi di montagne e tracce nella neve si direbbe che abbia fatto l’Accademia di Brera e nella vita si occupi di altro. Ildebrando Lazzarotto, uno dei due lettori di Skialper selezionati per partecipare al La Sentinelle, della quale parliamo in questo numero, ci ha stupito non solo per gli otto nella neve fresca ma anche per il talento con il pennello!

Nel servizio sui due ragazzi che hanno fatto il giro della Valle d’Aosta con gli sci e le pelli e sono protagonisti del bel cortometraggio La Promenade vedete in azione solo uno di loro, Simone Croux. Quando il fotografo Achille Mauri è arrivato a Courmayeur, dove sono state scattate le foto, infatti, ha scoperto che Shanty Cipolli (nella foto) era infortunato e munito di… stampelle. Gli abbiamo reso omaggio con una bella foto che lo ritrae sommerso nella powder durante la scorsa stagione.

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eventi

A Trento perde la montagna

Sempre meno montagna e sempre più cinema. Ecco la tendenza che si conferma anche quest’anno per il più prestigioso e antico festival di film di montagna del mondo. Il Gran Premio per il miglior film è andato a Señorita Marìa, la falda de la montaña. Un film impegnativo sulla vita di un indios transessuale: un lungometraggio lento nei ritmi e lungo nei tempi (90 minuti) ma perfetto, almeno secondo gli intenditori. Triste e tenero senza dubbio, soporifero anche, per i superficiali come chi scrive.

Il Film Festival premia film a sfondo sociale o sull’arrampicata sportiva, ma l’alpinismo e lo sci sono quasi del tutto assenti

Bello e completo per chi ama l’adrenalina dell’arrampicata sportiva portata ai suoi traguardi più estremi The Dawn Wall, Genziana d’Oro per il miglior film di alpinismo, prima salita di una via apparentemente impossibile su El Capitan nello Yosemite. Un film che però riflette senza reticenze la filosofia dell’agonismo e del tifo da stadio. Chi cerca un maggior spessore culturale nell’arrampicata lo può trovare in Itaca nel sole. Cercando Gian Piero Motti. Il film, passato quasi inosservato, è un documento importante per conoscere e apprezzare un personaggio dal raro fascino come Motti: alpinista, scrittore e guru indiscusso di Il Nuovo Mattino.

di Giorgio Daidola

Di film di montagna e alpinismo in senso stretto nemmeno l’ombra fra i premiati. Unica eccezione Mountain, premio del pubblico,

NELLA FOTO \\ Un fermo immagine da The Dawn Wall

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Un altro titolo da segnare è Holy Mountain, firmato da Reinhold Messner, sul pericoloso salvataggio di Peter Hillary e compagni sull’Ama Dablam, nel lontano 1979. Ben realizzato tecnicamente, ci ha ricordato la magistrale fiction di Gerhard Bauer sull’Eiger presentata a Trento nel duemila, con in più il grande pregio di non essere una fiction. Analoghe considerazioni si possono fare per un altro salvataggio, questa volta di un ferito grave in una grotta a mille metri di profondità: il film Sos Baviera è firmato da due vecchie conoscenze del Festival come Andrea Gobetti e Fulvio Mariani. Non occorre essere speleologi per apprezzarne l’ineccepibile fattura e la drammatica veridicità. Vorrei parlarvi di tanti altri film interessanti che ho visto a Trento e che non sono entrati nelle classifiche dei migliori. Poco importa, perché probabilmente, non essendo stati premiati, difficilmente verranno riproposti. Considerato il nome di questa testata non posso però non segnalare, con sgomento misto a tristezza, la mancanza di interesse per i film di sci da parte di tutti: giuria, pubblico, e anche commissione di selezione delle opere. Per quanto riguarda la giuria questo disinteresse è comprensibile, visto che dei cinque componenti uno solo, anzi una sola, Katie Moore, è una valente sciatrice. Anche Paolo Cognetti, il presidente, vincitore del Premio Strega 2017 con il romanzo Le otto montagne, non scia e ha dichiarato di non amare la neve e la montagna invernale. L’unico film di sci premiato (miglior cortometraggio) è stato pertanto il pur carino Imagination, di soli quattro minuti, un acrobatico cortometraggio di freestyle urbano (non certo un film di sci di montagna). Giuria e pubblico non si sono invece accorti di un’opera frizzante e piacevole come In Gora: a bordo di uno scuolabus trasformato in camper, un nutrito gruppo di freerider e di freestyler di altissimo livello viaggia attraverso le montagne dell’Austria, della Slovenia, della Bulgaria, della Macedonia e del Montenegro alla ricerca della gioia di sciare e di rapporti veri con i locali. Sempre con riferimento allo sci, si può dire che nessuno, salvo la commissione di selezione, si sia accorto delle qualità del film Auf den Spuren der Ersten sulla discesa in sci della nord del Gran Pilastro, con un confronto fra la prima degli anni Ottanta in luglio e la ripetizione del 2017 in maggio. Un confronto che permette interessanti riflessioni sui cambiamenti sia climatici che dell’attrezzatura. Il drone, utilizzato per filmare la difficile discesa del 2017, serve anche per inviare a uno dei due sciatori rimasto in alto, una placca metallica che, fissata allo scarpone, gli consente di effettuare la discesa!

di cui abbiamo apprezzato la musica e la fotografia (salvo un uso spropositato di droni) ma abbiamo faticato ad accettare la messa in scena troppo compiaciuta di una montagna mostruosa che incita i giovani al suicidio inconscio. Il film è nato dalla colonna sonora che lo impreziosisce, mentre le immagini che ora esprimono la musica sono talvolta pateticamente false, come ad esempio quella degli sciatori ripresi dal solito drone mentre trainano slitte vuote. Si nota poi una ridondanza di immagini del versante nepalese dell’Everest, tratte dai precedenti film della regista. Un film da vedere comunque, per capire come siamo mal ridotti, un film che è piaciuto tanto al pubblico per la sua spettacolarità, mentre chi scrive è uscito dalla sala con l’amaro in bocca.

Davvero strano poi che la commissione di selezione abbia scartato i bellissimi film sulle origini dello sci girati da Fulvio Mariani sulla Via della Seta. Documenti unici, in grado di trasmettere il senso della montagna bianca, di far uscire tanti spettatori dalla palude dello sci di massa e dalle artificiose esaltazioni dei virtuosismi del freestyle. Lo sci è stato dimenticato anche nella serata dedicata a Bruno Detassis: tante testimonianze ma non un accenno alla sua grande traversata delle Alpi con sci, da Tarvisio in Friuli al Col di Nava in Liguria. Questa traversata non è però stata dimenticata nella bella mostra sul grande alpinista trentino allestita nella sede della SAT e a Palazzo Trentini.

Sia la giuria che il pubblico, si direbbe che non si siano accorti del gradevolissimo film Dirtbag sulla vita del grande arrampicatore americano Fred Beckey, morto a 94 anni (pochi mesi dopo aver visto il film), senza aver mai smesso di sognare e di tentare vie nuove su grandi montagne, negli ultimi tempi troppo difficili per lui. Fred non smette fino all’ultimo di programmare spedizioni con amici, continua a dormire in un sacco a pelo, come se le sue energie fossero sempre quelle di un tempo. Un film delicato e disperato, che il regista ha girato frequentando Beckey negli ultimi dieci anni di vita.

Un vero peccato che lo sci sia risultato essere la Cenerentola di questo Film Festival, almeno per chi crede, come chi scrive, che due assi curve sotto i piedi rimangano i migliori strumenti per vivere e per apprezzare la montagna bianca. 17


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eventi

Blogger Contest 2017 Le tre storie premiate da Skialper Quando è stata l’ultima volta che vi siete sentiti «forti e liberi, liberi anche di sbagliare e padroni del vostro destino»? Quando, pur essendovi resi conto di aver sbagliato qualcosa, non l’avete vissuto come un fallimento ma come forma più alta di autodeterminazione? E quali sono state le vostre emozioni? Era la paura a predominare oppure avete sentito per un attimo il gusto di essere liberi di sbagliare? Era questo il tema del Blogger Contest 2017 organizzato da altitudini.it. Un’iniziativa che vede Skialper tra i media partner con tre premi speciali. Pubblichiamo in queste pagine i tre racconti premiati dalla nostra rivista.

PARETE SUD di Vincenzo Agostini

- E allora? - Allora stasera è luna piena! In tre ore andiamo e torniamo. Ho preparato due zaini vuoti. Dentro ci sta di tutto: corde, chiodi e moschettoni. Se non vieni, da domani non ci parliamo più. Anzi, da adesso non ci parliamo più! Anzi, da subito!

Paonazzo era paonazzo, e le vene del collo pulsavano forte. Gli occhi gli uscivano dalle orbite. Mi ha anche sputacchiato addosso, senza accorgersene. - Basta, basta, basta! Ho deciso di fargliela pagare! Vieni con me? - Pagare a chi? Venire dove? - Non fare domande del cazzo! Sbrigati! Sei o non sei mio amico? - Certo che sono tuo amico, ma non è che vengo con te così, su due piedi. È già buio! Poi, a fare che? - Ma cazzo, non lo hai letto il giornale? - Certo che l’ho letto, il giornale! E allora? - Ma dai, non rompere i coglioni! Hai visto cosa ha dichiarato? Dai, sbrigati, andiamo! - Cosa ha dichiarato chi? Dai, Mauro, io non vengo da nessuna parte! - Ma tu i giornali li leggi per davvero? Quella testa di cazzo ha dichiarato che non era rimasto incrodato, che aveva alzato il braccio soltanto per riscaldarsi. Insomma, sostiene che non dovevamo soccorrerlo, quel bastardo! E io che mi sono calato quattro tiri di corda, che era quasi buio. Te lo assicuro! Era mezzo congelato, più morto che vivo. Cazzo! Fare la Sud della Marmolada in solitaria, d’inverno! - Mauro, dai, mettila via! Succede! Le teste di cazzo ci sono dappertutto, anche fra gli scalatori famosi. Probabilmente si è vergognato e ha dato la colpa al Soccorso Alpino. Sai, l’onore dell’alpinista, ste robe qua! - Onore un cazzo! Ho deciso di fargliela pagare! Sul giornale c’è scritto che domani ritenta e che, per fare prima, oggi avrebbe portato tutta l’attrezzatura all’attacco della Sud. Ha detto che stasera dorme al rifugio.

Ho squadrato Mauro dalla testa ai piedi. Un’amicizia in cambio di un furto a un alpinista che aveva fatto il furbo, per dimostrargli che in montagna abita gente più furba di lui. O almeno quanto lui. Erano quarant’anni in due. Era una luna piena che stava sbalzando da dietro il Pelmo. No, non poteva essere una notte come tutte le altre. - Vengo ma a un patto! - A un patto di che? - Al patto che non lo diremo a nessuno. A nessuno! Mai! Per tutta la vita! Qua la mano! Sarà stata la luna del Pelmo, sarà stato il freddo che intirizziva più del solito, fatto sta che ci siamo stretti la mano facendoci anche male. - Promesso! - Promesso! Di quella notte, oggi, mi restano le dita gelide che ci sbattevamo le mani l’uno con l’altro, lo sfiato dei nostri respiri all’unisono e che ci siamo stipati gli zaini di così tanta roba che ci siamo addirittura vergognati. Per quietare le nostre coscienze che mormoravano nella neve - ah, due coscienze ventenni, a notte fonda, solitarie d’inverno, nella neve! -, avendo deciso di disfarci della refurtiva, resta che scavammo una buca di mezzo metro in riva al Cordevole dove seppellimmo corde, chiodi e moschettoni. Anche resta, oggi, che Mauro non c’è più da molto tempo. La giovinezza per lui è stata difficile come quella lontana parete Sud della Marmolada in solitaria d’inverno, sotto la neve, tanto che un giorno ha deciso che non voleva più scalarla. Forse ha fatto dei segni con la mano per chiedere aiuto, però non me ne sono accorto. Di lui, dopo che gli hanno rivoltato la tomba per far posto agli altri, mi restano poche robe: due ciaspe di abete, la maglietta di flanella che mi prestò l’ultima volta che sudammo insieme e, in riva al Cordevole, resta la sepoltura di una refurtiva che soltanto io oggi conosco. Quella nessuno la sposterà mai. Resta fino adesso anche quella promessa, che dopo quarant’anni ho deciso di non rispettare più. www.facebook.com/vincenzo.agostini.7 18


LA STORIA DI E E T di Angelo Ramaglia Questa storia parla di E e di T. Lei ingegnere, ma non siate severi. Lui geometra. Viaggiatori indefessi. Attivissimi nel sociale. Pieni di amici e di gente che aspira a diventarlo. Lui maratoneta. Lei aspirante tale. Persone in gamba insomma, forse troppo per questo nostro fato burlone. Esiste un enorme catino che si chiama Val d’Ossola. Si trova in Piemonte, tra Lombardia e Svizzera. Sette sono le valli che la compongono. Una di queste si chiama Valle Antrona. La Valle è piena di laghetti, bacini più o meno naturali, dighe costruite dal genio dell’elettricità e stambecchi acrobati che ci mangiucchiano sopra in perfetto equilibrio sul vuoto. E e T dietro i consigli di C, la sorella di E, scelsero questa valle per fare una escursione. Non è impossibile che C, nota per la sua perfidia, li abbia volutamente indirizzati in quei luoghi cosciente di quel che sarebbe potuto accadere. Venne il giorno. E guardò T e T, distratto, guardava il sentiero, lungo e tortuoso, carico di dislivello, pieno di bellezza ma anche di ignoto. E guardò ancora T. E T tremò. Così fu che T dovette guardare E tralasciando di studiare il tragitto. Fu quindi Amore, probabilmente, a causare il disastro. Ora sarete in ansia per la sorte di E e di T. O forse no. In ogni caso: fate bene. I passi si perdevano tra sentieri incantati, il bosco li racchiudeva, i laghetti, innumerevoli, li deridevano scambiandosi di posto. L’anello che si erano prefissati di fare, come per incantesimo, crebbe mille volte rispetto a quel che all’inizio stimarono. Lei ingegnere. Lui geometra. L’ora era tarda, troppo tarda. E la via era lunga, troppo lunga. E nonostante le cartine, sconosciuta. Forse anche al di fuori dalle carte. Un pizzico di disorientamento, un goccio di fatica di troppo, una traccia sbagliata, panico quanto basta, un po’ di fame. E venne il buio.

U LT I M AT E C H A R G E D R I D E

È che il buio a un certo punto si stanca di essere paziente, prima si fa annunciare dalla più bella luce del mondo. Quella che i fotografi amano, i pittori imitano, gli innamorati sospirano. E poi come un sipario si abbatte sul bosco, sui monti vicini, sull’alta Andolla, sui laghetti e sulle luci della diga là in fondo, troppo in fondo. E buio coprì E e T. E e T chiamarono i soccorsi, ma solo dopo svariati tentativi riuscirono a comunicare. T avvisò casa che, molto probabilmente, non sarebbero tornati per cena. I soccorsi risposero ridendo alla richiesta d’aiuto. E e T non risero. Credo. C rise. Naturalmente. I soccorsi partirono per la loro missione di salvataggio guidati da mozziconi di telefonate, da una luce in lontananza, forse una frontale. Il richiamo di E, narra la leggenda, venne 19


confuso con il richiamo di qualcuno dello stesso soccorso e quindi dapprincipio ignorato. Il richiamo di E. Infine buio sollevò un po’ il velo pietoso dai nostri due spaventati e infreddoliti amici e li fece scovare ai soccorsi, anch’essi infreddoliti, che li rifocillarono e li accompagnarono in salvo. Pare che anche i soccorsi, scendendo, sbagliarono strada perdendosi un poco, ma questa cosa non la sapremo mai. La si scrive perché prima di tutto, nel raccontare una storia, prima ancora della verità, bisogna sempre insinuare qualcosa che getti le basi per qualche sordida polemicuccia. Ma questa storia finisce qui. Parla di E di T che si ricorderanno per sempre della libertà che goderono di perdersi, di sbagliare e di sentire che, nonostante lo spavento e il fatto di essere diventati oggetto di eterna burla, avevano appena vissuto qualcosa degno di essere raccontato e per sempre ricordato. Dedicato a E e T che telefonarono casa. ailgamar.blogspot.it

ALDO di Matteo Pavana Non mi raccontò mai come ci riuscì, ma state sicuri che Aldo a quella guerra sopravvisse, assieme al suo spirito di soldato. La sua tempra dura e severa nel corso degli anni gli valse il nomignolo di teston, poiché nulla andava mai bene se non fatto in prima persona da lui stesso. Valeva per tutte le cose, dalle più semplici a quelle più complesse, dalla scrittura di un biglietto fino al taglio di un larice nel bosco della sua casa in montagna. A questo appellativo si accostava quello di profesor, poiché nessuno poteva permettersi di contraddirlo, su nulla. Gli interrogativi più misteriosi della mia adolescenza riguardavano Aldo.

Marani d’Ala, Trentino Alto-Adige / 26 aprile 1945. A seguito dello sbarco degli americani in Sicilia, la valle dell’Adige e le valli adiacenti videro il passaggio di colonne tedesche in ritirata verso Nord, in fuga dalle colonne alleate e dalle incursioni partigiane. I reparti nazifascisti in ritirata compirono saccheggi e rapine lungo la Vallagarina, la valle dei Laghi, la Valsugana e le valli Giudicarie. Nel loro movimento i soldati tedeschi uccisero chiunque si frappose sul loro cammino. La parola d’ordine era Kein Gefangener, nessun prigioniero. In quel momento, sull’altopiano sopra Ala, i militi della Nona Compagnia del Corpo di Sicurezza Trentino (CST) stavano scappando. - Ritirata! Tutti sulla camionetta! - Aldo movete, o i ne lasa chi coi todeschi. I ne copa tuti. - Dame en moment. Ho lasà na roba zo per la trincea, drio a quel pin. Non so cosa Aldo avesse lasciato di così importante in mezzo ai cespugli da non farlo saltare come una lepre sull’arca della salvezza. Certe testimonianze dicono addirittura che si fosse addormentato dopo una notte insonne per la paura di essere catturato. Purtroppo quel giorno, qualsiasi fosse stata la causa del suo ritardo all’incontro, nessuno dei suoi commilitoni volle aspettarlo. Aldo e il suo amico vennero lasciati a piedi, da soli. Abbandonati al proprio destino.

Il primo fu capire se il matrimonio tra lui e sua moglie fosse stato imposto, piuttosto che consensuale, visto che litigavano sempre. Il secondo invece era capire perché volesse insegnare qualsiasi cosa nonostante lui stesso dicesse di aver finito gli studi alle scuole medie. La maestra l’è morta quando neva en terza avviamento, diceva sempre. Se veniva chiamato profesor era anche per prenderlo in giro. Quel giorno del lontano ’45 Aldo sbagliò, indipendentemente dalla versione dei fatti. La stessa cosa valse per i suoi commilitoni, che quel giorno incontrarono il comandante della Settima Compagnia del CST di stanza in Vallarsa, che li interrogò sul motivo della loro presenza in quei luoghi. I militanti vennero fatti scendere e fucilati all’istante. Aldo lo scoprì solamente una volta raggiunto il paese, a piedi, attraverso il passaparola degli abitanti. Aldo è stato per me l’emblema di quella filosofia secondo cui si vive una volta sola. Non ha mai avuto paura di nulla. A 88 anni saliva ancora sulla scala per cogliere l’uva dalle viti fuori casa sua, o sistemava l’impianto dell’irrigazione nonostante avesse male alla schiena. Ogni tanto gli sentivi dire sottovoce me manca el fià, perché nessuno, oltre a lui, doveva sentirlo ammettere di essere stanco. Il 26 agosto 2016 mia madre mi telefonò per dirmi che Aldo non c’era più. Aveva 90 anni. In quel preciso momento, quando ancora dovevo riagganciare il telefono, me lo sono immaginato sorridere assieme ai suoi commilitoni, mentre li scherniva per averlo abbandonato. Perché Aldo sorrideva spesso. Aldo non provava rancore. Aldo era mio nonno. www.facebook.com/occhio.verticale 20


NO ELL’AN D A P SCAR RUNNING SKY

2018


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eventi

Milano Montagna arriva alla quinta edizione

vedevano solo salti e dritto per dritto. Sciatori dell’estremo come Doug Coombs e Heini Holzer, al centro di una serata sul ripido organizzata al Festival da Skialper che si preannuncia imperdibile, o come Edmond Joyeusaz, capace di vedere linee di discesa sul Grand Combin e sul Weisshorn dove gli altri vedevano solo falesie e ghiaccio impraticabile. Registi come Guido Perrini, che ha saputo trovare un nuovo e affascinante modo di raccontare le tracce di pennello sulle grandi pareti alpine lasciate dagli sciatori più innovativi e impressionanti di questi ultimi vent’anni. Eclettici come Luca Albrisi, boarder e regista che indaga il rapporto profondo tra uomo e ambiente attraverso le attività outdoor sostenibili. Restauratori di immagini come Dave Smart, che con il suo progetto Cinema Vertigo dona nuova vita ai grandi film classici sull’alpinismo dei primi anni del 900. Scrittori come Guido Andruetto, che indaga le tracce profonde lasciate dai maestri del passato come Bonatti e Bertone sulla cultura alpinistica di oggi.

Dal 25 al 28 ottobre incontri con alpinisti, sciatori, scrittori, registi, proiezioni e presentazioni. E Skialper ci sarà

Tracce: qualsiasi segno che costituisca indizio manifesto di un passaggio. Ci sono incontri, giorni, stagioni, salite, discese e percorsi che restano indelebilmente in noi. Alcuni di questi, condivisi o raccontati, talmente potenti da costruire la memoria e l’immaginario collettivo di una comunità. L’inverno baciato dalle interminabili nevicate del 2018 che non vuole spegnersi mai e consente salite e discese che erano rimaste impossibili per decenni. Concatenamenti di cime, creste, avvicinamenti mai percorsi in precedenza. Milano Montagna Festival arriva nel 2018 alla sua quinta edizione per raccontare le tracce di grandi alpinisti, scalatori, sciatori, atleti, scrittori e registi, di ricerche e progetti, di spazi e percorsi, per comprendere quello che lasciamo dopo il nostro passaggio e cosa la montagna e la sua natura lascia dentro di noi.

Questi sono solo i primi nomi del programma che il team del Milano Montagna Festival sta preparando, nelle prossime uscite di Skialper (media partner del Festival) vi aggiorneremo ulteriormente perché l’elenco degli ospiti, dei film in anteprima e degli speech si preannuncia non solo ricchissimo ma anche - per la prima volta multicentrico. Milano Montagna Festival si svolgerà infatti dal 25 al 28 ottobre a BASE Milano ma non solo: negli stessi giorni, in tutta la città, musei, librerie, biblioteche, scuole, università, associazioni sportive, ristoranti e negozi si illumineranno di montagna proponendo una vera e propria costellazione di eventi dedicati alle tracce di montagna in città.

Alpinisti come Matteo Della Bordella, il grande visionario capace di vedere, raggiungere e scalare linee patagoniche che nessuno prima aveva immaginato. Sciatori come Arianna Tricomi e Markus Eder, che stanno riscrivendo la storia del Freeride World Tour perché hanno saputo vedere trick e rotazioni dove prima di loro gli altri

Seguite le nostre tracce! Milano montagna festival e fuorifestival 25-28 ottobre 2018 www.milanomontagna.it

©Roberta Ranalli con Claudia Capovilla

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people

Camilla Magliano Niente sarà più come prima

Vertical de Fully che si è veramente superata, piazzandosi quinta assoluta. Da allora non si è più fermata. E pensare che, solo un paio d’anni fa, alla corsa non ci pensava nemmeno. Camilla non è abituata a star ferma, non ama le etichette o la monotonia. Camilla viene da un sacco di posti diversi. Quattro anni or sono si appassiona al triathlon perché si accorge che bici e nuoto, che ama visceralmente e pratica da una vita, hanno una sorellina - la corsa - che le calza a pennello. «Correvo a caso» mi dice al telefono con una voce che sa di pioggia e meraviglia. Fuori diluvia, e in testa mi risuona un vecchio pezzo dei Pogues: My Baby’s Gone

Due lauree, master, tante opportunità di lavoro. Eppure l’ufficio le stava stretto. Ecco chi è la rivelazione della scorsa stagione del trail running

testo di SIMONE SARASSO - foto di DAMIANO BENEDETTO/CORSAINMONTAGNA.IT

Another mile along the trail You got to laugh in the face of the devil When he’s hanging on to your shirt tail

Non è facile starle appresso: provaci e te ne accorgerai. Perché è veloce, certo. Ma, soprattutto, perché Camilla non fa prigionieri, non ha tempo da perdere, e non si fermerà ad aspettarti quando il fiato corto farà poltiglia delle tue gambe. Nossignore. La rivedrai al traguardo con le tempie che gocciolano e il cuore che ti scoppia in petto. Con quel sorriso d’arance amare, e stretto in mano un altro trofeo. Camilla Magliano - torinese doc, classe 1985 - ha messo in bacheca un 2017 indimenticabile, zeppo di soddisfazioni e medaglie. E si appresta a sbranare questo 2018 masticandone la polpa succosa. Lo scorso ottobre, al Limone Extreme Vertical Gréste de la Mughéra ha portato a casa un tempo fenomenale (47’45’’94) che le ha garantito la terza piazza fra le donne (cinquantunesima assoluta). Ma è al Km

Camilla è dinamite pura. Una doppia laurea in ingegneria gestionale, l’abilità a svolgere la professione sia in Italia che in Spagna. L’ha presa vivendo un anno a Torino e uno a Barcellona ma, quando finalmente è giunto il tempo di stringere il pezzo di carta tra le mani, non sapeva che farsene. Camilla non ci pensa neanche a vivere blindata in un ufficio. Camilla nuota, pedala e corre. Camilla brucia. Cambia completamente campo da gioco: consegue un master in 24


NELLE FOTO \\ Alcune immagini di Camilla Magliano, al Memorial Partigiani Stellina, al Valbregaglia Trail e al Vertical Crazy Week Sestrière (da sinistra)

Management del Turismo e vola a Tenerife per uno stage. L’isola le scalda la pelle, ma l’aria è immobile, e la gente troppo lenta. Non le bastano i tramonti e le birrette al chiaro di luna. Camilla ha bisogno di stimoli. Ha bisogno di chilometri sotto le suole.

È allora che decide di fare sul serio e si affida alle cure del coach Sergio Benzio. Quella gara non la correrà mai (il 2016 sarà tutto dedicato al triathlon), ma presto scoprirà che la corsa in montagna è il suo terreno di caccia ideale. Rocce, sassi e dislivello: niente di meglio per scatenare quel motore incredibile che Cami si ritrova nelle gambe. Al primo trail della sua vita - la Maratona Alpina di Val Della Torre, edizione 2017 - arriva prima tra le donne e segna il terzo tempo assoluto sulla distanza di 22.200 metri, con 1.500 D+: uno stupefacente 2h20’39’’. Il resto, come si dice, è storia: ogni domenica una gara, gli allenamenti in settimana, il lavoro, il sudore, i sogni incandescenti. Camilla non è disposta a fermarsi. Camilla non la smette d’immaginare un’altra alba e un’altra salita cattiva. Camilla scalpita e non si tira indietro.

Torna in Italia e lavora come commerciale in un’azienda agroalimentare: prova a masticare orari regolari e una routine da ufficio, computer, cifre e risultati. Ma, di nuovo, la faccenda non funziona. Camilla si licenzia e si rimette in gioco. You got to live You got to learn How to find your way to the end of the night When there’s nowhere left to turn How to keep the last embers of the fire alight Un anno a Milano, al Padiglione del Messico all’Expo 2015, e poi di nuovo nella sua Torino, a lavorare per Medici Senza Frontiere. Finché i polmoni non scoppiano, ed esigono un po’ di emozioni. Camilla si riscrive all’università: decide di studiare Scienze Motorie e, nel frattempo, insegna nuoto tutte le mattine e tutte le sere. E aiuta i ragazzini delle medie a fare i compiti dopo la scuola. La sua anima al calor bianco respira profondo, finalmente. E le gambe girano, mai stanche. La prima maratona la fa per gioco: anzi, per beneficenza. Una frazione appena, tirata in ballo dalle amiche di staffetta. Ma va come un treno. E vince un pettorale per correrne una tutta sola.

Se vuoi provare a scorgere il fulmine dentro l’abisso di cristallo dei suoi occhi azzurro cielo, accomodati. Vai ad ammirarla in gara, attendila in cima al pendio più molesto. Ma stai attento a non distrarti: potresti sbattere le ciglia e scorgere soltanto le sue spalle strette che s’allontanano furibonde. Nell’aria appena l’eco di un sospiro e una vecchia canzone tutta d’un pezzo: My baby’s gone so far away She’s never coming back to me. 25


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personaggi

Facts & Figures di Tatiana Bertera

MELISSA PAGANELLI «Cosa preferisci? La boxe oppure il trail?». La bergamasca Melissa, a questa domanda, risponde con sicurezza. «Il mio sport è sempre stato e rimane il pugilato, mentre la corsa è solamente un passatempo divertente e un modo per staccare la testa». E meno male, visto che, nel giro di un anno e mezzo (cioè da quando, quasi per caso, ha iniziato a correre in montagna), si è portata a casa una vittoria all’Orobie Ultra Trail, al trail degli Altipiani, al Winter Trail del Monte Prealba, alla Grande Corsa Bianca e alla Abbots Way 125k. E anche con i guantoni non scherza: già campionessa italiana di kick boxing, ora è una veterana della boxe femminile, dove continua a collezionare risultati.

CRISTIAN CANDIOTTO

DINO LANZARETTI

CAZZANELLI & CAMANDONA

Nel mese di febbraio, insieme a tre clienti, la Guida alpina valtellinese Cristian Candiotto (Cinghio per gli amici) ha realizzato l’Haute Route delle Orobie Occidentali partendo da Culmine San Pietro in Valsassina e arrivando a Tartano in Valtellina. Quattro giorni il tempo impiegato per percorrere 80 km e 6.000 metri di dislivello positivo. Durante il tour, per non farsi mancare proprio nulla, ha inoltre realizzato la prima discesa di un nuovo canale di ripido sulla sponda Nord/Ovest del Pizzo della Nebbia. «Vivo l’attimo alla ricerca di avventura per me stesso e ora con i miei clienti. Mi piace poter esplorare con loro linee nuove o, come quest’anno, il tanto sognato tour orobico».

Lavorava in un ufficio, fino a una quindicina di anni fa. Ora, invece, è cittadino del mondo e non tornerebbe più alla vita di prima. Prima trekker con lo zaino in spalla, poi alpinista e infine viaggiatore sulle due ruote… della bici ovviamente. Ad oggi ha fatto due volte il giro del mondo e pedalato per più di 80.000 chilometri. L’ultima sua impresa, sempre e rigorosamente in solitaria, è stata la traversata della Siberia, con temperature intorno ai -50 gradi (forse anche più basse). Quasi un anno per tornare ad abbracciare la famiglia. «Quelli che ci avevano provato prima di me sono morti, ma questo l’ho scoperto solamente una volta tornato».

Un award per due, verrebbe da dire. Marco Camandona di ottomila è ormai un esperto, l’ex scialpinista della nazionale e Guida alpina François Cazzanelli ci sta prendendo gusto. Per Cama e François a fine maggio la vetta del Lhotse (8.516 m) senza ossigeno, mentre sei giorni prima Cazzanelli era salito anche sull’Everest con l’ossigeno, in compagnia dell’astronauta Maurizio Cheli. Camandona aveva rinunciato a causa del malore di uno sherpa che ha determinato la mancanza di bombole per tutta la spedizione, rimanendo con un cliente al campo 4. Lui sulla montagna più alta del mondo era già salito nel 2010 e ora è a quota otto 8.000, per Cazzanelli sono invece i primi due.

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gare

©whistaler.com

Attesi in 1.800 alla Grossglockner Ultra-Trail Dynafit sarà main sponsor della spettacolare gara austriaca fino al 2020

Ci sono gare che più di altre sintetizzano lo spirito della corsa in ambiente alpino. Non c’è dubbio che il Grossglockner Ultra-Trail sia una di queste. Perché si corre su uno dei percorsi più spettacolari del mondo, attorno ad una montagna simbolo dell’Austria. Tra il 27 e 29 luglio sono attesi 1.800 partecipanti da oltre 40 Paesi sulle quattro distanze previste. Sono in calendario l’Ultra-Trail (110 km, 6.500 m D+), il Trail (75 km, 4.000 m), il Kalser Tauern Trail (50 km, 2.000 m D+) e il Weisse Gletscherwelt (30 km, 1.000 m D+). Il percorso della gara regina segue in gran parte il giro Glocknerrunde, intorno alla montagna più alta dell’Austria, il Grossglockner (3.798 m). Start e arrivo si trovano a Kaprun, nella regione del Pinzgau, che fa parte del land di Salisburgo. La novità del 2018 è il percorso da 75 km e c’è anche la possibilità di correre l’Ultra-Trail in staffetta da due, con cambio a Kals. In questo caso la prima frazione è di 60 km e 4.500 m D+, la seconda da

50 km e 2.000 m D+. Se non bastasse il panorama più spettacolare dell’Austria, ecco altri motivi per comprendere la crescente popolarità di queste gare che Dynafit sostiene fin dall’inizio. L’azienda del leopardo delle nevi ha infatti rinnovato la collaborazione con gli organizzatori fino al 2020. Il marchio del gruppo Oberalp si identifica nel Grossglokner Ultra-Trail perché è una gara su terreno tecnico di alta montagna che richiede molto agli atleti e alla loro attrezzatura. E la nuova scarpa Ultra Pro è stata pensata proprio ispirandosi a questo tipo di gara. Gli obiettivi di progetto sono ammortizzazione, protezione e stabilità. La suola Vibram con mescola Megagrip è garanzia di ottimo rapporto fra grip e trazione sui terreni alpini particolarmente insidiosi e l’intersuola è in EVA a due densità con diversi spessori. Infine l’Heel Preloader, un rinforzo diagonale sul tallone, migliora la calzata e aumenta il comfort nella parte posteriore del piede. 28

COSÌ L’ANNO SCORSO Nel 2017 la vittoria dell’UltraTrail è andata a Gerald Fister in 15h03’45’’ e tra le donne a Juliette Blanchet in 17h27’49’’. Fister ha vinto anche nel 2016, mentre al secondo posto tra le donne nel 2016 è arrivata Katia Fori.


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L’innovation award della nostra Outdoor Guide 2018 strizza l’occhio alla versione moderna e fast & light dell’alpinismo e si affianca al modello da 22 litri. Essenziale, molto pratico e leggerissimo, nonostante il poco peso è robusto. Un progetto ben riuscito per uscite di più giorni o che richiedono molto materiale.

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2 6 1. Volume di carico flessibile (da 35 a 45 litri) grazie al doppio sistema di chiusura a sacchetto e con fibbia. 10

2. Chiusura principale rapida, con fibbia e anello in fettuccia per facilitare l’apertura/chiusura anche indossando i guanti. 3. Seconda chiusura ad avvolgimento con fibbie rapide. 4. Tessuto molto robusto. 5. Fondo rinforzato. 6. Pannello rimovibile in EVA da 4 mm utilizzabile come sedile durante i bivacchi.

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7. Due maniglie superiori collegabili per recupero e trasporto. 8. Due porta piccozza con velcro superiore e tasca inferiore per le lame con rinforzi in Hypalon. 8

9. Tasca interna asportabile con doppia zip, utilizzabile come tracolla dopo la scalata.

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©Alice Russolo

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10. Fettucce laterali asportabili per fissare materiale all’esterno e comprimere il carico.


It’s my nature

PONTEDILEGNO-TONALE BREAKING NEWS www. pontedilegnotonale.com

©Riccardo Meneghini

29 GIUGNO-1 LUGLIO

6-8 LUGLIO

BIKE DAYS

TRAIL DAYS

It’s my nature

Passione due ruote

Trail Academy

Tre giorni dedicati alla bike in tutte le sue forme. Alessandro Ballan attende gli amanti della bici da strada per affrontare insieme i leggendari passi Gavia e Mortirolo; Matteo Berta condurrà gli appassionati del cross country alla scoperta di alcuni suggestivi itinerari mentre Bruno Zanchi ha in serbo una proposta gravity e un tour enduro per i più spericolati. Sono ammesse anche le e-bike, quel che conta è partecipare e divertirsi! La manifestazione prenderà il via venerdì 29 giugno con una tavola rotonda con i tre testimonial e sabato sera è previsto un bike party con concerto in un rifugio in quota. www.pontedilegnotonalebike.com

Corso di trail running dedicato a chi ama correre in libertà a contatto con la natura. La tre giorni, che prevede esercitazioni di tecnica di corsa alternate a momenti di lezione su vari temi, dalla corretta alimentazione ai materiali tecnici e al mental training, è rivolta davvero a tutti: verranno rispettati sia i ritmi di chi corre a livello professionistico sia quelli di chi si approccia per la prima volta a questa disciplina. Il corso sarà a cura del preparatore atletico Eros Grazioli, che ha pubblicato diversi manuali con Mulatero, e avrà come testimonial Marco De Gasperi.

6 LUGLIO-2 SETTEMBRE ENJOY STELVIO NATIONAL PARK

Bike only Passi chiusi al traffico motorizzato dalle 9 alle 16 (orari indicativi), per un totale di sei giornate dedicate a chi ama pedalare, cimentandosi su due salite rese celebri dal Giro d’Italia che regalano grandi emozioni e incantevoli panorami. Si tratta di un progetto del Parco Nazionale dello Stelvio che interessa anche i passi Mortirolo e Gavia. Chiusura traffico Mortirolo: 6, 26 luglio e 31 agosto - chiusura traffico Passo Gavia: 7, 27 luglio e 2 settembre.

IL 14 LUGLIO SI CORRE DI NOTTE Si chiama Ponte di Legno Sky Night ed è una suggestiva gara di corsa in montagna al chiaro di luna. Partenza alle ore 21 dalla piazza di Ponte di Legno, i concorrenti affronteranno 3 km in piano per poi concentrarsi sui 2 km di vertical sulla pista da sci del Corno d’Aola e sui 7 km di discesa attraverso il bosco.

7 LUGLIO STONE BRIXIA MAN

Per uomini duri ©Riccardo Meneghini

14 LUGLIO GROUP CYCLING SPECIAL CLASS

Benessere in quota Ecco la pedalata più cool dell’estate! Preparatevi a pedalare a 2.750 metri di quota, in un contesto naturale unico, ai piedi del ghiacciaio Presena. Group Cycling è la disciplina su bike stazionaria tutta made in Italy che nasce dalla partnership tra ICYFF e Technogym. L’evento si articolerà in tre ride da 50 minuti e prevede anche una salita in cabinovia fino ai 3000 m di Cima Presena, dove far spaziare lo sguardo sui ghiacciai dell’Adamello. Per iscrizioni: info@adamelloskl.com o tel. 0364.92097 (posti limitati)

Torna per il secondo anno la full distance riservata ad autentici ironmen. Si tratta di un triathlon che si sviluppa sulla distanza classica di 3,8 km di nuoto al buio nel lago d’Iseo; 175 km e 4.700 m di dislivello in bicicletta risalendo la Valle Camonica e affrontando i passi Aprica, Mortirolo e Gavia; 42 km di corsa con 2.350 m di dislivello fino ai 2.500 m di Passo Paradiso dove è posto il traguardo. www.stonebrixiamanxtri.com

7 impianti di risalita sono in funzione durante l’estate; 4 di questi sono attrezzati per il trasporto delle bike e sono racchiusi in un Bike Pass che è disponibile nella versione da 1 giorno (€ 20), pomeridiano (€ 15), da 6 giorni (€ 80) oppure stagionale (€ 150).


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biblioteca

Sei libri dal premio ITAS di Trento Giunto alla quarantaquattresima edizione, ha aperto il Trento Film Festival ed è tornato alla sua naturale cadenza annuale di Leonardo Bizzaro

La lezione del freddo

L’uomo montagna

di ROBERTO CASATI (Einaudi, 180 pagine, 18 €)

di SEV ÉR INE G AU THIER e AMÉLIE FLÉCHAIS (Tunué, 48 pagine, 14,90 €)

In un’epoca e a latitudini come le nostre, parlare di freddo sembra quasi un non-senso (vabbè, ultimo inverno a parte). Ma nelle mani di un filosofo cognitivista che da un’università parigina si trasferisce per un anno con la famiglia tra le nevi del New Hampshire, il freddo diventa un dato attorno a cui si modella la vita di quattro persone. E del cane Blacky, che adora il calore come una divinità. Dall’esperienza di un lungo soggiorno in una casa tra i boschi, sfiorata dal mitico Appalachian Trail, Casati trae un testo di appassionante lettura, che giustamente si è aggiudicato la palma del vincitore.

L’attraversamento invernale delle Alpi d i A L B E R T O PA L E A R I (MonteRosa edizioni, 208 pagine, 15,50 €)

Non è facile portare la montagna in una storia per bambini. O meglio, non è facile farlo senza scadere nella banalità. Narratrice e illustratrice di questo albo lo fanno in maniera perfetta, per raccontare il primo viaggio del bambino montagna, lasciato partire dal nonno al quale le vette ormai cresciute a dismisura sulle spalle non permettono più di muoversi. Il piccolo va e andando diventa uomo, un percorso iniziatico e di formazione che piacerà ai giovani lettori ma che ha convinto anche gli adulti, strutturato com’è in forma di graphic novel. Premio narrativa per ragazzi.

Un viaggio nella storia e nelle storie, così lo presenta l’editore - che poi è la sua compagna Livia Olivelli, animatrice di una delle più piccole case editrici al mondo. Torna Alberto Paleari, guida alpina, narratore, intellettuale della montagna, e ci regala stavolta il racconto di un’avventura a due passi da casa, l’attraversamento invernale delle Alpi dal lago Maggiore al lago dei Quattro Cantoni in Svizzera: una traversata per il largo, non per il lungo, ma non per questo meno affascinante, tanto più se raccontata da un ottimo narratore. Segnalazione della giuria.

La cresta infinita

Echi del silenzio

di ANDREA CONTRINI (Publistampa Edizioni, 240 pagine, 32 €)

Il peso delle ombre

di SA NDY A LL A N (Alpine Studio, 180 pagine, 19 €) Allan, maturo alpinista scozzese, ha firmato con l’amico Rick Allen uno dei migliori exploit himalayani degli ultimi quarant’anni (dall’Everest in solitaria e senza ossigeno di Messner?), l’infinita Mazeno Ridge sul Nanga Parbat, tentata dieci volte prima e portata a termine in diciotto giorni di lotta strenua, gli ultimi tre senza cibo né carburante per fondere la neve. La narrazione è un esempio felice di come si possa raccontare un’avventura epica senza mai esagerare, con i toni misurati e sempre autoironici della migliore letteratura britannica. Premio per la non narrativa.

Nel centenario della Prima Guerra Mondiale, molti sono stati i testi che ne hanno raccontato le motivazioni nobili (almeno a parole) e l’immane tragedia. Contrini, con i testi di Fernando Larcher, ripercorre quattro anni di conflitto lasciando al lettore il compito di trarne le conclusioni, limitandosi a offrirgli la testimonianza fotografica di quel che fu la carneficina sul fronte della montagna, dal lago di Garda al Pasubio, alternando le immagini di trincee, reticolati, cunicoli, graffiti a quelle dei paesaggi finalmente pacificati. Menzione speciale per un’opera trentina.

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di MARIO CASELLA (Gabriele Capelli editore, 192 pagine, 18 €) Due sono i macigni che pesano sull’alpinismo, la morte e la menzogna. Casella affronta la seconda, lungo un sentiero che serpeggia tra le vicende delle montagne, senza imbarazzi cronologici. Dal K2 degli italiani a Cook sul McKinley, da Tomo Česen sul Lhotse a Maestri sul Cerro Torre, l’autore non giudica, si limita a raccontare storie di bugie, di verità negate, di destini stravolti. Uno dei libri più importanti degli ultimi anni e se è stato solo segnalato dalla giuria - e non premiato - lo si deve unicamente al fatto che Casella già ha vinto l’Itas, nel 2013 con Nerobianco-nero.


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PUNTA PIÙ IN ALTO Cerchi uno zaino che resti fermo e vicino alla schiena senza impedirti di raggiungere comodamente la presa successiva? Apex Climb è uno zaino tecnico per vie a più tiri in giornata, progettato per lasciare tutta la libertà di movimento di cui ha bisogno uno scalatore. Gli spallacci sdoppiati Split Shoulder Strap lasciano una ampia mobilità alle braccia anche nei movimenti per raggiungere le prese alte sopra la testa. Il design aderente e affusolato dell’Apex Climb permette di arrampicare in libertà avendo il carico sempre stabile e aderente alla schiena.

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SALEWA.COM


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LE SCARPE COUPS DE COEUR

Edicola Globale

Trail Races - donna Salomon S/Lab Sense 6 Scott Supertrac RC

Primavera tempo di test: ecco cosa pensano delle scarpe da trail e da hiking in Francia. E dello skialp olimpico…

Trails by Endurance

Trail Races - uomo Millet Light Rush New Balance Summit v2 Road to Trail - donna Kalenji Kiprun Trail TR La Sportiva Helios 2.0

n° 128

76 scarpe da trail testate Settantasei modelli di scarpe, 21 marchi, 4 categorie, 13 testatori, 8 uomini e 5 donne, 67 pagine. Ecco i numeri del Big Test Shoes Trail 2018 della rivista francese Trails by Endurance. I modelli Trail Races sono pensati per chi ha lo spirito agonistico nel sangue e il criterio principale di scelta è il peso (massimo 270 gr nella misura 43). Road to Trail è la categoria per chi corre sul misto o si avvicina al trail con cushioning e rullata come obiettivi principali. Mountain Trail si riferisce a scarpe tecniche, per un terreno di montagna e con grip impeccabile, oltre a un buon livello di protezione. Infine All Tracks / Ultra è la categoria della media montagna senza troppe difficoltà tecniche e delle grandi distanze, con stabilità e fit come prerogative principali. Non sono poche le sorprese nel protocollo del test e nella scheda scarpe. I primi tre giudizi numerici, infatti, sono il frutto di un blind test, con i testatori bendati. Si tratta dei valori relativi al comfort, fit e allacciatura. Per ogni modello, inoltre, è stato ricavato un indice minimalista. I valori sono stati tradotti in lettere dalla A alla E, con A come indice di minimalismo assoluto ed E di massimalismo. Tradotto in parole semplici: più una scarpa è massimalista e più protegge la biomeccanica di corsa, al contrario se è minimalista. Indipendentemente dalle considerazioni sui singoli modelli, sono interessanti alcuni dati e valutazioni. Lo standard dell’industria, secondo i colleghi francesi, si posiziona tra D ed E, quindi verso il massimalismo assoluto e il minimo per avere protezione è la lettera B. La Clinique du Coureur si spinge oltre, segnalando che per ogni dieci per cento di aumento dell’indice (ogni lettera corrisponde a un 20%) è necessario un mese di adattamento da parte del runner. In pratica, per passare da una Hoka a una Inov-8 spinta ci vorrebbero cinque mesi…

Trek Magazine

maggio/giugno 2018

La scarpa italiana fa saltare il banco Otto scarpe da trekking in prova nella rivista francese dedicata all’escursionismo: Asolo Lagazuoi GV ML, Forclaz Trek 900, Hanwag Tatra Light Lady, La Sportiva Nucelo GTX, Lowa Ticam II GTX, Millet High Route GTX, Salomon Authentic LTR GTX e Tecnica Forge GTX. Proprio Forge si è dimostrata la migliore, con un 5 su 5 alla voce grip e 4,5 per comfort, usabilità e qualità di costruzione, oltre a ottenere 4,5 su 5 per il rapporto qualità prezzo. «Tecnica batte un grande colpo con questa Forge GTX basata su una soletta e un malleolo termoformabili. Risultato: calzata su misura e comfort immediato. Il piede è perfettamente avvolto, nessuno spazio vuoto o punto di pressione e sostegno plantare senza appunti. (…) In marcia la sensazione di leggerezza è accattivante, la camminata iper-fluida, con una stabilità più che rassicurante, come il grip della suola Vibram Megagrip che ci ha lasciato senza parole».

da leggere

Road to Trail - uomo Adidas Superonova Trail Kalenji Kiprun Trail TR Mountain Trail - donna Arc’teryx Norvan LD Tecnica Inferno X-Lite 3.0 W Mountain Trail - uomo Brooks Cascadia 12 Kalenji Kiprun MT All Tracks Ultra - donna Salomon S/Lab Ultra Saucony Peregrine 8 All Tracks Ultra - uomo Salomon S/Lab Ultra

«LA GRANDE COURSE È LA CRÈME DE LA CRÈME, NON PARTECIPERÒ AI CAMPIONATI DEL MONDO» Jakob Hermann, a proposito della concomitanza Pierra Menta/Mondiali, su Montagnes Magazine del maggio 2018

Montagnes Magazine

maggio 2018

Olimpiadi? Sì, ma non a tutti i costi Ampio reportage dedicato allo scialpinismo e alla prospettiva olimpica sulla storica rivista francese. Inka Bellés Naudi, l’autrice dell’articolo, ha sentito tutte le principali parti interessate dall’argomento, dagli organizzatori alla federazione e agli atleti. «Anche se la ISMF e la Grande Course incarnano due concezioni ben diverse dello scialpinismo, la prima chiaramente orientata verso l’olimpismo, la seconda votata al rispetto della tradizione dello sport, entrambe vedono nei Giochi Olimpici un’opportunità per fare crescere la disciplina nel suo insieme» scrive Bellés Naudi. Interessanti le voci degli atleti. Puristi Bon Mardion e Gachet, più possibilista Roux. «Ho conosciuto la competizione con la Pierra Menta e con i Giochi Olimpici stiamo per perdere il nostro vero sport» dice BonMa. Gli fa eco Gachet: «Ho paura che il giorno che lo skialp sarà olimpico ci si limiti a sprint, vertical e staffetta. Non sarà più lo stesso sport». La Roux preferisce correre una Pierra Menta ma ammette che i format olimpici sono più mediatici. Barbara Luboz, del Tour du Rutor, considera i due format completamente diversi e rivaluta il ruolo della stampa che dovrà spiegare che quello olimpico non è lo scialpinismo nella sua integralità. Laetitia Roux esprime anche dei dubbi sulla scelta di sedi come Pechino dove la neve sarà tutta programmata: «Sono decisioni che fanno male al cuore, non le capisco». Infine un dato che riguarda la sovrapposizione dei calendari La Grande Course e ISMF: nel 2018 il 50% dei 30 migliori uomini e il 47% delle donne top 30 era al via alla Pierra Menta. Nel 2001 il 100%. 33


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ambiente

The clean approach Le idee dietro al documentario che sta avvicinando il mondo degli sport outdoor a quello dell’ambientalismo

testo di LUCA ALBRISI - foto di ALFREDO CROCE

Possono un paio di sci d’alpinismo o una splitboard contribuire a farci percepire come parte del tutto? E appoggiando le mani sulla roccia possiamo arrivare a intuire la nostra posizione nel mondo? Da molto tempo mi rimbombavano in testa domande come queste. Ho una formazione filosofica, c’è poco da fare. La mia tendenza è farmi domande, sempre. Costantemente. Il fatto che poi molto spesso queste non trovino risposte precise - perché di fatto, spesso, non ce ne sono proprio - non allevia la quantità di domande che continuano a invadere i miei pensieri. Ma ormai ci ho fatto l’abitudine, ci convivo. La cosa positiva però è che negli anni ho capito che correlata ad ogni domanda, ad ogni questione, posso sviluppare un ragionamento e spesso scrivere, filmare o anche solo parlare. Insomma, provare a snocciolare l’argomento raccontandolo, avvicinandomi così il più possibile alla realtà. The Clean Approach ha avuto un’origine molto lontana ed è nato proprio in questo modo, da alcune domande reali che ho iniziato a pormi tanti anni fa e che da allora hanno continuato a rimanermi in mente. Perché sto così bene quando sono in montagna o in luoghi a stretto contatto con la natura incontaminata? Perché quando faccio snowboard o splitboard, quando corro, cammino o arrampico sono così felice? Da dove nasce questo senso di appagamento? Prendere atto di tutte le sensazioni positive (anche se non sempre piacevoli) vissute durante il mio stare in montagna mi ha aiutato a capire che i luoghi naturali mi fanno provare queste emozioni per il semplice fatto che sono posti in cui mi trovo di fronte a ciò che sono. In questi luoghi posso infatti toccare con mano la materia di cui siamo realmente fatti. Tutti noi. E questo, credo, non può che farci sentire profondamente in pace con noi stessi e con quello che stiamo facendo. Biologicamente parlando, è proprio dalla natura che abbiamo origine ed è alla natura che siamo destinati. Semplicemente nel corso della storia umana ci siamo discostati da quello che realmente siamo e dal rapporto che avevamo con il nostro vero ambiente naturale. Sono certo che in tutti questi anni quello che più di ogni altra cosa mi ha avvicinato a questa consapevolezza non sono stati studi o letture di qualche genere (non solo almeno) bensì le attività che praticavo in natura. Senza lo splitboarding, la corsa in montagna, l’arrampicata, non sarei mai giunto alla consapevolezza che mi fa scrivere oggi queste parole e che mi ha portato a realizzare un documentario come The Clean Approach. Proprio per questo T.C.A. cerca di presentare le attività outdoor sostenibili sotto una veste nuova, cioè come un mezzo per arrivare a una consapevolezza del rapporto tra uomo e natura come quella che descrivevo poco fa. Credo sia importante iniziare a pensare a come gli sport e le attività di cui ci nutriamo possano essere vissute non solo in un’ottica di performance sportiva (che trovo comunque importante alimentare) ma anche con il fine di riavvicinarci a noi stessi e all’ambiente nel quale siamo più a nostro agio (anche se non sempre sembriamo ricordarcelo).

Proprio questo riavvicinamento ci mette inoltre di fronte ad alcune problematiche ambientali in atto e che, all’interno di ambienti almeno parzialmente preservati, diventano ancora più evidenti. Lo scioglimento dei ghiacciai, il cambiamento climatico, la deforestazione, lo sfruttamento ambientale, il mancato rispetto di flora e fauna sono tutti lì, sotto i nostri occhi. Evidenti. E proprio da questa evidenza si generano in noi sentimenti contrastanti che ci portano ad amare quei luoghi e quella natura che tanto ci fanno sentire a nostro agio e in pace con noi stessi, ma senza poter evitare il profondo rammarico che scaturisce dalla sofferenza ambientale di questi luoghi, tangibile e innegabile. E allora nascono altre domande: Cosa possiamo fare noi? Come possiamo tutelare questo ambiente a noi così caro? Purtroppo però, nella maggior parte dei casi, tendiamo a gettare la spugna a priori pensando che non sia in nostro potere cambiare questa condizione; che sia qualcosa di troppo grande per noi e al di là delle nostre possibilità. 34


IL CORTOMETRAGGIO Inizio riprese: gennaio 2017 Fine riprese: settembre 2017 Giornate effettive di shooting: 15 Ore di girato: circa 35 Ore di montaggio: circa 150 Location delle riprese: Parco Paneveggio/ Pale di San Martino - San Martino di Castrozza; Parco Adamello Brenta Dolomiti di Brenta; Parco dello Stelvio - Peio Numero totale di persone coinvolte: 25 Durata documentario completo: 43 minuti Potete consultare le date di proiezione del documentario The Clean Approach direttamente sulla pagina Facebook: facebook.com/TheCleanApproachMovie/

Ecco, con The Clean Approach abbiamo cercato di fare un piccolo passo più in là, provando a capire quale atteggiamento possiamo avere noi che amiamo così tanto queste attività e questi luoghi. Come possiamo provare a ridurre almeno un po’ l’impatto della nostra pratica e renderci consapevoli di come alcune attività apparentemente pulite, possano in realtà non esserlo del tutto. Ovviamente l’obiettivo non è il divieto o la rinuncia, ma piuttosto lo sviluppo di una consapevolezza che possa essere alla base di un modo pulito di approcciarci agli ambienti naturali tramite le attività outdoor sostenibili. Per cercare di sviluppare una cultura e una sensibilità riguardo a queste tematiche che possa essere condivisa da chi come noi pratica da anni ma anche da chi si avvicina a queste attività da zero e che, senza colpa, spesso non ha una precisa percezione della delicatezza di certi luoghi. Così la stessa passione che alimenta la nostra voglia di andare in montagna può alimentare anche un fondamentale cambiamento che sia in grado di contagiare non solo altri praticanti, ma anche le istituzioni che troppo spesso antepongono interessi economici a

quelli di conservazione naturale. Se è vero che «bisogna ricercare il miglioramento e non la perfezione», anche nel nostro modo di approcciarci alla montagna possiamo fare piccoli passi per andare più in là e cercare di ridurre il nostro impatto rispetto a quanto siamo stati abituati in passato, facendo coincidere gli obiettivi sportivi con quelli di rispetto verso l’ambiente naturale. Per questo in The Clean Approach coesistono diverse voci: quella emozionale, che scaturisce dalla nostra profonda passione nell’andare in montagna; quella della delusione che deriva dal porsi di fronte alla sofferenza delle aree naturali. Quella della speranza in un cambio di paradigma che derivi da una vera identificazione con il mondo naturale e che ci veda impegnati in prima linea come massa critica nella tutela degli spazi naturali. Con un approccio sempre più consapevole, se pur imperfetto. Con un approccio sempre più semplice e pulito che ci riavvicini a ciò che veramente siamo. 35


iniziative

L A SPORTIVA 90th, IL LIBRO Nove mesi di lavoro da parte della nostra redazione per realizzare il libro celebrativo di questa importante ricorrenza, oltre al supplemento che trovate in allegato testo di EMILIO PREVITALI - foto di FEDERICO RAVASSARD

uando mi è stato chiesto di lavorare a un progetto di storytelling per celebrare i 90 anni di storia de La Sportiva, la mia mente è tornata immediatamente alle prime gare di arrampicata della storia, in Valle Stretta, nel luglio del 1985. Anzi, a qualche mese prima, quando io ero un bócia entusiasta e motivato con il sogno di vivere di arrampicata. Magari a voi la frase e il concetto adesso faranno un po’ ridere (anche a me, adesso) ma allora, a quell’epoca, l’idea mia e di molti altri come me era proprio riassunta in quella frase lì: vivere di arrampicata. Erano gli anni magici della nascita e dello sviluppo dell’arrampicata sportiva, scalare non significava più soltanto conquistare o lottare contro l’Alpe, significava praticare uno sport. Allenarsi. Progredire. Fare cose sempre più difficili, usando un’immagine più epica di quelle che vanno di moda oggi, trasformare l’impossibile in possibile. Era un momento magico, irripetibile, successivo al Nuovo Mattino e preludio di qualcosa di meraviglioso che faticavamo perfino a immaginare. Dalle scarpe rigide a suola scolpita si era passati alle scarpe morbide a suola liscia. Dalle imbracature alte con le bretelle eravamo passati a quelle basse in vita che lasciavano più libertà, l’idea chiave in ogni campo era libertà. Dai pantaloni con le toppe sui gomiti e sulle ginocchia eravamo passati alle calzamaglie e ai pile; dal colore rosso e blu si era passati al viola e al fuxia, anche per i maschi. Dal free-climbing e dai nuts nelle fessure eravamo passati agli spit in placca, l’arrampicata si era trasformata, finalmente, in un gioco. Per diventare eroi non era necessario rischiare di morire, andare ad arrampicare voleva dire praticare uno sport e non c’era niente di cui vergognarsi. Dal settimo grado e dalle grandi pareti eravamo passati al sogno dell’8a in falesia, che in pochi ancora facevano ma che era, almeno teoricamente, alla portata di tutti. A portata di chiunque si allenasse costantemente e con dedizione assoluta e quindi, anche alla mia portata. L’Himalaya e il Monte Bianco o le Dolomiti erano roba per gli specialisti ed erano luoghi lontani, troppo distanti anche nell’immaginario per uno di diciotto anni che non pos-

sedeva nemmeno un motorino 50 cc per andare giro. Ad arrampicare andavo in bici. L’8a a differenza delle grandi montagne era vicino, a pochi chilometri, a Cornalba o a Arco o a Finale o magari anche nella Cava di Nembro, dove mi allenavo ogni giorno: un anno ci sono andato 272 volte. Potevo toccarlo con le mie stesse mani l’8a e anche il futuro dell’alpinismo. Viverlo. E poi con le gare c’era l’adrenalina del confronto diretto con i grandi: io e altri bócia come me a Bardonecchia avremmo finalmente potuto confrontarci in modo diretto, sulle stesse vie, con le leggende dell’arrampicata di cui leggevamo sulle riviste, avremmo finalmente potuto tradurre in metri o in appigli di distacco la differenza tecnica tra noi e loro. In fondo ero consapevole in falesia di non essere peggio di tanti alpinisti celebri e celebrati che avevo conosciuto e visto arrampicare, anzi. Io ravanavo sulle loro vie ma li avevo anche visti in Cava a ravanare sui miei passaggi e sulle mie vie. Quindi.

Q

Nonostante tutto a quella prima gara, nel 1985, avevo deciso di non partecipare. Non mi sentivo pronto. Simone sì invece, lui era sempre pronto e convinto, lui non dubitava. Mai. Simone avrebbe partecipato a Sportroccia ‘85. Il Càmos, che era un po’ il Maestro di Simone, si interessò presso Cassarà e Mellano (gli ideatori e organizzatori di Sportroccia) e lo fece invitare. «E tu?» mi chiese un’ultima volta ancora il Càmos prima fare quella telefonata a Torino. Io non avevo coraggio abbastanza per buttarmi nella mischia. In virtù di quella decisione di partecipare alla gara Simone era diventato un arrampicatore potenzialmente interessante anche per un eventuale sponsor, La Sportiva, che cercava giovani e promettenti atleti a cui mettere le proprie scarpe gialle e viola ai piedi. Non importava in quel momento essere il migliore, importava essere presente alla gara e Simone ci sarebbe stato e per la natura stessa della competizione, che mette tutti sulla stessa linea di partenza, avrebbe anche potuto vincere. Quella era la magia. Chiunque poteva vincere, a Bardonecchia. Chiunque tranne me, che non avrei partecipato. Mi pentii quasi subito della mia decisione, ma ormai era presa e

NELLE FOTO \\ Un momento della visita in azienda di Alex Honnold (sopra) e Lorenzo Delladio, presidente e CEO de La Sportiva, con il libro celebrativo dei 90 anni insieme a Davide Marta ed Emilio Previtali (sotto)

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iniziative NELLE FOTO \\ Alcuni momenti dietro le quinte del lavoro per la realizzazione del libro (sotto) e della festa per i 90 anni al Muse di Trento (a destra)

non si poteva tornare indietro. Io, Simone e Càmos qualche settimana prima di Sportroccia, appena terminata la scuola, andammo insieme in auto a Tesero, arrivammo e ci incontrammo con Francesco e Lorenzo Delladio. Ci fecero vedere lo stabilimento e nuovi modelli di scarpette bellissime. Poi Simone e il Càmos sparirono negli uffici e nel magazzino per qualche decina di minuti, io aspettai in una saletta. Io non ero parte del team, non avevo alcun requisito per poter partecipare alla riunione. Simone tornò con un bottino fantastico: delle scarpe Mariacher nuove fiammanti, una calzamaglia gialla con delle mezze lune disegnate sopra, una felpa con lo stemma La Sportiva e un paio di magliette senza maniche (allora le magliette senza maniche che lasciavano intravedere i muscoli erano merce rara). Soprattutto Simone aveva firmato il suo primo contratto. La carriera verso il professionismo era iniziata. Tornammo a casa, Simone e il Càmos con le loro cose e io a mani vuote, seduto sul sedile posteriore e un po’ mogio, in ogni caso ero contento per loro. E in fondo poi cosa avrei dovuto pretendere? Non ero un concorrente di Sportroccia ’85 e due testimonial La Sportiva nella provincia di Bergamo - Càmos e Simone - bastavano e avanzavano. Io per vivere di arrampicata avrei dovuto arrangiarmi in un altro modo.

I L L I B R O E L’A L L E G AT O L’allegato a questo numero è l’estratto del libro celebrativo dei 90 anni di La Sportiva, un pregevole tomo di 192 pagine dalla copertina nera e gialla, i colori La Sportiva. Il volume è stato ideato, scritto e realizzato dalla nostra casa editrice, con la supervisione di Davide Marta e Luca Mich e il concept e lo storytelling di Emilio Previtali. Il progetto grafico è di Next Level Studio, mentre le infografiche sono state realizzate da GBF. All’interno testi di Hansjörg Auer, Giulio Beggio, Enrico Camanni, Bob Culp, Pietro Dal Prà, Floriana Deflorian, Giulia Castelli Gattinara, Luca Giaccone, Alexander Huber, Manolo, Luca Mich, Simone Moro, Matteo Pavana, Claudio Primavesi, Federico Ravassard, Vinicio Stefanello, Mario Verin, Rosy Zorzi. Le foto sono di Pavel Blazek, Walter Cainelli, Gianpaolo Calzà, Jimmy Chin, Klaus Dell’Orto, Oscar Durbiano, Rémi Fabregue, Riky Felderer, David Goettler, Igor Koller, Stefano Jeantet, Damiano Levati, Matteo Mocellin, Federico Modica, Thomas Monsorno, Piotr Morawski, Simone Moro, Matteo Pavana, Javi Pec, Federico Ravassard, Corey Rich, Alice Russolo, Celin Serbo, Storyteller Lab, Mario Verin, Heiko Wilhelm, Heinz Zak, Claudia Ziegler.

Quando ho presentato la mia idea per il libro dei 90 anni de La Sportiva ero da una parte attirato dalla possibilità di realizzare il progetto e dall’opportunità di raccontare la storia di un’azienda così prestigiosa e dall’altra spaventato dalle difficoltà e dalla responsabilità, era una bella sfida. Alla fine mi sono ritrovato con questo incarico, Lorenzo, suo figlio Francesco e Luca si sono subito mostrati entusiasti. Da parte di Davide, il mio editore, ho sentito subito una fiducia incondizionata. Ascolto. Supporto. È stata la botta di autostima di cui avevo bisogno, in fondo soltanto qualche mese prima ero rimasto senza lavoro e ancora una volta mi sentivo sbagliato.

vistare persone, ad ascoltare, a leggere vecchi articoli di riviste o cataloghi, oppure a scrivere pezzi di storie che ricostruissero le memorie legate all’azienda e alla famiglia. La vera sfida di questo progetto era cercare di capire quali parti raccontare di questa storia lunga novanta anni governando i temi principali e la narrazione e senza fare torto o dispiacere a nessuno, era evidente che la storia non si poteva raccontare per intero, per filo e per segno. Non tutti gli episodi, non tutte le persone, non tutte le vicende e le interviste sarebbero state utilizzabili integralmente, evidentemente. In questi mesi ho sempre avvertito entusiasmo e grandi aspettative intorno a me e al mio lavoro, ma mai invadenza. Mai mi sono sentito spinto o influenzato a occuparmi o a scrivere di qualcosa piuttosto che di qualcos’altro. Ho capito che La Sportiva è questo: un’azienda che ha fatto del lavoro in team, della perseveranza

Lavorare a questo libro è stato un lavoro appassionante. Di Lorenzo e di suo padre mi aveva sempre colpito il rapporto, il loro muoversi in coppia, la loro unione mi sorprendeva e mi incuriosiva, forse anche perché io mio padre l’ho perso prestissimo, quando avevo ventuno anni soltanto. Ho speso un’infinità di ore insieme a Lorenzo e ai suoi figli in questi mesi, insieme ai suoi dipendenti, collaboratori e atleti, per aiutarlo a ricostruire e a raccontare la sua storia. Ho passato giorni interi a inter-

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È QUI L A FESTA? Appuntamento dalle 18 al Muse, l’avveniristico Museo delle Scienze di Trento, progettato dall’architetto Renzo Piano. Il 23 maggio era IL giorno dei festeggiamenti per i 90 anni de La Sportiva. Una grande festa-evento proiettata sulla città perché il centro di tutto era il prato verde tra il museo e lo storico palazzo delle Albere. Qui il maxi-schermo ha trasmesso le immagini dei discorsi celebrativi che si sono tenuti nell’atrio della struttura, appena qualche metro più in là, qui si è tenuto il magnifico spettacolo son et lumière con immagini sparate sulla facciata del Muse, qui la gara di boulder (neanche a dirlo… vinta da Adam Ondra). Perché, come ha detto il presidente de La Sportiva Lorenzo Delladio, «le aziende sono fatte di luoghi e di persone». E La Sportiva non avrebbe senso fuori dalla Val di Fiemme e dal Trentino. Un evento che rimarrà negli annali del mondo outdoor, con ospiti del calibro di Reinhold Messner, Simone Moro, Tamara Lunger, Adam Ondra, Manolo e la pattuglia degli scialpinisti, da Michele Boscacci a Damiano Lenzi, da William Bon Mardion a Nadir Maguet, senza dimenticare il verticalista Urban Zemmer o Anton Krupicka. Eppure un evento mai retorico, mai noioso. A cominciare dall’insolito argomento scelto per legare tra di loro gli interventi degli ospiti: il fallimento. Novanta di questi anni.

©Alice Russolo

©Alice Russolo

©Alice Russolo

©Alice Russolo

e della fiducia negli altri il proprio credo. Come ho scritto in una delle ultime pagine del libro a La Sportiva nessuno si aspetta mai che un collaboratore tiri fuori un coniglio dal cappello. Non si aspettano delle magie. Si aspettano impegno, dedizione, passione. Lavoro. I risultati vengono di conseguenza. Il successo di questa azienda è basato sulla perseveranza e sul metodo, sul dare e ricevere fiducia. Sull’idea che il successo è il risultato matematico di un’equazione, di un processo, anche di errori e di fallimenti prima di arrivare al risultato sperato. Come tutte le cose, come tutti i progetti complessi, bisognerebbe rifarli due volte. Bisognerebbe avere la possibilità di sviluppare ulteriormente, ritoccare, migliorare e rivedere alcune parti del proprio lavoro. Sarebbe bello trovare spazio per tutte quelle altre storie incredibili che ho raccolto in questi mesi e raccontarle in un libro per gli appassionati o

magari in una serie di presentazioni dal vivo o di incontri, magari succederà. Quello che mi appassiona della scrittura è la tridimensionalità della narrazione, la possibilità di trattare le storie in modo che diventino qualcosa di cui fruire in varie forme: in video, audio, foto e in parole raccontate dal vivo, oltre che in racconti da leggere. Questo vuole dire raccontare in modo moderno, almeno è quello che penso io. La storia de La Sportiva è per certi versi la storia stessa dell’arrampicata sportiva e quindi di tutti noi che l’abbiamo praticata, la pratichiamo e che la praticheremo. Chissà che un giorno tutto questo lavoro e tutte queste storie che rimangono da raccontare, non trovino spazio. Magari un giorno da questo libro e da queste storie che abbiamo raccontato per La Sportiva nascerà qualcos’altro. In fondo noi tutti non siamo altro che le nostre storie.

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eventi

SENTINELLE SENZA FRONTIERE Poche regole: sci sopra i 100 al centro, divieto di abbigliamento attillato e iscrizioni tramite una lettera motivazionale scritta a mano. Obiettivo? La ricerca di cose belle: paesaggi, pendii in polvere, momenti di convivialitĂ , sciate al tramonto. E di sciate transfrontaliere. Benvenuti alla Sentinelle, il raduno inventato dalla skibum aristocracy, alias Bruno Compagnet & Minna Riimaki

testo e foto di FEDERICO RAVASSARD

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eventi

tiamo salendo nel buio, la polvere brilla alla luce delle frontali. Un po' brilli, ci è venuta in mente l'idea dopo cena; quei pendii di fronte al rifugio Bezzi non potevano rimanere intonsi ancora per molto, nonostante le gambe imballate dalle pellate dei giorni prima. Quattro italiani, uno svedese e un norvegese. Il drone dei videomaker ronza da qualche parte sopra di noi. Spelliamo, diamo l'ok per avviare la ripresa e partiamo. Sciamo veloci nella polvere, senza maschera l'aria fredda si sente ancora di più. Urliamo per l'eccitazione mentre le luci del Bezzi si fanno più vicine. Ci fermiamo poco prima, ancora in fibrillazione per la qualità della sciata. Poche regole, buon vino, buona neve e buoni compagni di viaggio: benvenuti alla prima edizione de La Sentinelle.

S

«La Sentinelle è un ritrovo di una comunità internazionale di sciatori appassionati di sci di montagna». Comincia cosi il manifesto dell’evento di freetouring nato dalle frizzanti menti di Bruno Compagnet e Minna Riimaki. Già il fatto che le regole vengano presentate sotto forma di manifesto, quasi come se fosse un'avanguardia artistica, lascia capire che siamo parecchio fuori dai canoni dei comuni eventi scialpinistici. Poche regole, ma emblematiche: obbligo di non utilizzare sci sotto i 100 millimetri (vabbé, con una certa flessibilità), divieto tassativo di abbigliamento attillato da competizione e iscrizione tramite una lettera scritta a mano in cui si motiva la propria affinità a una visione allo stesso tempo rilassata e ingaggiata dello scialpinismo. Rilassata, perché comunque si sale tranquilli e magari dopo la gita una sigaretta ci scappa pure, per accompagnare la media (le medie, ops) di birra. Ingaggiata, perché comunque se c'è da pedalare lo si fa a testa bassa, magari anche per più di 2.000 metri di dislivello positivo, con picca e ramponi che non rimangono di certo inutilizzati. Obiettivo: la ricerca di cose belle. Paesaggi, pendii in polvere, momenti di convivialità, sciate al tramonto, ma anche quel cappellino che si può comprare solo in un negozio in fondo al Vallese o comunque tutto ciò che

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NELLA FOTO \\ Un estetico attimo de La Sentinelle immortalato dai colori di Ildebrando Lazzarotto (nella pagina di sinistra)

può essere stravagante e, diciamolo pure, vagamente hipster. Il manifesto stesso strizza l'occhiolino all'uso incontrollato di camicie di flanella e occhiali da ghiacciaio vintage. La prima edizione si è tenuta a fine marzo in Valgrisenche, Val d'Aosta: una scelta non casuale, dettata da valloni selvaggi, solitamente battuti solo dall'heliski, e dal fatto di essere posta sul confine con la Tarentaise: la natura transfrontaliera dell’andare in montagna è infatti un altro dei capisaldi de La Sentinelle. Ci siamo trovati in trenta (da dieci Paesi diversi!), una mattina di metà settimana, per salire al Rifugio Bezzi, che avrebbe fatto da covo per i successivi giorni di scorribande su e giù per le montagne sovrastanti il ghiacciaio. Il caso, ironicamente, ha fatto sì che il nostro luogo di ritrovo fosse lo stesso scelto dalle tutine in ricognizione per il Tour du Rutor che sarebbe partito il giorno successivo. Da una parte del parcheggio un gruppo silenzioso e metodico che si stava chiudendo gli scarponi in carbonio; dall'altro lato un'accozzaglia colorata che era in evidente ritardo sulla tabella di marcia. A farne parte, un ventaglio democratico di esseri umani: Guide alpine, alpinisti candidati al Piolet d'Or, avvocati milanesi, fricchettoni residuati dagli anni ’80, medici e altri che non avevano la minima idea di cosa facessero nella vita. In testa, il copione della skibum aristocracy, come riportato sul loro furgone: Bruno e Laila. Apparentemente tutta gente che in città non avrebbe molto in comune, ma che sulla neve si amalgama omogeneamente con poche idee in testa, ma molto chiare. La prima, fondamentale, è il gusto edonistico dello sciare bene: pendii vergini, luoghi selvaggi, l'attrezzatura giusta e una passione sincera per tutto ciò che sta nel mezzo. Per quattro giorni, divisi in gruppi, ci siamo spartiti le cime intorno al Bezzi, lasciando ovunque le nostre tracce. Senza fretta, ma neanche senza calma eccessiva, ci si spostava a ridosso del confine con la Francia, alla ricerca di prime tracce. Chi arrivava su per primo si piazzava comodamente ad aspettare gli altri, spesso

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ÉDITION DEUX | LA SENTINELLE SCANDINAVIA CAIRN DELLE TRE FRONTIERE

Un cippo, il Cairn, su un’isoletta di pochi metri quadrati. A dire il vero è la più

potere aggregarsi ad altre persone che hanno la tua stessa passione e poi

piccola isola al mondo divisa da un confine. Anzi, da più confini perché su

soprattutto a fine maggio» esordisce Michèle. Con Ilaria si conoscevano

questo lembo di terra del lago Goldajärvi s’incrociano i destini di Finlandia,

già perché hanno lavorato entrambe alla fondazione Montagna Sicura

Svezia e Norvegia. E allora perché non andare alla scoperta anche di

(Michèle è ingegnere, Ilaria geologo) però, anche se lei non fosse venuta,

queste frontiere con una edizione scandinava de La Sentinelle? Detto, fatto

la compagnia sarebbe stata assicurata. Cosa resterà di questa Sentinelle

e, dall’8 al 13 maggio, una manipolo di appassionati ha fatto compagnia a

scandinava? «Tanti bei ricordi, tante persone nuove con cui condivido la

Bruno e Minna giù al nord… Tra di loro c’erano anche due ragazze italiane,

voglia di sci e di montagna e che potrò andare a trovare in altri viaggi e

Michèle Curtaz e Ilaria Sognatore. «Lavoro nell’hotel di famiglia a Pila,

poi una sciata sulle montagne della Finlandia: abbiamo attraversato il lago

ma la mia passione è lo sci, quello vero nella neve fresca, però posso

trainati dalle motoslitte e poi pellato su una collinetta, però posso dire di

permettermi qualche bel viaggio solo a fine stagione e così quando ho letto

avere messo gli sci anche in Finlandia!».

di questa proposta ho scritto subito la mia lettera: non capita spesso di

www.lasentinelle.ski

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eventi

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eventi

Skialper è media partner de La Sentinelle. Due lettori sono stati ospiti di Bruno e Minna in Valgrisenche. Abbiamo chiesto loro di raccontare come sono stati i loro giorni, in poche parolre e senza filtri

IT ’S BEER O’CLOCK Avete presente quando fate dei programmi e, quei programmi, non riuscite a rispettarli nemmeno in minima parte? Beh, a noi è andata più o meno così. Il fatidico terzo giorno, quello successivo al main event come dicono quelli fighi, quello in cui, secondo le nostre originarie intenzioni, ci si doveva riposare e oziare. Il terzo giorno, quello che, in realtà, è il vero giorno. Svanita la tensione, attenuata l’adrenalina, liberata la mente, smaltita la bevuta della sera prima, alle 8.30 del mattino, anziché rimanere in branda, si parte per una nuova pellata. Dislivello contenuto, ritmo da randonneur, né forte né piano, linee di salita nel rispetto della forza gravitazionale della neve e, naturalmente, delle linee di discesa. Alle volte, con Bruno & co, l’impressione è proprio quella di uscire dal set cinematografico di Point Break: non l’onda perfetta, ma la discesa perfetta. Essere in grado di leggere la neve e l’ambiente con tale chirurgica precisione è strabiliante. Pare che nulla sia lasciato al caso. Cogliere il giusto istante, né poco prima, né poco dopo. Il sole arriva, se ne va, ritorna. In lontananza si sta avvicinando un banco di nubi. Non c’è altro tempo da attendere, né una foto, né un video in più, si scende, si deve scendere. Cosa ve lo dico a fare: io, polvere di questa qualità

non ne ho mai trovata. Avete presente quella neve in cui galleggi, surfi e non fatichi? Quella in cui sciano bene sia quelli forti che quelli scarsi come me? Ecco, proprio quella lì. E sì, perché qui a La Sentinelle c’è veramente spazio per tutti. Non lo dice solo il manifesto dell’evento. Lo dicono le giornate trascorse assieme: non si è né pro, né Guide alpine, né schiappe, né atleti. Non c’è curriculum, niente. Si è ragazzi e ragazze accomunati dalla medesima passione. Ciò che conta è lo spirito di aggregazione, la voglia di mettersi in gioco, il desiderio di vivere la montagna rispettandola e preservandola. E, perché no, è anche la voglia - e, soprattutto, la capacità - di condividere la stanza con altre tre coppie d’ascelle che non vedono acqua e sapone da cinque giorni. Alla prossima amici, come diceva il nostro condottiero Bruno, it’s beer o’clock!

Ildebrando Lazzarotto Avvocato con studio a Borgo Valsugana, in Trentino, appena può mette in libreria i codici per sostituirli con assi e pelli. O, in estate, con la mountain bike.

L E S TA R DI YOU T U BE SI A MO NOI Tolgo le calze e vedo il groviera. Non per la puzza, che comunque è devastante, ma per i buchi in stile lunare che mi assalgono la pelle dei piedi. Come me tutti. La notte è breve, la birra bionda e il genepì in bottiglie senza fondo. Domattina si esce di nuovo, e nonostante tutto io non vedo l’ora. Il briefing del mattino divide in due gruppi, quelli armati fino ai denti e chi invece decide per qualcosa di più tranquillo per scrollarsi il dislivello del main day. Io ovviamente, non avendone mai a basta, punto per forzare la Becca di Suessa che ci guarda con il suo ghiacciaio da sopra il rifugio e mi riempie di promesse. La salita parte a rilento, le previsioni parlavano di freddo intenso, ma le nuvole stanno in basso a dividerci dalla porca vita e qui, al limite geografico della Valgrisenche, il sole splende sulle cime senza scaldare il manto che rimane degno di un sogno voluttuoso. Qui è figo anche salire, l’incedere è costante. Un metronomo che non smette di battere per cinque giorni. La salita obbliga a qualche cambio d’assetto e, una volta sul ghiacciaio di Suessa, questo sale irto verso le bastionate rocciose che difendono la cima e il suo meraviglioso panorama a 360 gradi su tutta la Val d’Aosta. Il limite dei 3.400 è di nuovo stato superato e la cima ghiacciata lascia poco tempo ai convenevoli. Qui c’è voglia di powder, le Guide non vanno per il sottile, si scia forte. La new school disegna senza spreca-

re inchiostro e in 400 metri si tirano quattro curve. La neve è davvero eccellente, le vibrazioni sono positive, sempre. Si sta giocando; è come se Doc Brown ci avesse riportato a quando eravamo bambini, di colpo abbiamo ricordato quello che la vita ci fa dimenticare lungo la strada: siamo in un parco giochi e dobbiamo godercelo. I colori del ghiaccio che spunta sotto la neve sono evanescenti e ti trasportano altrove. È un po’ magico come poi, dopo una discesa da paura, ti ritrovi al Bezzi seduto a scherzare con i boss dello sci mondiale mentre ti disseti con una bionda sudata. Strizzo l’occhio a questa visione e provo a guardare dentro da fuori ma non ci riesco, questa volta abbiamo rotto lo schermo e siamo noi le star di Youtube, ma senza fretta perché, sceso il buio, quando la temperatura cala di nuovo, si pella ancora e poi… giù nella powder imbizzarrita nella notte loca.

Daniele Dalmasso Cuneese, infermiere ma soprattutto papà, ama spesso scomparire nelle valli a giocare in montagna. Drogato di outdoor, grande appassionato di scialpinismo, roccia, trail e come integratore… panini con acciughe al verde e barbera.

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NELLE FOTO \\ A La Sentinelle non sono mancate anche le pellate notturne (a destra). Bruno Compagnet e una indimenticabile discesa in neve fresca (dappia pagina precedente)

coccolato dal sole che brillava nel cielo azzurro. Di là il Gran Paradiso e il Ciarforon, di qua la Grande Motte e il lago di Tignes. Laggiù, il Monte Bianco, le Grandes Jorasses, il Cervino e il gruppo del Rosa. Come avere una cartina delle Alpi Occidentali sotto gli occhi, ma in 3d. Poi, una volta fissata per bene in testa la cartolina di quella sfilza di quattromila, cambio assetto e giù in planata. È stato difficile osservare la buona vecchia regola dell'uno alla volta: appena il pendio diventava più gentile, la mandria di sentinelle si buttava giù alla volemose bene, tra urla di felicità e sbuffi di polvere fredda e leggera. Ogni tanto anche qualche botto: abbiamo appurato che lo sciare a gruppi di venti, senza chiudere troppo le curve, può effettivamente aumentare il rischio di collisioni. Ma pazienza, il tempo di raccogliere i pezzi sparsi sul pendio e si ripartiva subito verso il gruppo che stava già ripellando verso la prossima cima. Finito lo sci, si onorava diligentemente il secondo dogma della Sentinelle, la convivialità. Un po' in inglese, un po' in qualsiasi altra lingua - dialetti compresi, tra cui quello della delegazione veneta che ha guadagnato il rispetto di tutti sfoderando vino e salami portati da casa -. Le ore in rifugio trascorrevano veloci all'insegna della condivisione. Qualche infognato parlava di materiali, ma perlopiù ci si raccontava di sciate, di viaggi, di esperienze passate e future in montagna o in giro per il mondo. Come quelle del fotografo Pascal Tournaire, che una sera ha lasciato tutti a bocca aperta presentando i suoi scatti realizzati dall'Antartide all'Himalaya. O Bruno, che ha proiettato il video del viaggio che ispirò l'ideazione della Sentinelle stessa, una traversata scialpinistica di dieci giorni della penisola di Lyngen al cui termine, parole sue, si ritrovò a piangere su una spiaggia con gli scarponi nei piedi per la bellezza e la fatica di tutto che aveva appena vissuto. Seduti intorno ai tavoli del rifugio, eravamo allo stesso tempo diversi e uguali l'uno all'altro. Diversi, perché ognuno al di fuori della Valgrisenche conduceva la propria vita, in una grande città con la propria famiglia o a Chamonix rientrando tardi ogni sera dopo aver fatto bisboccia. Uguali, perché tutti noi avevamo un paio di sci larghi là fuori nella neve, i talloni coperti di vesciche e il viso abbronzato di chi ha passato troppi giorni nel bianco. E, soprattutto, eravamo consci di quanto tutto ciò sia un dono che va salvaguardato in maniera preziosa, insieme all'ambiente in cui l'edonismo dello sci esplode in tutta la sua potenza. Protetto e celebrato, proprio come farebbe una sentinella.

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4 FAC E S I L R I PI D O C OM E E SPL OR A Z ION E Chi è lo sciatore francese che a maggio ha cercato

Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometrata da Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa. Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rébuffat. Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir en Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

di concatenare le discese più belle e impegnative dell’Aiguille Verte in una giornata? Lo abbiamo incontrato qualche giorno prima del tentativo testo di ANDREA BORMIDA - foto di FEDERICO RAVASSARD e JULIEN FERRANDEZ

ieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sci va infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.

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Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori. «Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».

Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una rivista di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul. Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raide e alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. Salut, je suis Paul!. Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta.

Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo… «Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi pia-

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ce pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura». Sei stato anche in Himalaya, vero? «Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!». L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio. «Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito a mio agio su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti». Parliamo di 4Faces, il tuo progetto, non è abbastanza singolare annunciare in anticipo anche il giorno del tentativo (18 maggio)? Una cosa molto anni ‘80! «Mah, guarda, l’ho annunciato solo perché non sono solo, ma ci sarà una troupe per le riprese e una struttura di amici in appoggio. Una cosa molto anni ’80 forse, ma senza elicottero». Ride. E dopo? Hai altri progetti per il futuro? «Non so, ho molti progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria». Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere? «Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?». La mentalità è davvero cambiata oggi? «Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori.

Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare». Ti ispiri a qualcuno? «È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna». Credi di poter ispirare qualcuno? «Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento». Da una parte Kilian, dall’altra Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo? «In mezzo, almeno così penso!». Ride. Domanda classica, che materiali usi? «Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1». In conclusione, il sogno nel cassetto? «Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie.

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NELLA FOTO \\ Paul Bonhomme durante l'apertura di una variante del Couloir des Sorcières alle Aiguilles du Mont, denominata Feu Follet, lo scorso febbraio

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E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…». Il 18 maggio 2018 (poco prima che questa rivista andasse in stampa) Paul ha fatto un tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito intorno alle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whymper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir en Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi. Seppure in questo primo tentativo Paul non sia riuscito completamente nel suo progetto, si è dichiarato soddisfatto in quanto è innegabilmente riuscito nel suo personale intento di unire dislivello in salita con discese tecniche su un terreno di sci estremo. «Una splendida giornata in montagna!» ha detto al rientro. Che il futuro di questa disciplina non passi anche da qui?

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©Julien Ferrandez

NELLE FOTO \\ Paul sale all'Aiguille Verte per realizzare il progetto 4Faces (a sinistra). Un momento dell'intervista in un bar di Annecy (in alto) e in tenda durante 4Faces (sopra)


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SK I TR A NS A LT T I ROL La traversata del Tirolo Storico unisce il confine piÚ meridionale della regione dell’Impero Asburgico, il Lago di Garda, con quello orientale. Una fantastica cavalcata dagli ulivi ai ghiacciai, passando per le Dolomiti. A cui nessuno aveva ancora pensato

testo di ALESSANDRO BEBER - foto di MATTEO PAVANA e ALESSANDRO BEBER

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Novembre 2017. Attenzione, quella che avete sotto gli occhi non è la solita proposta. È la sintesi di un percorso durato diversi anni... qui dentro c'è tutta l'essenza della mia personale chiave di lettura dello scialpinismo. C'è la mia formazione di geografo, la passione per la storia, il piacere di perdersi tra le montagne, il valore della condivisione e il vizio di documentare l'esperienza per non perdere un giorno i ricordi e le emozioni vissute… Avrei potuto tenere questo viaggio per me, invitare solo qualche amico intimo, invece ho deciso di provare a realizzarlo in quella che sento essere la mia veste più naturale, e cioè quella della Guida alpina. Se qualcuno raccoglierà il mio invito e vorrà unirsi anche solo per un tratto di questo lungo viaggio, ne sarei onorato! Alessandro Beber

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opo diverse stagioni di incubazione, nell’autunno scorso finalmente il progetto sembrava delinearsi in maniera chiara nella mia mente ed era pronto a essere partorito. Così mi sono deciso a prendere la tastiera stendendo le specifiche minime per spiegarlo alle persone che intendevo coinvolgere e ho inviato il file, accompagnato dal messaggio di cui sopra.

È questo il gioco che mi attira dell’alpinismo: prendere un’idea, un sogno, una visione, per quanto balzana o assurda, valutarla da ogni angolazione, magari scartarla, oppure digerirla, metabolizzarla, pianificarla, attendere il momento opportuno, agire e infine trasformarla in qualche cosa di concreto, tangibile, vero. Un po’ come rubare piccoli lembi da una dimensione fantastica e immaginaria e portarli nel mondo reale. Una chiave di lettura che può essere applicata alle vie nuove, o alle discese con gli sci, e che in questi anni ho spesso provato a portare anche all’interno del mio lavoro di Guida, con proposte o progetti un po’ particolari e insoliti. Per quanto riguarda questa traversata del Tirolo Storico, credo che l’idea sia nata davanti a una carta, anzi una piccola mappa in rilievo delle Alpi che tengo appesa alla parete di casa. Un giorno ho posato l’attenzione sulla zona di massima estensione dell’arco alpino sull’asse Nord-Sud, segnalata in basso giusto dall’inconfondibile goccia del Lago di Garda, e da lì sono partito alla ricerca di un percorso dove il rilievo subisse meno interruzioni possibili e permettesse di rimanere in quota. Ho sempre avuto il desiderio di perdermi dentro alle montagne, di starci più tempo possibile, per godere quelle sfumature che le gite mordi e fuggi spesso non lasciano l’occasione di cogliere e niente meglio dello scialpinismo di traversata si adatta a questo proposito!

NELLE FOTO \\ Salendo lungo il versante Nord dell’Hoher Mann, durante la sesta tappa (in apertura). Arrivo in barca a vela al porto di Malcesine ©Umberto Isman e il tramonto dal Monte Altissimo di Nago ©Marco Maganzini (a sinistra). Nei pressi di forcella Montalon, durante la traversata del Lagorai (a destra)

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Quel che è successo dopo è pura fortuna. Mano a mano che seguivo con gli occhi questo ipotetico percorso, mi sono reso conto che la linea più logica dal Garda correva attraverso la Catena del Lagorai, dove sono cresciuto, e poi sulle Dolomiti, per proseguire sulle montagne dell’Alta Pusteria e quindi fino in Austria. Ho provato a figurarmi il percorso in inverno ed ho capito di aver trovato la vena d’oro: un vero e proprio regalo della natura che sembrava concedere un viaggio con gli sci in un contesto scenografico unico per varietà e spettacolarità. Dagli uliveti di un piccolo angolo di Mediterraneo incastonato tra le montagne ai mastodontici ghiacciai degli Alti Tauri, attraversando zone non certo molto frequentate, ma sempre provvidenzialmente provviste di strutture in grado di fornire il necessario supporto logistico. In seconda battuta ho realizzato che la linea ideale correva giusto lungo il confine di quello che fino al secolo scorso era il Tirolo Asburgico, ovvero la regione più meridionale dell’immenso impero Austro-Ungarico. I primi ordinamenti che sanciscono l’estensione del territorio tirolese dal Lago di Garda fino alla zona montuosa del Kaisergebirge risalgono agli inizi del 1500: da quel tempo lontano, i confini del Tirolo storico rimasero pressoché invariati fino al termine della Prima Guerra Mondiale, quando le province di Trento e Bolzano vennero annesse al Regno d’Italia. Le genti che abitano questa regione transfrontaliera risultano pertanto accomunate da secoli di storia, con tratti distintivi comuni che ancora oggi sopravvivono nonostante l’appartenenza a nazioni diverse, e la suggestione di poterle idealmente riunire con questa traversata mi sembrava un ulteriore valore aggiunto. Certamente non volevo dare alcuna connotazione politica all’iniziativa, ma questo collegamento dettato al contempo dalla geomorfologia e dalla storia mi è sembrato avere quasi un valore di messaggio universale, ovvero quello delle montagne come spazio d’unione, piuttosto che elemento di separazione come spesso si vorrebbe far credere. Il caso ha voluto che durante la traversata il Tirolo Storico fosse sempre presente, da un vecchio calendario di stile asburgico trovato in un bivacco sul Lagorai alle stampe storiche dei bed & breakfast dove abbiamo dormito.

90 al centro È stato il Völkl BMT 90 lo sci scelto da Alessandro Beber per la sua traversata del Tirolo Storico. Un attrezzo con qualche millimetro in più al centro per sfruttare anche il divertimento in discesa, vista la grande quantità di neve fresca caduta, sacrificando qualche grammo in salita. Come scarpone è stato utilizzato un altro grande classico delle gite scialpinistiche, il Maestrale di Scarpa. Una traversata in puro stile divertimento dunque, nell’ottica dello sci-viaggio piuttosto che dell’impresa con il cronometro alla mano. E pensando a materiali affidabili, a prova di

In ogni modo, l’entusiasmo e l’apprezzamento che ho raccolto ancora prima di partire mi ha sorpreso e gratificato ed è stato lo stimolo decisivo per buttarsi a capofitto in quest’avventura. La traversata è stata pianificata a tappe di tre giorni ciascuna, da svolgersi ogni due settimane in maniera da poter sfruttare i periodi con le condizioni presumibilmente ottimali. Le tappe in programma erano sette, per un totale di 21 giornate sugli sci su uno sviluppo di poco inferiore ai 400 chilometri. Giovanna e Alberto sono stati i temerari che si sono offerti di seguirmi in tutti gli appuntamenti, dall’inizio alla fine, mentre tanti altri amici si sono aggregati a una o più tappe, ognuno compatibilmente con i propri impegni. Viste le ambiziose premesse, ci voleva una partenza in grande stile e dai connotati simbolici: così siamo partiti direttamente con gli sci in spalla dal centro storico di Riva del Garda, un tempo estremo avamposto sud-occidentale della Mitteleuropa, e abbiamo preso una barca a vela per navigare sul fiordo del Garda fino a Malcesine, dove la funivia del Monte Baldo ci ha portati in quota, permettendoci di calzare gli sci in direzione Monte Altissimo di Nago.

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NELLE FOTO \\ Momenti felici, come si legge sul volto di Alessandro Beber, nel Lagorai (In alto e nella pagina precedente). Una discreta rappresentanza di sci VĂślkl al bivacco di Malga Miesnotta in Lagorai ŠAlessandro Beber e aspettando l’autobus ad Anterselva, dopo il dietro front dal Collalto (sopra e a destra)

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NELLE FOTO \\ Sulla diga della Fedaia, nel corso della quarta tappa, momenti conviviali al rifugio Pian dei Fiacconi, in Marmolada e una curva aggressiva in discesa dal Mulaz (in queste pagine in senso orario)

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La prima giornata si è conclusa a Festa di Brentonico e l’indomani per portarci sul Monte Stivo abbiamo inforcato le E-bike, giusto per adattarci allo stile vacanza outdoor che tanto caratterizza l’Alto Garda. Dal rifugio Marchetti la terza giornata ci ha visto seguire la lunga cresta che conduce alle Tre Cime del Bondone, raramente percorsa d’inverno, per poi riprendere le biciclette e scendere fino in Piazza Duomo a Trento, per un aperitivo in grande stile all’Aquila d’Oro, dove anche la statua del Nettuno pareva guardarci perplessa. Due settimane più tardi abbiamo iniziato a fare sul serio e, nonostante il maltempo, siamo salpati per la mitica traversata del Lagorai. Devo dire che da quando ho memoria scialpinistica ho visto davvero pochissimi gruppi, forse tre-quattro in tutto, portare a termine il percorso integrale che dal Monte Panarotta porta al Passo Rolle o viceversa. La carenza di punti di appoggio lungo il percorso obbliga a tappe lunghe e complesse e di certo scoraggia l’approccio a questa magnifica haute route che attraversa vallate silenziose e fuori dal tempo. Vista la quantità di neve fresca presente e la scarsa visibilità, anche noi abbiamo dovuto deviare dal tracciato ottimale ed evitare diverse cime, ma è stato comunque un punto di orgoglio riuscire a portare a termine queste due tappe difficili dove serve anche spirito di adattamento e lavoro di squadra. A marzo siamo approdati in Dolomiti, dove la presenza antropica cambia radicalmente, ma come tutti sanno la scenografia è talmente grandiosa da lasciare sempre a bocca aperta. Nei primi tre giorni dal Rolle a Corvara abbiamo ancora pagato pegno con il meteo, sebbene con dei risvolti positivi, come la possibilità di affrontare la Val Mezdì, alias il fuoripista più famoso e gettonato delle Alpi Orientali, in perfetta solitudine! Quando è stato il tempo di ripartire dalla Val Badia però, ai piani alti hanno deciso che dopo tante bastonate era il tempo della carota, e

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NELLE FOTO \\ In arrivo alla Forcella del Lago, durante la tappa Lagazuoi-Sennes ŠAlessandro Beber (in questa pagina). Matteo Faletti in veste di barbiere a fine traversata, bagno ristoratore a InnerschĂśss, poco prima dell’arrivo a Tauer, i piedi di Alessandro al giorno 20 della traversata (pagina di destra). In salita verso il Grossvenediger (alla prossima pagina)

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traversate

ci sono state regalate tre giornate da cineteca, con neve commovente e un susseguirsi ininterrotto di scenari mozzafiato: Lagazuoi, Fanes, Sennes, Croda Rossa d’Ampezzo, Tre cime di Lavaredo… per rubare le parole all’amico e collega Marco Maganzini, «SciAlpinismo con la A maiuscola, tra pareti di disperante verticalità!». In aprile abbiamo provato a sfuggire all’avanzare della primavera alzandoci di quota e inoltrandoci nel gruppo delle Vedrette di Ries, inseguiti da un caldo feroce ed esagerato… qui per la prima volta siamo dovuti tornare sui nostri passi e rinunciare a svalicare sul Collalto, visto che alle 9.30 del mattino a 3.000 metri c’erano quindici gradi. Il gran finale, ovvero i tre giorni conclusivi, ci hanno visto invece impegnati sugli Alti Tauri. Da programma inizialmente avevo pensato di spingermi fino al Grossglockner, ma il tempo splendido e le condizioni strepitose ci hanno invogliato a chiudere in bellezza con tre belle cime: in ordine Picco dei Tre Signori, Großer Geiger e GroßVenediger, prima di scendere fino a Matrei e quindi a Lienz, con prati e alberi ormai in fiore ad annunciare il cambio di stagione. Mi sono chiesto che cosa resterà di questa fantastica cavalcata da Sud a Nord. Sicuramente gli incontri lungo il percorso, perché una traversata di questo tipo è fatta anche per conoscere persone, prime fra tutti i tanti rifugisti con i quali abbiamo condiviso fantastiche serate. E poi tre momenti emergono sopra a tanti ricordi. Dal punto di vista paesaggistico la lunga tappa dal Lagazuoi al rifugio Sennes, nel cuore delle Dolomiti, davvero una di quelle scialpinistiche che ti rimangono nella testa a lungo. Per quanto riguarda lo sci, non dimenticherò i mille metri di dislivello su perfetto firn, tutti tra i 25 e 30 gradi, dal Collalto, sopra Anterselva, e la lunghissima discesa dal GroßVenediger, con oltre 2.000 metri di dislivello. Col senno di poi, direi che meglio di così non poteva andare: al di là delle 14 giornate di bel tempo sulle 21 totali e delle ottime condizioni d’innevamento, la traversata è stata letteralmente al di sopra delle aspettative, e questo soprattutto grazie al fattore umano, ovvero la passione che tutti i partecipanti hanno messo in questa piccola grande sfida.

È QUESTO IL GIOCO CHE MI ATTIRA DELL’ALPINISMO: PRENDERE UN’IDEA, UN SOGNO, UNA VISIONE, PER QUANTO BALZANA O ASSURDA, VALUTARLA DA OGNI ANGOLAZIONE, MAGARI SCARTARLA, OPPURE DIGERIRLA, METABOLIZZARLA, PIANIFICARLA, ATTENDERE IL MOMENTO OPPORTUNO, AGIRE E INFINE TRASFORMARLA IN QUALCOSA DI CONCRETO, TANGIBILE, VERO.

Come ha detto giustamente Barbara, siamo stati trascinati in un turbine di emozioni e amicizia. Per questo sarò eternamente riconoscente a tutti gli amici che ci hanno creduto e mi hanno aiutato in tante maniere diverse, dai sopralluoghi ai carichi di viveri da portare in bivacco, fino al grosso lavoro fatto con foto e riprese per documentare adeguatamente l’esperienza. A nome di tutti, credo di poter dire che la prima traversata scialpinistica del Tirolo Storico sia stata e rimarrà un’esperienza indimenticabile: ora la strada è aperta, e auguriamo a quelli che in futuro vorranno ricalcare il nostro cammino di divertirsi almeno quanto noi! E io, finalmente, ho potuto tagliarmi la barba. Sì, perché me l’ero tagliata appena prima della partenza a gennaio e durante la prima tappa mi hanno detto: adesso lasciala crescere per tutta la traversata. Così ho fatto, aspettando l'ultimo giorno per tagliarla!

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TRAVERSATA DEL TIROLO STORICO

TAPPE 1-3

TAPPE 4-6

TAPPE 7-9

TAPPE 10-12

Dal 12 al 14 gennaio 2018,

Dal 2 al 4 febbraio 2018

Dal 23 al 25 febbraio 2018

Dal 9 all’11 marzo 2018,

Da Riva del Garda a Trento

Dalla Panarotta alla Val Campelle

Da Malga Sorgazza a San Martino

Da Passo Rolle a Colfosco in Badia

via Malcesine, Monte Grande,

via passo della Portela, lago di

di Castrozza

via Monte Mulaz, Falcade, Passo

Monte Altissimo di Nago, Monte

Erdemolo, rifugio Sette Selle, passo

via forcella Magna, Malga Val

San Pellegrino, Forca Rossa,

Stivo, Cima Alta, Cornetto del

dei Garofani, Passo Cadino, lago

Cion Alta, passo Copolà, rifugio

Malga Ciapela, Marmolada, Porta

Bondone, Viote.

delle Buse, forcella Montalon,

Refavaie, cima Paradisi, cima

Vescovo, Passo Pordoi, rifugio Boè,

forcella Valsorda, Colle di

Fossernica, Malga Miesnotta di

Val Mezdì.

San Giovanni, Malga Conseria.

sopra, forcella Valzanchetta.

Hanno partecipato: Alberto Fedrizzi, Giovanna Mosna, Barbara Angeli,

Lunghezza tappe: tra i 900 e i 2.300 metri di dislivello,

Giacomo Lorenzi, Matteo Pavana, Daria Dudziak, Marco Maganzini, Alessandro

gradualmente in crescendo.

Galvagni, Alberto Maino, Giovanni Petri, Dario Beber, Lisa Angelini, Giacomo Dislivello medio giornaliero: 1.300 metri.

Lorenzi, Martina Paolazzi, Stefano Girelli, Daniela Bernardi, Matteo Faletti, Claudio Lanzafame, Umberto Isman, Massimo Imperadori, Max Zuech, Luigi Strada, Stefano Zorzi, Michele Bernardi, Marco Giacomello, Sandra Toldo.

Sviluppo medio giornaliero (solo sci, senza i trasferimenti): 22 chilometri.

Mezzi di trasporto utilizzati: Barca a vela, funivie e seggiovie, E-bike, furgone

Sponsor: Scarpa, Millet, Völkl, Marker, Julbo, APT Valsugana, Guide Alpine

Fiat Ducato, treni, autobus.

Mountime-Outdoor Adventures

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traversate

Documentare la traversata Una cosa che Alessandro Beber non vi dirà mai sul suo conto ve la rivelo io.

TAPPE 13-15

TAPPE 16-18

TAPPE 19-21

Dal 23 al 25 marzo 2018

Dal 6 all’8 aprile 2018

Dal 20 al 22 aprile 2018

Da passo Falzarego alla Val

Da Santa Maddalena in Val Casies

Da Predoi a Matrei

Fiscalina

a Riva di Tures

via Picco dei Tre Signori,

via Lagazuoi, forcella del Lago,

via Hoher Mann, forcella

Reggentörlscharte, Essener

rifugio Fanes, forcella Ciamin,

Hexenscharte, Passo Stalle, lago

und Rostocker Hütte,

Fodera Vedla, rifugio Sennes, Ra

di Anterselva, Schwarze Scharte

Großer Geiger, Kürsinger

Alessandro ha deciso di andare a vivere

Stua, forcella Colfiedo, passo

(respinti!), trasferimento con mezzi

Hütte, Venediger Scharte,

a Margone, una metropoli di 50 persone

Cima Banche, Lago d’Antorno,

pubblici a Riva di Tures, salita al

GroßVenediger, Gschlosstal,

nell’alta valle del Sarca. Il desiderio di

rifugio Auronzo, rifugio Locatelli,

triangolo di Riva e discesa per la

Tauer.

partecipare a questa traversata nasceva

valle di Sasso Vecchio.

Valle dei Dossi.

Dall’età di 16 anni Alessandro prendeva il suo motorino e girava per le valli del Trentino alla ricerca del paese più bello o che più gli piacesse per andare a viverci un giorno. Dopo un paio di anni trascorsi ad annotare i pregi e i difetti di ogni paese,

dal fatto che io per Alessandro ho sempre nutrito una grande stima come Guida e un profondo affetto come persona. Nonostante Alessandro abbia viaggiato

INNSBRUCK

IMST

Grossvenediger Picco dei Tre Signori 3666 3499 Tauer Predoi Triangolo di Riva 3030 Riva di Tures P.so Stalle

VIPITENO

Hoher Mann 2593 BRUNICO

LIENZ

più o meno dovunque nel globo, lui è da sempre un sostenitore dell’esplorazione a chilometro zero, quella a portata di mano, a pochi chilometri da casa. La capacità di vedere l’inesplorato su una traccia già battuta è dote di pochi, pochissimi forse. È proprio dall'incontro delle reciproche curiosità e visioni che la nostra amicizia è andata a consolidarsi con il passare del tempo, fino a condividere questo progetto insieme, partendo da quella che per lui era

BRESSANONE MERANO

mera curiosità, mentre per me era geniale intuizione. La traversata delle Alpi da Sud

Fod. Vedla

a Nord è stata l’occasione di battere la mia

P.so di Cima Banche

che meno conoscevo. Fotografare e filmare

BOLZANO

Cortina d’Ampezzo

Marmolada 3343 P.so S. Pellegrino C. Paradisi 2206 P.so Cadin

Malcesine

di saper sciare, ma non solo: svegliarsi presto, togliersi lo zaino un sacco di volte, rimetterselo in spalla altrettante e muoversi finché le gambe s’induriscono e diventano fuoco ardente. E questo solo per respirare una piccola frazione d’infinito.

Colle di S. Giovanni 2251

Se c’è una cosa che la montagna mi ha

BELLUNO

trasmesso è proprio quel senso di nullità di fronte al quale non puoi che avere rispetto,

C. Panarotta M. Cornetto 2002 2178

M.Stivo 2054 M.Altissimo di Nago 2079

in montagna in inverno presuppone

M. Mulaz 2906 P.so Rolle

TRENTO

Riva del Garda

traccia nelle valli e sui pendii del Trentino

sbigottimento, estasi, paura. Muoversi su un

FELTRE

PORDENONE

terreno vivo e mutevole cambia il gioco della montagna, che è forse il vero leit-motiv della fotografia outdoor: praticare terreni diversi

Conegliano

Bassano del Grappa

per documentare azioni diverse. Capitava che lo zaino fosse pesante e l’unica preoccupazione era tenere le punte degli sci

Castelfranco Veneto

Schio

più in basso possibile. Alle volte funzionava,

TREVISO Cittadella

altre volte no. Anzi, forse era proprio nel momento in cui avevo la neve in bocca che sentivo quanto fosse reale e viva. E mi sentivo vivo pure io.

VICENZA MESTRE

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Matteo Pavana


archivio

S T O R I A D E L L O

S C I

D I

( E

F A S C I N O )

R A I D

N E L L E

A L P I

È del 1897 la prima traversata documentata di un massiccio alpino e del 1933 il primo viaggio Nizza-Tirolo con gli sci. Da allora tante imprese, spesso con il cronometro in mano

testo di GIORGIO DAIDOLA

Fridtjof Nansen e compagni attraversano la Groenlandia con gli sci. È l’inizio di un’era, quella dello sci di montagna moderno, che trova nei grandi raid più che nella conquista delle cime la forma di espressione più pura e più completa. Si tratta della scoperta dello sci avventura e delle sensazioni profonde del viaggiare con gli sci. In altre parole è la scoperta dello Ski Spirit, ossia di una dimensione dello sci che interessa anche e soprattutto le sfere dello spirito.

parvi... Comunque sia, i due gruppi decidono, cammin facendo, con un accordo scritto e firmato da tutti, di effettuare insieme tutta la seconda parte della traversata, dal Colle del Teodulo al Col di Nava. Questo accordo di pace fra i due gruppi è il primo segnale che il tarlo dell’agonismo, ossia di voler primeggiare a tutti i costi sugli altri, è arrivato anche nello sci di raid, guastandone la purezza. Nove anni dopo Detassis e Bonatti, nel 1965, un’altra grande Guida, lo svizzero Denis Bertholet, fondatore della Ecole du Ski Fantastique di Verbier, ha la brillante idea di unire con gli sci, insieme ad altre tre Guide (un italiano, un francese e uno svizzero) le due città olimpiche di Innsbruck 1964 e di Grenoble 1968. Grande è stato l’effetto mediatico di questa traversata, soprattutto grazie al film girato da Bertholet, non solo Guida e Maestro di sci, ma anche cineasta professionista, vincitore del Premio UIAA al Festival di Trento nel 1969. Denis si è portato sulle spalle per tutto il percorso del raid una pesante cinepresa da 16 mm, cosa impensabile per i moderni atleti dei raid di velocità. Il film di Bertholet, Traversée Innsbruck-Grenoble à ski, è visibile gratuitamente nel sito internet della Médiathèque di Martigny.

1888

1897. Wilhelm Paulcke e compagni, emuli di Nansen, attraversano le Alpi Bernesi. Una traversata in pieno inverno folle per quei tempi ma vissuta con grande gioia e descritta con uno stile ironico e moderno da Paulcke, denominato il Nansen del Centro Europa per la sua devozione al telemark. Da quel momento tutti i grandi sciatori di montagna alpini vedono nelle traversate, ossia nello scoprire cosa c’è dietro un colle, il significato ultimo dello sciare. Ci provano un po’ tutti, fra la conquista di una vetta e l’altra. Da Paul Preuss a Marcel Kurz, da Arnold Lunn a Ottorino Mezzalama. Ma è Léon Zwingelstein, lo sciatore vagabondo per eccellenza degli anni Trenta, ad effettuare per primo, da solo e senza alcun aiuto esterno, dal primo febbraio al primo maggio 1933, un favoloso raid da Nizza al Tirolo, con ritorno sempre in sci fino a Briga in Svizzera. Una performance unica, con tutto nello zaino compresa una rudimentale tenda cucita con le sue mani. Una performance mai più ripetuta. E sarebbe andato oltre Briga Léon Zwingelstein, sarebbe ritornato in sci fino alla sua Grenoble, se ci fosse stata ancora neve!

Pochi anni dopo, nel 1970, assistiamo alla tribolata traversata in solitaria di un altro francese, Jean Marc Bois, che, partito il 30 gennaio da St. Etienne-de-Tinée nelle Alpi Marittime, riesce a raggiungere Bad Gastein, nel Tirolo Orientale, il 25 aprile: una traversata funestata da brutto tempo e valanghe dall’inizio alla fine, che ha reso l’impresa di Bois davvero epica. L’anno successivo, il 1971, un gruppo di cinque austriaci, fra i quali la Guida alpina Klaus Hoi, compiono, con sci da fondo escursionistico e scarponi di cuoio, la traversata più lunga, da Vienna a Nizza, fruendo di un mezzo di appoggio. Durante il percorso di 1.917 km, con un dislivello totale di 85.000 metri, scalano anche cime importanti, impiegando complessivamente 41 giorni: una prestazione sportiva di indubbio valore. C’è però anche chi, con tre amici, anziché cercare l’exploit, effettua l’intera traversata da Est a Ovest, a tappe, in tre anni (1975, 1976, 1977), privilegiando il piacere di sciare e cogliendo l’occasione di testare nuovi materiali. Ideatore di questa gioiosa traversata a tappe è il vulcanico e geniale Angelo Piana, inventore dei primi scarponi in plastica per scialpinismo, i San Marco Raid, e dei leggendari sci Explorer della Roy. Nel 1977 ha anche luogo una delle più belle, a parere di chi scrive, traversate delle Alpi: è quella di Bernard e Hubert Odier, da Mallnitz in Austria alla spiaggia di Mentone in Costa Azzurra. In tre mesi esatti, dal 18 feb-

Dopo Zwingelstein, un precursore in grande anticipo sui tempi, bisogna aspettare il primo dopo guerra per annoverare altre grandi traversate sulle Alpi. Nel 1956 due gruppi, il primo capeggiato da Alberto Righini con Bruno e Catullo Detassis e il secondo da Walter Bonatti, partono a quattro giorni di distanza uno dall’altro da Tarvisio, rispettivamente il 10 e il 14 marzo. Entrambi, a differenza di Zwingelstein, sono seguiti da un’automobile di appoggio per i rifornimenti. La meta è il Col di Nava in Liguria, che raggiungono insieme il 18 maggio, ossia 66 giorni dalla partenza (quattro in più per il gruppo Righini-Detassis). Stranamente nel capitolo del libro Le mie montagne di Bonatti, interamente dedicato a questa grande traversata, non si fa cenno al gruppo di Righini-Detassis, quasi fossero fantasmi, e non si dice che l’ideatore della traversata era stato Alberto Righini, che aveva infatti invitato Bonatti a parteci-

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©Giorgio Daidola

NELLE FOTO \\ Walter Bonatti, Denis Bertholet e Bruno Detassis (dall'alto in senso orario)

braio al 18 maggio, senza utilizzare il cronometro e senza auto di appoggio, lungo un itinerario diretto ed elegante. I fratelli Odier hanno scritto sulla loro traversata un magnifico libro, tradotto in italiano con il titolo Tutte le Alpi in sci. Questo libro è ancora oggi una vera Bibbia per lo sciatore alpino errante, che non cerca l’exploit a tutti i costi ma un rapporto vero con la montagna e i suoi abitanti. Come Zwingelstein, come Bois e forse tanti altri che non hanno fatto sapere nulla sulle loro traversate. Il volume è diviso in 17 capitoli che sono altrettanti inviti a conoscere separatamente i diversi massicci toccati dagli Odier nel loro raid. Arriviamo quindi alla traversata delle Guide alpine Paolino Tassi e Mauro Girardi del 1996, effettuata con l’attrezzatura da telemark e con la tenda, per evitare di scendere in basso per dormire. L’idea era di seguire l’itinerario dei fratelli Odier ma i due partono con zaini troppo pesanti e cammin facendo decidono di alleggerirsi, dando alla traversata un’impronta più godereccia, privilegiando le belle sciate in diverse stazioni, facendosi un punto di onore di utilizzare gli impianti quando possibile, eliminando alcune tappe poco sciistiche e usufruendo di un pulmino di appoggio. Nulla di male, hanno fatto benissimo, non avevano bisogno di dimostrare la loro bravura a nessuno. La mancanza di neve ha fatto concludere la loro traversata nella valle di Névache in Delfinato, togliendo a Paolino e Mauro il privilegio di percorrere le Alpi Marittime, vero Paradiso dello sci. L’ultima grande traversata delle Alpi, prima del Red Bull Der Lange Weg da poco conclusa, è quella in solitaria del piemontese Paolo Rabbia. Partito da Forcella della Lavina, in Friuli, il 29 dicembre 2008, Rabbia arriva sulle piste di Garessio, in Piemonte, il 28 febbraio 2009. Una performance eccezionale, da solo in 62 giorni, ma soprattutto la prima traversata completa delle Alpi in pieno inverno. Con lo stesso stile veloce Rabbia ha effettuato la traversata integrale dei Pirenei nel 2014, sempre in pieno inverno, dal Mediterraneo all’Atlantico in 29 giorni. Tanto di cappello! La ricerca dell’exploit a tutti i costi è però sempre più evidente nelle traversate delle Alpi con gli sci. Il tarlo già presente nella traversata di Bonatti ha lavorato parecchio. L’ultima Red Bull, sulle tracce della sopra citata Vienna-Nizza del 1971 ne è l’esempio più eclatante: l’obiettivo principale, raggiunto, è stato quello di diminuire il numero di giorni necessari per effettuare il raid, trasformandolo così di fatto in un rally competitivo. Lo spirito del raid però non è questo. Trasformare un raid in una gara significa non averne capito l’essenza. Come scrisse il grande fotografo e scrittore Jean-Pierre Bonfort (andate a vedere il suo sito web!) in un vecchio articolo su Montagnes Magazine, lo spirito del raid in sci è «passare la giornata camminando, vedere il sole tramontare e preparare il nido... poi, leggeri, senza zaino e senza duvet, salire lassù fino in cima al pendio, fino a quel colle. Flessibilità ci vuole, soprattutto flessibilità. Nei programmi e nella propria testa. Bisogna lasciar decidere alla neve». Ci sono certamente ancora scialpinisti che si mettono sulle tracce degli Zwing, dei Bois, degli Odier, dei Bonfort, magari senza far sapere nulla: ad essi va tutta la nostra stima.

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Il libro Giorgio Daidola ha pubblicato per la nostra casa editrice Sciatori di montagna (208 pp, 19 euro). Dodici ritratti di padri dello scialpinismo, da Wilhelm Paulcke, il primo ad attraversare con gli sci l’Oberland Bernese, a Michel Parmentier, l’inventore dei moderni viaggi con gli sci. E poi Lunn e Mezzalama, Castiglioni, Gobbi.


©Philipp Reiter / Red Bull Content Pool

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traversate

DER L A NGE WEG Quasi duemila chilometri con gli sci e a piedi, dai dintorni di Vienna a quelli di Nizza. Un percorso mai più seguito per quasi 50 anni. Fino al marzo 2018, quando Philipp Reiter e altri sei compagni di viaggio sono partiti da Reichenau an der Rax testo di CLAUDIO PRIMAVESI foto di CHRISTIAN GAMSJÄGER/RED BULL CONTENT POOL

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traversate

rimo aprile 2018. Pasqua. Nel tranquillo borgo di Trafoi tutto tace. Si sente solo il rimbombo dei passi degli scarponi sull’asfalto. Un rumore sordo, che risuona tra le case e le vie deserte di questo quieto villaggio altoatesino. Sono sei rintocchi, uno dietro l’altro, regolari. Sono sei scialpinisti, quattro uomini e due donne. Arrivano da lontano e sono diretti lontano. Vogliono salire allo Stelvio e hanno 80 chilometri di camminata con gli sci e gli zaini in spalla nelle gambe.

NELLE FOTO \\ Con le pelli tra Marmora ed Entracque, al confine tra Piemonte e Francia (in apertura) e Philipp Reiter in compagnia del suo piede provato da una intensa giornata (a destra)

P

si pensa al recupero fisico, ma c’è un recupero mentale che è altrettanto importante. Per un inverno ti sei concentrato su quell’obiettivo. Poi per quasi quaranta giorni hai fatto sempre e solo quello: alzarti alle due di mattina, da tre a quattromila metri di dislivello al giorno, decine di chilometri. La giornata scorre nella routine della fatica, resa ogni giorno diversa da tanti imprevisti. Ma non hai altri pensieri, altre occupazioni. E ora? Bisogna tornare a pensare a se stessi, al lavoro, agli amici, cambiano completamente le prospettive e tutto quello per cui hai lavorato finisce in un secondo».

Trovano un albergo, il Bellavista. Entrano per chiedere informazioni. Un signore sui 70 anni sta mangiando insieme alla famiglia e ai nipoti. È il proprietario dell’hotel ma, come se niente fosse, interrompe il pranzo pasquale, esce e si dilunga a spiegare la strada a questa insolita comitiva di scialpinisti. Quel signore all’anagrafe fa Gustav Thoeni ed è proprio lui, il campionissimo della Valanga Azzurra. I sei scialpinisti non sono degli skialper qualunque. Si chiamano Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug, David Wallmann e Tamara Lunger (che dovrà successivamente fermarsi per un infortunio). Sono i sei superstiti dei sette partiti il 17 marzo non lontano da Vienna alla volta di Nizza per la grande traversata delle Alpi, un’impresa riuscita solo nel 1971 a quattro austriaci. E l’obiettivo è proprio quello di arrivare almeno in quattro a Nizza e battere il tempo di Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher. La traversata più mediatica della storia dello skialp, non a caso con la regia di Red Bull. Un’impresa della quale si è parlato molto. E non sono mancate le polemiche.

Philipp parla ansimando, mentre ha lo smartphone all’orecchio sta tracciando il percorso di un trail, tanto per continuare a muoversi. Ma non gli manca la lucidità per andare nelle profondità di Der Lange Weg, oltre i titoli dei media e i video promo di Red Bull. «Nessuno di noi, quando siamo partiti, aveva realmente idea di che cosa avremmo dovuto affrontare, del fatto che andare da Vienna a Nizza in così poco tempo significa essere in moto anche quindici ore al giorno, percorrere fino a 4.500 metri di dislivello positivo con qualsiasi condizione meteo. E prendersi dei rischi. Perché il ragionamento non è quale percorso fare e come adattarsi alle condizioni meteo, ma in certe situazioni puoi solo decidere se prenderti quei rischi vale la pena. Se devi passare da una valle all’altra e c’è solo quel valico non hai molte alternative. La prima settimana è stata la più difficile. Ci siamo allenati solo un giorno insieme, a gennaio. Io conoscevo esclusivamente un paio di compagni. Abbiamo affrontato condizioni meteo molto difficili e in quei momenti viene fuori il nostro io più profondo, nelle situazioni estreme si vede chi sei veramente e non è sempre un fatto positivo. Poi però dopo i primi dieci giorni possiamo dire di essere diventati un vero team. E abbiamo dato il giusto valore all’impresa di Klaus Hoi e compagni. Quando ti trovi nel white out con il vento a cento chilometri all’ora capisci che chi ha vissuto queste stesse situazioni quasi cinquanta anni fa lo ha fatto senza GPS, attrezzatura e abbigliamento hi-tech».

Il modo migliore per capire che cosa è stata Der Lange Weg e che cosa lascerà è di guardarla con gli occhi dei protagonisti, di quei quattro uomini e quella donna che hanno macinato 1.721 chilometri e 89.644 metri di dislivello in 37 giorni (contro i 41 degli austriaci nel 1971) ovvero 375,08 ore in movimento. Per esempio quelli di Philipp Reiter, scialpinista e trail runner tedesco classe 1991. Il modo migliore per capire che cosa significhino queste spaventose cifre è di farlo a ritroso, a rebours, visto che il nostro viaggio parte da Nizza, dove Philipp si è tuffato nel mare con sci e scarponi. «Sono passate tre settimane ormai dall’arrivo e lo stomaco si è allargato, ho sempre tanta fame ma, a differenza di quando eravamo in azione 15 ore al giorno, ora il peso aumenta. Per qualche giorno mi sembrava di essere un elefante quando mi muovevo, ero gonfio perché il corpo tratteneva troppi liquidi. Sto andando in bici e corricchiando, non posso dire di non avere le gambe, ma manca la velocità. Dopo un’impresa del genere

Prendersi dei rischi. Quelli che non ha voluto prendersi la trail runner catalana Nùria Picas, che pure passa per una dura e ha lasciato il gruppo

STORIA DI UN'IMPRESA

La lunga strada. Come quella che nel 1971 gli austriaci Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher hanno portato a termine, da Reichenau an der Rax, in Austria, vicino a Vienna, a Contes, una località vicino Nizza, in 41 giorni. A distanza di quasi 50 anni l’altoatesina Tamara Lunger, il tedesco Philipp Reiter, lo svizzero Bernard Hug, la catalana Nùria Picas, l’austriaco David Wallmann e gli statunitensi Janelle e Mike Smiley, marito e moglie, avevano l’obiettivo di arrivare almeno in quattro e in meno di 37 giorni. Non si può dire che le due imprese siano sovrapponibili e che il record sia stato battuto, anche se il tempo è nettamente inferiore: 41 giorni. Il percorso, che doveva essere uguale, tranne qualche tratto iniziale, è stato invece ridotto a 1.721 invece dei 1.917 km previsti (con 85.000 metri D+, che sono diventati 89.644 nell’impresa odierna) a causa delle avverse condizioni meteo che hanno obbligato a tagliare alcuni tratti e saltare alcune vette (sono comunque stati raggiunti Grossglockner e Punta Dufour). Tamara Lunger ha abbandonato dopo la tappa 21 a causa di un infortunio, che l’aveva anche costretta a usufruire del bonus di 64 chilometri percorsi in auto, bonus pensato perché anche nel 1971 i protagonisti avevano percorso 64 km in auto. Non ha concluso il percorso anche Nùria Picas. La partenza è avvenuta il 17 marzo e l’arrivo il 22 aprile.

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people

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traversate dopo 550 chilometri e 32.000 metri di dislivello positivo. «Ovunque andiamo ci sono grandi carichi di neve, è un anno meravigliosamente eccezionale, ma non sono disposta ad assumermi rischi maggiori di quelli che abbiamo già corso in questa settimana appena passata – ha scritto in un post su Facebook -. A casa ad aspettarmi ho i miei figli, la mia famiglia e gli amici e molte avventure che spero di condividere con tutti voi. Lo faccio perché penso che la vita sia uno sport meraviglioso!». Trentasette giorni ad alzarsi alle due del mattino per evitare la neve molle e il rischio di distacchi, poi giù veloci al camper per mangiare e dormire qualche ora. Una vita con ritmi militareschi. Cosa rimane nella mente di chi a Nizza ci è arrivato? «Due insegnamenti. Non bisogna fermarsi mai, fino al traguardo, nonostante i tanti imprevisti. Bisogna continuare a muoversi e guardare avanti. Non bisogna essere soli, è impossibile. È un’impresa che puoi fare in compagnia, perché oggi capita la mia giornata no e domani la tua e ci si aiuta. C’è un altro pensiero che mi ha accompagnato a lungo: se sia possibile immaginare una Der Lange Weg a piedi, in velocità. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto più difficile. Perché con gli sci guadagni tempo in discesa e solleciti meno le articolazioni. E perché quando fai scialpinismo lo stomaco non è così delicato come quando corri. Non potrei mai mangiare una salsiccia prima di un trail, durante una scialpinistica sì». E se lo dice uno che ha portato a termine due volte la Gore-Tex Transalpine Run, andando anche sul podio, bisogna credergli.

©Philipp Reiter / Red Bull Content Pool

Ci sono curiosità che vanno oltre le vette raggiunte e i metri di dislivello. E sono sulla vita di tutti i giorni alla Der Lange Weg. Quello, insomma, che non sta scritto nei comunicati stampa. «A parte tre notti in hotel, una in rifugio e una nel locale invernale di un rifugio, abbiamo sempre dormito nei camper. Eravamo in sette e dormivamo in tre diversi camper. La maggiore difficoltà è stata quella di doversi alzare sempre nel cuore della notte, alle due. Anche se sei stanco non riesci ad andare a letto tanto presto e poi non sei in una casa dove puoi oscurare bene le finestre. Lo spazio a disposizione in camper non è tanto e soprattutto i vestiti non ritornano perfettamente asciutti, rimane sempre un po’ di umidità». Kilian Jornet ama gratificarsi con gli orsetti gommosi della Haribo nei momenti più difficili di una gara ultra-trail. E di momenti difficili in 1.721 chilometri ce ne sono stati tanti. L’orsetto di gomma (o la coperta di Linus…) di Philipp è una parola composta da cinque lettere, che si scrive uguale in tutto il mondo: pizza. E c’è una vecchia conoscenza di Skialper nel ruolo di pizzaiolo: «Avevamo proprio voglia di una pizza perché eravamo entrati in Italia, ma non potevamo permetterci di passare a casa di Manfred a mangiarla, così lui l’ha impastata, cotta e ce l’ha portata il giorno dopo in quota». Manfred è Manny Reichegger, il senatore della nazionale italiana di scialpinismo da poco ritiratosi, che ha fatto da guida al gruppo nella sua valle Aurina, aiutando Philipp e compagni non poco nella nebbia. Già, il cibo, croce e delizia in ogni gruppo che si rispetti. «Avevamo un cuoco, un ex tagliatore di legna che cucinava grasso, molto grasso. Ma andava bene perché bruciavamo tanto. Il suo compito era difficilissimo perché doveva preparare il cibo all’aperto,

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FREIBURG

VIENNA

MÜNCHEN SALZBURG

©Klaus Hoi /Red Bull Content Pool

MULHOUSE ZÜRICH

BASEL

Eisenerz

Reichenau

INNSBRUCK LUZERN

BERN

Vipiteno

GRAZ

Heilingenblut

Livigno

KLAGENFURT

BOLZANO GENÈVE

Zermatt

TRENTO

Chamonix

LJUBLJANA

MILANO

GRENOBLE

Bardonecchia

ZAGREB

TRIESTE

Bourg-St-Maurice VERONA

VENEZIA

TORINO PULA

PARMA BOLOGNA GENOVA

NIZZA

MONACO

ZADAR

PISA

FIRENZE

NELLE FOTO \\ L'arrivo sulla Promenade di Nizza di Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug e David Wallmann (qui accanto). Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher, i protagonisti dell'impresa del 1971 (a destra)

per una ventina di persone, inclusi autisti, operatori cinematografici, persone di servizio e, soprattutto, non sapeva mai quando arrivavamo perché era difficile calcolare i tempi con precisione». Un lungo viaggio è fatto di tanti ricordi che la mente elabora meglio a distanza di qualche settimana o mese. Ce ne sono di belli e di brutti. «Non posso dire di avere fatte delle belle sciate. Più che altro ci siamo spostati con gli sci, in velocità. Però quando siamo arrivati in Valle Aurina, dopo una giornata lunghissima, ci siamo goduti una discesa al tramonto sulla neve polverosa che sembrava arancione. A Zermatt una bellissima alba ci ha subito avvolti mentre salivamo verso il Cervino, poi sul ghiacciaio si respirava un’atmosfera strana, durante una gita non ho mai visto così pochi scialpinisti in giro, eravamo praticamente soli a battere traccia, in quota e con il vento contro. Il meteo è cambiato velocemente e ci siamo ritrovati nella nebbia con raffiche a cento chilometri all’ora che ci spostavano indietro di cinque metri. Piedi e vestiti erano fradici. Quando siamo riusciti ad arrivare al bivacco a 3.700 metri ci siamo resi conto di essere dei sopravvissuti. In quel momento, quando nel video che ho caricato sulla mia pagina Facebook si vede entrare dalla porta uno dei mie compagni, la sua espressione parla più di mille parole. Ce l’avevamo fatta ed era l’unica cosa importante, poi avremmo pensato a come tornare indietro». Già, tornare indietro. Come al Monte Bianco. «Eravamo a cento metri di dislivello dalla vetta, immersi nel white out. I nasi e le guance di alcuni erano bianchi, in cresta non si vedeva nulla e per cercare la strada abbiamo fatto partire un lastrone, non aveva senso rischiare. Per salire sul Monte Bianco abbiamo preso una Guida: ce n’erano solo tre o quattro disposte a portarci in un solo giorno però volevano 1.500 euro e per noi era troppo. Allora l’organizzatore Helmut Putz ha deciso di pagare lui la Guida perché voleva che arrivassimo in vetta. È finita che abbiamo dovuto letteralmente tirarla perché non riusciva a tenere il nostro ritmo e aspettarla continuamente. Alla fine voleva 1.200 euro perché non eravamo arrivati in vetta, ma un collega l’ha convinta a non farsi pagare per il buon nome della categoria». Quando vai sul Monte Bianco con un cliente normale sai che hai margine, quando vai con chi attraversa le Alpi in 37 giorni no. Ecco un’altra lezione di Der Lange Weg.

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L’AV VENTUR A DIETRO CASA Da Courmayeur a Courmayeur, quasi 30.000 metri di dislivello sulle due alte vie che fanno il periplo della Valle d’Aosta, con sci larghi e abbigliamento da freeride. Il tutto raccontato in una delle produzioni video più interessanti dell’anno, La Promenade.

testo di VERONICA BALOCCO - foto di ACHILLE MAURI

ra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato.

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È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.

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NELLE FOTO \\ Shanty Cipolli (a sinistra), Carlo Vettorato e Simon Croux (sotto)

Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci? Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti le gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World Tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti que-

sti impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour. Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere un sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di

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mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta.

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©Pierre Lucianaz


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©Pierre Lucianaz

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IL FILM Online su YouTube dallo scorso 29 gennaio, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 30.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.

Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».

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LA BIRRA FINALE EVAPORA QUI, SEDUTI FIANCO A FIANCO AD AMMIRARE I 4.810 METRI CHE SOVRASTANO OGNI COSA. E LA MENTE CORRE VELOCE A TUTTO QUEL CHE È STATO IN COSÌ POCO, MA ANCHE TANTO TEMPO: LA SALITA DURISSIMA VERSO LA THUILE E IL DEFFEYES, LA VOLPE CHE CURIOSAVA IN TENDA E POI ACCETTAVA UNO SPUNTINO, IL CALDO OPPRIMENTE DELLA VALGRISA. LA GIORNATA DI RELAX TOTALE SUL GHIACCIAIO GOLETTA, ALL’OMBRA DEL GRANTA PAREY.

«Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa». Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.

Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da Ovest per scendere ad Est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza.

1.300 METRI AL GIORNO La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio

sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux

2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe:

i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per

Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré;

Shanty Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il

Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e

filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split.

Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana;

Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili,

Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del

un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di

Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani

materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo

hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e

Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile,

soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento

arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe,

su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato

con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello,

solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni

di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.

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L A TR AVERSATA DELL’AMICIZIA La storia del bergamasco che per primo, nel 1971 e nel 1974, percorse tutte le Orobie e del figlio adottivo che, ad anni di distanza, l’ha ripetuta insieme a Simone Moro. Non senza qualche colpo di scena testo di TATIANA BERTERA

uando una traversata con gli sci si trasforma in un viaggio nella storia e nella memoria. Un modo per ricordare quel papà mai conosciuto, la cui impresa ha saputo scavalcare le barriere del tempo e arrivare fino ad oggi. A tentare la traversata completa delle Orobie di Angelo Gherardi non è stato infatti solamente il figlio Alessandro (di Zogno), accompagnato dall’amico Simone Moro, ma anche un’altra cordata bergamasca e addirittura, qualche anno fa, uno scialpinista francese.

casa, le Alpi Orobie. Abbiamo così deciso di ripercorrere a modo nostro la traccia e l’idea di Angelo Gherardi, papà di Alessandro detto Geko, che nel 1971 realizzò la prima traversata scialpinistica delle Orobie. E proprio Alessandro è stato il compagno di quattro giorni di silenzioso e selvaggio viaggio con sci da alpinismo e zaino in spalla da Ornica al Rifugio Mambretti».

Q

Le montagne belle e selvagge si possono trovare anche a due passi da casa, come è solito ricordare Hervè Barmasse, senza bisogno di volare all’altro capo del mondo. Certo, viene da pensare, facile parlare di montagne belle quando di casa stai sotto al Cervino… Ma è altrettanto vero che l’amante della montagna, il vero esploratore, non si ferma alle apparenze ma va oltre, dove magari non arrivano strade e neppure impianti di risalita, dove soprattutto nella stagione invernale la natura riserva spettacoli inimmaginabili. E Angelo Gherardi, papà adottivo di Alessandro, primo istruttore di scialpinismo del CAI di Bergamo venuto a mancare quando egli era ancora piccolissimo proprio sulle montagne di casa, lo aveva capito bene. Nel 1971 aveva compiuto, insieme ad alcuni amici, tra cui Franco Maestrini, la traversata dell’arco orobico da Ornica alla Valle Belviso e, nel 1974, quella partendo dalla Val Biandino (Valsassina) e arrivando a Carona, in Valtellina. Insieme, quella seconda volta, al francese Jean Paul Zuanon, già capo spedizione in imprese alpinistiche sulle Ande oppure in Pamir e conosciuto dal bergamasco in occasione di un rally in Adamello. Una traversata - riportano fonti autorevoli della stampa locale compiuta nella più assoluta solitudine ma che ebbe risonanza notevole nell’ambiente bergamasco. Però, oltre che un valido alpinista, Angelo (a cui è intitolato il rifugio Gherardi ai Piani dell’Alben) era anche un uomo di cuore. Tra il 1971 e il 1974 adotta un bambino e una bambina. Il maschio è, appunto, Alessandro. Papà Angelo muore in un incidente alpinistico sul Corno Stella quando Alessandro ha solamente un anno o poco più e il bambino cresce nel mito di questo padre tanto buono nel carattere quanto bravo

Da Ornica fino a Carona in Valtellina, su e giù per i giganti delle Orobie, macinando una media di 2.500-3.000 metri di dislivello e su distanze che si aggirano attorno ai 30 chilometri quotidiani. E se i primi, la cordata dell’amicizia formata da Moro e da Gherardi (così hanno voluto definirsi dal momento che l’impresa è conosciuta con il nome di traversata dell’amicizia) devono ancora portare a termine l’ultima tappa, la seconda cordata ci è invece riuscita, pur con qualche difficoltà. Si tratta della coppia di bergamaschi Maurizio Panseri e Marco Cardullo, partiti il 21 aprile addirittura dalla riva del lago di Como (dall’imbarcadero di Varenna, per la precisione). Hanno così allungato il tracciato dell’originale traversata compiuta da papà Gherardi nel 1971 e poi nel 1974 arrivando fino a Carona in Valtellina e nelle loro intenzioni future c’è quella di arrivare fino a Corteno Golgi, in Valle Camonica. Ma andiamo con ordine perché i fatti sono tanti e si intrecciano in una storia che fonde in un’unica, affascinante narrazione le gesta sportive dell’alpinista con quelle dell’uomo tenero di cuore, il desiderio di avventura con quello di ricordare e condividere, il vecchio con il nuovo e infine il passato con il presente. Il tutto parte da un post scritto da Simone Moro sulla sua pagina Facebook in data 30 marzo. «Non cercavamo record, non c’era nulla di nuovo, nessuna volontà di stabilire una salita record né di strabiliare nessuno. Volevamo solo regalarci un viaggio scialpinistico forse poco ordinario tra le montagne di

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NELLE FOTO \\ Un’immagine d’epoca delle traversate orobiche degli anni Settanta (a destra). I Ponteranica e le Torri del Valletto dal rifugio Benigni all’alba (in alto a pagina 89)

a livello alpinistico. Dopo la morte di Angelo pare che solamente Maestrini abbia rifatto la traversata, forse proprio in ricordo dell’amico. Gli anni trascorrono e i figli di Angelo crescono. Alessandro oggi è un valido arrampicatore, canoista e scialpinista. Da anni era stimolato dall’idea di ripetere la traversata del padre. Detto, fatto. E con un partner d’eccezione. «Avevo solo quattro giorni consecutivi di tempo libero da poter dedicare a questo viaggio sulle nevi e tra le vette di casa, perché la recente spedizione che ho compiuto in Siberia ha generato tante attività e appuntamenti che mi hanno riempito le settimane e i prossimi mesi di incontri, ma non volevo mancare alla personale volontà di partire e alla promessa che avevo fatto all’amico Alessandro di essergli a fianco. Così invece di perdere tempo e anni a dire prima o poi lo facciamo oppure piacerebbe anche a me però, che sono le frasi che per anni hanno ripetuto a Geko, ho invece preso la decisone, preparato il materiale e mi sono presentato puntuale a casa di Alessandro, a Zogno, alle 7 in punto del 25 marzo per dirigerci a Ornica» riporta Moro. Nella prima occasione, con zaini e materiale pesante e senza alcun supporto logistico (le fonti storiche parlano di 20/25 chili di materiale a testa) Angelo Gherardi aveva impiegato nove giorni, mentre nel 1974, insieme al francese, i giorni si erano già ridotti. Simone e Alessandro, che però si sono fermati al Mambretti, sono stati sulla neve per quattro giornate.

Cardullo, con il sostegno dell’amico Alberto Valtellina per quanto riguarda la logistica e non senza qualche, piccolo, inconveniente. Panseri, alpinista conosciuto e affermato in bergamasca, conosceva anche quel famoso Maestrini che era stato, nel 1971, insieme a Gherardi durante la traversata e che l’aveva ripetuta anche dopo la morte dello stesso. «Era da tempo che pensavo di ripetere la traversata, partendo però dal lago, sopra Lecco, e arrivando a Corteno Golgi in Valcamonica. Nella parte di traversata fatta dal Gherardi ci siamo mantenuti il più possibile fedeli al percorso originale». Immaginiamoceli a Varenna, zona imbarcadero, con tanto di scarponi e sci in spalla. E poi immaginiamoceli sul Grignone, lo stesso giorno, per scendere e dormire in Valsassina, nei pressi di Pasturo. «Il secondo giorno siamo andati da Pasturo a Introbio, per risalire la Val Biandino e il Pizzo Tre Signori. Scesi fino al lago di Trona, siamo poi risaliti al Benigni, dove abbiamo trascorso la notte nel locale invernale. Il terzo è successo quello che a uno scialpinista non dovrebbe mai accadere: rompere gli sci! Mi è venuto in soccorso l’amico Alberto, che ha provveduto al cambio sci ai Piani dell’Avaro, dove abbiamo dormito. Il giorno dopo siamo ripartiti alla volta di Foppolo. La quinta tappa ci ha visti in Val Cervia, per arrivare a dormire a fine giornata con i nostri sacchi a pelo presso le baite di Scais. Siamo saliti al Mambretti durante la sesta tappa, affacciandoci verso la vedretta di Porola nella speranza di aver ben compreso le indicazioni del buon Maestrini (morto nel luglio del 2017, ndr). Dal Colletto Nord di Porola, che si trova a 80 metri dalla vetta del Porola, ci siamo ritrovati a guardare giù, verso il canale che scende alla vedretta del Lupo, a Nord del Passo di Coca. Un’emozione grande, soprattutto perché eravamo i primi a continuare la traversata e perché ci trovavamo, in quel momento, nel punto più alto della stessa».

«Abbiamo voluto fare tappe doppie rispetto a quelle di papà Angelo solo perché materiali, preparazione e il mio tempo limitato lo permettevano e imponevano. Dai 2.500 ai 3.000 metri di dislivello al giorno, almeno quattro o cinque salite e cambi pelle per ogni tappa e tanta serenità nel cuore. Siamo rimasti stupiti dalla bellezza e della gioia che abbiamo respirato lungo tutto il percorso. Non sono mancati gli incontri con altri scialpinisti in alcuni punti della traversata, abbiamo pernottato al Rifugio San Marco, all’hotel K2 a Foppolo, alla baita di Cigola e bevuto il caffè al Mambretti come chiusura della nostra personale traccia. Ci riproponiamo di terminare il viaggio con l’ultima tappa che ci porterà a Carona di Valtellina il prossimo anno, visto che il meteo non è più stato favorevole. Per narrare questa nostra esperienza ho chiesto a turno ad alcuni amici fotografi di venire lungo il percorso a scattare qualche immagine per meglio esaltare la bellezza delle opportunità verticali ed escursionistiche del nostro territorio».

È la sera del 26 aprile e, dato il meteo non favorevole (le temperature sono troppo alte), i due decidono di arrivare al rifugio Coca e di scendere a Valbondione. Ripartiranno solamente la sera del 31 aprile, complice

Una bella storia con lieto fine, ma non è tutto qui. Il 21 aprile e nei giorni seguenti l’itinerario è stato ripercorso da Maurizio Panseri e Marco

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©Maurizio Panseri

un improvviso abbassamento delle temperature. Si riportano all’altezza del rifugio Coca (dove si erano fermati) per poi ripartire, dopo qualche ora di sonno, prima dell’alba del primo maggio e, passando per la Bocchetta dei Camosci, scendere la Valmorta fino al rifugio Curò, risalire al Passo Caronella e, finalmente, perdere quota per arrivare a Carona, in Valtellina. La soddisfazione per l’impresa la si evince chiaramente dalle parole di Panseri. «Lo sci di traversata è l'essenza dello scialpinismo perché abbina alla parte tecnica una componente esplorativa e avventurosa che rende l'esperienza completa e decisamente interessante. La logistica, come in una micro-spedizione, ha poi il suo peso in tutti i sensi. Più il luogo è selvaggio, più si deve essere autonomi e sempre più aumenta il peso dello zaino: sacco a pelo, fornello, cibo… e tutto si riduce all'essenziale. Se vi ingaggerete nella traversata delle Orobie con gli sci non troverete altro che l'essenziale per vivere una grande avventura immersi nella bellezza».

©Miki Oprandi

©Simone Moro

Nota di colore, o colpo di scena, rivelato dallo stesso Panseri: vi ricordate il francese, Jean Paul Zuanon, protagonista della traversata integrale del ’74 insieme a Gherardi? Tornò a casa e scrisse il suo personale racconto sull’annuario del CAF (Club Alpino Francese). Nel 2011 François Renard, ingegnere con la passione per lo scialpinismo, decide di realizzare la traversata in senso contrario e descrivere in un libro quella che (secondo il suo personale parere) figura tra le 15 più belle traversate con gli sci a livello mondiale. Nel suo volume Skitinerrances 1, pubblicato nel 2013, racconta di Cile, Nuova Zelanda, Norvegia e Alpi. Nella pubblicazione la parte del leone la fanno, naturalmente, le Alpi e poi troviamo, oltre agli Appennini, pure le Prealpes Bergamasques, con la traversata realizzata sulle tracce di quella effettuata da Gherardi e da Zuanon nel 1974.

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L’ITINERARIO DI

L’ITINERARIO DI MAURIZIO PANSERI

SIMONE MORO & GEKO

E MARCO CARDULLO

PRIMA TAPPA - 3.200 M D+ / 26 KM

PRIMA TAPPA - 2.375 M D+ / 24,19 KM

Ornica - Pizzo tre Signori - Diga di Trona - Bocchetta val Pianella - Val

Varenna - Grignone - Pasturo

Salmurano - Passo di Salmurano - cresta e vetta al Mut de Sura - Casera del Valletto - Pizzo Tri Omegn - Laghi di Ponteranica - diga di Altamora - passo

SECONDA TAPPA - 2.472 M D+ / 26,02 KM

e Rifugio San Marco

Introbio - Pizzo Dei Tre Signori - Lago Di Trona - Bocchetta Di Trona - Cima Piazzotti - Rifugio Benigni

SECONDA TAPPA - 2.134 M D+ / 20,1 KM Rifugio San Marco - Bocchetta di Budria - Bocchetta di Tartano - Val di

TERZA TAPPA - 877 M D+ / 17,58 KM

Lemma - Cima di Lemma - Passo Tartano - Laghi di Porcile - Bocchetta dei

Rifugio Benigni (stop tecnico per rottura sci) – Cusio - Piani dell’Avaro

Lupi - Passo Dordona - Montebello - Foppolo QUARTA TAPPA - 2.205 M D+ / 32,23 KM TERZA TAPPA - 2.163 M D+ / 18 KM

Piani dell’Avaro - Monte Mincucco - Lago di Valmora - Passo San Marco

Foppolo - Montebello- Lago Corno Stella - passo Monte Chierico - Laghi di

- Baite d’Orta - Passo Pedena - Bocchetta Pizzo del Vento - Passo Tartano -

Caldirola - Bivacco Pedrinelli - Monte Masoni - Rifugio Longo verso il passo

Bocchetta di Sona - Cima di Lemma - Baite d’Arete - Cambrembo

del Venina - Località Forno - Passo Brandà - baita di Cigola QUINTA TAPPA - 2.571 M D+ / 28,64 KM QUARTA TAPPA - 998 M D+ / 9 KM

Foppolo - Lago Moro - Passo di Valcervia - Valcervia - Passo Tonale - Lago

baita Cigola - Passo Forcellino - Val Vedello - Diga di Scais (per prendere le

Publino - Passo Scoltador - Casere Valle Di Venina - Passo di Brandà - Baite

chiavi del rifugio) - Rifugio Mambretti

di Cigola - Valle di Ambria - Passo del Forcellino - Valle di Vedello - Lago Di Scais SESTA TAPPA - 1.551 M D+ / 16,08 KM

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14.378 m

millimetri la larghezza al centro

il dislivello positivo da Varenna

SETTIMA TAPPA - 2.724 M D+ / 33,68 KM

degli sci La Sportiva Maestro

a Carona in Valtellina

Valbondione - Rifugio Coca - Bocchetta dei Camosci - Val Morta - Rifugio

Lago di Scais - Rifugio Mambretti - Bocchetta Pizzo Porola - Vedretta del Lupo - Passo di Coca - Rifugio Coca - Valbondione

Curò - Lago Barbellino Naturale - Passo di Caronella - Carona di Valtellina

utilizzati da Simone Moro

SONDRIO

Ardenno

L

T

E

L

L

I

Morbegno Tartano M. Legnone 2609

Cima di Lemma 2348

Gerola

A

Esino Lario

SS IN

Introbio Valtorta Zuccone Pasturo Campelli T1 2159

E

M Roncobello

Piazza Brembana

P.zo Arera 2512

V A

Mandello

R

V Oneta

NELLA CARTINA \\ Il percorso seguito da Maurizio Panseri e Marco Cardullo

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Carona di Valtellina T7

A

A Olmo al Brembo

L

Grigna Settentrionale 2409

A

M. Cabianca 2601 P.zo Farno Gromo 2506

S

S

A

L

T2

P.zo dei T3 Piani dell'Avaro Tre Signori Cusio 2553 Ornica

N

A

1801

T4

Cambrembo Mezzoldo

RIF. BENIGNI

A

V

Foppolo

Passo S. Marco

B

Varenna

Cimone di Margno

Piateda

Passo di Caronella T5 P.zo di Coca L. di Scais 3050 3038 2886 P.zo di T6 Redorta RIF. COCA P.zo Recastello 2914 Valbondione P.zo del Diavolo Lizzola di Tenda Carona

B

Premana

Bellano

A

P.zoMeriggio 2358

Delebio

Colico

N

E R I A N

A

Colere P.zo della Presolana 2521

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V

Tresenda

Villa d’Ogna

Passo della Presolana


Spremenite vaše plezanje, spoznajte novi Matik: revolucionarna naprava za varovanje in spuščanje po vrvi vam pomaga pri zaviranju. Zaradi nizke ulovitvene sile in novega “anti-panic” sistema je naprava varnejša za vas in za vašo vrv. Izboljšajte vaše plezanje z revolucionarno napravo, ki ste jo že dolgo čakali.

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TRANSALP TOUR Il white out non ferma la voglia di av ventura Una settimana dallo stabilimento Fischer di Ried Im Innkreis, in Austria, all’Italia. Questo era il programma dell’edizione 2018 del consueto raid transalpino. Non è andata proprio così… testo di GIACOMO MIGLIETTA - foto di MAX KRONECK

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NELLE FOTO \\ Nonostante la nebbia e il maltempo, il primo giorno è subito tempo di grande sci nella zona del Dachstein (sopra)

ono nato a Monza, ma mi hanno battezzato nel bel paese di Rhêmes-Notre-Dame, in Valle d'Aosta, dove i miei genitori mi hanno portato a soli dieci giorni di vita. Una premonizione? Fatto sta che, dopo essermi laureato in Ingegneria Civile, la professione mi ha portato a vivere due anni in Arabia Saudita, lontano dalle mie amate montagne. Per fortuna nel febbraio 2017 sono tornato in Italia.

Grazie ai miei genitori, ma soprattutto grazie a mio padre, a tre anni ero già sugli sci e da allora non ho più smesso. Dalle mie prime gite scialpinistiche a Rhêmes, in cui talvolta sbuffavo per la fatica e la poca voglia, sono passato ad appassionarmi sempre di più a questa disciplina e a praticarla con assiduità. Ecco perché, dopo un viaggio nelle Lyngen Alps norvegesi nell’aprile del 2017, non potevo lasciarmi sfuggire l’opportunità di fare parte del team del Fischer TransAlp Tour 2018. Quando ho saputo che ero stato selezionato a rappresentare l’Italia, l'entusiasmo è stato subito grande: attraversare le Alpi accompagnato da Guide esperte e raccontarlo su Skialper non ha prezzo. A rendere più interessante il tour la compagnia di scialpinisti provenienti da tutto il mondo: un altro piccolo sogno che si realizzava. Il ritrovo era fissato per il 26 marzo a Ried Im Innkreis, in Austria, dove si trova la sede di Fischer. Finalmente eccomi puntuale al luogo d’incontro, dove conosco i miei compagni di avventura: c’è aria di festa e grande entusiasmo. Dopo le presentazioni, una rapida introduzione e un’interessante visita nel centro di produzione degli sci, era finalmente tempo di partire.

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NELLE FOTO \\ Pronti, via, dopo la visita allo stabilimento Fischer si parte; la terza giornata fila liscia come l'olio, dalla cima del Kalkspitze ad Obertauern; il sesto giorno si posa per una simpatica foto dopo avere deciso di mettere fine all'avventura; il quinto giorno l'obiettivo è l'Hochalmspitze (dall'alto in senso orario)

LO ZAINO E L’ATTREZZATURA Prima di mettere gli sci, però, è stato necessario preparare gli zaini con nuova attrezzatura: oltre al tour i vari sponsor ci hanno regalato tanti attrezzi e capi di abbigliamento. Sci e scarponi fortunatamente sono stati spediti prima, permettendoci di provarli, ma zaino, kit di sicurezza e qualche capo di abbigliamento ce li hanno consegnati a Ried in Innkreis. Il cambio del backpack al volo è stata un’operazione frenetica. Alla fine, con l'ansia di aver dimenticato qualcosa, di aver preso le taglie sbagliate e di non sapere dove sono i vari tool o i ricambi dell’abbigliamento, carichiamo le auto e si parte.

mente cosa ci aspetta. Fortunatamente appena mettiamo gli sci ai piedi e iniziamo a muoverci ci si rilassa. Data la tarda ora, le guide Peter e Stephan iniziano con un passo tutt'altro che rilassato e rapidamente saliamo verso il primo colle. Purtroppo il meteo ci dà subito un assaggio delle condizioni che ci accompagneranno per tutto il tour: nubi, vento e il temuto white out. Dopo la prima discesa, la seconda risalita è più rapida e ci lasciamo alle spalle anche l’ultima discesa della giornata. GIORNO 2 - MONTE DACHSTEIN Giusto il tempo per una buona colazione e con gli sci ai piedi ci avviamo verso la cima più alta del tour, il monte Dachstein. Partiti nella nebbia delle nubi, dopo qualche raggio di sole che ci ha fatto sperare per il meglio, il meteo si è guastato e vento, neve e zero visibilità ci hanno accompagnato fino alla cima. Grazie alle Guide (che conoscono questi posti come le loro tasche perché sono originarie della regione) e a una pausa nel caldo riparo del Symonyhütte, arriviamo sotto una fitta nevicata all'attacco della ferratina che porta in

IL TEAM Gli altri cinque partecipanti arrivano davvero da tutto il mondo. I più lontani sono Tyler dall'America ed Emilie dalla Norvegia. Poi c'è Dany dalla Svizzera, Evelyn dall'Austria e Regina dalla Germania. Le nostre facce hanno tutte un bel sorriso di felicità che però nasconde anche un po' di tensione perché non sappiamo esatta-

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Il kit del perfetto transalper Sci Fischer Hannibal 96 Pelli Fischer Profoil Attacchi Dynafit Tour Speed Lite 2.0

vetta del Dachstein, che forse proprio grazie al vento e alla neve ha assunto un gusto particolare. Purtroppo però, dato il meteo non favorevole, non riusciamo a scendere fino a fondo valle con gli sci e optiamo per una più sicura cabinovia. GIORNO 3 - UNA GIORNATA LISCIA… COME L’OLIO Partiamo sotto una bella nevicata che ci accompagna per un paio d’ore. Salendo però le nubi si aprono e un piacevole sole ci bacia finalmente con i suoi raggi. Raggiungiamo la cima del Kalkspitze, dalla quale con un’ottima sciata e una seguente ripellata arriviamo alle piste di Obertauern, dove ci concediamo una mezz’ora di après-ski.

Scarponi Fischer Travers Carbon GPS Garmin Forerunner 935 Occhiali e maschera Adidas Giacca-guscio in Gore-Tex Löffler Guanti Eska Zaino summit 40 Pieps + ARTVA Micro, pala e sonda

Fischer TransAlp Si parte da un punto e si arriva in un altro, attraversando le Alpi da Nord a Sud o da Sud a Nord in

GIORNO 4 - WHITE OUT E ATTESA Sci ai piedi, iniziamo a salire sotto una pioggerellina che però non abbatte gli animi. Guadagniamo metri e la pioggia lascia il campo alla nebbia che ci nasconde tutto il panorama. Abbiamo conquistato la cima dell’Höllkogel nel più completo white out, però non ci lasciamo demoralizzare e passiamo il tempo con una sempre utile esercitazione ARTVA. Dopo più di un’ora di attesa, optiamo per una discesa alternativa e più sicura nel bosco e ci godiamo una sciata su neve primaverile che riaccende gli animi.

GIORNO 5 - LA GRANDE GITA Oggi si parte prima dell’alba: ci aspetta il giorno più lungo. Sulla carta questa tappa è davvero bella: dopo una salita di circa 1.900 metri tra i Stoarnene Mandl si raggiunge la vetta dell’Hochalmspitze, la più alta del gruppo dell’Ankogel, dalla quale con una discesa, una risalita e una discesa finale si raggiunge Mallnitz. Mentre saliamo, faccio finta di non notare il brutto tempo e continuo a sperare nella buona riuscita dell’impresa. Siamo tutti determinati e la neve sempre più profonda unita al vento forte non ci fermano. Dopo 1.800 metri però i quasi 40 centimetri di fresca e la poca visibilità ci costringono alla rinuncia. Fortunatamente la discesa nella farina ci rincuora.

una settimana. Questa la semplice ricetta del TransAlp Tour che il costruttore austriaco di sci organizza dal 2015. Per partecipare bisogna avere un buon al-

GIORNO 6 - THE END Purtroppo il piano del tour è abbandonato per nevicate troppo abbondanti e ci riportiamo a Nord, nell’area del monte Dachstein, con un nuovo progetto. Partiamo con il cielo blu, ma ancora una volta le nuvole giocano contro di noi e inizia a nevicare. Dopo la salita lungo l’Edelgriess e una pausa al rifugio Wiesberghaus, scendiamo verso il lago Hallstätter con quella che è stata l’ultima discesa del Fischer TransAlp tour 2018.

lenamento, necessario per superare migliaia di metri di dislivello ogni giorno, una valida tecnica sciistica

Il meteo avverso non ha lasciato altra scelta che la fine anticipata del tour e più che una vera traversata con arrivo in Italia sono stati sei giorni di gite nel white out sul suolo austriaco, ma che importa? Non abbiamo attraversato, però il meteo di certo non è riuscito a rovinare questa bellissima esperienza!

e candidarsi andando sul sito di Fischer. www.fischersports.com

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CONTR ABBANDIERI D’EMOZIONI Da Bormio a Livigno seguendo le tracce degli spalloni che facevano transitare le merci dal porto franco alla Valtellina testo di FLAVIO SALTARELLI - foto di GIACOMO MENEGHELLO

a ragione Giorgio Daidola, il vero scialpinista è un viaggiatore errante. Usa gli sci non solo come mezzo di trasporto, ma pure come strumento di conoscenza del mondo e di se stesso. Li utilizza per raggiungere luoghi inaccessibili attraversando deserti bianchi, come bene ci ha insegnato Michel Parmentier; per salire montagne che sono solo tappe di un percorso fuori e dentro di sé. Un percorso che, a volte, ha come obiettivo l’orizzonte, per vedere ciò che c’è dopo e ciò che c’è dentro.

la neve, cambia a ogni ora, a ogni folata di vento. Per vivere queste emozioni non è sempre necessario partire per più giorni da casa e andare in capo al mondo. A volte è possibile trovare ciò che si cerca anche dietro l’angolo. Io ho appena avuto la fortuna di condividere un breve viaggio alla portata di qualsiasi scialpinista allenato a pochi passi da casa, sulle nostre Alpi, in giornata, da Isolaccia di Valdidentro a Livigno, lungo le tracce dei contrabbandieri e dietro alle code di Giacomo Meneghello. Lui è un fotografo che vive a Sondalo e che, collaborando con la Ski Trab, ha avuto l’idea di creare un’alta via scialpinistica tra Bormio e Livigno, tracciando due percorsi. Uno, più logico e diretto, parte da Isolaccia e uno, più difficile e tortuoso, prende il via da Oga, quest’ultimo in verità già in parte sperimentato da alcuni scialpinisti locali che fanno capo sempre alla Ski Trab. Noi, a causa del rischio valanghe, abbiamo affrontato il tracciato meno pericoloso, ma anche più lineare. Ventuno chilometri per circa 1.900 metri di dislivello positivo. Un tracciato senza particolari difficoltà tecniche che, partendo dalla Valdidentro, concatena in modo logico diverse convalli esistenti tra Bormio e Livigno. Convalli in un recente passato utilizzate dai contrabbandieri per far transitare le merci dal porto franco di Livigno all’Italia.

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Non per niente sciare è un po’ come vivere: consente di lasciare una traccia che non è indelebile, ma che identifica in modo univoco chi l’ha disegnata, così vincolata come è alla sua sensibilità, alla sua capacità tecnica, all’attrezzatura utilizzata, persino allo stato d’animo e alle emozioni del momento. E le traversate - meglio di ogni altra attività scialpinistica - permettono di rendersi conto di tutto questo, seguendo le tracce di chi le ha percorse per primo ed entrando in sintonia con la sua sensibilità, pur vivendo ogni volta un’esperienza nuova; assecondando le proprie emozioni, entrando fra le pieghe delle montagne, penetrando in punta di piedi in un mondo che, seppure già percorso, come

Variante 2

Variante 1

BORMIO - LIVIGNO

Partenza Sant’Antonio di Scianno Isolaccia - Valdidentro (1.650 m)

D+

D-

Km

Quota Massima \ Quote

Difficoltà

1.950 m

1.800 m

Poco più di 20

2.814 m, Monte Rocca Valdidentro (1.650 m) - Monte Resaccio (2.717 m) - quota 2.500 m circa - Monte Rocca (2.814 m) - Trepalle (1.920 m) Monte Crapene (2.430 m) - Livigno (1810 m)

BS

36

2.866 m, Cima delle Mine Dosso Le Pone (2.556 m) - Baite di Cardone (1.986 m) - Corno delle Pecore (2.610 m) - Val Viola Bormina - Cima delle Mine - Valle delle Mine Monte Sponda (2.570 m) - Livigno (1.810 m)

BSA

Arrivo Livigno - Latteria (1.800 m) Partenza Forte di Oga (1.660 m) Arrivo Livigno (1.800 m)

3.060 m

2.870 m

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Materiale kit antivalanga, in caso di neve dura rampanti e ramponi

kit antivalanga, in caso di neve dura rampanti e ramponi


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Lo abbiamo fatto il lunedì di Pasquetta in una giornata splendidamente serena dopo il maltempo della settimana precedente che aveva portato quasi un metro di neve fresca, ma anche numerosi accumuli da vento sui pendii maggiormente esposti. Partenza alle 6,30 da Sant’Antonio di Scianno, pochi chilometri sopra Isolaccia, nel comune di Valdidentro, a quota 1.650 metri. Lasciata l’auto in un piccolo spiazzo, abbiamo iniziato a risalire verso il Monte Resaccio dapprima facendo traccia in un rado bosco di abeti e poi su distese innevate in cui s’intuivano alpeggi semisepolti dalla neve in un universo fiabesco al risveglio. Giacomo Meneghello davanti, noi dietro. Una decina di scialpinisti in tutto per l’occasione: alcuni ragazzi di Cantù guidati da Marco Colombo di Ski Trab, il forte altoatesino Alex Kheim con la moglie parmigiana Anna e io. Si sono poi aggiunti in Val Vezzola alcuni appassionati livignaschi e di Semogo tra cui la nota atleta polacca di scialpinismo Anna Tybor. Ci aspettavano già in quota, essendo partiti più avanti, da Li Arnoga. Un ripido pendio, la larga cresta ed eccoci in vetta al Monte Resaccio. Siamo a quota 2.717 metri. Il panorama a 360 gradi toglie il fiato; Cima Piazzi ci ammalia controllando ogni nostro passo dall’alto della sua bellezza e severità. In fondo, a sinistra, riconosco il Pizzo Palù, dietro l’Ortles con la sua corona di cime del bacino dei Forni. Anna Tybor, reduce da una brillante prestazione al Tour du Rutor, mi fa da Cicerone illustrandomi il nome di valli e convalli. Livignasca d’adozione, mi dice di non poter più fare a meno di queste montagne. Il tempo di spellare e giù, verso il bianco più bianco. Versante nord: farina intonsa, sciatona. Gli Ski Trab Maestro che l’azienda bormina mi ha dato da testare per l’occasione non mi fanno rimpiangere sci più larghi.

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NELLE FOTO \\ Il primo tratto della traversata, salendo con la Cima Piazzi sullo sfondo (in apertura). Una pellata in direzione dello spartiacque che porta verso Livigno, l’agognata meta finale, dove il gruppo festeggia l’arrivo (in queste pagine, da sinistra)


Ricamiamo un lenzuolo intonso consapevoli di essere dei privilegiati. Consapevoli di poter ancora una volta sperimentare che è vero che gli sci sono sciancrati per meglio adattarsi alla forma rotonda del mondo; per meglio consentirci d’accarezzarlo con le nostre curve. Si attraversa un universo incantato senza alcuna traccia, se non quella di qualche camoscio. Dalla Val Vezzola transitiamo in Val Trela. Procediamo ora in leggera salita sotto un sole abbacinante. È metà mattina. Le montagne si scrollano di dosso ciò che non riescono più a trattenere. Sentiamo rombo di scariche. La tigre bianca oggi è sveglia, in agguato su molti pendii, nascosta sotto il nuovo strato di neve. Ma il nostro percorso è mansueto. Giacomo lo ha scelto apposta preferendolo a quello più rischioso che transita in Val Viola e che potrebbe essere affrontato al ritorno in un ipotetico viaggio ad anello di due giorni. Saliamo pendii non impegnativi al Monte Rocca (2.814 m), classica scialpinistica della zona. Lo rimontiamo da est, non - come di consueto - da nord-ovest. Dalla vetta si apre sotto di noi la Valle di Tre Palle. Firn e neve trasformata per una sciata da ricordare, con Giacomo che si sdoppia nel ruolo di guida e fotografo. Malghe che emergono qua e là, stalle, cavalli. Un presepe che lascia segni indelebili nell’anima dell’escursionista-viaggiatore. Attraversiamo una strada asfaltata in località Trepalle (quota 1.918) e di nuovo rimettiamo le pelli. Ora si sale verso il Monte Crapene (2.430 m). Ancora pendii dolci, neve trasformata. Qualche escursionista con le ciaspole. L’ambiente si fa meno isolato, gli impianti e le piste del carosello sciistico compaiono dall'altra parte della valle. Dalla cima del Crapene appare Livigno, giù in fondo. Dall’alto sembra davvero esteso e con il suo vestito migliore, quello tutto bianco, sembra una perla tra una conchiglia di cime. Inanellando curve sul firn, scendiamo così fino al capolinea del nostro viaggio, firmando altri magnifici pendii con le lamine. Le nostre tracce saranno già scomparse, cancellate dal sole o dal vento. Non sarà invece cancellata l’idea di Giacomo d’ideare questo percorso che consente di collegare al ritmo delle pelli questi due paesi, Bormio e Livigno, divisi dalla cresta delle Alpi, ma uniti in una splendida cavalcata. Percorrendola noi, contrabbandieri d’emozioni, siamo andati alla ricerca del senso del viaggio con gli sci, solcando valli e salendo montagne dolci come la panna montata. Come sempre alla ricerca della curva perfetta. Come sempre trovando alla fine noi stessi.

PER VIVERE QUESTE EMOZIONI NON È SEMPRE NECESSARIO PARTIRE PER PIÙ GIORNI DA CASA E ANDARE IN CAPO AL MONDO. A VOLTE È POSSIBILE TROVARE CIÒ CHE SI CERCA ANCHE DIETRO L’ANGOLO.

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H.R.D. Haute Route delle Dolomiti Già nel 1936 Alfredo Paluselli aveva coperto il tratto tra San Martino di Castrozza e Cortina d’Ampezzo con gli sci. Oggi, grazie anche alla presenza degli impianti del Dolomiti Superski, è possibile farlo in versione freeride touring limitando un po’ il dislivello con le pelli. Meno avventura, ma più tempo per sciare testo e foto di CARLO COSI - ha collaborato ALBERTO DE GIULI

os’è una Haute Route? Wikipedia la descrive così: espressione francese che significa strada alta, è il nome dato a un percorso (con diverse varianti) realizzabile a piedi o con gli sci da scialpinismo tra Chamonix (Francia) e Zermatt (Svizzera). In realtà oggi questo termine è più comunemente usato (forse erroneamente) come definizione di traversata (scialpinistica) di più giorni da rifugio a rifugio (hut to hut) e di Haute Route ce ne sono tantissime. La più famosa rimane l’indiscussa Chamonix-Zermatt, ma non scordiamoci della fantastica Haute Route del Gran Paradiso, quella degli Écrins o del Monte Rosa e come queste un’infinità di altre.

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Una traversata sci ai piedi non ancora molto gettonata la troviamo anche in Dolomiti, dove vivo e lavoro a tempo pieno ormai da sette anni. Alfredo Paluselli, un nome sconosciuto alle masse ma una vera leggenda, Guida alpina e Maestro di sci, già nel 1936 compì la prima traversata con gli sci da San Martino di Castrozza, il suo paese, fino a Cortina d’Ampezzo. Un’avventura purtroppo segnata da una tragedia a metà strada, quando quattro partecipanti morirono travolti da una valanga sul Padon, nella zona di Livinallongo. In questi anni ho ripetuto la Chamonix-Zermatt e quella del Gran Paradiso diverse volte, quasi mi vergogno a dire che non avevo mai fatto la traversata completa delle Dolomiti prima di quest’inverno. E qui scatta il primo ringraziamento, ad Albi (Alberto De Giuli) e Francis Kelsey, due amici e colleghi, con i quali ho finalmente chiuso questo conto in sospeso. Albi ha organizzato tutto nei dettagli, a San Martino di Castrozza abbiamo incontrato il nostro gruppo di americani nel super Hotel Regina (grazie Carla Scalet!), dove siamo stati coccolati a dovere prima di immergerci nella bellezza delle Dolomiti… e della powder che era in arrivo. Ci sono infinite varianti per percorrere la traversata delle Dolomiti, a seconda dei gusti e delle capacità. Chi vuole faticare e macinare metri di dislivello lontano dagli impianti di risalita troverà pane per i suoi

denti, ma per quelli (come noi) che strizzano più l’occhio a una bella discesa con poca fatica in salita, gli impianti del Dolomiti Superski (e qualche taxi) offrono un servizio eccezionale. Noi siamo partiti da San Martino di Castrozza, proprio per dare un senso storico alla traversata, e abbiamo finito il nostro viaggio in Val Fiscalina, sotto le Tre Cime di Lavaredo. Quanti giorni sono necessari? Dipende anche da quanto tempo uno abbia a disposizione. Abbiamo deciso di affrontare questa traversata in sei giorni, cercando itinerari con poco dislivello in salita per garantirci lunghe discese di soddisfazione. La prima tappa ti porta nel cuore delle Pale di San Martino. Dopo una super colazione dolomitica con torte fatte in casa, brioche, cappuccini, succhi (una delle meraviglie di questa traversata è che i rifugi, in confronto allo standard alpino, si potrebbero chiamare più hotel visto il comfort che offrono), siamo saliti al Rosetta con la funivia. Un’ora e mezza abbondante di pelli lungo l’Altipiano delle Pale e siamo scesi dal Sasso Negro in Val di Gares, una discesa stupenda, poco frequentata e non così impegnativa. Unica nota: in caso di scarsa visibilità è un itinerario da non intraprendere, per evitare di perdersi in un labirinto bianco. Da Gares ci siamo spostati in taxi a Falcade, poi con gli impianti su in cima al Col Margerita e giù in picchiata al San Pellegrino lungo la parete Nord-Est, la grande classica fuoripista del comprensorio. Abbiamo pernottato al Rifugio Flora Alpina (il Fuciade è sicuramente un paio di stelle in più come location, cucina e comfort, ma va prenotato con largo anticipo), a pochi passi dal San Pellegrino. Per i puristi che non vogliono utilizzare impianti di risalita, la traversata del Mulaz dal Passo Rolle a Falcade è l’itinerario classico: ambiente selvaggio e i grandi panorami sono comunque assicurati, con l’opzione di salire in cima al Mulaz e suonare la campana. Con la seconda tappa si raggiunge Arabba, traversando la Forca Rossa del San Pellegrino fino a Malga Ciapela, poi su in cima alla Marmolada con la funivia (da non perdere se non ci siete mai stati) e infine, per piste e fuoripista, a destinazione. Il meteo purtroppo ci ha fatto cambiare i

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NELLE FOTO \\ La luna fa capolino nel cielo sopra la quinta tappa, da Sennes a Braies (pagina precedente). Powder all'ombra delle Tre Cime, l’hotel Col di Lana al Passo Pordoi, freeride ad Arabba (dall'alto in senso orario)

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piani e, vista la nebbia e la tanta neve in arrivo, abbiamo optato per la traversata del Passo delle Selle, un’altra classica che con poca fatica e una bella sciata in Val Monzoni porta alle piste di sci del Buffaure, a Pozza di Fassa. Con gli impianti e qualche bel fuoripista siamo poi arrivati al nostro hotel ad Arabba. Per la terza giornata avevamo previsto freeride intorno al gruppo del Sella, ma la nevicata della notte e la cattiva visibilità per gran parte della giornata hanno complicato un po’ la vita. La prima traccia in Forcella Pordoi non ce la siamo fatta scappare, qualcuno di noi anche in Val Lasties con white out notevole e, dopo pranzo, ci siamo sfogati nei bellissimi boschi di Arabba. Il giorno seguente siamo stati graziati dal meteo per qualche ora, riuscendo a traversare il Sella per la classica ma sempre spettacolare Val Mesdì che, dopo la neve del giorno prima, si è presentata in condizioni strepitose. Da Colfosco con gli impianti siamo arrivati fino a Badia e con il taxi a Pederü, nel parco naturale Fanes - Sennes - Braies. Da qui sono 700 metri di dislivello per raggiungere il Rifugio Sennes, nostra meta di giornata, e si può approfittare di un passaggio col gatto delle nevi, condizioni permettendo. Altrimenti calcolate una buona ora e mezza con le pelli.

Haute Route delle Dolomiti L'haute route descritta in questo articolo ha voluto privilegiare lunghe discese, cercando di ridurre al minimo la fatica. I dislivelli in salita non hanno superato i 500 metri, grazie a un utilizzo quasi giornaliero degli impianti del Dolomiti Superski. Per una variante

La sveglia al Rifugio Sennes è stata spettacolare: neanche una nuvola in cielo e tutto intonso con 30 centimetri di polvere. Abbiamo diviso il gruppone in due, Francis e Albi sono partiti in direzione Piccola Croda del Becco per scendere la strepitosa Lavina Rossa, mentre io e il mio gruppetto abbiamo optato per la più corta, ma comunque bellissima, traversata della forcella Riciogogn. Entrambe le discese si sono rivelate stupende, su polvere invernale.

più scialpinistica, limitando l'uso degli impianti, bisogna calcolare circa 800 metri di dislivello positivo seguendo gli itinerari più semplici.

Il ritrovo era al Lago di Braies e, con un bel passo pattinato e dei buoni tricipiti a pelo di ghiaccio eccoci all’hotel a fondo valle, ottimo posto di ristoro. Da qui, con il bus di linea, si arriva facilmente a Dobbiaco e con un cambio abbiamo proseguito fino a Carbonin, dove il gestore dello Chalet Lago Antorno, nostra ultima tappa, ci aspettava per il transfer. La giornata conclusiva dell’Haute Route delle Dolomiti è il gran finale, al cospetto delle Tre Cime di Lavaredo. Per i pigri come noi c’è anche un ottimo servizio motoslitte che porta direttamente al rifugio Auronzo e che annulla gran parte del dislivello positivo previsto per la giornata. Per raggiungere il Rifugio Locatelli ci sono diverse possibilità, noi abbiamo optato per la classica forcella Lavaredo ma, volendo ingaggiarsi un po’, i canali tra le Cime di Lavaredo offrono una gran sciata direttamente ai piedi delle famosi pareti Nord. Dal Rifugio Locatelli si scende in Val Fiscalina per il classico itinerario della Val Sasso Vecchio. Non ci restava che brindare a una settimana perfetta, riempirci la pancia con gli ottimi piatti tipici del Rifugio Fondo Valle e rientrare a Cortina d’Ampezzo ancora una volta aiutati dal taxi. Appuntamento al prossimo inverno!

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Il periodo migliore va da fine febbraio ai primi di aprile. Quanto all’attrezzatura, pelli e rampanti sono sufficienti se non si affrontano tappe complesse. Per informazioni potete contattare direttamente le Guide alpine Carlo Cosi (www.carlocosi.com) e Alberto De Giuli (www. albertodegiuli.com).


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GROENL ANDIA DA EST A OVEST Percorrere l’isola ghiacciata da costa a costa, con gli sci e le slitte, sulle tracce di Nansen. Tra impronte di orso, venti catabatici e temperature fino a -35° testo e foto di LEONARDO BIZZARO

ianco. Nessun colore ci accompagna, mentre seguiamo l’ago della bussola che ci conduce a Ovest-NordOvest. Whiteout. Niente suoni, tranne il vento che per fortuna oggi soffia più leggero. Per il resto, solo il ritmo degli sci e il nostro fiato. Abbiamo lasciato il fiordo di Isortoq da qualche giorno e siamo in pieno deserto bianco. Tento di interpretare le forme della neve, quando è il mio turno a battere traccia. Creste, buchi, sculture traforate dal vento. Una zampa d’orso. Che ci fa qui, a quasi cento chilometri dalla costa? Chiamo i compagni dietro di me, a loro non sembra. Mostro le unghie che hanno grattato il ghiaccio, ma ribattono che è uno scherzo di neve, nessun pericolo di incontrarlo stamattina. Però i norvegesi, che hanno il fucile, controllano che la cartuccia sia in canna. Non è un orso? Mah. Già abbiamo incontrato, ancora in vista del mare, piume, ossicini e peli che ha vomitato sul ghiaccio, liberando lo stomaco dai resti delle prede di qualche settimana. Erano freschi, non era transitato da tempo. Via di nuovo, per la cronaca non incroceremo alcun orso fino al termine della traversata, ma quelle orme, sono sicuro, erano sue.

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Groenlandia, 14 agosto-10 settembre 2017, autunno a quelle latitudini. La traversata della più grande isola ghiacciata della Terra è un sogno fin da bambino, quando ho letto e riletto un libro sui grandi esploratori e fra tutte mi è rimasta in testa l’avventura di Fridtjof Nansen, ventisettenne di Christiania (Oslo), il suo viaggio da costa a costa del 1888, nella stessa stagione, da Est a Ovest come lo stiamo ripetendo noi. Un po’ più a sud il suo, un centinaio di chilometri in meno, ma rimane straordinaria l’impresa. Undici giorni di peregrinazioni in mezzo ai ghiacci a bordo di due scialuppe sbarcate dalla nave Jason, bivacchi sugli iceberg, la rotta contesa all’acqua gelata a colpi di ascia. Poi l’inlandsis, le barche abbandonate per proseguire con due sole grosse slitte del peso di oltre cento chili ognuna e allora un mese di odissea per raggiungere Godthåb, l’attuale Nuuk, capitale dell’isola. La fame. E finito il ghiaccio, ancora acqua da attraversare su una barca costruita con pezzi di slitta e, raggiunta una colonia danese, l’intero inverno in attesa di una nave per rientrare in Norvegia. Per loro una marcia verso l’ignoto, in un’im-

mensità glaciale che gli inuit dicevano abitata da mostri. Per noi la ripetizione di un itinerario duro per le condizioni atmosferiche, faticoso e lungo, ma in fondo quando hai dubbi basta accendere il gps e trovi la traccia verso Kangerlussuaq (ma abbiamo proceduto sempre con la bussola). E però se alla sera, rintanato tra le piume, rileggi le pagine del suo libro - un bestseller per la borghesia appassionata di montagna a cavallo del secolo, tradotto in ogni lingua europea salvo in italiano, quello che fece scoprire in tutti i Paesi alpini lo sport dello sci - ritrovi le stesse emozioni, i paesaggi, le difficoltà di un territorio che nonostante i mutamenti climatici è rimasto sostanzialmente uguale ad allora. Anzi lo scorso autunno, a causa di un’anomalia termica registrata solo in Groenlandia, le temperature erano crollate più ancora che ai tempi di Nansen: notti a -35° e una media diurna tra gli 0° e i -10°. I venti catabatici, che si rinforzano a Ovest sulle pianure canadesi e dall’Islanda sull’oceano Atlantico a Est, ci hanno frullato per l’intero viaggio, in continuo contrasto, tanto da avere, dal mattino alla sera, bufera da ogni direzione. Non è cominciata a metà agosto, la nostra traversata. È partita qualche anno fa con il tentativo di convincere gli amici delle precedenti spedizioni in giro per il mondo, poi una settimana sugli sci in Finnmark, nord della Norvegia, in febbraio per testare materiali e noi stessi nel grande freddo. In un inverno particolarmente mite, abbiamo cercato l’angolo d’Europa più gelido in quella stagione ed è risultato lassù. È finita con il congelamento di tre dita per Giorgio Daidola, fortunatamente temporaneo. Non ho idea se la visione delle falangi gonfie e annerite abbia convinto gli altri a sfilarsi, ma così è stato. È rimasto Matteo Guadagnini, scialpinista di lungo corso, e sono cominciati gli allenamenti seri, tabelle da maratona, montagna e soprattutto quella che Borge Ousland, il grande esploratore polare, chiama «la nobile arte del trascinare pneumatici», per abituarsi al traino delle slitte. A metà 2016 è toccato a me arrendermi, fermato da un elettrocardiogramma sotto sforzo del dottor Massimo Massarini. Matteo è partito lo stesso, affidandosi all’organizzazione di Ousland, io ho dovuto rimandare all’anno seguente. Ce l’abbiamo fatta entrambi, pur con spedizioni diverse, Matteo ci ha pure scritto un piacevole racconto pubblicato da Fusta editore, Groenlandia sulle orme di Nansen.

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Ci vogliono almeno ventotto giorni per lasciare la traccia degli sci dalla costa Est alla costa Ovest. Ci si può mettere meno, ma diventa una gara contro il tempo, da impostare in maniera totalmente diversa da una spedizione alpinistica. Per sopravvivere a quella che è una delle più lunghe traversate sul ghiaccio - Antartide a parte, è ovvio - occorre trascinare almeno settanta chili di attrezzatura e cibo divisi fra due slitte. Cibo soprattutto, perché nel corso della giornata ingurgiti di tutto, per tirare avanti. Difficile correre, con un peso del genere attaccato alle spalle. Se però si affronta con spirito agonistico, è un’altra cosa. A metà giugno 2016, i norvegesi Ivar Tollefsen, Trond Hilde e Robert Caspersen hanno impiegato 6 giorni, 22 ore e venti minuti per coprire 560 km da costa a costa. Il primato precedente durava da tredici anni. Trond e Ivar c’erano già riusciti in poco più di nove giorni in autunno. In entrambi i casi non hanno utilizzato sci da fondo escursionistico come i nostri e pelli di foca, ma stretti e leggerissimi attrezzi nordici sciolinati, trainando un’unica slitta di pochi chili e stringendosi in una sola tenda. Roba da norvegesi, per i quali il tempo è buono e quindi si può andare se il vento cala appena sotto i 100 km/h. E la temperatura ideale è attorno ai meno venti. E infatti preferiscono partire a metà agosto, quando già comincia a farsi sentire il morso del gelo invernale e tradizionalmente si attraversa l’isola da Est a Ovest, mentre in primavera, dopo metà maggio, le temperature sono più alte, i venti meno impetuosi e la direzione usuale è l’inverso. C’è un vantaggio però a farla nella stagione meno favorevole: i crepacci nella prima e nell’ultima parte dell’inlandsis sono più chiusi, le seraccate meno tormentate e i canali di fusione, che in primavera assomigliano a fiumi in piena, in autunno si possono percorrere senza bagnarsi troppo, lasciando galleggiare le slitte.

MATERIALI Preparare l’attrezzatura per una spedizione polare o subpolare di un mese è un lungo lavoro di scelta e di eliminazione spietata. C’è da scegliere tutto il materiale in base alle proprie necessità, ai consigli di chi già l’ha fatta, alle visite dei saloni specializzati e alle lunghe navigazioni su internet. Poi ne va lasciato a casa metà. Sarà comunque troppo per le vostre povere spalle, troppo poco per le necessità durante la traversata. Questa è una lista essenziale, oltre all’attrezzatura alpinistica. • Sci Åsnes Nansen 190 cm · Attacchi Rottefella Backcountry Magnum · Pelli lunghe e corte · Sciolina (necessaria quotidianamente per evitare gli zoccoli, altrimenti vi toccherà usare il burro o la crema solare) · Bastoni Swix Mountain • Scarpe Alfa Polar (abbondanti di almeno tre misure) con solette Woolpower in lana e alluminio · Calze in abbondanza, di varia grammatura: ai piedi ne vanno indossate tre, a meno di non preferire i kartansk lapponi in lana cotta • Underwear 200 gr Merino Ortovox o Engel in Merino e seta · Underwear 600 gr Woolpower in lana • Occhiali da sole Julbo Explorer · Maschera Julbo Aerospace • Due slitte Paris Expedition · Imbragatura per traino Fjellpulken • Tenda Helsport Spitsbergen X-Trem Camp a tunnel con paleria doppia · Materasso autogonfiante Thermarest o Exped · Materasso cellule chiuse RidgeRest Solar o Fjall Raven · Sacco a pelo The North Face Inferno -40° (ma sarebbero stati meglio due sacchi più leggeri, uno sintetico, l’altro in piuma, sovrapposti) · Fornello MSR Xgk-Ex · Pee bottle Nalgene 1,5 litri (un accessorio

Un viaggio straordinario nel tempo, prima ancora che attraverso le latitudini. Un’avventura che vale un pezzo di vita, per chi ama le solitudini glaciali. Un grazie ai miei compagni Thomas Kober, Beate e Martin Klein, Grete Karin Saetervik, Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen.

indispensabile: come pensate di fare pipì la notte, quando la tenda sbatte nella bufera?) · Lampada frontale Petzl Nao • Pannello solare e batteria Goal Zero Nomad 14 Plus+Venture 70 Power Bank · Satellitare Iridium

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traversate

G L A C I E R H A U T E R O U T E F A S T & L I G H T

Correre la Chamonix-Zermatt lungo la famosa alta via dello scialpinismo, tra roccia e ghiacciai che inesorabilmente si sciolgono

testo di KIM STROM - foto PATITUCCIPHOTO

an mi dice: «Se inizi a scivolare, salta in quel crepaccio». Il contrappeso potrebbe essere il modo migliore per impedirci di finire nella prossima crepa tra le nevi eterne, laggiù. Guardo giù in un buco senza fondo, blu e terrificante. Per un secondo, o forse anche due, immagino di bere un caffè, di avere un gatto sulle mie ginocchia e delle scarpe da running che mi aspettano sul tappetino della porta. Darei qualsiasi cosa per essere lì. Per essere in un altro luogo piuttosto che legata a due ragazzi su un ghiacciaio in scioglimento. Non ci sono crepacci nella cucina del mio appartamento, in un normale martedì mattina.

D

Voglio venir fuori da questo ghiacciaio che fa saltare i nervi, ma l'unica via d'uscita è continuare a muoversi, prima che si sciolga. Avanzando attraverso il labirinto apparentemente infinito davanti a noi, affrontando il minor rischio, facendo marcia indietro. Affondo di più i ramponi nel ghiaccio, pronta ad aggrapparmi alla piccozza o addirittura a saltare in quell'abisso mentre Pascal avanza di qualche centimetro, sondando il ponte innevato davanti a lui. «Questo non è un bene» lo sento borbottare tra sé e sé mentre osserva attentamente i crepacci per ricostruire il percorso sull'ultimo tratto di ghiacciaio che si frappone tra noi e la nostra destinazione: Zermatt. Non è proprio il tipico percorso di un trail.


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NELLE FOTO \\ Dopo avere lasciato lo Stockjigletscher si corre verso Zermatt con il Cervino sullo sfondo (in apertura). Verso la vetta della Tête Blanche (doppia precedente). La stazione di rilevamento sul ghiacciaio di Otemma, vista dal rifugio Bertol, scendendo dall'Haut Glacier d'Arolla, il tramonto dal rifugio Chanrion (dall'alto in senso orario). Il ghiacciaio di Otemma (in alto a destra)

Solo poche settimane prima, in un'altra escursione di corsa con Dan, avevamo dato uno sguardo al ghiacciaio di Arolla, mentre lui indicava una linea attraverso il ghiaccio, riportando alla memoria i ricordi di svariate settimane ed escursioni sulla famosa Haute Route da Chamonix a Zermatt. Dan, in preda all’eccitazione, aveva interrotto il suo stesso racconto con questa domanda: «E se la facessimo di corsa?». Sapevo prima che finisse la frase che lo avremmo fatto. Tante avventure iniziano in questo modo: un perché non diventa un progetto accattivante e in breve ti trovi legato a due amici su un ghiacciaio nelle Alpi. Ma anziché la classica versione estiva dell’Haute Route, che può richiedere fino a due settimane di trekking, stiamo percorrendo la Glacier Haute Route, una linea più diretta che attraversa le Alpi francesi e svizzere. Si rimane più in alto, senza grandi saliscendi nelle valli, seguendo gran parte dell'itinerario sciistico della Haute Route. Più conosciuta come la High Level Route estiva, questa alta via di 90 chilometri può essere percorsa in sei giorni. Ci si muove spesso sui ghiacciai (dal 30 al 40 percento dell’itinerario), attraversando molti valichi in quota e dormendo nei rifugi di montagna. Come per la Haute Route sciistica, è necessario avere esperienza su come muoversi in ambiente alpinistico in quota e sui ghiacciai. A causa dei crepacci è un percorso impegnativo con il bel tempo, potenzialmente molto pericoloso con cattivo tempo. Un itinerario pieno di se…

tecnico, persino sconfinare in spazi riservati agli alpinisti. Loro stessi sempre più spesso si muovono veloci e con scarpe imparentate con quelle da trail. La differenze in quota si assottigliano e siamo sempre di più a muoverci fast & light, anche se con diverse culture di partenza. I miei compagni di avventura hanno più esperienza in alta montagna e mi affido alle loro conoscenze per imparare la tecnica necessaria per un trail in alta quota come questo. Entrambi conoscono il percorso, hanno fatto escursioni in estate e sciato in inverno da queste parti. Pascal Egli è uno dei migliori skyrunner della Svizzera, scialpinista e dottorando in glaciologia. Dan Patitucci ha decenni di esperienza alpinistica e in falesia, scia e corre. Entrambi sanno come leggere il terreno, valutare i rischi e prendere decisioni sicure. Ci sono le persone giuste annodate alle due estremità della mia corda. Agosto 2017. Stiamo sfruttando una finestra di bel tempo. Sappiamo che i ghiacciai saranno in cattive condizioni dopo un inverno secco e un'estate calda, ma se vogliamo fare questo tour, è il momento di andare.

Come trail runner, voglio andare più in alto, affrontare un terreno più

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traversate

NELLE FOTO \\ Salendo veloci con il Glacier du Tour sullo sfondo (a sinistra). Sosta al lago davanti al rifugio Chanrion (sopra)

Lasciando Le Tour, in fondo alla valle di Chamonix, sento il peso dello zaino mentre, con le lampade frontali in testa, iniziamo a percorrere i ripidi tornanti nel bosco verso il rifugio Albert Premier. Partiamo con solo ciò di cui abbiamo bisogno: vestiti caldi e attrezzature per la sicurezza sul ghiacciaio, ramponi, piccozza e un Petzl RAD (sistema di soccorso da crepaccio ultraleggero). Non è molto, ma è un peso maggiore di quello che ci si porta dietro quando si va a correre in giornata. Con queste premesse, il ritmo di partenza mi sembra veloce. Dan e Pascal corrono davanti a me. Inizio a credere che mi trascinerò dietro di loro tutto il tempo, ma almeno sui ghiacciai saremo legati insieme. Poco dopo il rifugio, il sentiero scompare e ci leghiamo per risalire il Glacier du Tour. È la prima volta che cammino sul ghiacciaio. Nel bene o nel male siamo legati alla distanza di cinque metri l'uno dall'altro mentre scavalchiamo grandi buche sulla strada per il Col du Tour. Ben presto incontriamo la prima vera sfida che la ritirata dei ghiacciai ci pone: il colle che avevamo pianificato di scalare è completamente asciutto, disseminato di massi franati dall’alto. Siamo costretti a rivedere la rotta e salire su un altro colle, dove troviamo una corda fissa per calarci in doppia fino al Plateau du Trient. Non è troppo frequente quando si va a correre che capiti di doversi calare… Una volta liberati dalla corda e di nuovo sul ghiacciaio, alcuni sassi scivolano accanto a noi. Non perdiamo tempo e ci trasciniamo giù, allontanandoci rapidamente dalla frana. E andiamo verso il mare di ghiaccio grigio diviso da crepacci neri belli aperti. Dan e Pascal riconoscono quanto è sceso il ghiacciaio. «Sono sconvolto, l'altopiano è solitamente coperto di neve sufficiente per poterlo attraversare» dice Dan. Oggi dobbiamo zigzagare sulla superficie crepata. Finalmente fuori dai ghiacciai, corriamo giù per un sentiero fino a Champex. Abbiamo programmato di raggiungere il rifugio Chanrion per trascorrere la nostra prima notte, ma le condizioni sono state peggiori del previsto e il tempo sta cambiando. Ci chiediamo se dovremmo continuare o meno. I crepacci sono già una sfida sufficiente e non è certo il caso di aggiungere la pioggia e una scarsa visibilità. Ci sediamo nei pressi di Champex Lac, controlliamo le previsioni del tempo, chiamiamo amici e Guide che potrebbero avere informazioni sulle condizioni dei ghiacciai che ci attendono. Dicono tutti la stessa cosa. «I ghiacciai sono in cattive condizioni» e «non è una bella situazione,

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NELLE FOTO \\ La scala che porta al rifugio Bertol (a sinistra) e una vasca d'acqua ghiacciata (sopra)

monitoraggio che Pascal ha contribuito a installare. Questo enorme ghiacciaio, lungo quasi otto chilometri e con uno spessore massimo di 260 metri, si sta sciogliendo a una velocità allarmante di dieci centimetri al giorno, in estate. In media i ghiacciai nelle Alpi stanno perdendo quattro metri all'anno. Entro il 2050 la maggior parte dei piccoli nevai sparirà e i restanti ghiacciai saranno insignificanti. Entro il 2100 anche i più grandi come l'Aletsch, il più lungo delle Alpi, che raggiunge i 23 chilometri, non esisteranno quasi più, resteranno solo le parti alte. La ritirata delle nevi eterne comporta più rischi naturali, più frane. «Penso che deciderò di andare sui ghiacciai solo in inverno, stanno diventando pericolosi e brutti» dice senza usare mezzi termini Pascal. Prima di continuare la rampa di ghiaccio coperta di sabbia, ci fermiamo brevemente a guardare verso il fondo di un mulino con una tonalità blu mai vista e bellissima. Ci muoviamo in modo efficiente sui ghiacciai, ma è correre sulle morene sassose e passare da un nevaio all’altro che porta via la maggior parte del tempo. Gli escursionisti ci guardano sorpresi, se non preoccupati, per i nostri piccoli zaini e per la mancanza di supporto alla caviglia mentre saltelliamo sui sentieri rocciosi. «Belle scarpe» dice una Guida dietro di noi con un certo tono di disapprovazione. Sorpassiamo il suo e altri gruppi prima di raggiungere il rifugio successivo. La nostra velocità non ci dà falsa fiducia o sicurezza, ma ci consente di allontanarci dal pericolo e di trascorrere meno tempo in condizioni rischiose. Siamo una squadra forte, in forma, con esperienza, poliedrica e cauta; noi ci conosciamo e ci fidiamo l'uno dell'altro. Non siamo un gruppo di estranei, legati dietro una singola Guida, un gruppo che dipende completamente da una sola persona, e siamo consapevoli della responsabilità di ognuno; conosciamo le nostre capacità e i nostri limiti e prendiamo decisioni ragionevoli per minimizzare i rischi.

ma alcune persone stanno andando». Stiamo per rinunciare, ma alla fine si decide che vale la pena di dare un'occhiata. Quando raggiungiamo il rifugio Chanrion, dopo una facile corsa in salita, il custode non usa mezzi termini: «i ghiacciai sono una merda». Il prossimo giorno sarà impegnativo: da Chanrion, passando per il ghiacciaio d'Otemma, il Glacier du Mont Collon, l'Haut Glacier d'Arolla e infine una ripida salita fino alla Cabane de Bertol. Nell'ombra del mattino attraversiamo il ghiacciaio d’Otemma, prima che il sole sia abbastanza alto per raggiungerci. Ci fermiamo a visitare la stazione di

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LA GLACIER HAUTE ROUTE IN VERSIONE TRAIL

Fully Tour Sallière 3220

Saxon

Zinal

Siviez

Verbier

MARTIGNY

Rosablanche 3336

Orsières

Refuge Albert 1er

Le Tour

Petit Combin 3663

Arolla

Liddes

Argentière Aiguille Verte 4122 CHAMONIX

Mt. Blanc de Cheilon 3870

Ferret Grandes Jorasses 4208 Colle del Gran Monte Bianco S. Bernardo Mont Blanc 4808

Mont Vélan 3727

Cabane de Chanrion

Bionaz Etroubles

ZERMATT

Cabane de Bertol

Valtournenche

Valpelline

St-Jacques

Champoluc

Entrèves Dan, Kim e Pascal hanno percorso la Glacier Haute Route in quattro tappe giornaliere. Partenza: Chamonix (Le Tour) | Arrivo: Zermatt | Distanza: 88 km | Dislivello positivo: 6.000 metri

Chamonix - Champex:

Mauvoisin - Chanrion:

Chanrion - Bertol:

Bertol - Zermatt

23 km / 2.127 m+ 2.156 m-

13 km / 872 m+ 255 m-

26 km / 1.955 m+ 1.127 m-

26 km / 1.033 m+ 2.645 m-

Da Champex a Mauvoisin hanno preso un’auto, come fanno gli scialpinisti in inverno.

Mentre discutiamo il nostro piano per l'ultimo giorno, da Bertol a Zermatt, delle comitive di escursionisti arrivano al rifugio e i pesanti scarponi da montagna riempiono gli scaffali attorno delle nostre scarpe da trail. Al mattino presto scendiamo le scale delle nostre cuccette e poi quelle che dal rifugio Bertol portano sul ghiacciaio. Iniziamo a correre tra la minaccia di un cielo nero e il terreno bianco, entrambi pieni di buchi. Le stelle illuminano le sagome delle montagne, le frontali degli alpinisti rischiarano la strada fino al Dent Blanche e un bagliore crescente riempie il cielo. Saliamo alla Tête Blanche percorrendo il ghiacciaio del Mont Miné giusto in tempo per vedere l'alba sul Cervino. È la prima volta che vedo questa cima così simbolica. Svetta dal ghiacciaio sottostante verso il cielo pallido, è una delle prime a essere raggiunta dai raggi del sole. Il panorama ci blocca per un momento, ma dobbiamo proseguire verso Zermatt. Fa già caldo mentre ci dirigiamo verso lo Stockjigletscher, l’ultima ghiacciaio che dobbiamo attraversare. «Potrebbe essere l’ultimo giorno per percorrere questo tratto» ci aveva ammonito al rifugio una Guida che arrivava dalla direzione opposta alla nostra la sera prima. E in effetti anche le sue orme si sono già cancellate nel disgelo. Ci muoviamo con molta attenzione, saltando oltre piccoli crepacci e procedendo a zigzag in questo grande puzzle che riempie i nostri pensieri di tanti se. Abbandoniamo il ghiacciaio con grande sollievo, ci togliamo i ramponi e le imbragature e arrotoliamo la corda. Gli ultimi 20 chilometri sulla morena rocciosa e lungo un sentiero bellissimo ci portano a Zermatt. Il calore e la polvere salgono dalla terra, una sensazione così diversa da quella che abbiamo provato muovendoci su ghiaccio e roccia. Acceleriamo come quando finisci una qualsiasi corsa, un qualsiasi gara, ma questa volta è diverso: un misto di sollievo, gratitudine e orgoglio riempie i nostri animi. Ci siamo mossi veloci in un ambiente naturale che definirei enorme, potente e terribile allo stesso tempo. È stata una vera avventura e mi rimane tra le labbra una domanda: «Dove altro potrebbero portarmi le scarpe da trail?».

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Täsch

Dent Blanche 4357

Cervino Dent Matterhorn d’Hérens 4478 4171 Breithorn BREUIL-CERVINIA 4164

Grand Combin 4314

Mont Dolent 3820

Randa

Zinalrothorn 4221

Les Haudères

Champex

Vallorcine

Weisshorn 4506

Evolène


traversate

SIBILLINI Nelle pieghe dell’Appennino Da Montemonaco a Foce lungo le creste del Monte Sibilla e del Monte Vettore, tra le crepe che il terremoto ha creato nella montagna e nel cuore di chi ci vive testo e foto di LUCA PARISSE

o frequentato per tanti anni una zona di arrampicata ai piedi del Monte Vettore, nei pressi dell’abitato di Montegallo, un'area boulder su una fantastica arenaria, tipica di queste zone. Sono stato anche al rinomato borgo di Castelluccio di Norcia, per immortalare la bellissima (e un po' inflazionata) fioritura. Mi mancava però l'emozione di vivere quelle montagne dalle loro cime e di godere dei panorami dall'alto. Volevo osservare da lì le mie vette abruzzesi e scoprire nuovi orizzonti, immergermi nell’atmosfera magica di queste valli.

H

I Sibillini, infatti, prendono il loro nome dalla Sibilla, dispensatrice di verdetti profetici, il cui antro, secondo la leggenda, si troverebbe proprio sopra Montemonaco, punto di partenza della grande traversata di questi monti. Il Lago di Pilato era considerato una porta dell’inferno e sui valichi furono perfino costruiti dei muri per impedire il passaggio a maghi e sedicenti streghe. Forse è anche per questo che Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, ha definito i Sibillini «i monti più misteriosi del centro Italia». Per vivere questa esperienza avevo bisogno dell’aiuto di un marchigiano d'eccezione, di un assiduo frequentatore dei monti Sibillini, di uno che ne sa di itinerari, dislivello, tempi di percorrenza.

Mi è bastato mezzo secondo per pensare a Maurizio Marini, trail runner, preparatore fisico e organizzatore di gare di corsa in natura, tra le quali anche il Sibilla Trail, che si correrà su queste creste. Certo, non ho scelto il periodo migliore, non tanto per il clima, che è stato ottimo, ma per i disagi legati al terremoto del 2016 che, da queste parti, ha fatto tanti danni. Molte strutture sono ancora devastate, ma i problemi sono legati soprattutto alla chiusura delle strade, tra le quali quella per Castelluccio di Norcia e quella che dalla Via Salaria sale ai piedi del Vettore, attraversando le zone rosse di borghi come Arquata del Tronto. Fatte tutte le valutazioni del caso, all’inizio di luglio del 2017 decidiamo di incontrarci all'uscita del casello di Pedaso, sull’autostrada A14 Adriatica. Con un’oretta di auto siamo a Montemonaco, un tempo perla del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Purtroppo il sisma l'ha colpita forte, troviamo solo un paio di negozi di prodotti tipici aperti, ma neanche la possibilità di prendere un caffè; in giro zero italiani, solo turisti d'oltralpe. Comunque il borgo mi piace: attraversiamo un bel viale alberato e troviamo un museo aperto, una graziosa chiesetta, probabilmente inagibile, con le campane trasferite dal campanile alla piazzetta. Uno strano sistema di corde permette di suonarle. Io ci ho provato anche se forse non si poteva... Torniamo all'auto e saliamo al Rifugio Sibilla. È abbastanza tardi, ma vogliamo raggiungere il Monte Sibilla per go-

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traversate

NELLE FOTO \\ Il Monte Sibilla visto dal Monte Zampa (in apertura). Correndo sulla cresta della Sibilla, con vista sulla Valle dell’Infernaccio (a destra) e sul Monte Zampa (sotto). Il panorama dalla cima del Monte Porche (a fondo pagina)

dere del tramonto e sgranchire un po' le gambe, così abbiamo informato i gestori che avremmo mangiato e pernottato lì e che saremmo rientrati dopo il tramonto. Saliamo veloci, appena arriviamo in cresta lo spettacolo è grande: dopo la pioggia, l'aria è abbastanza fresca e il cielo pulito, si vede bene la costa adriatica fino al Monte Conero. Dall'altro lato invece tante montagne: il Bove, il Berro, il Monte Priora, meglio conosciuto come la Regina e una lunga cresta che tocca tutte le cime più importanti, passando sulla vicina Sibilla, Cima Vallelunga, Monte Porche, Palazzo Borghese, Monte Argentella e terminando con il maestoso Vettore. Facciamo un bel po' di foto e finalmente arriviamo in cima al Monte Sibilla al tramonto. Una vera goduria, la luce è spaziale! Scendiamo che ormai è buio e in un minuto siamo già seduti a tavola. Ottima cena in un rifugio deserto, infatti abbiamo una stanza tutta per noi.

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traversate

Dopo una sveglia all'alba, siamo pronti per affrontare la lunga cresta dei Sibillini che ci permetterà di ampliare i nostri orizzonti fino al versante umbro e godere della vista sulla piana di Castelluccio da un'insolita angolazione. La colazione con dolci fatti in casa è la migliore benzina che ci possa essere! Saltiamo la parte di cresta che attraversa la cima della Sibilla e arriviamo con una comoda strada al valico della Forcella Sibilla, dove incontriamo i Carabinieri forestali in appostamento per il censimento dei camosci. Arrivati sulla Cima Vallelunga, a quota 2.221 metri, seguiamo la cresta fino alla cime del Monte Porche, dove il terreno è tappezzato di stelle alpine. Sul lato destro c'è la bellissima valle glaciale denominata Vallelunga che va a incrociare la Val di Tenna, famosa per le Gole dell’Infernaccio, che purtroppo ora è inaccessibile a causa di alcuni distacchi rocciosi provocati dal sisma.

Un trail per tornare a sperare In un territorio che merita certamente di essere riscoperto Total

Dopo circa 11 chilometri arriviamo al bivio del Monte di Palazzo Borghese che interseca la cosiddetta Strada Imperiale, il punto di passaggio ideale per i montanari quando i traffici e le comunicazioni si svolgevano su bestie da soma. Da qui si scende a Castelluccio di Norcia. Vediamo un camoscio, ma troppo lontano per essere fotografato. Sulla cresta è impossibile non notare la spaccatura nel terreno che in alcuni tratti è addirittura sceso di circa un metro. Niente di pericoloso, ma immagino quanto abbia ballato questa cresta con le forti scosse del 2016.

Training, una start up innovativa del settore sport endurance, con il supporto del Comune di Montemonaco, ha fatto nascere il Sibilla Trail, in programma 14 luglio, sulla distanza di 25 km e 1.600 m D+ e 10 km e 600 m D+. Informazioni nella sezione eventi del sito www.thetotaltraining.com

Non avendo organizzato il giro ad anello, a causa del meteo, inizialmente minaccioso, che non ci ha permesso un pernottamento in quota con la tenda, siamo costretti a tornare indietro sulla stessa strada; l'idea iniziale però era quella di organizzare il rientro dall'abitato di Foce. Dopo 6 ore circa e 25 chilometri rientriamo al rifugio e arriviamo comunque a Foce con l'auto per visitare la località, che rappresenta un ottimo punto di partenza per il giro del Vettore. Il paesino è abbastanza deserto: c'è qualche uomo coraggioso che cerca di rimuovere l’enorme quantità di tronchi e materiale roccioso frutto delle valanghe invernali. Poche auto parcheggiate, soprattutto con targhe straniere, dove solo un anno prima si faticava per trovare un posto libero. Ci vorrà tempo per ritornare a vivere i Sibillini, comunque qualcosa di buono in queste zone si muove. Anche se molto lentamente.

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LA GRANDE TRAVERSATA DEI SIBILLINI: DA MONTEMONACO A FOCE

proseguire per l’omonima valle

ancora compromessa e molti

fino a Foce di Montemonaco.

Cima Vallelunga 2221 Cima di Vallinfante 2113

paesi sono alle prese con un

Montemonaco si può percorrere

messe a disposizione non saranno

l’itinerario ad anello. In questo

sufficienti a ridare dignità ai

caso si può raggiungere il rifugio

tanti cittadini che non mollano

Sibilla seguendo la strada fino

e cercano con tutto il cuore

all’abitato di Rocca per poi deviare

di rimanere nella loro terra.

in salita a Nord in direzione di

L’itinerario proposto si sviluppa

Monte Zampa. Oppure se si

su due o più giorni, ad anello,

vogliono accorciare i tempi

con partenza da Montemonaco.

dell’itinerario sempre da Foce di

Consigliamo di lasciare un’auto a

Montemonaco si risale su un tratto

Foce o organizzarsi per ritornare

della vecchia Strada Imperiale

a Montemonaco. Si può anche

fino a Fonte dell’Acero per

scegliere di partire direttamente

poi proseguire fino alla Cima

presso il rifugio Sibilla per

di Palazzo Borghese dove si

abbreviare il tratto iniziale, ma

riprende l’itinerario in direzione

in questo caso è preferibile farsi

Castelluccio.

Forca Viola

Castelluccio C. del Redentore 2448 di Norcia

cosiddetta strada panoramica

scendere direttamente ai Laghi di

che sale fino al rifugio Sibilla,

Pilato per poi risalire fino alla cima

a quota 1.540 metri. Dal rifugio

del Monte Vettore e proseguire

ci si dirige a destra su sentiero

sulla cresta esposta fino al Monte

ben visibile in direzione del

Torrone. Dopo poco si devia a

Monte Zampa. Si prosegue

Ovest su ripido sentiero in discesa

sulla cresta fino alla cima del

fino al tratto delle svolte che

Monte Sibilla (2.173 metri), poi

riconduce a Foce.

si raggiunge Cima Vallelunga e il Monte Porche. Si prosegue

TEMPI DI PERCORRENZA

successivamente verso sud-est in

- da Montemonaco a Castelluccio

direzione della cima di Palazzo

circa 7/8 ore (partendo dal

Borghese. Da qui si può scegliere

rifugio Sibilla, 2 ore in meno

di scendere a Castelluccio di

circa);

Norcia, dove pernottare. Risalendo

- da Castelluccio a Foce 7/8 ore;

da Castelluccio, si prosegue

- In modalità fast & light si

in direzione Forca Viola e si

possono accorciare i tempi di

raggiunge con una salita dura la

circa 2 ore;

cresta che porta alla Cima del Redentore. La parte più aerea dell’itinerario prosegue verso

P.ta di Prato Pulito 2373

- In modalità trail running circa 3,5/4 ore a tratta; - variante 1: tempi simili a quelli

Punta di Prato Pulito, Sella delle

con partenza da Montemonaco,

Ciaule, dove si trova il Rifugio

nel caso della variante diretta a

Zilioli (non agibile) e dal quale si

Palazzo Borghese si dimezzano i

raggiunge il punto più alto di tutto

tempi della prima tappa;

l’itinerario, la Cima del Monte

- variante 2: tempi simili

Vettore (2.476 metri). Dopo la

all’itinerario originale.

M. Banditello 1873 M. Oialona 1260 M. Torrone 2117

B alzo

L. di Pilato M. Vettore 2476 Sella delle Ciaule Itinerario

M. Vettoretto 2052

R

Da Forca Viola si può scegliere di

C. delle Prata 1850

Variante 1

G

Montemonaco si raggiunge la

O

VARIANTE 2

Foce

Palazzo Borghese 2145 Forca di Gualdo M. Abruzzago M. Argentella 2200 1624

dare un passaggio fino al rifugio. Partendo dal centro di

Rocca

M. Porche 2233

M. delle Prata 1800

E

Partendo da Foce di

un miraggio e molte delle risorse

D

Parlare di ricostruzione è quasi

Montemonaco

N

VARIANTE 1

A

lentissimo ritorno alla normalità.

M. Cucco 993

RIF. SIBILLA

M. Sibilla 2173

O

La viabilità in alcune zone è

M. Zampa 1791

M. Bove Sud 2169

LAGO D I PI L AT

può scendere ai Laghi di Pilato e

DEL

splendida vista a 360 gradi si

del 2016 purtroppo non è rosea.

E VA L L

La situazione dopo i forti terremoti

P

I

A

N

La Rotonda 1421

Pretare Forca di Presta

Variante 2

Piedilama

L’itinerario si può percorrere

DOVE DORMIRE E MANGIARE:

anche come traversata ridotta:

A Montemonaco:

Montemonaco - Castelluccio o

Hotel Monti Azzurri

viceversa organizzando il ritorno

www.hotelmontiazzurri.com

in auto. A Foce: Rifugio Taverna Visti i lavori di ripristino della rete

della Montagna

escursionistica e stradale dopo i

www.tavernadellamontagna.net

terremoti del 2016 è importante consultare la mappa aggiornata

Alla Bottega della Cuccagna

prima di intraprendere gli

di Montemonaco si possono

itinerari proposti:

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www.sibillini.net

dei Monti Sibillini, dai formaggi ai funghi

Al momento di andare in stampa

www.bottegadellacuccagna.it

con questo numero il rifugio Sibilla era chiuso a causa dei danni provocati da maltempo.

SITI INTERNET UTILI

Per verificare l’eventuale

www.sibilliniweb.it

riapertura è meglio consultare il

www.sibillini.net

sito internet della struttura: www.rifugiosibilla1540.com

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traversate

NICOL A WINKLER attraverso l’Italia a passo d’asino Otto mesi, 23.000 chilometri, qualche disavventura e tante storie da raccontare testo di MARCO BLARDONE - foto di FEDERICO RAVASSARD

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proposte

uando incontri Nicola Winkler ti rendi conto che la sua è una storia in cui vuoi entrare in punta di piedi, per non disturbare, per rispettarne l’intimità. Occhi limpidi che sorridono e ti guardano dritto, che senza dire raccontano di un viaggio di altri tempi fatto attraverso l’Italia e custodiscono le esperienze raccolte lungo la strada. Marcato accento torinese di chi è nato e sempre vissuto in città, nel periodo sabbatico dopo la maturità, Nicola, leggendo il Don Chisciotte, sente nascere dentro di sé un’idea, dapprima soltanto accennata e poi pian piano sempre più forte, sempre più presente nei suoi pensieri: attraversare tutta l’Italia a piedi in compagnia di un asino. A un certo punto decide di fare il grande salto, smette di pensarci e basta e comincia a credere di poterla realizzare davvero.

Q

«Prima ho dovuto essere ben sicuro delle motivazioni che mi spingevano a intraprendere un’avventura così – ci ha detto - . Dovevano essere forti, dovevano essere profonde, non sarebbero bastati i capricci e il fascino tenue dell’esotico per reggere tutte le difficoltà a cui sarei andato incontro, poi ho convinto i miei genitori e infine sono passato a definire concretamente il progetto. Volevo conoscere l’Italia, riscoprire i valori antichi della terra e i ritmi di un tempo lento che asseconda i cicli della natura, lontano dalla frenesia della nostra epoca. Ho pianificato le tappe, ho preparato l’attrezzatura, mi sono munito di una cinepresa e ho raccolto fondi attraverso un blog: Non fare l’asino su blog www.italiachecambia.org per girare un film su quello che avrei visto durante il cammino. Ma quello che ho scoperto subito è che quando sei in viaggio, è il viaggio che decide, che detta le condizioni e trasforma tutti i tuoi programmi a ogni passo. Tu non puoi mai fossilizzarti su un atteggiamento o su uno stato d’animo». Il primo aprile 2017 Nicola va in auto fino al porto di Genova e da lì in nave fino in Sicilia per andare a Scillato a conoscere la vita degli allevatori e familiarizzare con Piriddu, l’asino che lo accompagnerà. A sostenerlo anche il marchio outdoor Ferrino. Dopo un mese di acclimatamento, il primo maggio comincia il cammino. Un buon paio di scarpe ai piedi, 15 chili di zaino, un basto nuovo per l’animale, tantissima strada e tutto un Paese da attraversare davanti a sé. Ma il viaggio stravolge fin da subito ogni piano. A due settimane dalla partenza, una notte, a Nicola viene rubata parte dell’attrezzatura, tra cui anche la cinepresa, e viene avvelenato l’asino. È un colpo durissimo. Sconforto e smarrimento iniziali lasciano il posto all’urgenza di fare i conti con quello che è successo. Può desistere oppure stravolgere tutto ciò che aveva pianificato e andare avanti lo stesso. Sceglie la seconda opzione. «Oltre al danno materiale, mi ha fatto male soprattutto la ferita per la morte di Piriddu, a cui mi ero già affezionato molto. Quella è stata l’unica perdita insostituibile, per quanto riguarda il resto ho pensato che il furto fosse un’occasione per ripartire con un nuovo spirito, più essenziale, rinunciando forzatamente a molti oggetti superflui che non ero stato capace di lasciare a casa». Dopo un mese di cammino, un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, Nicola completa l’attraversamento della Sicilia e riparte dalla Calabria in compagnia di Fela, l’asino che lo accompagnerà fino in Piemonte. «Fela non è stato un mezzo di trasporto, è stato un vero e proprio compagno di avventura, da imparare a conoscere, da rispettare, con cui condividere strada e fatica, e capace di insegnare tanto, nel modo autentico e senza bisogno di parole degli animali. Il mio viaggio non avrebbe avuto senso senza di lui. L’asino è un simbolo. È l’animale dall’indole remissiva su cui gli umili e gli sfruttati sfogavano la loro frustrazione,

ma anche quello dotato di una determinazione incrollabile, che gli stolti scambiano per stupidità, che non fa nulla se decide non di farlo, neanche se viene preso a bastonate. È stato lui a guidarmi con le sue esigenze nella scelta dei tragitti, nei tempi e negli incontri. Per assecondare la sua volontà sono passato nell’entroterra e non sulla costa, attraversando i tanti paesini sperduti e spopolati dell’Italia, dove la vita è ancora semplice e sono vivi i valori antichi della fratellanza e della solidarietà; dove c’è chi è disposto a darti da mangiare e da dormire, senza conoscerti, sulla fiducia, soltanto in cambio di una storia di viaggio che tu gli puoi raccontare». E di storie Nicola ne ha raccolte tante nei suoi 2.300 chilometri e otto mesi, nomade, a piedi, vivendo riducendo le spese al minimo, con in media un euro al giorno. Gli è capitato di arrivare in paesini minuscoli e di venire accolto da una gran festa in piazza oppure di passare da solo al freddo e senza niente da mangiare la sera prima del suo compleanno, il 2 di ottobre; ha visto intere montagne e il Vesuvio bruciare per gli incendi nella torrida estate della Campania e ha camminato nella nebbia umida dei tratti di Via Francigena in autunno, quando non vedeva l’ora ormai di arrivare a Torino. Ha visto l’Italia ferita a morte dai terremoti, a L’Aquila, ad Amatrice, a Norcia e ha sentito ancora quanto materiale resistente ci sia, al di là di tutte le macerie, nel gesto gratuito di umanità di una famiglia che ti ospita nel suo claustrofobico container, dove è costretta a vivere da un anno. Il 15 dicembre Nicola è arrivato a Buttigliera d’Asti dove per il momento è terminato il suo viaggio, anche se dopo questa esperienza le cose per lui non saranno più come prima. «I primi tempi mi sono sentito disorientato. Per due settimane ho dormito sul divano perché non ero più abituato ad avere un posto fisso da chiamare casa. Ora sto studiando cinema al Dams perché è una mia passione, anche se non so ancora in che modo trarrò un film dalla mia esperienza. Questo viaggio è stato una rampa di lancio per la mia fantasia e per darmi il coraggio di tornare alla vita rurale e alla terra. Ora con me c’è Fela e le scelte che prenderò per il mio futuro dovranno considerare anche lui. Ho scoperto che c’è un’Italia legata ai valori antichi che cerca modi nuovi per non morire, ho visto che se hai fiducia prima o poi le cose arrivano e che le persone sono ancora capaci di aprirsi e di accoglierti senza chiederti nulla in cambio. Questo è il bagaglio che porto a casa dal mio viaggio, prendendomi il tempo per distillarlo piano piano, muovendomi ancora per un po’ a passo d’asino».

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traversate

Salewa Ironfly 458 km di strategia La seconda gara di hike & fly più lunga al mondo ha preso il via da Lecco il 12 maggio. Una lotta contro il tempo nella quale conta saper volare, correre veloce e prendere le giuste decisioni foto di LUCIA TUOTO

raversare. Lo si può fare non solo a piedi, ma il modo migliore per andare da un punto all’altro è quello di farlo in linea d’aria, volando. Ed è la filosofia che sta alla base dell’hike & fly, il nuovo trend outdoor che combina spostamenti veloci a lanci in parapendio. Dopo la Red Bull X-Alps, la gara più famosa, è arrivata anche la Salewa Ironfly, la seconda competizione più lunga al mondo, che ha preso il via da Lecco lo scorso 12 maggio.

T

Quattrocentocinquantotto chilometri, con tre boe obbligatorie, quella di Macugnaga, di Bormio e della Presolana per ritornare a pochi chilometri dal punto di partenza, a Suello, entro le 16 di sabato 19 maggio. Un gioco semplice apparentemente, con pochi paletti: ci sono delle nofly zone, si può volare dalle 7 alle 20 oppure seguire il percorso a piedi. Esiste anche un jolly che permette, una sola volta, di camminare fino alla mezzanotte. La mattina successiva bisogna ripartire da una distanza non superiore ai 200 metri da quella dove si era arrivati il giorno prima. Semplice solo sulla carta perché se non ci sono le condizioni per volare, bisogna decidere se fermarsi e aspettare il momento giusto o mettersi a camminare per decollare da un punto più lontano. E spesso da queste decisioni dipende la vittoria o la sconfitta. Semplice sulla carta perché già la partenza dal centro di Lecco è stata una bagarre in quanto le previsioni meteo non lasciavano molte speranze: al Monte Cornizzolo, teatro del primo decollo, per non rischiare di perdere la possibilità di volare subito verso Ovest e dover aspettare il passaggio della fase temporalesca, bisognava arrivare correndo veloci con i pesanti zaini sulle spalle. Ci sono atleti che sono stati penalizzati per non avere raggiunto una boa, anche di pochi metri, altri che hanno volato nelle nubi (eventualità causa di penalità), altri che si sono messi in cammino sotto la grandine o che hanno preferito fermarsi e poi, con il volo più lungo di tutta la gara, 134 km, hanno recuperato posizioni su posizioni. Ma a Suello per primo è arrivato sempre lui, lo svizzero Chrigel Maurer, dominatore incontrastato della specialità, vincitore delle ultime cinque X-Alps. Ci ha impiegato quattro giorni, quattro ore e 50 minuti, ben oltre le più rosee previsioni di chiudere il giro in tre giorni. Ci sono stati anche momenti difficili. «Verso Bormio c’era un vento strano, molto forte e faceva tanto freddo, ma è stato un volo inaspettatamente lungo per cui non ero abbastanza coperto e per fare distanza non mi sono potuto fermare per coprirmi, è stata dura» ha detto al traguardo. Nella prima giornata di gara ha scelto una linea di volo più vicina alle montagne. Di solito preferisce non fermarsi mai piuttosto che aspettare le condizioni meteo migliori, anche se nasce come pilota di parapendio e non come trail runner. Ma la sua strategia si è rivelata ancora una volta vincente. Perché anche per traversare veloci ci vuole la testa. Lo sanno gli esploratori e gli avventurieri del secolo scorso come Nansen e Bonatti. E lo sa Chrigel Maurer. 126

NELLE FOTO \\ Chrigel Maurer in salita a piedi e trionfante all’arrivo (sopra e in basso a destra). La partenza della Salewa Ironfly dal centro di Lecco (sopra)


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traversate

NELLE FOTO \\ Alfio Ghezzi in volo, Giovanni Gallizia in un momento di pausa, Simon Oberrauner a ridosso delle vette innevate e Chrigel Maurer al via dal Monte Cornizzolo (dalla foto piccola sotto in senso orario)

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NELLE FOTO \\ Chrigel Maurer saluta scherzosamente il fotografo, Thomas Friedrich festeggia i 17 anni compiuti all’atterraggio a Bormio, Stephane Garin in un passaggio a piedi (dall’alto in senso orario)

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traversate

SE A T O SU M M I T DA L M A R C A SPIO A L DA M AVA N D Con i suoi 5.671 metri questo vulcano è la vetta più alta dell’Iran. E Benedikt Böhm, general manager di Dynafit, l’ha raggiunto in poco più di 14 ore partendo in bici dalle rive del mare testo di BENEDIKT BÖHM - foto di YOURBIGSTORIES

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aria è sottile e soffia una brezza leggera e costante. Il cielo è limpido quanto l'azzurro del Mar Caspio. Il sole splende con tutte le sue forze e sotto di me posso vedere un tetto di nuvole che offre solo occasionalmente la possibilità alle montagne circostanti di bucarlo. Il cuore batte forte, il respiro è leggero, i muscoli e le ossa mi fanno male. Pur essendo completamente esausto per lo sforzo fisico della salita, sono sopraffatto da questa incredibile sensazione di gioia ed euforia che ogni alpinista conosce, ma è così difficile esprimerla a parole. Ce l'ho fatta! Sono a quota 5.671 metri e dietro di me ci sono 5.970 metri di puro dislivello con 130 chilometri di fatica.

L'

Nelle ultime 14 ore e 20 minuti ogni grammo del mio corpo ha dovuto lavorare per questo risultato e certamente è tra le esperienze fisiche più faticose della mia carriera di alpinista fast & light. Ma ora sono in cima al Damavand. Soddisfatto e distrutto. Però non c’è tempo per pensare, devo ripartire subito. Eppure, prima di mettere gli sci, mi fermo per qualche istante. Mi godo il momento e provo un grande piacere per il panorama e le condizioni meteorologiche perfette: non avrei osato immaginare di meglio. Soprattutto perché il mio piano era quasi destinato al fallimento. DUE UOMINI, UN SACCO DI BAGAGLI E BASSA PRESSIONE Sono le 11 di lunedì 2 aprile, festività pasquali in Baviera. Incontro il mio collega e amico Alex all'aeroporto di Monaco. La nostra meta è l'Iran. Mentre gli altri passeggeri si dirigono a sud con ombrelloni e abbigliamento da spiaggia, il nostro bagaglio è il regno della confusione e si guadagna occhiate irritate da parte del personale della compagnia aerea. Due bici, una borsa da sci e zaini non sono la solita valigia che la donna addetta al check-in vede passare sul nastro. Abbiamo pianificato tutto nei minimi particolari per raggiungere la vetta del Damavand dal Mar Caspio in una settimana, compreso il tempo per l'acclimatamento e le pause. Una finestra estremamente stretta, anche se tutto andasse come previsto e con bel tempo. A Teheran, dopo un volo di quattro ore e mezza, veniamo accolti da una piacevole temperatura di venti gradi e un cielo coperto di nuvole, ma arrivano subito le prime cattive notizie: le previsioni del tempo hanno fatto un’inversione a U e in due giorni si prevedono forti piogge e un brusco calo della temperatura. Dopo frenetiche consultazioni, decidiamo di provarci comunque anche perché le previsioni cambiano di ora in ora e la perturbazione potrebbe anche arrivare prima. Tenteremo la fortuna domenica o lunedì.

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traversate Bici:

Trail:

120 km

4,7 km

3.300 metri D+

1.160 metri D+

TOTALE: 130 km – 5.970 metri D+ - 14h20’

DAMAVAND Dopo una notte di riposo, ci dirigiamo verso il Damavand. Grazie a una parete di 4.667 metri questa montagna è una delle più alte e isolate del mondo. La cima si erge maestosa sulle circostanti montagne di Alborz, diffondendo il suo potere speciale anche da lontano. In effetti il Damavand diffonde anche altro. La traduzione letterale suona più o meno così: la montagna fumante. Sebbene questo vulcano emetta solo un po' di fumo, una volta superati i 5.000 metri c'è un odore di zolfo piuttosto forte. Tecnicamente è la vetta più alta dell’Iran, ma non è una montagna difficile. Può essere scalata da quasi tutti i versanti su ghiaioni e polvere con pochi posti che richiedono di usare anche le mani. Però non bisogna mai sottovalutare il Damavand. Il più grande ostacolo è il meteo, come ricorda Reinhold Messner che nel 1970 dovette rinuciare alla vetta. La via più comunemente seguita sale da Sud. Questa è anche l'opzione per la scialpinistica, che prevede tre campi. Il Mar Caspio, dove vogliamo iniziare la nostra salita, si trova a Nord.

L’ACCLIMATAMENTO Tutto cambia così in fretta da queste parti ed è difficile stabilire se avremo una finestra di sole, ma intanto occupiamo il tempo andando in esplorazione verso la cima del Damavand e acclimatandoci. Raggiungiamo il campo 1, nel villaggio di Reineh. Gli incontri con gli iraniani e la grande ospitalità persiana riempiono la giornata. Ognuno ci invita a casa sua a bere un tè e, anche se non parliamo la stessa lingua, riusciamo ad avere un dialogo. Dopo Reineh ci spingiamo fino al campo 2, a 3.200 metri, dove inizia il vero acclimatamento, salendo a un piccolo bivacco a 4.200 metri. Anche se il tempo è tutto fuorché bello, mi spingo in perlustrazione fino a 5.100 metri. C’è pochissima neve e non si possono mettere gli sci fino a 3.800 metri. Guardando la vetta non si vedono tracce e questo non aiuta a diminuire lo scetticismo sulla riuscita del nostro progetto. La notte è gelida perché non c’è riscaldamento, l’unico posto caldo è la cucina dove c’è un po’ di spazio vicino alla stufa a gas. Tutti vogliono stare qui, ma dopo un po’ senti quell’odore di tubo di scappamento… Per fortuna la notte scorre veloce e il giorno successivo il cielo è blu e il Damavand sembra zucchero filato, ma l’illusione dura poco e le nubi tornano a imperversare. Ecco allora che decidiamo di tornare a ritroso per osservare bene la strada che dovremo percorrere per salire dal mare. Sono altri giorni di immersione nella cultura e ospitalità locale. Il nostro autista Faiteh ci porta in giro per la cittadina di Mahamouabad. È uno slalom tra gli aromi di kebab, pane fatto in casa, spezie e al bazar vendono di tutto, dai polli vivi alle batterie per le automobili. Siamo bersagliati di richieste di selfie perché anche qui Instagram è molto popolare e non capita tutti i giorni di vedere un europeo con i capelli biondi. Intanto le previsioni meteo si fanno chiare: domenica sarà variabile e nevoso in quota, nella notte tornerà il bel tempo e così decidiamo di tentare il tutto per tutto, anche perché lunedì sera dovremo tornare verso Teheran.

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Sci:

3.3 km

1.470 metri D+


ABBIGLIAMENTO & ATTREZZATURA

VETTA Domenica 9 aprile, a mezzanotte, scatta finalmente l'ora. Esattamente all’una e tre minuti io e Alex iniziamo a pedalare nella notte senza nuvole. La temperatura è di undici gradi e lui sta davanti perché è più forte in bici. Le strade sono affollate quanto di giorno e dalle auto di tanto in tanto riceviamo degli incitamenti. I primi 50 chilometri vanno sorprendentemente bene anche se percorriamo il bordo di una strada a quattro corsie tra lo smog e la polvere. Quando inizia la salita le gambe diventano sempre più pesanti. Il ciclismo non è il mio punto di forza e forse avrei dovuto allenarmi di più, ma Alex non mostra pietà e continua a pedalare a ritmo elevato. Dopo cinque ore e mezza in sella, finalmente arriviamo al campo uno, all’alba. Gli ultimi dieci chilometri su sterrato sono una dura prova, ma il cielo è pulito e i primi raggi del sole illuminano il Damavand: una motivazione in più per vincere la fatica. Dopo altre due ore raggiungiamo il campo 2. Il sole brucia la pelle e due barrette energetiche e i biscotti al cioccolato danno un po’ di benzina alle gambe. Da qui continuerò da solo. Mentre Alex sistema le bici, metto le scarpe da trail e parto. Con l’astuzia riesco a vincere i segnali che mi lancia il mio corpo: mi convinco di essere appena partito e di non avere già 120 chilometri in bici nelle gambe. Funziona e metto un piede davanti all'altro, però aspetto con ansia il passaggio agli scarponi da scialpinismo: salire veloce con gli sci è il mio pane e, nonostante l'aumento della quota, questa dovrebbe essere la parte più facile. Intanto seguo le orme di altri alpinisti, risparmiando un sacco di energie. Una volta a 4.500 metri però lo sforzo diventa molto più intenso: l'aria è leggera e ho la sensazione di non andare avanti. La salita sembra interminabile e le forze vengono meno. Dopo quasi altre tre ore, finalmente vedo il punto più alto del Damavand. Ci vorrà ancora un’ora, ma dopo 14 ore e 20 minuti, esattamente alle 3 e 23 del pomeriggio, sono in vetta. Però l'autobus per il campo 1 mi sta già aspettando. Nemmeno 15 ore dopo sarò di nuovo seduto alla mia scrivania ad Aschheim, in Germania, con negli occhi le immagini di montagne spettacolari e nell’anima i ricordi di persone con il cuore grande.

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Per un’impresa fast & light come quella al Damavand, attrezzatura e abbigliamento non sono dettagli da poco. Benedikt Böhm ha utilizzato la scarpa da trail Dynafit Alpine Pro che pesa solo 300 grammi nella versione maschile ed è indicata sulle distanze medio-lunghe. La costruzione dell‘intersuola Alpine Rolling, in EVA compressa a doppia densità, consente una rullata uniforme e graduale dal tallone alla punta del piede e il drop di 8 millimetri garantisce un valido sostegno su terreni impegnativi e irregolari. Rubber Tension, un tirante in gomma diagonale sul tallone, migliora la precisione di calzata, mentre il battistrada Vibram Megagrip garantisce una presa perfetta sul terreno alpino, sia sul bagnato che sull‘asciutto. Mezzalama 2 Polartec Alpha Jacket è un giacca isolante dedicata agli agonisti e al training in montagna. Ha un’imbottitura da 100 grammi in Polartec Alpha Insulation, ma riesce comunque a mantenere un peso di soli 344 grammi. Oltre a garantire l’isolamento, il materiale esterno è antivento e idrorepellente, per una protezione dalle intemperie. Taglio atletico, apertura per il pollice sui polsini, ingombro minimo. Per il prossimo inverno Dynafit rivoluziona completamente il concetto di attacco pin. La combinazione in uso con successo da 30 anni prevedeva i pin disposti su entrambi i lati della punta dell’attacco e inserti adatti nello scarpone. In futuro i pin verranno invece collocati direttamente sulla punta dello scarpone, con un sistema a molla. Modifiche radicali anche per la talloniera. Il nuovo sistema, in attesa di brevetto, sarà impiegato per la prima volta nel mondo dell’agonismo con il modello P49, certificato ISMF. Il vantaggio del nuovo concept sperimentato da Böhm? L’entrata nell’attacco è notevolmente più veloce e allo stesso tempo il peso dell’attrezzo diminuisce sensibilmente, arrivando a soli 49 grammi. L’attacco è compatibile esclusivamente con lo scarpone racing DNA Pintech by Pierre Gignoux, costruzione full carbon e solo 510 grammi di peso. Last but not least, lo sci: Dynafit DNA. Maggiore velocità in discesa e prestazioni migliori in salita richiedono nuove tecnologie come la Carbon o le strutture 3D. Pesa solo 660 grammi (153 cm) o 690 (162 cm) e ha larghezza al centro rispettivamente di 65 e 64 mm.


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proposte

VAL ROSANDR A, IL MOUNTAIN BLUES DEI TRIESTINI Poco distante dal porto di Trieste c’è una riserva naturale che ha visto scrivere pagine importanti della storia dell’arrampicata

testo di LORENZO FILIPAZ - foto di ANDREA SALINI/OUTDOOR STUDIO

ono mitteleuropea, sono pallida come il calcare, che c’entro con il blues? Eppure ne sono esperta, perlomeno di una sua variante peculiare: il mountain blues. Avete presente il ricordo dolente dell’andar per vette quando lo sguardo è oppresso dalla mancanza di pareti? Quella libertà che si respira lassù, quanto la si rimpiange fra le catene del trantran quotidiano? Il dolore è forse poca cosa rispetto a quello provato dagli schiavi afroamericani, ma avvicina allo stato d’animo del blues. Vedo il mare ogni giorno, che ne posso sapere di montagna? Eppure su quello specchio d’acqua si affaccia un porto con ben tre storiche associazioni alpinistiche: la Società Alpina delle Giulie, lo Slovensko Planinsko Društvo Trst, l’associazione slovena, e la XXX Ottobre. Tutte ultracentenarie!

S

Quel porto si chiama Trieste e io - mi presento - sono la Val Rosandra, forra rocciosa che incide il Carso alle sue spalle. Forse ancor più assurda di una valle che parla vi sembrerà una città di mare con una così atavica voglia di Alpe. Andate a passeggiare per le sue Rive in una giornata tersa d’inverno e ne capirete il motivo: una quinta scintillante di montagne innevate emerge dalle acque del golfo come una fata morgana. Sono le Alpi Giulie, a Nord, e le Dolomiti Bellunesi, a Nord-Ovest: i due amori dell’alpinista triestino. In quei giorni appaiono così vicine che sembra se ne possa toccare i canaloni e le pareti con le dita. Robert Macfarlane sostiene che la montagna sia un luogo della mente, inventato da chi fantastica di salirci. Trieste allora è una fucina secolare di orogenesi culturale, scolpita nel desiderio frustrato da un’amante che si concede solo nei fine settimana. Ed io? Io sono la consolazione a quel blues, che gli alpinisti triestini sono venuti a intonare per generazioni sulle mie placche e sui miei diedri, trovando appigli così simili a quelli delle Dolomiti o delle Giulie, a seconda del versante che accarezzavano.

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proposte

Ricordo Julius Kugy: fu forse il primo a venirmi a visitare solo per contemplarmi, senza altri scopi. Era un romanticone, di sicuro il primo a frequentarmi in preda al mountain blues. Si limitava a scrutarmi malinconico attraverso quegli occhiali tondi, come un amante non corrisposto. Lui in montagna ci andava con le Guide, non gli passava neanche per la testa di mettersi in cordata sulle mie paretine per allenarsi, non era un’intuizione della sua generazione ma di quella successiva a cui apparteneva Napoleone Cozzi, il mio secondo spasimante storico, il primo a farsi avanti e ad aver avuto il coraggio di toccarmi. Lo scontro generazionale era anche sociale, all’alpinismo alto-borghese con Guida di Kugy si contrapponeva quello da ceto medio di Cozzi. Lui e i suoi coetanei citavano Mummery e ne facevano una questione di etica. Sarò maligna: per me era prima di tutto una questione di grana. Non potendo disporre di Guide o vacanze troppo lunghe in ambiente dovettero arrangiarsi a cercare rocce casalinghe su cui impratichirsi, surrogati di montagna. Gli inglesi li trovarono nel Lake District, tedeschi e austriaci nella cosiddetta Svizzera Sassone. Qualche anno dopo - a cavallo fra i secoli XIX e XX - Cozzi trovò la sua palestra domestica fra le mie braccia di pietra. Ma se in Inghilterra e in Sassonia iniziarono ad appassionarsi più alle rocce che alle montagne, preferendo quindi i surrogati all’originale da veri precursori dell’arrampicata sportiva, ciò non accadde a Cozzi e compagni: loro mi scalavano con sempre in mente le Alpi. Ovvio, a differenza di inglesi e tedeschi, Cozzi, quando rubava un’arrampicata al freddo di marzo sui miei versanti, vedeva quelle candide cime, monti veri, e il mountain blues gli si appiccicava all’anima… Tra i miei anfratti egli individuò le copie-carbone dei problemi alpinistici dell’epoca: se il Camin quadrato dei veci sulla mia destra orografica può ricordare il camino Cozzi sulla Torre Trieste del Civetta, è impossibile non collegare la fessura Cozzi nel Crinale sulla mia sinistra a quella omonima sul Campanile di Val Montanaia. Dopo la Grande Guerra, la prima, si fece largo un nuovo spasimante, il più grande: Emilio Comici, il mountain-bluesman per eccellenza. Nessuno come lui lo cantò con tale acribia sui miei contrafforti calcarei, ricavandone il vocabolario completo della montagna che andava poi ad abbracciare nei fine settimana. Non era un geloso, con sé portava tanti altri spasimanti e fu così che io divenni la prima palestra di arrampicata italiana. E poi Emilio mi portò tantissime ragazze, facendole arrampicare anche come capocordata, come la povera Bruna Bernardini che vidi precipitare un giorno dal Crinale sul diedro che ora porta il suo nome. Emilio venne a trovarmi per aprire vie nuove, sempre più ardite, anche quando il blues lo spinse a trasferirsi a Misurina. Ma le sue vie che ricordo con più affetto sono quelle che aprì sul mio versante destro nei tardi anni ‘20: la Bianca nel ‘27 e la Grande nel ‘28. Sperimentava il sesto grado che inaugurò, primo in Italia nel 1929, sulla Sorella di Mezzo del Sorapiss. Sempre più arrampicatori vennero a trovarmi dopo la seconda guerra. Tra gli ultimi a scalarmi con il mountain blues in cuore ricordo Enzo Cozzolino e Tiziana Weiss, poi il vento di Yosemite soffiò anche lungo il mio corpo roccioso e i climbers di oggi che mi frequentano spesso non pensano più alle pareti alpine. Forse rivendicano un amore più autentico per me, senza proiezioni, eppure quando aprono una via come quella accanto al Diedro Bernardini, sparandomi nella roccia talmente tanti fittoni da sembrare una scaletta antincendio, non penso sia amore vero. Forse paragonarmi alle pareti dolomitiche è stato il modo con cui Cozzi, Comici, Cozzolino, Weiss e gli altri mi hanno fatto sentire più bella, come quando gli innamorati ti cantano serenate scomodando iperboli pindariche. Sicuramente è stato il modo con cui mi hanno fatto entrare nella storia dell’alpinismo, io, umile forra carsica di provincia. firmato, Val Rosandra

AKU AI NOSTRI PIEDI IN VAL ROSANDRA Beatrice, studentessa in neuroscienze e camminatrice, ha indossato Aku Trekker Lite GTX Ws; invece Giacomo, fotografo e guida naturalistica, ha camminato con Aku Trekker Lite GTX, Aku Selvatica GTX, Aku Rapida GTX e Aku Ledro Canvas, infine Maria, studentessa di medicina e viaggiatrice, con Aku Climatica Air GTX Ws, Aku Libra GTX Ws e Aku Alterra GTX Ws. Una gamma di modelli per ogni attività outdoor che arriveranno nei negozi a partire dalla prossima primavera-estate 2019. Dalla dimensione urbana all’alpinismo, dal travel al multiterrain, passando per il trekking, da sempre l’ambito in cui AKU rappresenta il punto di riferimento per gli specialisti della calzatura in Italia e sui principali mercati internazionali. www.aku.it

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NELLE FOTO \\ Il ‘Crinale’, il Cippo Comici e il Monte Carso (in apertura). Il torrente Rosandra nei pressi di Bottazzo, una simpatica bancarella e le mappe nei pressi del rifugio Premuda (in questa pagina, dall’alto in senso orario)

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NELLE FOTO \\ Vista dal Monte Stena verso la Val Rosandra e il Golfo di Trieste (sopra) e la Traversata Giraldi, una via di roccia risalente agli anni Trenta (a destra)

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4 itinerari da non perdere DA TRIESTE ALLA VAL ROSANDRA LUNGO LA CICLABILE GIORDANO COTTUR Percorso: Trieste - Bottazzo - Draga Sant'Elia - Kozina. Durata: il percorso ciclabile completo fino a Kozina è lungo 16 km per 400 metri di dislivello, 12 km fino al confine (dislivello 300 metri), 9 fino al casello Modugno (bivio per monte Stena, 250 m di dislivello). È adatto a tutti e si può accorciare iniziando in vari punti del percorso, tempo di percorrenza a piedi: dalle 5 ore in giù a seconda del percorso. Essendo ricavata da una ferrovia dismessa, la ciclabile Giordano Cottur parte direttamente dal centro di Trieste, da via Gramsci, congiunzione tra i quartieri popolari di San Giacomo e Ponziana. Il tracciato scorre lungo una vena di verde e quiete incastrata come per miracolo tra asfalto e motori. Camminando o pedalando il passaggio dalla città alla periferia non si avverte, ma si capisce di uscire dal perimetro urbano quando la si scorge per la prima volta nel rione di Raute: eccola! La Val Rosandra. Per i triestini la valle è sempre stata un assaggio di Alpi, i naturalisti non sono d'accordo: dal punto di vista ambientale è piuttosto un assaggio della catena Dinarica, dicono, e quindi di Balcani. L'oronimia, l’onomastica delle montagne, sembra confermarlo: sulla destra orografica spicca la bastionata calcarea del monte Stena, e stena vuol dire parete rocciosa in sloveno, croato, serbo, bulgaro, dalla val Rosandra fino ai monti Rodopi una sola parola. La Cottur passa proprio sotto allo Stena, perforandone le falde rocciose con brevi gallerie e intagli panoramici sulla forra. Basta dunque continuare per il tortuoso tracciato ex-ferroviario e, dopo quattro viadotti di pietra, si arriva: l'ingresso in valle è annunciato dalla roccia, le falesie di arrampicata si stagliano improvvisamente sulla destra della ex-ferrovia. Sono le classiche dei triestini almeno dagli anni '20: la Piccola Ferrovia, le Criticanze, i Falchi e i Falchetti, La Bianca, scalate così assiduamente nell'arco di un secolo che le prese sono più levigate delle statue di Canova. Infatti ormai si prediligono altri settori, come le Vergini, o - a fondo valle - i Canarini e i Giardini d'inverno. All'uscita della seconda galleria si scorge il baluardo roccioso del monte Stena in tutta la sua imponenza. C'è una via di roccia, la Grande, che ne percorre tutto il profilo in cinque tiri di corda, quanto basta per vivere una simulazione di parete dolomitica in miniatura. La via parte direttamente dalla ciclabile proprio di fianco a un piccolo pertugio nella roccia, la Fessura del vento, accesso a un complesso intrico di grotte, perché la Val Rosandra è la palestra dei climber ma anche degli speleo. LA BASTIONATA CALCAREA DEL MONTE STENA Percorso: dal casello Modugno al monte Stena anello lungo la ciclabile Cottur (in alternativa si può partire dal paesetto di San Lorenzo/Jezero) Durata: 3 km per l'anello completo dal casello Modugno, circa 150 metri di dislivello. Un’ora di cammino, è un percorso adatto a tutti, si può accorciare iniziando in vari punti del sentiero.

Per salirci a piedi, sullo Stena, si prende a sinistra la strada cementata che incrocia la ciclabile all'altezza di un vecchio casello ferroviario e sale poi verso l'abitato di San Lorenzo, dopo un po' sulla destra si imbocca il segnavia numero 15 e poi ancora a destra una variante del numero 1. Un paio di tornanti in un bosco di querce, pini e ciliegi selvatici e si arriva subito sulla ventosa cresta. Il sentiero numero 1 costeggia i bordi della stena, il margine dell'altipiano carsico che precipita improvvisamente nella forra del Rosandra. Dai fittoni di arrivo della via di arrampicata Grande il colpo d'occhio sulla valle è quello del falco (che qui peraltro nidifica): giù in fondo la cascata e il torrente nascosto in uno stretto canyon e sul versante opposto la chiesetta di Santa Maria in Siaris e il Cippo Comici, un menhir eretto in onore dell'indimenticato rocciatore triestino sull'apice del Crinale, la faglia che squarcia in diagonale il ghiaioso monte Carso. Qui si usa la parola monte con disinvoltura ma le cime superano di poco i 400 metri di quota, in valle però si tende a dimenticarlo, sembra di essere in un posto appartato in alta montagna. Eppure basta guardarsi alle spalle e si scorge la città e il mare: lo spicchio più settentrionale del Mediterraneo. La sensazione è quella di transitare su una porta comunicante tra mondi diversi: Mediterraneo ed Europa continentale, Balcani e Alpi. IL CIPPO COMICI E LA CHIESETTA DI SANTA MARIA IN SIARIS Percorso: anello dal Rifugio Premuda al Cippo Comici per Santa Maria in Siaris (oppure scendendo da ciclabile Cottur via Bottazzo): 3 km per 300 metri di dislivello. Durata: 2 ore, percorso facile che richiede un po' di attenzione solo da S. Maria in Siaris al cippo. Ai piedi dello Stena si sviluppa un sistema di grossi scaloni rocciosi. Il Cippo Comici, sul versante opposto, è il pulpito ideale per rimirarli. Per raggiungerlo occorre ridiscendere al tracciato dell'ex ferrovia, magari continuando ad est per il sentiero numero 1, e poi giù verso il villaggio di Bottazzo sempre seguendo il segnavia. Oppure si parte dal Rifugio Premuda, dal curioso primato: con i suoi 81 metri di quota è il rifugio alpino più basso d'Italia. Si prosegue quindi per un altro ramo del sentiero numero 1 costeggiando i resti archeologici di un antico acquedotto romano. Che si provenga da Bottazzo o dal Premuda si arriva fino al bivio per la chiesetta di Santa Maria in Siaris, segnavia numero 13, antico eremo solitario di origine medievale in mezzo ai ghiaioni. Lasciata la chiesetta si guadagna rapidamente quota procedendo a zig zag per un ripido pendio. È il centro della valle, la parte più aerea e anche più ariosa. La Bora s'incanala dalla Slovenia e talora soffia davvero forte con refoli che percuotono come schiaffi gelidi. Ma arrivati al cippo è la vista a riscaldare: pinnacoli, placche, strapiombi catturano lo sguardo oltre l'intaglio della valle. Una sinfonia di pallido calcare baciato dal sole. Non è un caso che proprio questo sia il luogo dedicato ai rocciatori triestini dell'età dell'oro, non solo Emilio Comici: una targa sotto al cippo ricorda il leggendario gruppo de I Bruti. L'escursione si completa scendendo per il sentiero numero 25 e calandosi in una valletta tribu-

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proposte

M. Grociana Mala Grocanica 477

Trieste S. Lorenzo Jezero S. Antonio in Bosco Boršt

Goli Vrh 423

Moccò Zabrežec

M. S. Michele Sv. Mihael 233 A

Pesek

R

L

V

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casello Modugno

A

M. Stena 442 Draga S. Elia

D

Rif. Premuda Bagnoli Sup. Gornji konec S. Maria in Siaris

N

Bagnoli della Rosandra Boljunec

O

R

Ciclabile Giordano Cottur Monte Stena Cippo Comici Via delle Acque

M. Carso Vrh Griže 455 Sella di M. Carso Sela

A

Cippo Comici

Kozina

Bottazzo Botac

Stransko Brdo 391 Žerjalski Vrh 390

taria del Rosandra, ombreggiata da carpini e ornielli. Il sentiero costeggia le verticali pareti del Crinale, una murata che scompare verso l'alto tra le fronde degli alberi. LA VIA DELLE ACQUE IN VAL ROSANDRA Percorso: anello dal Rifugio Premuda verso Bottazzo, discesa alla cascata e percorso dentro e fuori il canyon. Durata: 2 ore, 3,5 km, dislivello 175 metri. Percorso difficile, non segnato, per escursionisti esperti. Una terza via per arrivare al cuore della valle è quella delle Acque. Tra Santa Maria in Siaris e Bottazzo c'è un ghiaione che scende proprio alla base della monumentale cascata del Rosandra. La traccia costeggia poi il torrente, saltellando ora su una sponda ora sull'altra, fino ad accedere alle sue marmitte dei giganti, grosse vasche di pietra in cui spesso a stento filtra il sole. Il percorso è intuitivo, non segnato, e necessita di una certa confidenza con la roccia e con cengette talvolta esposte sul piccolo orrido (tre brevi passaggi su roccia). Alla fine si ritorna al sentiero numero 1 all'altezza dei resti di un antico mulino. Non è infrequente bagnarsi e l'impulso a farlo a un certo punto si fa prepotente dopo tante pozze e fresche cascatelle, perlomeno nella calura estiva. Di certo è una delle tre vie irrinunciabili per accostarsi alla Val Rosandra: l'aria, la roccia e l'acqua, i tre elementi così intimi alla valle attraverso i quali pare quasi di sentirla parlare. Per informazioni sulla riserva naturale della Val Rosandra: www.riservavalrosandra-glinscica.it

NELLA FOTO \\ Il rifugio Premuda (a destra)

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info pr

Arc’teryx Atom SL Vest tuttofare cegliere l’imbottitura perfetta in una stagione con meteo variabile come la tarda primavera e l’inizio dell’estate è un’impresa difficile quanto prevedere che tempo farà. Ecco perché scegliere la giusta imbottitura e un capo versatile può essere l’arma in più. Per esempio il gilet Arc’teryx Atom SL Vest. Realizzato con un’imbottitura sintetica ultraleggera trapuntata in Coreloft Compact da 40 gr, è stato concepito per asciugarsi velocemente e mantenere il calore in condizioni di pioggia e umidità. Atom SL Vest è un gilet dalla costruzione ibrida con il corpo realizzato in tessuto resistente al vento con trattamento impermeabilizzante DWR e pannelli laterali in fleece altamente traspirante. Inoltre pesa solo 160 grammi (140 nella versione da donna) e può essere ripiegato nell’apposita tasca in modo da trovare spazio in un piccolo marsupio. Le due tasche scaldamani dotate di zip consentono di riporre al sicuro piccoli oggetti, mentre la cerniera permette di aprire leggermente il gilet nella parte del collo per far circolare l’aria e ridurre il calore, ma evita che il gilet si apra completamente. Atom SL Vest costa 140 euro. www.arcteryx.com

S

Salomon Wayfarer Il pantalone con tre fit i parla spesso di gusci o di piumini, ma il capo più delicato dal punto di vista della vestibilità, a maggior ragione quando stiamo parlando di abbigliamento tecnico, è il pantalone. Ci sono aziende che hanno costruito i loro successi e insuccessi proprio sul fit di questo delicato capo. I punti chiave sono infatti il cavallo e la larghezza sulla gamba, dalla coscia all’orlo. Ecco perché poter disporre di diversi tagli, come avviene per alcuni jeans, è molto importante ma… anche molto difficile. Da questa stagione però c’è una gradita novità per gli escursionisti: Salomon propone infatti Wayfarer, uno dei best seller, in ben tre diversi fit. Le parole magiche sono Straight Fit, Tapered Fit, Alpine Fit. Il primo è disponibile sul modello Wayfarer Pant, il secondo sul Wayfarer Utility Pant e il terzo sul Wayfarer Incline Pant. Tutti i pantaloni sono realizzati anche nella versione donna e costano da 100 a 120 euro. www.salomon.com

S

Straight fit - per chi cerca il comfort • Circonferenza anca regolare • Circonferenza coscia regolare • Circonferenza ginocchio ridotta • Orlo più stretto Tapered Fit - in medio stat virtus • Circonferenza anca regolare • Circonferenza coscia regolare • Gamba dritta • Orlo ridotto Alpine Fit - per chi cerca la prestazione • Circonferenza anca ridotta • Circonferenza coscia ridotta • Circonferenza ginocchio morbida • Orlo più stretto.

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XL MAGAZINE LE ULTIME NEWS DAL NEGOZIO SPECIALIZZATO XL MOUNTAIN Aperti tutte le domeniche

AI TUOI PIEDI Quando si tratta di correre o camminare in montagna, la calzatura è fondamentale. Potrebbe sembrare un luogo comune, ma non si presta mai abbastanza attenzione alla scelta delle scarpe da trail, da skyrunning, da trekking e da alpinismo. Fedeli alla nostra tradizione di provare sempre tutto prima di metterlo sugli scaffali di vendita, abbiamo scelto dopo lunghi test sul campo quello che a nostro giudizio è il meglio sul mercato: Scarpa, La Sportiva e Salomon, senza dubbio, sia in ambito montagna che running. Ma anche Hoka (richiestissima da chi corre e sempre più nel tempo libero) e le new-entry On e Arc’teryx!

ARC’TERYX, UN GRANDE RITORNO

LA GUERRA DEI MONDI

Un marchio di altissima gamma ritorna a fare bella mostra nell’esposizione di XL Mountain: infatti abbigliamento, scarpe e accessori Arc’teryx sono a disposizione dei nostri clienti. Pochissime aziende possono vantare una finitura, una ricerca dei materiali e delle soluzioni tecniche pari a queste, soprattutto se abbinate all’eleganza e allo stile di tutte le collezioni. Nella foto il nuovo zaino da trail Norvan 14, utilizzabile anche per lo speed hiking.

Filosofie contrapposte, tradizione e alta qualità. Le collezioni da climbing di La Sportiva e Scarpa da sempre sono le più richieste dagli appassionati. Noi abbiamo tutte le novità, come le Katana e le Miura man e woman, oppure le Furia, Maestro, Maestro Mid e Mago. Oltre, ovviamente, a tutti i modelli storici.

TARTARUGHE SOTTO LA PIOGGIA La forma è curiosa, ma la soluzione è geniale. Il nuovo guscio zip-over di Dynafit Ultra GoreTex Shakedry Jacket 150, con membrana idrorepellente e traspirante, consente di espandere lo spazio sulla schiena aprendo una zip, così da poter coprire anche lo zaino in caso di pioggia senza compromettere i movimenti di chi corre o cammina.

FATEVI TROVARE

XL MOUNTAIN GUIDES

Vi piace avventurarvi in montagna, magari anche in zone poco battute, forse anche in solitaria? Vi consigliamo di attrezzarvi con un bel Garmin InReach Explorer+. Potrebbe salvarvi la vita. A proposito di Garmin è disponibile in negozio anche tutta la linea di cardio GPS fēnix 5 e 5x.

Alpinismo, climbing, trekking… Per tutte le attività outdoor un team di professionisti qualificati, pronti a farvi conoscere il nostro territorio o spingervi oltre. E stanno partendo i corsi di climbing per bambini presso La Turna, a pochi passi dal nostro negozio!

XL Mountain - SS 26, 76 Settimo Vittone (TO) a pochi chilometri dal casello di Quincinetto della A5 - tel 0125 659103 - aperto tutti i giorni eccetto lunedì

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aziende

RaidLight Bienvenue à la maison du trail Da 20 anni Benoît Laval guida il marchio francese che produce zaini, bastoni, abbigliamento e scarpe con un comandamento: condividere la passione per il trail running. E il quartier generale del brand è anche la base della prima station de trail, in un villaggio di mille abitanti immerso nella natura

testo di CLAUDIO PRIMAVESI - foto di ANDREA CHIERICATO

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e fossimo a Grenoble questa domanda non me l’avresti fatta». La risposta, seppur con toni gentili, è di quelle che ti spiazzano. Un attimo di pausa e aggiunge: «è normale non trovare lavoro sotto casa, diciamo che i nostri collaboratori arrivano da un cerchio che ha un raggio anche superiore ai venti chilometri, come avverrebbe a Grenoble o a Chambery». Come, abbiamo fatto 321 chilometri nella pioggia e nella nebbia, ci siamo arrampicati fin quassù a 900 metri di quota tra boschi e mucche che pascolano, nella vallée du trail, per sentirci dire che essere qui o in una città per un’azienda simbolo del mondo del trail e del fast & light nella natura è la stessa cosa?

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Sul tavolo ci sono prototipi di zaini e di bastoni buttati lì alla rinfusa, alla parete pettorali ingialliti della Diagonale des Fous, maglie da running in cornice e una campana tibetana. Siamo nell’ufficio di Benoît Laval, fondatore e CEO di RaidLight, a Saint-Pierre-de-Chartreuse, mille anime e un’atmosfera bucolica. Sembra di essere in un film di Claude Chabrol, nella Francia più profonda. Anche l’hotel Beau Site sembra uscito da un quadro d’antan e quando siamo arrivati in camera, nella notte del 15 di maggio, i caloriferi erano accesi. Qui, a parte la famosa certosa e il verde liquore, non c’è nulla. A parte la RaidLight e la prima station de trail al mondo. Passi il municipio e sulla sinistra, sotto il bosco, c’è un grande prato con una costruzione moderna, con ossatura in

legno, e 240 metri quadrati di pannelli fotovoltaici. Dal 2011 è il quartier generale di RaidLight che proprio quest’anno festeggia i 20 anni. A Saint-Pierre-de-Chartreuse, se sei l’anima di un marchio affermato come RaidLight, non ci arrivi per caso. «Questo è vero, come è vero che RaidLight è cresciuta insieme alla mia carriera di trail runner». Laval è uno dei primi corridori off road. Originario della regione parigina, laureato in ingegneria tessile a Lille, ha iniziato subito a correre. Un po’ di tutto, pista, strada, siepi. Però c’erano tre cose che lo incuriosivano: la natura, la difficoltà e la distanza. Ecco perché ha sentito il richiamo della montagna e si è trasferito vicino alle Alpi ed ecco perché dalle siepi è passato alla Diagonale des Fous e alla Marathon des Sables. Le soddisfazioni non sono mancate con un podio a La Réunion e la maglia della nazionale francese di trail. «Però non ho fatto il trail runner e successivamente creato un marchio, ma è venuto tutto insieme: prima ho lavorato per un’azienda che produceva zaini per conto terzi, poi ho iniziato ad aggiungere tasche e personalizzare i prodotti per i miei raid e nel 1999 è nata la RaidLight». Dopo qualche anno sono in cinque a cucire zaini, poi diventano dieci. Intanto Benoît consuma tante suole (e continua a consumarle) in giro per il mondo. «Non avrei corso in posti così lontani senza la RaidLight e la RaidLight non sarebbe quello che è senza i miei viaggi, andare in Giappone per incontrare il distributore locale e correre una gara ultra ti permette di conoscere a fondo le abitudini dei runner di quel Paese».

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aziende

NELLE FOTO \\ Alcune fasi della lavorazione nell’atelier di Saint-Pierrede-Chartreuse, dove attualmente sono impiegate 10 persone

Con la crescita bisogna cambiare quartier generale e le idee sono chiare: andare in montagna, dove si possa uscire dall’ufficio in pausa pranzo e provare subito i prototipi degli zaini sui sentieri. Vengono presi in esame ben 50 comuni, in tanti fanno ponti d’oro, ma la RaidLight verrebbe confinata nella zona industriale. Invece Benoît vuole che l’azienda abbia le porte scorrevoli in entrata e in uscita verso il paese e i trail runner. La nuova sede deve essere anche il cuore della prima station de trail, un concetto innovativo oggi replicato in un’altra trentina di località in tutto il mondo. Il motto del marchio è share the trail running experience, condividi l’esperienza del trail running. E la condivisione, partage in francese, è alla base della filosofia e del successo di RaidLight, anche ora che fa parte di un grande gruppo come Rossignol che fattura oltre 300 milioni di euro. Il sogno si è trasformato in realtà, con 40 delle 55 persone impiegate che lavorano a Saint-Pierre-de-Chartreuse e 15.000 visite all’anno alla station de trail.

VETERANO DEL TRAIL Classe 1972, è dal 1999 che Benoît Laval calca i sentieri del trail e soprattutto dei grandi raid e ancora oggi non si fa mancare tre-quattro gare all’anno, in giro per il mondo. Nel palmarès un terzo posto alla Diagonale des Fous e un nono alla Marathon des Sables, oltre alla maglia della nazionale francese di trail. Ha iniziato con il Défi de l’Oisans, ma non si è fatto mancare nulla, neppure il vertical sull’Empire State Building o sulla Tour Eiffel o la 100 km su strada e i 400 km del deserto del Gobi. «Quello che mi è sempre piaciuto dei trail e dei raid è la possibilità di viaggiare e scoprire nuovi paesaggi» dice. Viaggiare, cambiare ogni volta, ma una gara è rimasta nel cuore. «La Diagonale des Fous, per il paesaggio, per il pubblico». Benoît è uno dei più competenti osservatori della trasformazione del mondo del trail negli ultimi 20 anni.«È vero, è cresciuto, una volta oltre i 100 km c’era solo la Diagonale, oggi ogni fine settimana c’è una

Diciamolo, Raidlight è uno di quei posti dove un outdoor addicted vorrebbe lavorare e la condivisione non è una trovata del direttore marketing. Una di quelle aziende modello in vetta alle classifiche del dove si lavora meglio. Produce zaini, bastoni, abbigliamento e scarpe per trail e raid (e dal 2019 verrà rinnovata completamente tutta la linea di scarpe) e per entrare negli uffici bisogna passare dal negozio che vende tutti i prodotti, ma affitta anche E-bike e attrezzatura da scialpinismo in 147

cento miglia, il calendario andava da aprile a ottobre, oggi non c’è pausa e ci sono gare che sono diventate dei veri e propri business. Però si trovano ancora eventi basati sul volontariato e i tempi dei top non sono tanto diversi, è cambiata la densità di atleti forti e per questo una volta arrivavi tra i dieci all’UTMB e oggi con la stessa prestazione no, ma perché in tanti hanno crono simili, non perché le performance siano cambiate molto».


IL DREAM TEAM RaidLight ha un Dream Team di atleti top che comprende, oltre al fondatore Benoît Laval, Nathalie Mauclair, Antoine Guillon, Christophe Le Saux, Elisabet Barnes e Rachid El Morabity. Tutti atleti di grande valore e con palmarès importanti. Nathalie tra il 2013 e il 2017 ha portato a casa i trofei di due Diagonale des Fous, una TDS, una UTMB, due medaglie d’oro ai Mondiali di trail, due secondi posti alla Marathon des Sables e il terzo posto a UTMB, Hardrock 100 e Western States. Antoine Guillon, tra le tante gare dal 2002, può vantare ben sei podi e una vittoria alla Diagonale des Fous e quattro alla TDS, oltre a un terzo posto al Tor des Géants e una vittoria al Grand Raid du Cro-Magnon. Elisabet Barnes? Basta dire che ha vinto due volte la Marathon des Sables… Christophe Le Saux ha corso e continua a correre in tutto il mondo e in Valle d’Aosta lo conoscono bene visto che è stato due volte terzo e una volta secondo al Tor des Géants. Infine, last but not least, Rachid ha vinto sei Marathon des Sables, delle quali le ultime cinque consecutivamente. Non esiste solo il Dream Team però, perché ognuno, tramite il sito, si può iscrive al team e diventare parte della grande comunità RaidLight. E poi c’è il Chartreuse Trail Festival, a fine maggio, un insieme di gare, compreso un simpatico color trail per bambini e famiglie, che attirano un migliaio di persone tra questi monti. E gli atleti del Dream Team. Curiosamente tutti i top sono degli anni ’70, se si esclude la Barnes, del ’77, ed El Morabity, anni ’80, gli altri sono dell’inizio del decennio. In pratica coetanei di Laval. «È un caso, non li ho conosciuti in gara, a parte Le Saux, li abbiamo scelti perché incarnano l’idea di trail come avventura prima ancora che come sport e vittoria o perché, come Nathalie, sono persone comuni, madri di famiglia con un lavoro che hanno saputo arrivare al vertice; per intenderci anche Kilian rientrerebbe in questa categoria di atleti amanti della natura prima di tutto» dice Laval.

inverno. Subito all’ingresso ci sono delle grandi mensole con decine di scarpe da trail, zaini e bastoni. Non le affittano, se vieni a fare trail puoi provare tutto gratuitamente. Da un lato c’è un grande schermo touch che riproduce gli itinerari trail della stazione, con mappa tradizionale o satellitare e tutti i dati. Dall’altra parte un altro schermo è collegato direttamente con il sito e permette, appena tolte scarpe e zaini, di inserire la propria scheda test del prodotto. Di fronte la macchinetta del caffè, dove dipendenti e turisti possono scambiare quattro chiacchiere e condividere le loro esperienze. Dall’altra parte dell’ingresso c’è la palestra con i tapis roulant per correre quando c’è brutto tempo, ma soprattutto ci sono spogliatoi, docce e armadietti. Anche qui è tutto in condivisione, ci vengono i dipendenti quando vanno a correre o a fare skialp in pausa pranzo, ma con un paio di euro possono usufruirne gli utenti della station de trail e lasciare anche il portafoglio o le chiavi dell’auto. La partenza degli itinerari e le mappe sono proprio all’ingresso, sotto il porticato. La condivisione, nell’era del web e dei social media, ha diversi risvolti e direzioni. C’è il trail runner che arriva in negozio ed esce con un prototipo da provare e c’è quello che propone via web prodotti nuovi. Dalla sezione team del sito (team.it.raidlight.com), infatti, si accede al R&D collaborativo, dove ci sono dei forum su argomenti specifici e ognuno può proporre la sua idea. Periodicamente vengono anche organizzati dei workshop in azienda per personalizzare i propri prodotti con utenti selezionati. Da questa processo è nato, per esempio, lo zaino Evolution 2. Ci sono muri che dividono, ma per fortuna non tutti. All’ingresso del reparto R&D sorgerà un muro dei post-it dove ogni dipendente potrà mettere il suo personale foglietto con un’idea prodotto. Sorgerà in una stanza dove ci saranno tessuti e macchine di prototipazione in modo che 148


aziende STATIONS DE TRAIL Saint-Pierre-de-Chartresue è la prima di una trentina di station de trail, un concept che prevede itinerari suddivisi per difficoltà e segnalati, servizi come docce e spogliatoi, un sito e una app con cartografia e la community dove è possibile condividere i propri giri e allenamenti. Nella Chartreuse ci sono itinerari da 6 a 30 km, un vertical, uno stadio del trail con percorsi studiati per l’allenamento, dalle ripetute ai circuiti per la velocità e la resistenza. Le altre destinazioni sono in Francia, Belgio, Svizzera, La Réunion, Cina e Spagna. stationdetrail.com

NELLE FOTO \\ Christophe Le Saux, Nathalie Mauclair e alcuni ricordi delle gare di Benoît Laval (a sinistra dall’alto). Elisabet Barnes, Christophe Le Saux e Nathalie Mauclair in azione nella Chartreuse, la sede di RaidLight e la partenza di un itinerario della Station de Trail (dall’alto in senso orario)

chiunque lavori in RaidLight, se ha un’idea, possa provare a svilupparla con le sue mani. «Condividere vuol dire ascoltare chi pratica il trail, non solo gli atleti top - aggiunge Laval -. Per esempio il primo bastone ripiegabile lo abbiamo lanciato sul mercato noi, ma è un’idea che arriva da un nostro cliente che ci ha proposto di commercializzarlo, invece le tasche sugli spallacci degli zaini per mettere i flask sono arrivate dalla collaborazione con Marco Olmo». La condivisione è ormai una pratica collaudata a Saint-Pierre-de-Chartreuse e sul web. Ma nella testa di Benoît Laval ci sono altre sfide. Mentre parliamo ha tra le mani un iPhone. «Vedi questo smartphone? Ha solo due tasti, è il massimo dell’ergonomia e del design, se avesse tanti tasti non sarebbe così. Noi abbiamo fatto lo stesso ragionamento quando abbiamo iniziato a produrre una linea di zaini in Francia. Meno può significare meglio». Quella della produzione in Francia è un’altra bella sfida vinta da RaidLight e la possiamo toccare con mano scendendo al piano terra. Qui nel 2013 è stato creato un atelier per la produzione di zaini che impiegava 3 persone che sono già diventate 10. Sono tutte del paese o di molto vicino, ma non c’erano più le competenze tessili e per questo il lavoro di formazione è stato importante. A oggi l’88 per cento degli articoli di Raidlight e della sorella Vertical (abbigliamento e zaini per hiking e

skialp) sono prodotti all’estero, da qui possono uscire circa mille zaini al mese e dal 2015 la produzione è stata di circa 24.000 pezzi. Una finestra guarda sul negozio in modo che anche dal punto vendita si possa osservare la produzione: anche questa è condivisione. Quando si è deciso di produrre in Francia la sfida ha riguardato tutto il processo industriale. «Abbiamo ridotto le ore di lavoro manuale, che sono quelle che incidono di più sui costi, pensando a prodotti minimalisti e utilizzando le tecnologie più all’avanguardia, come le macchine per il taglio laser dei tessuti» dice Laval. A Saint-Pierre-de-Chartreuse vengono realizzati i modelli top di gamma come il Responsiv 10, perché meno vuol dire meglio. Non è un laboratorio di prototipazione, ma una vera linea industriale dalla a alla z utilizzata soprattutto quando gli zaini vengono lanciati sul mercato e non raggiungono quantità che giustifichino una produzione in Cina. E poi l’atelier è il cuore dell’ultima idea RaidLight: la personalizzazione della grafica del proprio zaino Responsiv 10L o 18L o della fascia Pass-Mountain. Dal sito si accede alla sezione customise it dove si inserisce la foto che si vuole sublimare sul prodotto. E in tre settimane il prodotto è a casa del cliente. Share the trail running experience.

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materiali

A prova di temporale. E di sudore... Abbiamo testato due giacche e una scarpa in GORE-TEX ideali per proteggersi dalle intemperie senza bagnarsi da dentro

foto di ALICE RUSSOLO

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na delle primavere più variabili degli ultimi anni ha messo a dura prova la nostra voglia di outdoor. Ed è stata la migliore occasione per testare due giacche ideali per la corsa in natura e una delle scarpe da trail best seller della stagione in versione GORE-TEX. Lo abbiamo fatto con Filippo Bianchi, atleta del team Scarpa protagonista di un inizio di stagione con grandi risultati, dalla vittoria alla prima tappa delle Skyrunner Italy Series, a Villacidro, in Sardegna, a quella del Valbregaglia Trail, che gli è valsa la qualifica per i Mondiali di Corsa in Montagna Lunghe Distanze, fino al secondo posto in volata alla 4 Passi in Casa Nostra.

correttamente, inoltre è molto versatile grazie alle due grandi tasche e al fit che ne permette un utilizzo anche in inverno come guscio leggero o nelle stagioni di mezzo e non solo per la corsa» ha detto Filippo che ha particolarmente apprezzato il nuovo polso regolabile con velcro che non era presente nella vecchia versione. «La giacca Dynafit con tecnologia SHAKEDRY™ è invece molto essenziale, dalla linea pulita e senza tasche e stupisce per la leggerezza e per le gocce d’acqua che scivolano via subito dalla superficie: molto pratica e funzionale la cerniera sul retro che consente di portare uno zaino sotto la giacca e ben fatto anche il cappuccio con visiera».

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La Scarpa Neutron 2 non ha bisogno di tante presentazioni: è stato uno dei modelli più apprezzati dai nostri testatori della Outdoor Guide e sarà una delle sorprese della stagione, grazie a una versatilità notevole e alla tenuta della mescola Megagrip. Finora però non avevamo ancora messo ai piedi la versione in GORE-TEX. L’abbiamo fatta provare a Gabriele Testa, passato di calciatore nelle giovanili della Sampdoria e da qualche anno grande appassionato di trail. È appena rientrato dal Trail del Segredont e in stagione ha messo nel mirino un’altra decina di gare con obiettivi di media classifica. Proprio l’utilizzatore che potrebbe trarre maggiori benefici dall’utilizzo di una scarpa con tecnologia GORE-TEX Extended Comfort, la più traspirante, indicata per attività intense. Un test severo: 400 metri di salita e discesa sui pendi della Punta Martìn, in Liguria, con temperature esterne di circa 25 gradi e un bagno nelle acque del fiume Acquasanta. «La scarpa è molto bella ed equilibrata, non uso abitualmente prodotti in GORE-TEX quando corro ma non ho mai sofferto il caldo pur avendo sudato molto per il gran caldo e nell’acqua il piede rimane perfettamente asciutto, tranne qualche schizzo da sopra quando ho guadato il fiume a tutta» ha detto Gabriele che ha percepito anche la leggerezza della scarpa.

Per testare le giacche abbiamo optato per una corsa sui crinali del Monte Baldo tra le nubi e qualche schizzo d’acqua. Proprio su questo terreno molto panoramico il 6 ottobre si correrà una grande classica, la Lake Garda Mountain Race, una gara only-up che prevede due possibilità, la partenza da Malcesine e l’arrivo alla stazione della spettacolare funivia panoramica, oppure il traguardo più in quota, ai 2.128 metri di Cima Pozzette per oltre 2.000 metri di dislivello in 11,6 chilometri. Tra i vincitori ci sono nomi del calibro di Jonathan Wyatt e Philip Götsch, normale che Filippo sia stato stimolato a correre veloce anche nel nostro test, complice anche un clima umido che metteva voglia di scaldarsi un po’. Per lui due giacche con membrana GORE-TEX, Montura Magic 2.0 Jacket e Dynafit Ultra GORE-TEX SHAKEDRY™ Jacket 150. La prima adotta una tecnologia di prodotto GORE-TEX New Active con costruzione a tre strati e la seconda la leggerissima SHAKEDRY™. Due proposte diverse, la prima più versatile, la seconda minimalista e molto leggera, entrambe valide per chi pratica trail running. «Ho usato a lungo la precedente versione della Magic Jacket, anche durante i temporali estivi, e non ho mai patito il caldo: tiene bene l’acqua e traspira

La Montura Magic 2.0 Jacket può essere riposta nel pratico bag elasticizzato e occupa poco spazio

Il polsino regolabile in velcro è molto pratico

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LESSICO GORE-TEX NEW ACTIVE Capi estremamente traspiranti anche durante attività ad elevato impatto

Gli inserti giallo fosforescente rendono ben visibili

aerobico, impermeabili e antivento nel tempo, morbidi al tatto e molto confortevoli sulla pelle, durante e dopo ogni attività ad elevato impatto aerobico. Il tessuto sottile con densità

I fori laser in prossimità

da 13 a 30 denari, il peso inferiore a 200

delle ascelle, protetti

grammi e l’ingombro minimo rendono

da un’aletta, accentuano

questi capi a tre strati i compagni ideali

una già molto valida

per le attività ad elevata intensità.

traspirabilità

GORE-TEX SHAKEDRY™ Tecnologia a due strati con la membrana GORE-TEX che si trova all’esterno e impedisce l’assorbimento dell’acqua, che scivola via grazie alle sue qualità idrorepellenti.

Polsini e vita elasticizzati e con valida vestibilità anche se non regolabili

Colonna d’acqua 28K

Ultra-leggera, comprimibile e altamente traspirante, ha una fodera interna che garantisce un ottimo comfort sulla pelle. Non inzuppandosi mai, mantiene il capo leggero a tutto vantaggio della performance. GORE-TEX EXTENDED COMFORT Le scarpe con questa tecnologia sono pensate per ambienti chiusi e all’aria aperta con «temperature moderate e più elevate oppure durante attività ad alto impatto aerobico». Sono impermeabili La Dynafit Ultra GORE-TEX SHAKEDRY™ Jacket

nel tempo con una traspirabilità ottimale

150 pesa 150 grammi nella versione maschile

e sono quindi la soluzione perfetta per

e 138 in quella femminile. Costa 330 euro

ottenere un eccellente comfort climatico eliminando il calore in eccesso.

La giacca può essere ripiegata nel cappuccio per essere riposta nello zaino o nei pantaloni

Il sistema ZipOver consente di ampliare la giacca, normalmente caratterizzata da un fit aderente, per mezzo di una semplice zip per indossare un piccolo zaino. La tecnologia SHAKEDRY™, infatti, prevedendo la laminazione della membrana GORE-TEX all’esterno, potrebbe venire compromessa dall’usura provocata dallo sfregamento dello zaino

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materiali La Magic Jacket Montura 2.0 con tecnologia New GORE-TEX Active pesa 290 grammi e costa 279 euro

Materiale più resistente all’usura

Membrana 28K, ret < 3,5

Parte bassa con elastico per migliorare la vestibilità e più lunga dietro per

Due ampie tasche laterali

proteggere dagli schizzi di fango

La colorazione femminile è nero-azzurro ceramica

©Damiano Benedetto

Drop 6 mm

Scarpa Neutron 2 GTX pesa 340 gr (5 in più di quanto dichiarato per la versione senza GORE-TEX)

©Damiano Benedetto

e costa 169 euro

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WILDIFIRE Lo stato dell’arte del tech approach La scarpa che ha inventato la categoria è stata completamente riprogettata dal reparto ricerca e sviluppo di Salewa ed è solo la prima di una serie di novità che arriveranno sul mercato nel 2019, con la collaborazione di Pomoca per le suole e le mescole

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La struttura a rete Exa Shell avvolge il collo del piede offrendo una calzata precisa e un bilanciamento perfetto dell’avampiede. Questa struttura inoltre protegge la tomaia dalle abrasioni.

on c’è dubbio che le scarpe da avvicinamento stiano vivendo una seconda giovinezza. Quello dell’approach è uno dei segmenti dove ogni anno vengono presentate più novità e dove le aziende investono maggiormente in ricerca e sviluppo perché non è facile conciliare le doti di comfort e tenuta su terreni anche morbidi e fangosi richieste dalla fase di camminata con quelle di aderenza su roccia, grip elevato e durevolezza delle mescole. Una sfida che solo qualche anno fa sembrava impossibile. Il trend è molto ben delineato: gli appassionati di montagna hanno bisogno di calzature protettive, ma contemporaneamente cercano sempre più spesso scarpe basse confortevoli per camminare e arrampicare rispetto ai tradizionali scarponi e scarponcini. E Salewa è stato uno dei primi marchi a raccogliere il guanto della sfida con la nascita della categoria tech approach, che ha in Wildfire il modello che da solo potrebbe dare il nome al segmento, imitato negli anni anche da altri marchi. Ora, dopo qualche stagione di onorato servizio, per il 2018 il team di ricerca e sviluppo di Salewa ha ridisegnato completamente la Wildfire. «Le Guide alpine con cui collaboriamo ci hanno spiegato che ormai usano sempre meno scarponi alti perché preferiscono calzature basse e leggere, anche per arrampicare. Quindi ci siamo concentrati a ridisegnare alcuni dei nostri best seller, tra cui la Wildfire, integrando nuove soluzioni tecnologiche e di design che migliorano sia le prestazioni, sia il comfort» spiega Giordano Vechiet, Product Manager Footwear di Salewa.

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Il sistema registrato Salewa 3F System collega la parte interna della scarpa con la suola e il tallone, garantendo flessibilità, supporto e una calzata aderente dove serve di più.

MESCOLE COME VENTOSE La suola è stata uno dei principali passaggi del rinnovamento di Wildfire ed è firmata Pomoca, il marchio ben conosciuto dagli appassionati di scialpinismo per le pelli. «Abbiamo rivisto tutto il processo di progettazione partendo subito da un disegno 3D sul quale discutere le modifiche, una decisione che ci ha permesso di accorciare i tempi per arrivare alla versione definitiva» dice Gabriele Profeta, product manager Pomoca outsoles. Le mescole butiliche, paragonabili alle morbide slick del mondo automotive, sono quelle che offrono oggi le migliori doti di aderenza in assoluto per questo genere di utilizzo e nei test in laboratorio di resistenza allo scivolamento su superfici in granito, la nuova Wildfire mantiene l’aderenza su pendenze di 11 gradi maggiori rispetto alle precedente versione in caso di roccia asciutta, e di 10 gradi in caso di roccia bagnata. Anche nei test interni con i modelli concorrenti Wildfire si è dimostrata tra le migliori della sua categoria e la mescola scelta confrontabile con i prodotti di riferimento fino a oggi.

La nuova mescola butilica utilizzata sulla suola Pomoca Speed MTN nei test di laboratorio ha assicurato grip fino a 28° su roccia bagnata e fino a 39° su roccia asciutta. In punta c’è un’ampia climbing zone e i tasselli centrali concavi rappresentano i punti di pressione del piede, che disegnano una S.

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materiali Per il mondo delle suole Pomoca sta cercando di introdurre una classificazione paragonabile a quella delle pelli, con indicazione dei valori di grip e aderenza (che si sostituisce alla scorrevolezza del mondo skialp) e il battistrada di Wildifre è un punto di partenza per lo sviluppo del concept. La nuova suola è caratterizzata anche da una ampia zona di appoggio anteriore per arrampicare, ottima tenuta sul bordo e tasselli profondi che offrono una tenuta sicura sui terreni morbidi e bagnati e uno scarico efficiente del fango. Come tutti gli altri modelli Pomoca, non manca la caratteristica esse, qui però meno evidente, se non nei tasselli centrali concavi, che rappresentano i punti di pressione del piede in ogni momento della rullata. La struttura EXA Shell è stata rivista con un frame 3D che, in sinergia con il collaudato sistema 3F System, avvolge il piede offrendo, in aggiunta al consueto fit preciso e confortevole, una grande stabilità torsionale ed evita rotazioni del piede all’interno della scarpa negli appoggi laterali. In caso di condizioni bagnate, la Wildfire è disponibile anche in versione GTX, con fodera Gore-Tex Extended Comfort che garantisce impermeabilità e traspirazione.

SALEWA WILDFIRE Suola: Pomoca Speed MTN Mescola: Pomoca Butylic Tomaia: con struttura EXA Shell Sottopiede: Ortholite Allacciatura: Climbing Lacing Peso (uomo/donna): 400 gr / 345 gr
 Drop: 10 mm
 Taglie uomo: 6-12, 13 UK
 Taglie donna: 3-9 UK Colori uomo: cactus, premium navy, black olive Colori donna: rose brown, magnet Prezzo al pubblico: 150 euro

Il sistema di allacciatura Climbing Lacing consente una regolazione accurata nella zona delle dita, offrendo il massimo supporto e prestazioni superiori sui terreni più tecnici.

©Alice Russolo

DALLE PELLI ALLE SUOLE

Salewa Wildfire

Il marchio Pomoca nel mondo dei battistrada non è nuovo. Quello dell’azienda svizzera è piuttosto un ritorno, visto che la famiglia Dufour, i primi proprietari, ha importato per anni i prodotti Vibram e poi sviluppato un suo battistrada, il Dufour appunto, che equipaggiava gli scarponi dell’esercito svizzero. 156

©Alice Russolo


ANTEPRIMA AUTUNNO 2018 E PRIMAVERA 2019 LE PROSSIME NOVITÀ SALEWA CON SUOLE POMOCA Ricca di novità la proposta Salewa per le prossime stagioni. Speed Beat GTX, in vendita da settembre, è pensata per lo speed hiking nella sua declinazione più moderna, a partire dalle nuove suole Pomoca e da una struttura protettiva e leggera che comporta solo 350 grammi di peso. Per Speed Beat è stata usata una mescola butilica e l’intersuola è a doppia densità per mantenere il piede nella corretta posizione di rullata anche dopo molte ore di attività. Non mancano ghetta anti-detriti, fodera Gore-Tex e il collaudato sistema di contenimento del tallone 3F. Il marchio del gruppo Oberalp ha inoltre da poco annunciato il lancio di una versione più spinta verso l’arrampicata di Wildfire per la primavera/estate 2019. Wildfire Edge condivide con la sorella suola e mescole, che si sono dimostrate valide fino al IV grado, ma è stata pensata per essere ancora più performante nella struttura in funzione climbing pur mantenendo le doti di comodità e camminabilità. Il trucco è semplice: il sistema Switchfit, che permette di regolare le Wildfire Edge passando da un assetto per l’hiking a uno per il climbing, con maggior compressione all’altezza delle dita. In pratica basta spostare le stringhe dall’occhiello superiore a quello addizionale, e tirare. In questo modo il piede viene spinto in avanti verso la parte anteriore della scarpa, comprimendo le dita come avviene in una scarpetta per arrampicare. Inoltre è stata inserita l’Edging Plate, una lamina semirigida di rinforzo posizionata nella parte anteriore del piede che aggiunge stabilità direzionale sotto le dita mentre il resto dell’intersuola rimane flessibile per garantire comfort e una rullata naturale quando si cammina.

L’HIKING CON IL TACCO La Alpenviolet GTX è la nuova scarpa da hiking al femminile per il 2019. Per realizzarla si è partiti da accurati studi di ergonomia e biomeccanica del piede femminile. Il team di ricerca e sviluppo di Salewa ha mappato la forma femminile del piede per mettere a punto una piattaforma che offrisse una calzata confortevole e accogliente, in particolare nella zona critica dell’avampiede e del tallone. Il risultato è una scarpa dal profilo più affusolato, ma col collo del piede più alto e largo, e un drop più generoso allineato all’abitudine di molte donne di utilizzare scarpe dal tacco rialzato quando sono lontane dai sentieri di montagna. Anche per Alpenviolet è stata sviluppata una suola Pomoca specifica con mescola butilica e non mancano sistema 3F e fodera Gore-Tex Extended Comfort.

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Il salto dei granatieri Fra i tanti episodi di eroismo che hanno contraddistinto la Prima Guerra Mondiale, uno dei più famosi è sicuramente quello della strenua difesa dei Granatieri del Monte Cengio. La tradizione orale, originata dalle memorie del comandante di brigata Giuseppe Pennella, vuole che piuttosto che arrendersi i granatieri si gettassero nel vuoto, attraverso un’increspatura del terreno, abbracciati ai loro nemici. L’episodio della caduta del monte Cengio fu avvolto, dopo la guerra, da un alone di leggenda. testo di ROBERTO BOMBARDA - foto di ALBERTO FERRETTO

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Un gruppo di amici, una montagna, diversi approcci tecnici. Camminare, scalare, correre e pedalare in un luogo di grande valore storico per misurarsi, affrontare nuovi percorsi divertendosi con consapevolezza e rispetto per un ambiente ancora in gran parte intatto e dominato dalla natura. Luca, Nicola, Federica, Andrea e Davide: cinque amici, un’unica passione, modi diversi per viverla. Il luogo di ritrovo non è una montagna qualunque, ma una Zona sacra della Patria: il Monte Cengio, in provincia di Vicenza, nei territori Sud-Ovest dell’Altipiano dei Sette Comuni, vicino alla sede operativa di Montura che con queste pagine si propone di avvicinare i lettori a questi luoghi così ricchi dal punto di vista paesaggistico, culturale e ambientale. 160


Il fit ergonomico e l’elevata resistenza a strappi ed abrasioni rendono i Vertigo Light Pro Pants (pagina di sinistra) e gli Evoque Light 2 Pants (a destra) capi ideali per l’arrampicata sportiva. Il controllo attivo della traspirazione dato dalla Outdoor Perform
2 T-shirt (a destra) viene abbinato alla resistenza all’usura della Light Pro Pile Jacket (pagina di sinistra) per ottenere il massimo comfort durante gli avvicinamenti e le vie più lunghe. La calzatura Change 93 (scarpa dell’anno Approach dell’Outdoor Guide 2018 di Skialper, foto in basso a destra) assieme alla Dual Soul compongono la linea Spirit, perfetta sintesi del concetto Tech Approach multifunzione. L’avvicinamento anche tecnico, può continuare e trasformarsi in arrampicata senza dover passare alle scarpette quando si affrontano difficoltà classiche.

VIE CLASSICHE SUL MONTE CENGIO Oltre ai rilevanti percorsi storici, il Monte Cengio è noto per i numerosi sentieri escursionistici e per le vie di arrampicata che risalgono le sue bastionate. Tra le più classiche e frequentate ricordiamo: Milan, Millesima, Uomo torcia e i tre porcellini, Banshee ed Anaconda.

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INFO Escursione sul Monte Cengio dal piazzale Principe del Piemonte (raggiungibile in auto) Grado di Difficoltà: facile Dislivello: 300 metri Altitudine minima: 1.286 m slm Altitudine massima: 1.348 m slm Lunghezza: 6 km (andata e ritorno) Tempo di percorrenza a piedi: 3/4 ore (andatura turistica)

Là dove l’altopiano di Asiago ‘precipita’ sulla pianura veneta, si erge il Cengio, una serie di contrafforti che dominano la Val d’Astico. Una muraglia, per chi sale dal Vicentino. Le condizioni di terreno e di clima che si possono incontrare sono le più varie: sterrato, roccia, gallerie… asciutto, umido, ventoso. Le quote non sono eccessive, il punto più elevato è posto a 1.350 metri. I dislivelli, per chi sale dal fondovalle, da Piovene Rocchette e Cogollo, sono comunque interessanti. Gli sbalzi climatici, soprattutto in questa stagione, sono frequenti e intensi, tipico dei luoghi dove le pianure incontrano bruscamente le montagne. L’uscita dei cinque amici si propone di approcciare questi luoghi percorrendo sentieri diversi, con modalità, tempi e punti di vista nuovi per poter poi raccontare ognuno le proprie emozioni e difficoltà condividendo alla fine della giornata una fatica mascherata dal sorriso di chi - per scelta e passione - vive intensamente le proprie montagne. 162


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Con i completi Run Viper e Run Fast (foto a lato) traspirabilità, leggerezza ed elasticità sono portate a una funzionalità di livello superiore. Con soli 110 grammi la Raptor Jacket (nelle due foto in basso) combina la protezione dal vento e dall’acqua a una eccellente traspirabilità (20k/40k), rendendo la giacca ottimale per tutte le attività aerobiche, bike e running. Beep Beep (foto in alto a sinistra) e Flash formano il comparto scarpe Trail Running Montura: dotate della mescola Vibram® Megagrip, offrono un’aderenza senza pari sia sul bagnato che sull’asciutto, alta durabilità ed un equilibrio ottimale tra stabilità e flessibilità per un perfetto adattamento a tutti i terreni.

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La Selce Zip T-shirt assieme alla Basalto Hoody Jacket assicurano comfort termico e un look innovativo nelle uscite in mtb. I Breccia Shorts con fondello in abbinata al Basalto Bermuda conferiscono la massima libertà di movimento e prestazione anche durante i fuori sella. Il design aerodinamico, l’impermeabilità data dal nuovo Gore-Tex® Active with Shakedry e la massima comprimibilità rendono la Flyway Jacket (ultima foto in basso a destra) il capo impermeabile ideale per tutte le attività outdoor aerobiche. Mountain bike utilizzata: BMC Team Elite 02.

La Mulattiera dei Granatieri fu costruita tra il 1917 e il 1918 percorrendo le tracce di un antico ed ardito sentiero. In buona parte percorribile, sfrutta una serie di cenge naturali, alcune gallerie ed è a tratti piuttosto esposta. Il tratto di sentiero di quota 1.351 m comprende la galleria principale, lunga 187 metri e di sezione 3x4 metri, dove venne costruito anche un grande serbatoio d’acqua in cemento. Un itinerario da scoprire, sicuramente affascinante ed appagante.

www.montura.it - www.monturastore.it 165


iniziative

Power to trail Parafrasando il motto di Mizuno, power to perform, abbiamo selezionato tre runner della strada per portarli a provare a correre sul percorso del Vertikal Martìn, in Liguria, con le scarpe e l’abbigliamento della casa giapponese foto di DAMIANO BENEDETTO

i può partire dalla strada per arrivare al trail e allo skyrunning? Sì, naturalmente. Anzi, è proprio dalla strada che arrivano tanti appassionati, che magari hanno iniziato a correre per farsi del bene e, piano piano, le strade della città e l’asfalto rovente si sono trasformati in una prigione per la loro voglia di liberare la testa e il corpo.

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Proprio per capire come si fa la transizione dall’asfalto allo sterrato, che non deve essere necessariamente esclusiva, abbiamo invitato tre runner a provare a correre fuori strada con noi tramite una campagna sui nostri account social media, grazie alla collaborazione di Mizuno che ha fornito scarpe e abbigliamento. Un marchio, quello giapponese, che ben si sposa con la voglia di andare oltre le barriere della città visto che produce sia scarpe da running che da trail. Lo abbiamo fatto, simbolicamente, andando a correre sul percorso del Vertikal di Punta Martìn, dietro Genova e a 7 chilometri in linea d’aria dal mare. Un percorso aspro, tecnico, sulla pietra e sotto il sole rovente. Perché per uscire dall’asfalto e trovare l’avventura non è necessario andare lontano da casa.

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NELLE FOTO \\ Andrea Bandera, Francesca Ferrando e Francesco Ratto (da sinistra)

IL VERTIKAL DI PUNTA MARTÌN L’uscita con materiale Mizuno è stata l’occasione per andare alla scoperta di parte del percorso di questo ormai storico vertical ligure, giunto all’ottava edizione, in programma il prossimo 18 novembre. Con noi c’era anche una delle anime del comitato organizzatore, Alessio Alfier. «La gara è nata perché questi sono i pendii dove giocavamo da bambini e dove i nostri padri venivano già a correre e a cacciare e poi la linea di cresta del Martìn si presta proprio a questo tipo di gara». Partenza a cronometro dal paese di Acquasanta, davanti alla Società di Mutuo Soccorso, che organizza la prova, e alle terme (dove poi ci si tuffa per un bagno rigenerante). In 4,73 km si percorrono 897 metri fino a quota 1.001. E lo sguardo, a novembre, spazia fino alla Corsica. L’anno scorso Gabriele Pace ha fatto registrare il record del percorso con 42’02’’38, cosa aspettate per provare a batterlo? www.vertikalpuntamartin.it

«Io corricchio un po’ da sempre, ho anche fatto atletica da ragazzo, ma vado a correre soprattutto per staccare la spina, ho la fortuna di abitare in centro a Genova e corro nella parte alta della città, al Castelletto, a Righi, dove il verde non manca e la montagna si mescola con le case» dice Francesco Ratto, 34 anni, ortopedico all’ospedale San Martino. Una corsa cittadina con la fortuna di potere inserire qualche tratto di misto o comunque di respirare natura dunque quella di Francesco. «Sì, anche se fino a oggi ho sempre usato scarpe da strada, poi sul numero di aprile di Skialper ho letto con molto interesse l’allegato Outdoor Running e scoperto che a Gressoney si corre il Monterosa Walser Trail, così mi sono iscritto visto che passerò le vacanze da quelle parti, però prima per allenarmi farò un vertical qui in Liguria, ma sono le prime gare trail alle quali parteciperò». Galeotto è stato Skialper o, meglio, la moglie, che gli ha regalato l’abbonamento alla nostra rivista a Natale… Quella di Andrea Bandera non è una storia tanto diversa, cambiano solo i luoghi. Ventinovenne, impiegato nel ramo commerciale di un’azienda alimentare, è di Busto Arsizio, nel Varesotto, ma lavora nella periferia milanese. «Corro prevalentemente in pausa pranzo perché ho la fortuna di avere la doccia

in ufficio, faccio anche qualche garetta, distanza massima mezza maratona, poi l’anno scorso ho provato il primo trail, l’Ossola Trail: per qualche giorno ero a pezzi e non avevo idea di quale strategia utilizzare, però mi sono divertito molto». Una sola esperienza dunque per Andrea, anche se qualche raduno per tapascioni tra erba e fango non se l’era fatto mancare in precedenza… Quella di Francesca Ferrando, invece, è una storia un po’ diversa che ci fa capire come potrebbero diventare quelle di Francesco e Andrea. Siamo a uno step successivo ed è interessante capire come è andata. Originaria di Ovada, nell’Alessandrino, lei correva su strada e poi gradualmente ha scoperto che fuori era più bello e ora corre soprattutto nella natura. Tanto che non si è fatta mancare nemmeno il giro dell’isola di Minorca, alle Baleari, in autonomia correndo e andando in bici o una tappa del circuito mondiale swim & run. Dopo una deliziosa focaccia alla Società di Mutuo Soccorso di Acquasanta, il tempo delle chiacchiere è finito ed è il momento di saggiare la voglia di trail dei nostri compagni d’avventura. Li abbiamo messi alla prova su 500 metri di dislivello, con terreno prevalentemente pietroso e un sole molto caldo. Un modo per testare subito le scarpe e

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OUTFIT E SCARPE

l’abbigliamento. «Sono subito delle pantofole, morbide e comode» scherza Francesco, che ha avuto in dote il modello più cattivo e veloce, la Wave Hayate. «Mi sono iscritto a un vertical e questa è proprio la scarpa che ci voleva» aggiunge. Scherzi a parte la Hayate, bassa sul terreno e relativamente secca proprio per essere veloce e reattiva, è sembrata comunque abbastanza ammortizzata anche dietro a Francesco che, essendo ortopedico, di magagne alle articolazioni dovrebbe intendersene. «Se avessi dovuto chiedere un consiglio a un amico, lo avrei chiesto proprio per una scarpa così». Promossa anche la suola Michelin, almeno su roccia liscia e infida ed erba, i terreni che abbiamo provato. «In salita ho avuto subito la sensazione delle ventose, con la suola che si appiccicava alle pietre» gli fa eco Francesca che, come Andrea, ha ai piedi una Wave Daichi. «Mi sono trovata subito

MIZUNO WAVE HAYATE 4 Per trail runner tecnici alla ricerca di una scarpa veloce e leggera, senza sacrificare il grip e la protezione. La speciale suola Michelin garantisce la massima tenuta, mentre la struttura ribassata contribuisce a tenere il ritmo e si adatta a superfici irregolari, su qualsiasi terreno, anche a velocità estrema e sempre con agilità. Peso: 280 gr (M) / 230 gr (W) Prezzo: 130 euro MIZUNO WAVE DAICHI 3 La scarpa da trail running pensata per affrontare tracciati dalla lunghezza intermedia, ideale per una corsa veloce su superfici dure

NELLE FOTO \\ Wave Hayate 4 (in alto a destra) e Wave Daichi 3 (in basso a destra), le suole a confronto e due particolari della Endura HZ Tee

come roccia e pietrisco. Adatta a chi possiede un appoggio neutro. La scanalatura ad X, posta alla base del sistema X t a Ride, permette alla scarpa di adattarsi alla discontinuità del terreno, tutto a beneficio dell’aderenza. Peso: 320 gr (M) 270 gr (W) Prezzo: 135 euro COMPLETO DONNA Alpha Vent Tee è una T-shirt con dettagli riflettenti e tecnologia Mizuno DryLite che trasferisce l’eccesso di umidità lontano dal corpo per un microclima secco e confortevole che aiuta a migliorare la prestazione (35 euro). I pant short BG3000 Mid Tight, aderenti, sono realizzati in tessuto leggero e traspirante per offrire una migliore performance. La banda elastica interna brandizzata Mizuno fornisce ottimo confort per le corse più lunghe (50 euro). COMPLETO UOMO Endura HZ Tee è una t-shirt con mezza zip frontale per l’aerazione dotata di dettagli riflettenti sulle spalle per offrire grip e tenuta allo zaino. Due tasche posteriori con zip e due in rete (70 euro). Endura 7,5 2in1 Short appartiene alla nuovissima collezione primavera estate 2018 di Mizuno. Gli short sono in tessuto molto leggero con collant interno, che fornisce la compressione delle gambe per corse più lunghe (75 euro). www.mizuno.eu

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bene, aiuta la dinamica di corsa, è comoda e con la tomaia traspirante ma protetta» aggiunge. E Andrea? «Scarpa no problem, non posso che condividere quanto ha detto Francesca, aggiungo che l’ho sentita abbastanza sensibile da sotto sull’avampiede». Una sensazione comune a tutti e tre i nostri testatori. È l’impostazione Mizuno, che privilegia un po’ di sensibilità per leggere il terreno e le sue insidie, un fattore di sicurezza in più, soprattutto su medie distanze, quelle per le quali sono concepite i due modelli. Normale però che chi arriva dal liscio asfalto noti subito questo aspetto. L’abbigliamento è stato messo ancora a più dura prova perché la salita sotto il caldo sole delle 11 di mattina, con temperature prossime ai 30 gradi, è stato il miglior campo di prova. Esame superato. In generale tutti hanno apprezzato la leggerezza e piacevolezza dei tessuti e l’efficacia degli inserti in stile rete delle t-shirt maschili, che assicurano maggiore traspira-

zione sulla schiena. Anche la maglia femminile, pur essendo in un unico pezzo, senza rete, è risultata fresca. I pantaloni da uomo sono 2 in 1, con tight inferiore non troppo fasciante, quelli da donna aderenti in stile ciclista. «I miei hanno anche una tasca con zip dietro, oltre alle due laterali, i loro no» scherza Francesca. Endura 7,5 2in1 Short infatti ha una doppia taschina in mesh per gel o piccoli oggetti in posizione laterale. Però la maglia maschile dietro ha doppio scomparto a zip laterale e due tasche mesh centrali. «Mi domando se mettendo un oggetto un po’ grande come il telefonino non tendano a ballare» si chiede Francesco. Detto, fatto: proviamo a mettere uno smartphone e la sensazione non è diversa, grazie all’elastico che impedisce alla zip frontale di aprirsi oltre un certo punto che mantiene il tutto in equilibrio. A proposito, proprio la zip davanti della maglia maschile è risultata particolarmente efficace in una giornata afosa come quella del 26 maggio. Perché sono i particolari a fare la differenza.

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Summit KOM. La regina della montagna Abbiamo provato a lungo la nuova scarpa New Balance, in arrivo nei negozi a fine mese, scoprendo che grippa come una ventosa, è comoda, protegge e risulta ideale per distanze lunghe, magari non lunghissime

testo di CLAUDIO PRIMAVESI - foto di ALICE RUSSOLO

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on una nomination nella categoria trail della nostra Outdoor Guide, New Balance Summit KOM (acronimo che sta per King of the Mountain) si è guadagnata il podio di categoria. E per questo abbiamo voluto metterla ai piedi di Christian Modena per un test di lunga durata.

GRIP ON THE TOP La prima risposta, che era già stata data dai test della Outdoor Guide, è che il grip della mescola Megagrip è di altissimo livello, in tutte le condizioni, dall’asciutto al bagnato, sia su roccia che fango. «Anzi, nel fango, grazie a disegno della suola e tassellatura, il comportamento è migliore anche della Hierro v2 che l’anno scorso era il modello di riferimento per distanze medio-lunghe» esordisce Christian. Summit KOM si è dimostrata sempre sicura e controllabile, sia per atleti top come Christian che per la pancia del gruppo. La suola è grippante e precisa e i test sul bagnato sono stati fatti su una discesa a ciottoli molto insidiosa e viscida.

Christian, uno degli atleti più forti del panorama trail italiano, fresco vincitore del Trail dell’Orsa e della gara lunga all’Elba Trail, la GTE, ha messo ai piedi sia la versione normale che quella in Gore-Tex per diversi allenamenti durante l’ultimo mese, soprattutto sui sentieri trentini di casa, quelli della Stivo On The Rock, la gara che contribuisce a organizzare. Una montagna, il Monte Stivo, di cui conosce ogni angolo e, naturalmente, sa come le scarpe reagiscono nei diversi passaggi, quindi un test severo. Non contento, ha fatto provare le Summit KOM anche agli amici con i quali solitamente si allena, tutti runner forti ma, naturalmente, non al suo livello in gara.

RETROTRENO CORAZZATO Si è ipotizzato che Summit KOM andasse a sostituire un modello storico come la Leadville, scarpa con vocazione da cento miglia che ha portato al traguardo migliaia di trail runner. In realtà l’impostazione è leggermente diversa rispetto al modello ora fuori produzione, con un

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telaio più sostenitivo, soprattutto alla conchiglia. Per questo Summit KOM potrebbe anche essere una scarpa per un utilizzo più ampio, volendo per qualche camminata a ritmo più lento, questo senza nulla togliere alle doti da corsa: è un di più, non un ripiego! La sensazione di comfort è subito valida. Bisogna però segnalare che l’intersuola in RevLite, la tecnologia New Balance per un rebound più energico e durevole nel tempo, trasmette sensazioni ancora migliori dopo qualche corta uscita, come un pneumatico che richiede un velocissimo rodaggio. Un pegno da pagare (e che dura molto poco) per avere poi una calzatura morbida il giusto, molto confortevole e sostenitiva allo stesso tempo. Il mix perfetto per un utilizzatore di medio livello e, a nostro parere, distanze fino agli 80 chilometri. «È una scarpa molto valida per l’utilizzatore medio, ma da leggere anche come complementare per atleti top e distanze oltre la maratona» dice Christian.

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LINGUETTA MAXI Un aspetto che conferma Summit KOM come ottima scelta per atleti di medio livello è la linguetta molto spessa che, nei nostri test precedenti, alcuni atleti top avevano reputato un po’ troppo oversize nello spessore e a rischio di trattenere l’umidità. Invece a unanime parere degli altri runner la linguetta è stata giudicata comodissima per potere stringere i lacci senza alcuna pressione fastidiosa sul collo del piede.

NEW BALANCE SUMMIT KOM Drop: 8 mm Peso: 310 gr Suola: Vibram Megagrip, chiodi da 4 mm

ROBUSTA E RESISTENTE In generale a risaltare è la sensazione di robustezza e resistenza, garanzia di protezione in gara o allenamento ma anche di lunga durata. «Abbiamo messo le due paia a disposizione alla frusta, con allenamenti intensivi su terreni anche abrasivi, ma tomaia e suola sono ancora in ottimo stato» dice Christian.

Prezzo: 120 euro (140 euro Gore-Tex) www.newbalance.it *in vendita a partire

IN CORSA In azione la Summit KOM si dimostra una valida macina chilometri con un drop da 8 millimetri che aiuta sulle lunghe distanze senza essere mai invasivo e una rullata piacevole. La larghezza all’avampiede non è eccessiva ed è questo che ce la fa preferire per distanze lunghe ma non lunghissime dove il toe box largo aiuta. Ma questo non vuol dire che non possa andare oltre e poi, diciamocelo, su una cento miglia la maggior parte degli atleti usa due scarpe. GORE-TEX Tutte le considerazioni fatte valgono anche per la versione in Gore-Tex, che naturalmente pesa un po’ di più, peso che però non si percepisce tanto. La principale differenza è invece una maggiore rigidità di tutta la struttura. Potrebbe essere una scelta indicata soprattutto per la stagione invernale più che per qualche acquazzone. Per essere sempre… King of the mountain.

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dal mese di giugno 2018


gare

Appennino Trail Cup sempre più veloce Numeri in aumento e livello sempre più alto nelle prime quattro gare del Trofeo BPER Banca Agisko, con atleti in arrivo dall’estero e nazionali FISKY in gara el Trofeo BPER Banca Agisko Appennino Trail Cup siamo già al giro di boa: quattro gare messe in archivio sulle otto in calendario. Dalla pioggia del Trail del Marchesato (al debutto nel circuito) al raduno della Nazionale FISKY all’Amorotto, passando per il sold out dell’Ultra Trail del Mugello, fino agli spettacolari paesaggi della Costiera all’Amalfi Positano Ultra Trail. «Siamo davvero contenti di questa prima parte della stagione - conferma il coordinatore del Trofeo BPER Banca Agisko Appennino Trail Cup, Roberto Mattioli - in una fase che evidenzia un calo degli iscritti, abbiamo mantenuto numeri importanti. Al Mugello per esempio le iscrizioni sono state chiuse venti giorni prima della gara. E anche il livello è salito ancora di più: con gli azzurri presenti all’Amorotto, sono stati battuti tutti i record del percorso». Vediamo allora chi sono stati i protagonisti di questa prima parte del Trofeo BPER Banca Agisko Appennino Trail Cup.

N

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TRAIL DEL MARCHESATO Finalborgo, 4 marzo. Nella gara lunga da 38 km vittoria del local Alberto Ghisellini su Enrico De Ferrari e Filippo Tirone, al femminile gradino più alto del podio per la francese Audrey Bassac davanti a Francesca Canepa e Cecilia Pedroni. Nella 16 km, affermazioni di Fabio Cavallo ed Elisa Giordano. SCOTT ULTRA TRAIL DEL MUGELLO Badia di Moscheta, 19 aprile. La gara toscana è stata anche tappa delle Italy Series. Sigillo vincente di Luca Carrara su Marco Tramet e Davide Schiaratura e di Elisabetta Mazzocco (undicesima assoluta)


NELLE FOTO \\ Alcune immagini dell’Ultra Trail del Mugello ©Stefano Jeantet (sopra) e Cristiana Follador, seconda nella stessa gara (accanto). Lorenzo Naldi vincitore all’Amorotto Trail (a destra)

su Cristiana Follador e Moira Guerini. Nel Mugello Trail successo di Eddj Nani su Daniele Cappelletti e Gabriele Pace, mentre sul podio femminile sono salite Ginevra Cusseau, la svizzera Sophie Andrey ed Elisabetta Negra. AMOROTTO TRAIL Carpineti, 13 maggio. Nell’Appennino Reggiano c’è anche il collegiale della Nazionale FISKY. Nell’AUT, la gara lunga di 68 km, vittoria di Lorenzo Naldi, davanti alla prima lady, Cristiana Follador quindi Michael Caldera, Roberto Rondoni e Davide Contini. Nel Monte Valestra Trail (48 km) a segno Luca Carrara davanti a Davide Scarabelli e Marco Franzini.

Ottava assoluta e regina della gara rosa Katia Fori. Nel San Vitale Trail (20 km), infine, vittorie di Eddj Nani e Cecilia Basso. AMALFI POSITANO ULTRATRAIL Positano, 27 maggio. Vittoria di Giovanni Ruocco in 6h16’03” su Giuliano Ruocco in 6h28’51” e Marco Guglielmi in 6h40’19”, quarto Alex Tucci, quinto Alberto Ghisellini. Nella gara rosa affermazione di Giulia Magnesa in 8h48’50” su Giulia Zanovello in 9h10’27” e Karalee Porter in 9h22’54”. Nel Trail delle Sirene successi di Mario Maresca e Linda Valenti, nei Trail degli Dei di Giovanni Tolino e Annalisa Cretella. 175


controcopertina

LE

M I G R A Z I O N I ,

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O G G I


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