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ANDRZEJ BARGIEL E LA PRIMA DISCESA MIRA
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ottobre 2018 - bimestrale in edicola dall’8 ottobre ATTENZIONE: LEGGERE CON MODERAZIONE, CREA DIPENDENZA
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Foto di MAREK OGIEŃ e BARTEK BARGIEL / RED BULL CONTENT POOL
K2 SKI CHALLENGE IL CAPOLAVORO DI ANDRZEJ BARGIEL 22 luglio 2018: al secondo tentativo il polacco diventa il primo uomo ad avere sciato il K2, là dove molti hanno fallito o hanno perso la vita. Il racconto esclusivo di un’impresa storica, dai preparativi alle emozioni del D-day
È il 30 luglio 2017. Andrzej Bargiel, Janusz Gołąb e Jakub Poburka, tre alpinisti polacchi, stanno tentando di scalare il K2 per realizzare un’impresa mai riuscita prima: dalla vetta Andrzej scenderà fino alla base della montagna con gli sci. Sono partiti al mattino con l’intenzione di raggiungere il campo tre e di spostarsi l’indomani al campo quattro. L’assalto alla vetta è previsto due giorni più tardi, il primo di agosto. Dopo tre ore di arrampicata, però, Gołąb non sta bene ed è costretto ad arrendersi e scendere per tornare alla base. Qualche ora più tardi anche Bargiel e Poburka prendono la decisione di interrompere la salita, a causa del pericolo di valanghe.
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Oltre ottomila metri di quota sul livello del mare. Da sotto, dalla superficie del ghiaccio che calpesti, il freddo ti risale nelle ossa passando attraverso la suola degli scarponi; in alto, nel cielo, un sole accecante ti spacca le pupille e le labbra, seccandoti la bocca. Non riesci quasi a parlare. E poi il vento, teso, freddo e continuo, che viene da lontano e percorre il ghiacciaio del Baltoro, lungo decine di chilometri, senza incontrare nessun ostacolo. A questa quota l’aria è rarefatta, la pressione dell’ossigeno è bassa ed è difficile respirare. Ogni respiro contiene un terzo dell’ossigeno rispetto a quello che si trova a bassa quota. Ogni passo richiede uno sforzo sovrumano e se si rimane qui troppo a lungo, semplicemente, non si riesce a sopravvivere. Si muore. Dalle sconfitte sono nati i più grandi successi ed è stato così anche per Andrzej Bargiel e il suo sogno di sciare il K2. «Sono molti gli elementi che hanno contribuito al fallimento della prima spedizione - ha detto Andrzej a fine luglio, prima di tentare per il secondo anno consecutivo la discesa del K2 -. Prima di tutto, il meteo è stato molto sfavorevole e instabile sin dall’inizio. Le temperature alte mi hanno fatto prendere la pioggia a un’altitudine di seimila metri: mai vista prima una cosa del genere al K2. Le previsioni non erano in grado di segnalarci tutte le nubi convettive e le perturbazioni locali, così ogni giorno avevamo nebbia e precipitazioni non previste simili a temporali. In queste condizioni avremmo magari anche potuto tentare la cima, ma non si
parlava proprio di provare a scendere con gli sci. Avrei dovuto farlo alla cieca, con visibilità prossima allo zero. Inoltre la squadra ha gradualmente iniziato a sgretolarsi e a cedere, ed è arrivato il momento in cui abbiamo semplicemente esaurito le forze e non avevo più compagni di scalata a disposizione. Le vette ci sono e rimangono sempre lì. Si può tornare». Non si può decidere di partire e dare l’assalto a una delle cime più alte e difficili del pianeta da un giorno all’altro. Non basta preparare lo zaino, salire su un aereo, dire al pilota di atterrare ai piedi del K2 e poi da lì salire e raggiungere la vetta. Non è così che funziona. La strada che porta alla cima di ogni grande montagna non inizia ai piedi della parete ma molto prima. Mesi prima. Settimane di preparazione e di allenamento. Richiesta di permessi, preparazione dei materiali, messa a punto e collaudo delle attrezzature, preparazione del cargo e dei bagagli. Finché finalmente non arriva il giorno della partenza. Il team della nuova spedizione del 2018 era composto da Janusz Gołąb, alpinista e scalatore himalayano, costretto ad arrendersi un anno fa per problemi fisici; da Bartek Bargiel, l’ultimo dei dieci fratelli di Andrzej e pilota di droni; da un direttore della fotografia, Marek Ogień; e dal cameraman video Piotr Pawlus. Il processo di preparazione alla spedizione del 2018 è iniziato immediatamente dopo la rinuncia dello scorso anno. Dopo essersi assicurato il budget necessario a ripetere la spedizione, Andrezj ha cominciato a dicembre ad allenarsi in modo mirato per la
Oltre ottomila metri di quota sul livello del mare. Da sotto, dalla superficie del ghiaccio che calpesti, il freddo ti risale nelle ossa passando attraverso la suola degli scarponi; in alto, nel cielo, un sole accecante ti spacca le pupille e le labbra, seccandoti la bocca. Non riesci quasi a parlare
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> L’occhio del drone Un momento della spedizione visto dal drone, che ha avuto un’importanza non secondaria nel successo dell’impresa
spedizione, sui Monti Tatra polacchi. Alcuni periodi in Francia e a Chamonix sono serviti a mettere a punto i materiali e a rifinire la preparazione sulla più alta montagna d’Europa, il Monte Bianco. Una volta in Pakistan il programma prevedeva il trekking fino al Gasherbrum II, un ottomila teoricamente più abbordabile nella zona del Baltoro, sul quale completare la preparazione fin negli ultimi dettagli e l’acclimatamento. Nei primi giorni Andrzej ha perso alcuni chili di peso a causa del cambio di metabolismo. In queste condizioni bisogna fare molta attenzione all’alimentazione e soprattutto a non perdere massa muscolare, perché in alta quota non si avrebbe più la possibilità di riacquistarla, dato che questo processo richiede grandi quantità di ossigeno e di proteine. Devi stimolare il corpo ad adattarsi rimanendo per un certo tempo ad altitudini più elevate per poi scendere alla base a 5.000 metri a nutrirti, idratarti e riposare, prima di tornare nuovamente in alto. Per scalare una montagna di 8.000 metri non basta essere tecnicamente preparati, bisogna anche conoscere bene il proprio corpo, sapendo interpretare i segnali che manda. Nei mesi che precedono la spedizione, durante la preparazione specifica, la bicicletta, soprattutto quella su strada, è una forma di allenamento perfetta. L’attività di endurance e le uscite di lunga durata, con un’attenta gestione dello sforzo, consentono di mantenere costante la frequenza cardiaca per ore. La corsa a piedi, che ad ogni minimo dislivello o cambio di pen-
denza provoca un cambiamento dell’intensità dello sforzo, è meno adatta e non darebbe gli stessi risultati. Oltre al ciclismo su strada, Andrzej pratica anche la discesa con una bici da downhill, che spesso si rivela utile per sviluppare le abilità necessarie per lo sci da discesa come equilibrio e destrezza. Lo scialpinismo è uno sport di resistenza, richiede una grande potenza aerobica, sulla quale si può lavorare andando a correre in montagna. Andrzej Bargiel cerca di fare questo tipo di allenamento, in salita, anche quattro volte alla settimana e spesso termina i suoi allenamenti a notte fonda. Stupisce i turisti che soggiornano sui monti Tatra, dove vive, salendo e scendendo varie volte dalle piste da sci con le pelli di foca, superando o incrociando le stesse persone più volte nell’arco della giornata. La salita al K2 è estremamente impegnativa: è una montagna che richiede un allenamento perfetto e una grande capacità fisica. Ma, se possibile, la discesa con gli sci è qualcosa di ancora più complesso da realizzare. Andrzej si è focalizzato in modo più specifico sul potenziamento muscolare. A ottomila metri l’ossigeno scarseggia, per sciare hai bisogno di un surplus di forza e di energia che ti consenta di reggere le sollecitazioni dello scialpinismo estremo. Si è allenato a lungo a sciare su un terreno molto difficile e in condizioni di stanchezza fisica estrema. Deve essere in grado di combinare tra loro qualità fisiche e tecniche e contemporaneamente elaborare e gestire informazioni relative alla montagna, ai pericoli
Se deve partire, spesso Andrzej sale in bicicletta a Zakopane e pedala fino a Cracovia, dove poi lascia la bici e salta su un treno per Varsavia. Gli succede a volte, per non perdere un allenamento a causa di un impegno, di correre di notte e di terminare l’allenamento al mattino
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SKIALPER imprevisti e al meteo: fattori come l’intensità e la direzione del vento, i cambiamenti di temperatura, la minaccia di nebbia o di precipitazioni, le condizioni della neve, la posizione sulla montagna dei compagni di cordata. Ecco perché oltre alla preparazione del corpo è importante anche quella mentale e saper gestire informazioni e situazioni impreviste relazionandosi con i compagni. Tutte le esperienze accumulate durante l’allenamento sugli sci in montagna, non necessariamente e non sempre in condizioni di bel tempo e di neve ideale, sono fondamentali. Kasprowy Wierch è una cima di 1.967 metri, sui monti Tatra. È nota per le condizioni invernali che possono essere molto difficili e variabili. E proprio per le condizioni estreme che vi si possono trovare, gli alpinisti polacchi si allenano tradizionalmente quasi tutti lì, da decenni. Andrzej ha fatto molta esperienza sui Monti Tatra negli inverni passati, scegliendo apposta le giornate con il clima peggiore, durante temporali e tempeste, per abituarsi agli imprevisti che avrebbe potuto trovare durante la sua spedizione sul K2. Viaggia spesso per lavoro, partecipa a meeting e presentazioni internazionali con i suoi sponsor. I monti Tatra sono la sua casa, la base operativa, la sua palestra di allenamento. Se deve partire, spesso Andrezj sale in bicicletta a Zakopane e pedala fino a Cracovia, dove poi lascia la bici e salta su un treno per Varsavia. Gli succede a volte, per non perdere un allenamento a causa di un impegno, di correre di notte e di terminare l’allenamento al mattino. Andrzej fa di tutto per non saltare nemmeno una seduta del suo programma. Gli allenamenti sui Tatra sono integrati dal lavoro di Guida alpina in Francia, dove la stagione sciistica dura più a lungo. Così, in preparazione per la spedizione al K2, Andrzej ha speso molto tempo sciando in quota a Chamonix e sul Monte Bianco.
> Gigante Il K2, con i suoi 8.611 metri, è la seconda montagna più alta della terra e si trova nel gruppo del Karakorum. È stato scalato per la prima volta nel 1954 dalla celebre spedizione italiana
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L’idea iniziale di acclimatarsi un paio di settimane al G II, cercando di raggiungere la cima, viene presto abbandonata a causa delle avverse condizioni meteo. «Nevicava sempre - racconta Marek Ogién. - I portatori d’alta quota pakistani che ci accompagnavano hanno detto che in 20 anni non avevano mai visto tanta neve». Così Andrzej, Janusz, Bartek e Marek raggiungono Piotr, che li aveva preceduti per predisporre il campo base, al K2. Il 9 luglio il team che dalla Polonia coordina la spedizione del K2 Ski Challenge riceve una email con questo contenuto: Dopo nove ore di trekking siamo arrivati al K2! Il cuoco che ci è stato assegnato non è il massimo, quindi siamo un po’ preoccupati per i nostri stomaci. Bartek e Marek hanno fatto una doccia, riorganizzato le cose ed esposto la bandiera polacca (abbiamo la bandiera più grande tra tutte quelle presenti al campo). Domani, 10 luglio, Jedrek partirà al mattino presto e andrà direttamente al campo due, dove Janusz lo aspetta da ieri. Abbiamo un buon collegamento con i walkie talkie, quindi riusciamo anche a scherzare con lui in modo che non si senta troppo solo, lassù. In questi giorni Janusz è riuscito a spingersi oltre 7.000 metri e a battere la traccia. Andrzej invece ha dovuto restare a riposo al campo base a causa di un forte raffreddore e di un’influenza. Tenete le dita incrociate per lui, speriamo che possa essere in grado di raggiungere il trio nei prossimi giorni. È stato difficile per Andrzej restare forzatamente inattivo al campo base, mentre Janusz era già più alto, ma le sue condizioni non gli consentivano di fare altrimenti. Fortunatamente facevano parte del team quattro sherpa d’alta quota, persone esperte, il cui contributo è fondamentale, che avevano il compito di allestire le corde fisse e preparare la via dove si sarebbe svolta la discesa di Andrzej. I quattro sherpa sono saliti con Janusz Gołąb e sono riusciti a raggiungere il campo due, dove il piano prevedeva di aspettare Andrzej Bargiel. Quando Andrzej si è sentito meglio ed è riuscito a pianificare la sua salita, è capitato un altro imprevisto che ha ritardato ulteriormente la sua partenza verso l’alto. Questa volta i problemi erano al Broad Peak dove, a
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Andrzej va veloce Nel 2013 Bargiel è stato tra i pochissimi a scalare lo Shishapangma, in Tibet, e a sciare dalla cima di 8.027 metri fino alla base. L’anno successivo ha stabilito il record di velocità di salita e discesa con gli sci del Manaslu (8.163 metri). Poi è stato il primo al mondo a sciare integralmente il Broad Peak, dalla cima fino alla base della montagna, senza mai togliere gli sci. Nel 2016 ha ottenuto forse il successo più straordinario: la salita di tutti i 7000 dell’ex-Unione Sovietica, il cosiddetto Snow Leopard, premio riservato agli alpinisti in grado di portare a termine la collezione di tutte e cinque le cime. In soli 30 giorni Andrzej Bargiel è riuscito a fare meglio di due fuoriclasse come Andrei Molotov e Denis Urubko, che ne avevano impiegati 42. Nel 2010, inoltre, ha stabilito il record di salita sull’Elbrus, con i suoi 5.642 metri la vetta più alta e conosciuta del Caucaso, durante l’Elbrus Race, una delle più importanti competizioni di skyrunning.
un’altitudine di 7.600 metri, si erano perse le tracce di Rick Allen, uno dei migliori himalaysti del mondo. Così le energie di tutti si sono concentrate sulla ricerca e il salvataggio, per fortuna andato a buon fine e, soprattutto, è stato utilizzato il drone guidato da Bartek, che si è rivelato fondamentale. Andrzej è infine potuto tornare a salire per concludere l’acclimatamento e riprendere le ricognizioni della via che intendeva sciare in discesa: si tratta di una combinazione di linee piuttosto complessa, che ricalca solo in alcuni tratti i tracciati in salita delle vie Messner e Kuckucka. Il tratto chiave è un collegamento in traverso individuato con il drone, che però non è mai stato percorso prima da un essere umano: è quindi fondamentale avere idea delle difficoltà che si andranno a incontrare e delle traiettorie da tenere: muoversi in parete con gli sci non concede margini di errore o possibilità di ritirata. Per questo Andrzej è salito al campo tre e ha percorso l’ultimo tratto del-
> Seracchi La difficoltà della discesa del K2 è dovuta anche ad alcuni passaggi con enormi seracchi che incombono sopra la testa
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la discesa che si sarebbe trovato a ripetere durante il tentativo di discesa dalla cima della montagna: per compiere una run di messa a punto della linea, delle attrezzature e del suo stato d’animo. «Ero salito due giorni prima - racconta Andrzej -. Non ero ancora a posto dopo l’influenza, ma in qualche modo sono arrivato al campo tre. Mi ci sono volute circa nove ore, credo. Dieci, forse. Janusz è sceso, perché erano già troppe tre notti consecutive in quota, quindi l’opzione migliore per lui era quella di scendere a riposare. Sono rimasto da solo. Ho passato una notte difficile. Naturalmente ho dovuto cucinare, sforzarmi di mangiare qualcosa: questo terzo campo si trova in una zona abbastanza esposta, su una sporgenza rocciosa fatta in modo che prendere la neve dall’esterno della tenda per scioglierla e ottenere dell’acqua è un’operazione penosa e sfiancante. È difficile muoversi liberamente, bisogna sempre rimanere legati con la corda, ma in qualche modo la notte è passata e la mattina mi sono alzato e ho provato a tracciare la linea di
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discesa dal campo tre alla base della parete. È stata una sfida terribilmente impegnativa per me, perché inizialmente pensavo che non sarei sceso lungo la linea di salita. Invece sono tornato all’idea dello scorso anno. Ho portato molta attrezzatura: corde, viti da ghiaccio, ancoraggi da neve per attrezzare i tratti più complessi da percorrere un’altra volta durante la discesa. Sono partito alle nove e mezza di mattino ed è stata una grande avventura. Sono passato in una zona in cui probabilmente non è mai transitato nessuno e questa linea attraversa proprio il cuore della parete. Nella prima sezione dovevo soprattutto verificare che la neve fosse stabile. Si tratta di un passaggio ripido e stretto fino a raggiungere la traversata della via Messner, esattamente al centro di questo muro che conduce poi alla via Kukuczka. Io percorro le vie al contrario e devo soprattutto cercare i collegamenti, individuare le linee e i passaggi, le traiettorie da solcare con gli sci. Non ho margine di errore. Sono entrato in una conca sopra la quale incombono dei seracchi enormi, duecento metri più in alto, che ogni tanto crollano, spazzando il pendio. È una zona molto pericolosa, esposta ai pericoli oggettivi, non c’è niente che si possa fare per eliminarli. È una specie di roulette russa. L’unica cosa che si può fare per minimizzare il rischio è rimanere sotto ai seracchi il meno possibile. Quindi non volevo assolutamente salire da lì: un conto è rimanere un paio di minuti sotto i seracchi andando in discesa in traverso con gli sci; un altro conto è rimanerci almeno tre ore, che è il tempo minimo che ci si impiega in salita. Sono riuscito a trovare un passaggio percorrendo sezioni molto ripide con rocce e ghiaccio. E infine sono arrivato sulla via Kukuczka. Conosco questa via dall’anno scorso, perché ero salito da lì, quindi a quel punto tutto è stato più facile, avevo i miei riferimenti. Bartek nel frattempo aveva già raggiunto il campo tre con un drone ed è stato sorprendente scoprire la possibilità di volare così in alto, mentre lui pi-
> Ghiaccio Andrzej Bargiel impegnato a risalire una parete ghiacciata durante le fasi di ricognizione prima della discesa
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lotava dalla base, come si fa con tutti i droni muniti di telecamera. Ha scattato foto fantastiche. Ho seguito la via Kukuczka in discesa, loro filmavano tutti soddisfatti». Il raggiungimento della vetta non è che un giro di boa: è da lì che comincia l’avventura vera e propria. Il tratto chiave è rappresentato da una sezione di raccordo tra due vie - la Cesen e la Messner - su cui incombe un’enorme seraccata che attraversa il centro della parete passando sopra un pericolosissimo salto nel vuoto. Sciare in quel tratto è estremamente complicato, non è consentito sbagliare. Dopodiché la discesa si spinge in una zona lontana rispetto alla linea di salita e al versante normalmente percorso dagli altri alpinisti. Qui le possibilità di ricevere aiuto in caso di bisogno sono praticamente nulle. Non c’è spazio per incertezze o errori di itinerario. Si è totalmente soli. Per questo è richiesta una perfetta visibilità. Prima di partire c’è tempo per selezionare e controllare l’attrezzatura necessaria per l’assalto e la discesa dalla vetta. «Stiamo preparando l’attrezzatura - ha dichiarato Andrzej qualche ora prima dell’assalto finale -. Sono indeciso su quali scarponi usare. Rispetto all’anno scorso, stavolta me ne sono sono fatti fare un paio di una taglia più grande per poter indossare una calza calda, ma solo quando sono arrivato al campo base mi sono reso conto che hanno uno scafo lungo e quindi non si adattano agli sci che Sebastian Litner mi ha preparato. Ho cinque paia di sci, ognuno con una grafica diversa, ognuno con una propria storia, un significato e un messaggio. Ho scelto di usare quelli con il disegno che raffigura la mia famiglia. Sono disegnati tutti i miei cari, i miei genitori, le mie sette sorelle e i miei tre fratelli. Ho scoperto che pensare a loro mi dà forza, è come si mi mettesse le ali. E soprattutto stavolta mi porterà tanta fortuna, ne sono convinto.
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Temo di dover usare gli scarponi dell’anno scorso, ma sono comunque convinto che tutto funzionerà alla perfezione. Io ci credo». Quello a cui Andrzej Bargiel non può trovare una soluzione alternativa, invece, è il meteo, che non è dei migliori. A causa di qualche acciacco, non è stato in grado di sfruttare la prima finestra di bel tempo, che ormai è passata, e questo lo irrita un po’. «Abbiamo posticipato di giorno in giorno la decisione di salire, mi sono consultato con le altre spedizioni e ognuna ci dava una previsione diversa. Noi avevamo il nostro uomo per il meteo: si chiama Pyka ed è polacco, ci ha sempre fornito previsioni abbastanza precise e le sue sembravano le più affidabili tra quelle che circolavano al campo base». Alla fine, Andrzej e Janusz decidono che l’assalto alla vetta sarà il 21 luglio. Vengono mandati avanti tre sherpa per attrezzare il delicato tratto tra il Campo 3 e il Campo 4, il più temuto. Purtroppo, però, dopo due giorni, quando secondo i programmi doveva essere sistemata la sezione finale di questo passaggio, al campo base arriva il messaggio che gli sherpa hanno finito il cibo e non sono più in grado di andare avanti. La situazione diventa complicata, la tensione aumenta. Nella sfortuna, arriva la notizia che un quarto sherpa, che in precedenza aveva avuto problemi di stomaco e non era partito con gli altri tre, ora si sente meglio ed è pronto a raggiungere gli altri con nuove provviste. Arriverà al campo due e dormirà lì; il giorno dopo andrà al campo tre, dove si riunirà con gli altri sherpa e consegnerà loro da mangiare; quindi tornerà alla base. Janusz Gołąb lo seguirà a un giorno di distanza, poi toccherà ad Andrzej. Poco dopo la sua partenza, però, dal campo base si perdono i contatti con lo sherpa. Non si sa a che punto si trovi. La radio che gli è stata affidata ha le batterie scariche e anche l’altra che portava con sé si è scaricata in fretta. La situazione, insomma, è di nuovo critica e al campo base si litiga su chi lo abbia fatto partire in quelle condizioni. Se non si dovesse riuscire a rintracciarlo, infatti, sarebbe necessario muoversi per andare a cercarlo e questo potrebbe far posticipare l’attacco finale o, peggio, annullare i piani per l’assalto alla vetta. Il rischio di dover tornare a casa senza aver nemmeno tentato di raggiungere l’obiettivo è incombente e rende l’atmosfera molto pesante. Il meteo, poi, è ancora incerto e instabile, e le previsioni sono discordanti. Secondo alcuni, potrebbero cadere anche venti
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centimetri di neve. A questo punto, racconta Marek Ogień, Janusz Gołąb comincia a pensare che anche quest’anno Andrzej non riuscirà a sciare il K2 per intero. Ancora una volta è Bartek Bargiel, il fratello di Andrzej, a risolvere il mistero dello sherpa disperso. Fa volare uno dei suoi droni fino al campo due, avvicinandolo il più possibile alla tenda dove potrebbe trovarsi l’uomo, in cerca di segni di vita. Ma quelle che riesce a individuare sono solo alcune tracce intorno alla tenda. Bartek non si dà per vinto e decide di fare una nuova ricognizione, e mentre il drone arriva a pochi metri, dalla tenda spunta il volto sorridente dello sherpa. Il pericolo è scampato, non c’è bisogno di cambiare i piani. Come previsto, quindi, Janusz parte la mattina seguente. Andrzej può iniziare a fare lo zaino per salire. «Telecamera, pila frontale, cibo, batterie extra, sci, scarponi, insomma il necessario - racconta Marek Ogień -. Alle sei del pomeriggio era tutto pronto e dopo cena si è messo in cammino sul ghiacciaio per salire. Io e Bartek lo abbiamo accompagnato per un po’. Nel frattempo Janusz, che si trovava al campo due, ci ha comunicato via radio che il cibo stava per finire. Così io sono tornato alla base per prendere altre provviste e poi sono risalito di nuovo fino a raggiungere Andrzej. Col cuore che batteva a mille all’ora e il fiatone ho raggiunto Bartek e Andrzej e siamo saliti ancora un po’ insieme lungo la morena. Siamo arrivati fino all’inizio del ghiacciaio, al punto in cui inizia la vera e propria salita alpinistica del K2. Qui, secondo i piani, avremmo dovuto salutarci». Provate a immaginare. Tre uomini, nella semioscurità, stanno in piedi in uno slargo del sentiero, all’inizio del ghiacciaio ai piedi del K2. Mentre Andrzej si infila i ramponi e si sistema gli sci sullo zaino, c’è il tempo per le ultime indicazioni. Tra pochi minuti i tre
si separeranno: Marek e Bartek scenderanno verso il basso per tornare al campo base, Andrezj riprenderà a salire verso l’alto. E sarà solo, almeno fino a quando raggiungerà Janusz al campo due, qualche centinaio di metri di dislivello più in alto. Sono questi i momenti in cui i sentimenti si mescolano e si confondono: da un lato, la voglia di trattenere Andrzej, metterlo al riparo dai pericoli che potrebbe incontrare; dall’altro, il desiderio di lasciarlo andare verso la realizzazione del suo sogno. Ci sono il freddo della notte e la luce bianca della luna, il ghiacciaio risplende. Qualche fiocco di neve leggero cade dal cielo. Solo il rumore delle pietre che i tre smuovono con gli scarponi e lo scricchiolio della stoffa delle giacche a vento interrompono il silenzio assoluto. Un ultimo sbrigativo abbraccio. Poi Andrzej se ne va. Inizia a salire. L’assalto finale al K2 è incominciato. Ce lo racconta Andrzej, di persona. «Procedo alla luce della pila frontale. All’inizio nevica un po’. Cammino con difficoltà. Man mano che salgo, però, il terreno migliora. Le condizioni della neve sono quelle che mi aspettavo. C’è ghiaccio, è duro, e con i ramponi riesco ad andare avanti abbastanza bene. Dopo quattro ore e mezza raggiungo il campo 2. C’è Janusz che mi aspetta. Mangiamo qualcosa, ci idratiamo e dopo un po’ ci infiliamo nei sacchi a pelo. Ci ho messo parecchio a salire, più del previsto, essendo arrivato a mezzanotte. Sono partito troppo tardi. Nell’altra tenda dorme lo sherpa che era sparito. Sta bene». Il giorno dopo c’è di nuovo un po’ di preoccupazione al campo base, ancora per lo stesso motivo. Di prima mattina Andrzej si è collegato con la squadra via radio e ha chiesto notizie dello sherpa che poche ore prima era partito per scendere. Al campo base non si hanno sue notizie. Si scruta nervosamente la parete con il
> Momenti Durante una spedizione come quella al K2 di Bargiel e compagni il tempo passa lentamente e gli imprevisti sono sempre in agguato, normale dunque che lo stato d’animo cambi di giorno in giorno
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> Veterano Andrzej Bargiel non è nuovo a spedizioni himalayane, qui in un ritratto nei pressi del Shishapangma nel 2013
cannocchiale, ma non si vede nulla, d’altronde ci sono parecchie nuvole nel cielo e alcuni tratti ciechi non sono visibili da lì. Dalle informazioni fornite da Andrzej risulta che lo sherpa sia partito per scendere alle sei del mattino. Due ore e mezza dopo di lui non c’è traccia e nemmeno un contatto radio. Il timore è che durante la discesa possa essere scivolato o abbia avuto un incidente. «Abbiamo sorvolato la via dall’inizio con il drone - racconta Marek Ogień - abbiamo cercato lo sherpa con l’aiuto della telecamera. Non si vedeva nessuno né si vedevano tracce. Non sapevamo cosa fosse successo. Poco prima, intorno alle 7:30, in alto è scesa un’enorme valanga che ha spazzato la traversata Messner, un tratto di quelli che Andrzej doveva scendere con gli sci e che gli sherpa stavano attrezzando. Una valanga davvero di grandi proporzioni, imponente, rumorosa. Da giù ci siamo spaventati molto: se la valanga fosse scesa qualche ora più tardi, avrebbe travolto tutti gli sherpa al lavoro per attrezzare la via. Siamo rimasti tutti molto scossi». Naturalmente anche Andrzej ha visto venir giù la valanga. «Sono rimasto terrorizzato, si sa che quel tratto è molto esposto e pericoloso. Se ti trovi lì, in quella sezione, in quel momento, sei condannato a morte. Peraltro, anche l’anno scorso, in quello stesso punto, era scesa una valanga terribile: ci è passata così vicino che siamo riusciti a filmarla. In quei momenti si spegne l’entusiasmo per qualsiasi cosa. E così è stato anche stavolta. Ho messo la testa fuori dalla tenda e ho girato un video, ma sono rimasto veramente allibito. Ho avuto il cuore in gola per trenta secondi». Il crollo dei seracchi e le valanghe rappresentano una minaccia incombente e ingovernabile. Una specie di roulette russa. Quando ricevono conferma via radio dal Campo 3 che nessuno sherpa è rimasto coinvolto, i membri della Ski Challenge K2 tirano un sospiro di sollievo. È tutto a posto, i lavori per attrezzare la via fino al campo quattro sono ancora in corso. In qualche modo il crollo del seracco in bilico e la valanga sono una buona notizia: la linea di salita ora può anche essere considerata più scarica e sicura di prima. Lo sherpa disperso arriva finalmente al campo base a fine mattinata. È molto provato, stanco, sfinito. Ha il casco rotto e lo zaino strappato a causa della caduta di alcune pietre durante la salita dei giorni prima. Fortunatamente ora è al sicuro, sano e salvo. Andrzej e Janusz non devono più preoccuparsi per lui. Bargiel e Gołąb si trovano al campo due, pronti a salire e a tentare la cima del K2. I tre sherpa, dopo avere quasi finito il loro lavoro verso il campo quattro, si trovano al campo tre, pronti a scendere e a lasciare spazio ai due alpinisti polacchi. Resta solo da completare il posizionamento delle corde fisse, Janusz e Andrzej dovranno arrangiarsi. E, come sempre, non mancano i problemi. Questa volta sono molto gravi, come racconta Andrzej. «Arriviamo al campo tre e proprio nel momento in cui stiamo sistemando la tenda per la notte, Janusz sente come un colpo secco alla schiena. Un colpo d’ascia. Può essere un’ernia al disco o chissà cosa, forse un problema muscolare, il colpo della strega. Non riesce a muoversi, è sdraiato e
> storie io sto andando in confusione totale. Mi chiedo cosa stia accadendo. Boh, forse domani andrà meglio e potremo rimetterci in marcia. Cucino qualcosa, mi prendo cura di Janusz per quel che mi è possibile. Poi, finalmente, ci addormentiamo». Le condizioni di Janusz però non migliorano. Il mattino dopo Andrzej trasmette via radio al campo base un breve messaggio in cui annuncia che Janusz sta ancora male e a causa del mal di schiena non può muoversi. Non riesce nemmeno ad alzarsi in piedi. Le speranze che si tratti di qualcosa di passeggero sono svanite. Nel frattempo Andrzej e Janusz vengono informati che la spedizione commerciale in azione sul K2, che sta salendo da un altro versante, prevede di arrivare in cima alla montagna entro due giorni, tra le nove e le dieci del mattino. I calcoli e i piani vengono in fretta messi da parte quando appare evidente che Janusz sta peggiorando: non è in grado nemmeno di stare in piedi, impossibile pensare di farlo camminare. Questo complica la situazione, il piano di Andrzej di riportarlo indietro e farlo scendere, per il momento, è irrealizzabile. Andrzej e Janusz analizzano tutte le opzioni possibili. Si chiedono perfino se sia il caso di predisporre l’intervento dell’elicottero. Infine decidono di fare risalire gli sherpa per aiutare Janusz in discesa, in questo modo Andrzej potrà continuare la sua ascesa. Escluso il fatto che si trovi a circa 7.000 metri con il mal di schiena, Janusz sta abbastanza bene, non sembra in pericolo di vita, è in grado di trascorrere una giornata da solo al campo tre. È lui per primo a rassicurare Andrzej: l’assalto alla vetta non si deve fermare. Anche perché entra di nuovo in scena l’ormai celebre drone di Bartek Bargiel. Dal campo base trasporta i medicinali prescritti dai dottori fino al campo tre, a oltre 7.000 metri. La situazione sembra sotto controllo, Andrzej sale da solo verso il campo quattro, l’indomani potrà attaccare la vetta. Una volta che ha montato la tenda, suo fratello gli fa recapitare con un secondo viaggio del drone una telecamerina GoPro che ha dimenticato di prendere e con la quale Andrzej potrà documentare i momenti finali della sua impresa, i più attesi e, si spera, i più emozionanti. Infine il drone risale per un’ultima volta al campo quattro, questa volta per consegnare delle batterie di riserva cariche per i walkie-talkie. Tutto è pronto. Andrzej avrà la possibilità di tentare la vetta.
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«Ho pensato: okay, vado. Prendo la tenda, il sacco a pelo, il fornello, del cibo, e poi corde, piccozze, viti da ghiaccio e moschettoni: tutto quello che può servire, perché, alla fine, la via non è stata preparata completamente. Se il tempo non fosse stato ideale e il cielo avesse iniziato a coprirsi, avrei dovuto avere tutto con me, in modo da potermi fermare e aspettare un miglioramento della visibilità. Prima di partire ho sciolto della neve e ho fatto bollire dell’acqua da bere per Janusz. Lì, in tenda, c’era tutto ciò di cui poteva avere bisogno. Aveva anche dell’ossigeno d’emergenza: gliel’ho lasciato nel caso si fosse sentito peggio». A questo punto il racconto di Andrzej si fa in presa in diretta. «Parto. Salgo dal campo tre al campo quattro tirandomi sulle corde fisse con le braccia. Le corde ci sono solo all’inizio, poi finiscono. Non è piacevole muoversi slegato in un tratto così pericoloso. La neve è marcia. Scendono fiocchi bagnati dal cielo, che il vento stacca dalle pareti e fa volare per aria, piccoli pezzi di ghiaccio partono dalla roccia e mi cadono addosso. Decido che è più sicuro muoversi sulle pietre invece che sulla neve. Continuo a salire e vedo che la situazione è accettabile. Dopo quattro ore sono quasi in cresta, fuori dalla parete, a quel punto mi rimane un tratto da compiere dove trovo un vecchio deposito con corde, moschettoni, piccozze, prendo altri quattrocento metri di corde e salgo su per un corridoio di neve e rocce, appena sotto la cresta. È abbastanza tecnico, non lo attrezzo, preferisco portare con me le corde: quando scenderò, dovessi averne bisogno, mi calerò. Tengo i quattrocento metri di corda avvolti attorno al collo, altri cento sono nello zaino. Sono cordini leggeri e sottili in polipropilene. Sbuco sulla cresta con il vento. Sistemo la tenda del campo quattro molto rapidamente. Comincio ad avere freddo. Mi infilo nel sacco a pelo, butto a terra tutte le cose. Prima le metto sulla neve, poi le porto dentro, le spargo sul pavimento della tenda. Scopro di aver perso la crema solare per strada. Sono preoccupato perché i raggi ultravioletti sono così forti da bruciare la pelle, comunque mi metto al riparo nella tenda e non ci penso più. Tanto, a questo punto... Mi preparo da mangiare e mi scaldo. Dormo sdraiato sulle corde, perché non mi sono portato il materassino per evitare di tirarmi dietro troppe cose ingombranti. Indosso la tuta d’alta quota in piumino, tutto sommato è molto piacevole stare qui. Sono allegro, il tempo è buono. Sta calando la sera.
La spedizione americana e quella nepalese stanno salendo la montagna per la via dello Sperone degli Abruzzi e camminano da qualche parte a un centinaio di metri dalla mia tenda. Riesco solo a intravedere le luci che si avvicinano al Collo di Bottiglia, il tratto chiave dell’ultima parte della salita. Si tratta di un salto sotto uno sperone di ghiaccio molto grande, il tratto più tecnico durante la salita al K2. È davvero impressionante. Bello, il tramonto. Mi addormento con l’intenzione di alzarmi all’una di notte e partire per andare in cima entro le tre. Oppure, al contrario, scendere, se non ci saranno le condizioni. Mi tengo sempre in contatto con i ragazzi via radio. Chiedo loro le previsioni, gli aggiornamenti. Tutto va per il meglio. A questo punto sono molto nervoso, sento la vetta molto vicina. È la mia prima notte a un’altitudine di quasi ottomila metri, sono davvero al limite dell’atmosfera, qualche centinaio di metri di quota più su e la vita diventa impossibile. Non è un luogo per gli uomini, questo. Sono solo, eppure mi sento bene, forte. Cerco di addormentarmi. Dormo, Ma mi sveglio spesso, ogni ora». Al campo base, intanto, il team è concentrato sulle previsioni del tempo e sui movimenti delle altre spedizioni sulla montagna. Dopo un breve tratto in cresta, la via Cesen si unisce per il tratto finale con la via dello Sperone degli Abruzzi. Nell’ultimo passaggio Andrzej avrà a che fare anche con altre persone, a loro volta impegnate nello sforzo per arrivare in cima alla montagna. Saranno ore di grande tensione e anche di confusione, di concitazione. È l’assalto finale. Andrzej Bargiel sale verso la vetta del K2 per poi scendere fino alla base con gli sci ai piedi. Ecco il suo racconto. «La mattina mi alzo, metto gli scarponi e sistemo le batterie del riscaldamento interno. Ho un sacco di batterie di riserva, batterie al litio che non si scaricano in caso di gelo. È fondamentale che sia così. Prendo le due pile frontali. Faccio bollire l’acqua. Devo portarmi un litro e mezzo d’acqua, come minimo. Ho due thermos e li riempio. Prendo il cibo, qualche barretta energetica, delle maltodestrine in gel, mangio qualcosa da una busta liofilizzata. Ne raccolgo una a caso tra quelle che ho: è agnello, è molto buono. A queste altitudini normalmente non si ha voglia di mangiare né di bere, si ha poco appetito. Invece io
Le emozioni di 2018 K2 Ski Challenge in audiolibro grazie a Storytel Questo articolo è stato realizzato grazie alla collaborazione con Storytel, che ha prodotto l’esclusivo audiolibro ATAK2 sull’impresa di Andrzej Bargiel, raccontato dalla voce di Matteo De Mojana. Storytel è la prima piattaforma europea di audiolibri. Considerato il Netflix degli audiobook, il servizio di streaming in abbonamento - attivo dal 27 giugno - consente agli utenti un ascolto illimitato, attraverso un’app proprietaria per smartphone e tablet, disponibile per iOS e Android al prezzo di 9,99 euro, con 14 giorni di prova gratuita (30 per chi si registrra su www.storytel.it/skialper). Storytel ha lanciato il suo servizio in Svezia nel 2005 e oggi conta oltre 80.000 audiolibri in tutte le lingue (con oltre 5.000 novità l’anno), più di 40.000 audiobook in inglese e circa 1.500 in italiano. Best seller, novità, thriller, saggistica, rosa, gialli, audiolibri per bambini e ragazzi, biografie e molto altro. Circa 20.000 titoli in inglese del catalogo sono disponibili anche per la lettura in formato ebook. L’applicazione consente di scaricare gli audiolibri e gli ebook anche in modalità offline per garantirne l’accesso in assenza di connessione internet. Storytel Italia ha stretto accordi con i maggiori gruppi editoriali e moltissimi dei più importanti editori indipendenti presenti sul mercato, tra i quali il Gruppo Giunti (che comprende i marchi Bompiani e Disney e con cui Storytel Italia ha firmato un accordo di esclusiva), Mondadori (con Rizzoli, Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer), Marsilio, Feltrinelli, Iperborea, Minimum fax, Fazi, Manni, Astoria, Codice, SEM e non solo. La piattaforma si caratterizza anche per l’alta qualità della sua produzione: punto di forza della proposta di Storytel saranno i titoli in esclusiva, prodotti internamente con i migliori narratori, alcune delle voci più famose del mondo del teatro, del doppiaggio e della lettura ad alta voce. E non mancano l’avventura e l’outdoor, con titoli esclusivi come ATAK2…
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> storie mi sforzo di mangiare, bevo una bevanda isotonica, un tè, un caffè, metto tutto nello zaino e mi vesto. Per fare queste operazioni serve un sacco di tempo. Già solo infilare gli scarponi è un processo lungo e penoso. Per sistemare il riscaldamento interno devo fissare la batteria con il nastro americano che tengo arrotolato sul bastone da sci che però ho lasciato all’esterno della tenda. Devo uscire a prenderlo. Comincio a scaldarmi i piedi con il fornello, quello con il quale cucino e sciolgo l’acqua dalla neve. È tutto molto laborioso, in più questo fornello non funziona neanche bene. Ci mette troppo tempo a fare bollire l’acqua, anche perché c’è pochissimo ossigeno e la temperatura di ebollizione è molto più bassa, a queste quote. Mi guardo i piedi e improvvisamente vedo delle fiamme: la gamba del mio pantalone sta bruciando e il fuoco arriva fino al soffitto. Spengo il fuoco rapidamente. Sono sotto shock e ora ho un buco sul lato della tuta. Fortunatamente niente di irreparabile. Finisco di vestirmi. Indosso l’imbragatura, prendo le corde, le viti da ghiaccio, i moschettoni, la piccozza, bevo un ultimo sorso e poi vado. Esco dalla tenda, la chiudo, assicuro gli sci allo zaino e poi parto. Si sono già fatte le quattro, purtroppo. Non proprio l’ora migliore per iniziare a salire. Ho anche acceso uno Spot, il localizzatore satellitare a cui ho messo delle batterie nuove. Salgo. Sono davvero entusiasta di essere qui. Metto gli scaldini chimici nei guanti, che sono muffole molto calde. Ho anche un abbigliamento speciale, progettato appositamente per lo sci in alta quota. Con i tutoni in piuma che si usano abitualmente in Himalaya fa troppo caldo, così Wojtek Pajak, della società Pajak, ogni anno realizza per me questi abiti: per ogni spedizione prepara un modello speciale, che deve svolgere una funzione specifica. Lui è prima di tutto uno sciatore, mentre le tute himalayane sono create principalmente per gli scalatori, per chi sale.
Io devo anche scendere e sciare, quindi Wojtek sa di cosa ho bisogno e ha preparato questa tuta facendo tutte le modifiche e gli adattamenti necessari a me. È perfetta. Continuo a salire. Ho un casco con una lampada frontale. È ancora un po’ buio. Arrivo al punto dove la mia via si collega con quella dello Sperone degli Abruzzi, percorsa da tutte le altre spedizioni. Ero solo sulla via Cesen, dietro di me ora c’è una spedizione americana-giapponese. Arrivo al Collo di Bottiglia. È impressionante, storicamente è il passaggio chiave della salita. Purtroppo ho sempre meno energia, questo è dovuto principalmente al fatto che non ho ossigeno supplementare. Faccio quaranta passi e mi devo fermare un po’ per recuperare, sono stanco, in realtà, anche per la lunga permanenza in alta quota: quella passata era già la terza notte. Questa sensazione di debolezza non mi piace. Di solito cerco di fare sempre tutto in un giorno, salire e scendere, se ci riesco. Purtroppo la via e la montagna lo rendono impossibile. Ora conosco anche quest’ultimo tratto, per me era molto importante vederlo. Oltre agli americani e ai giapponesi, davanti a me ci sono altri scalatori. Non riconosco nessuno, hanno tutti la maschera con l’ossigeno e nessuno può parlare con gli altri. È una cosa senza senso, è come annientare qualsiasi gioia, come togliere il piacere di salire. Ognuno è solo, come sulla Luna. Queste persone hanno occhiali, maschere e caschi e non sanno nemmeno cosa stia succedendo intorno a loro, non sentono la montagna, salgono come automi. Ho conosciuto tutti alla base della montagna, ora li vedo qui ma non li riconosco. Cerco di superare questi alpinisti uscendo dalla traccia e passandoli di lato. Alla fine arrivo sotto il tratto ripido. Procedo attraverso il Collo di Bottiglia tenendomi sulla destra. Noto che ancora più a destra la neve è un po’ più morbida, il che per me è positivo per la discesa: ne sono felice, ero certo di poter passare in qualche modo da quella
> Panorami Il Chogolisa (in alto) e lo spettacolo naturale durante le fasi di avvicinamento al K2
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> storie
> Sci Scendere da un ottomila non è come fare freeride, spesso bisogna derapare tra ghiaccio e roccia
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> storie sezione. Nel Collo di Bottiglia c’è anche una porzione rocciosa dove è fissata una corda. Più avanti il ghiaccio è molto duro, ora lo uso per salire facendo presa con i ramponi, ma durante la discesa gli passerò alla larga, percorrendo la parte della neve più morbida. Arrivo finalmente sulla cresta finale che conduce in vetta dove incontro degli altri alpinisti: sono già stati in cima al K2 e stanno scendendo. Chiedo un paio di volte, con un po’ di impazienza, quanto è lontana ancora la vetta. Uno dice un’ora, altri rispondono due ore. Non so chi abbia ragione, ma vado avanti. Lascio lì la corda e l’attrezzatura da arrampicata perché il terreno sta diventando sempre più facile e ho deciso di non portarmi dietro peso inutile. Porto solo gli sci, quando scenderò riprenderò il resto». Alle 9:30 la squadra alla base ha chiamato Andrzej per sapere dove si trovasse. Lui ha risposto che si trovava in cima. «Pronto Andrzej, Pronto Andrzej, dove sei?» «Sono in vetta!» «Allora, come stai? Com’è in vetta? Racconta». «Tutto bene, sto partendo, sto iniziando la discesa». «Com’è il tempo? Vedo le nuvole alzarsi. Com’è lì da te?» «Si sta rischiarando, ma per un po’ c’è stata nebbia fitta». «Ascolta bene, dal campo tre in poi hai assistenza degli sherpa e il tempo è bello, scendi tranquillo ti aspettiamo. E congratulazioni!» «Super. Grazie mille. Scendo lentamente». Alla base esplode la gioia. Bartek Bargiel cerca di far volare il drone un’altra volta, ma non è facile: i pakistani stanno suonando e cantando in onore di Andrzej, che ha appena conquistato la Montagna delle Montagne. Marek Ogień, con una macchina fotografica in mano e con il telefono nell’altra, mentre racconta in diretta questi momenti felici, prova a scattare un po’
di foto. Piotr Pawlus, intanto, filma tutto quello che succede. C’è ancora il tempo per un ultimo contatto radio con Andrzej. Prima di iniziare a scendere con gli sci vuole salutare tutti coloro che hanno incrociato le dita per lui. Bartek riesce finalmente a far volare il suo drone. Lo manda fin sulla cima del K2: non sarà il record di altitudine, ma non c’è dubbio che l’atterraggio sulla seconda vetta più alta della terra è stato il primo del genere nella storia. Per tornare alla base, però, non c’è sufficiente batteria e toccherà ad Andrzej riportarlo indietro tenendolo nello zaino. Andrzej, nel frattempo, è agli ultimi preparativi prima di cominciare la discesa. «Indosso gli sci e sono molto concentrato in questa operazione perché gli attacchi non montano gli ski-stopper. Sono privi di sgancio di sicurezza e non si aprono mai, nemmeno in caso di caduta: d’altronde, su una discesa come questa non ci si può permettere di cadere. Non voglio correre il rischio di un’apertura accidentale che con la neve dura e il ghiaccio potrebbe sempre accadere. Meglio che gli sci restino bloccati, anche rinunciando allo sgancio di sicurezza». E così Andrzej recupera il drone del fratello, lo infila nello zaino e inizia la sua storica discesa. Per chi è alla base, le ore successive si riempiono dell’attesa e della comunicazione al mondo esterno delle notizie su Andrzej Bargiel e Janusz Golab, su com’è andata la salita in vetta e, ora, come procede la discesa. Andrzej la racconta così. «La nebbia ha iniziato a infittirsi e il tempo a peggiorare. Guardo giù, e non c’è nulla di cui rallegrarsi. Scatto qualche foto, giro un video, accendo la GoPro e parto. È questo il momento in cui sento che è iniziata la mia sfida. Beh, all’inizio c’è un sacco di neve. È una cresta ripida. Cerco sempre di tenermi sul lato opposto della via di salita, dove gli alpinisti camminano,
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> storie in modo da non gettare scariche di neve su di loro. Ce ne sono parecchi che stanno ancora venendo su. C’è una nebbia fitta che mi fa un po’ paura, ma riesco a continuare la discesa orientandomi con le corde fisse. Sulla via, più o meno a 8.300 metri, incontro un uomo disteso a terra, in corrispondenza di una piccola cresta. È un pakistano di un’altra spedizione, non ha più forze. È riverso sulla neve, non si muove per niente. Allora lo scuoto e gli dico di scendere. Si alza malvolentieri e dopo un po’ comincia a camminare in discesa. Mi dice che vorrebbe aspettare i suoi clienti, ma gli rispondo che non è una buona idea: meglio scendere, altrimenti rischia di morire. Lo sprono a non fermarsi. È davvero molto stanco, ma mi pare che ce la faccia, cammina spedito verso il basso e io posso proseguire per la mia strada. Vado a destra della via, su un terreno molto ripido. Sotto le lamine sento il ghiaccio duro, sopra c’è molta neve morbida, appena caduta. Purtroppo durante la primavera non ha nevicato molto in tutta la regione del Baltoro e la neve che è venuta a giugno e a luglio si è depositata sul ghiaccio duro senza stabilizzarsi o trasformarsi. Gli strati non sono legati tra loro, e questo è pericoloso. Alla fine di quella deviazione, che mi ha portato a una traversata sotto una serie di seracchi, tiro fuori la corda e per una cinquantina di metri derapo lentamente, con attenzione, perché non voglio provocare una valanga. La neve che smuovo s’infila nel Collo di Bottiglia e ho il terrore di poter fare del male a qualcuno in questo modo. Così mi abbasso ancora un po’, fisso la vite di ancoraggio e scendo con molta cautela. Srotolo mano a mano la corda e scendo in diagonale. È una traversata bellissima. Sono a 8.200 metri e... beh, è strano da dire ma mi sento al sicuro. Sono ormai lontano da tutte le persone che stanno salendo in cima, ora sono sulla mia via. Sono davvero solo, molto più a sinistra rispetto agli altri. È una bella discesa, molto ripida ed esposta, ma con una neve bella, e questa è una sorpresa positiva. Purtroppo, però, mi pento subito di averlo pensato: nell’ultimo tratto prima di raggiungere il campo quattro entro nelle nubi e nella nebbia. Raggiungo la tenda che il cielo è coperto, c’è poca visibilità e sono molto preoccupato. Sono solo. Mi sento davvero solo». A quel punto c’è il rischio che le condizioni meteorologiche peggiorino ulteriormente. Ma Andrzej cerca di mantenere la
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lucidità, per affrontare qualsiasi imprevisto. «Raggiungo la tenda, che ho volutamente montato in un punto facilmente accessibile con gli sci ai piedi, verso la via Cesen. Non ho potuto prendere la stessa linea che ho fatto in salita, perché avrei dovuto passare sulle rocce e con gli sci è impossibile. Sono dovuto passare nel tratto centrale della parete, più a destra. Quando arrivo, mi butto a terra nella neve senza togliere gli sci. Non ho neanche la forza di provarci, quindi me ne sto sdraiato per un po’, semplicemente a respirare. Quando mi sento più in forze, parlo alla radio con i ragazzi per sapere come sta Janusz e poi chiedo loro del meteo e della visibilità. Cosa avrei dovuto aspettarmi? Si sarebbe schiarito il cielo? Le nuvole che avevo sopra la testa stavano arrivando o se ne stavano andando? Al campo base i miei compagni del team chiedono previsioni a tutti, il risultato è una gran confusione. Ho l’ansia di dover restare in questo punto ad aspettare, perché i ragazzi mi dicono che ci potrebbe essere un peggioramento del tempo, sta arrivando un fronte che non farà altro che peggiorare le cose. Per me è importante saperlo con certezza, perché questa parete è veramente molto difficile e molto grande, con un notevole rischio di valanghe: si deve zigzagare tra le rocce e orientarsi. Mi torna in mente una volta in cui ho visto una valanga che è scesa da ottomila metri fino alla base della parete: se ti trovi lì in mezzo in quel momento è finita». Anche al campo base la gioia dopo la salita di Andrzej fino in vetta si trasforma in preoccupazione per le condizioni meteorologiche che cambiano rapidamente. «Il K2 è una montagna enorme, ci sono più di tremilacinquecento metri di dislivello tra la base e la vetta - racconta Marek Ogień -. Il rischio di valanghe è alto. Ci sono tratti molto ripidi, rocce, crepacci, tanti pericoli oggettivi. Può davvero accadere di tutto; il tempo poi in alta montagna cambia velocemente, quindi il rischio che qualcosa possa andare storto è molto grande. Andrzej chiama con la radio, chiede continuamente: com’è il meteo, com’è il meteo? Così interpelliamo il nostro meteorologo. Al campo base disponiamo di internet, quindi si può tranquillamente chattare su Facebook con lui, discutere e analizzare i dati dei satelliti. A Nord-Est un fronte minaccioso sembra pronto a muoversi verso il nostro lato della montagna, che è quello Sud. Dopo una breve consultazione con noi, con il meteorologo e
dopo aver sentito anche Janusz, Andrzej decide di continuare a scendere». Avere notizie il più possibile certe sulle condizioni meteorologiche è fondamentale, tanto più per la riuscita di un’impresa così ambiziosa e difficile come questa, la discesa integrale con gli sci dal K2. «Non si è parlato d’altro per tutto il tempo - dice Piotr Pawlus, il cui compito è quello di filmare l’intera spedizione -. Previsioni, previsioni e ancora previsioni. Ed è incredibile, perché in alcuni momenti ci sono anche più di cinque previsioni diverse. Alla fine Andrzej, non sapendo più a chi dare credito, decide di testa propria, in base alla sua sensazione e a quello che vede attorno a sé. Elabora e metabolizza l’infinità di informazioni che gli passiamo, alcune in antitesi tra loro. E ci vede giusto. Perché proprio il 22 luglio, a differenza di tutti i giorni precedenti, il tempo è perfetto. Una combinazione straordinaria».
Un’impresa resa possibile dal drone Oltre all’impresa in sé, la spedizione polacca ha avuto un altro ottimo motivo per tenere incollati agli schermi gli appassionati di tutto il mondo: per la prima volta sono state realizzate immagini aeree di alpinismo a oltre 8.000 metri, vetta compresa. Là dove prima pochissimi elicotteri avevano osato salire, ora ronzava allegro un drone con annessa videocamera, comodamente pilotato da Bartek Bargiel, circa quattro chilometri più sotto. Un fatto che ha lasciato basito anche il produttore stesso dell’apparecchio, soprattutto per
I primi due-trecento metri di quota al di sotto del campo quattro sono coperti da nuvole e nebbia. Poi, dai 7.500 metri in giù, Andrzej trova un tempo favorevole. Sembra che il sole abbia deciso di uscire appositamente per lui. A questo punto della discesa, a causa di qualche passaggio obbligato, gli sci possono costituire un problema: nella prima parte, in qualche sezione in alto, è stato costretto a passare su alcune rocce rovinando le lamine e la soletta, con il rischio di non essere in condizioni adatte per tenere sulla neve dura della traversata Messner, il tratto più esposto e complesso del percorso. Nessuno, a questo punto, è in grado di sapere se gli spigoli degli sci di Andrzej sono in grado di tenere. Tanto meno lui.
il fatto che quello utilizzato (Dji Mavic Pro) fosse un prodotto di fascia media e non un bolide appositamente costruito. Uniche modifiche fatte, la disattivazione di tutti i blocchi strumentali e l’aumento della velocità massima di salita. Lo stesso drone è stato utilizzato anche per l’incredibile salvataggio dell’alpinista Rick Allen, disperso sul Broad Peak (il dirimpettaio del K2) e per il trasporto urgente di medicine ai campi alti, oltre che, ovviamente, per la ricognizione delle vie di salita e di discesa utilizzate da Andrzej.
Ecco il racconto in prima persona di Andrzej. «Mentre scendo, il tempo comincia a stabilizzarsi. Bartek mi manda il drone vicino, Marek mi guida energicamente con la radio. Attraverso zone di neve, canalini, tratti di parete aperta. Dal campo base dovrebbero aver filmato e fotografato tutto: hanno una macchina fotografica con un teleobiettivo molto buono che ci permette di farlo. Anche la radio è molto utile, si riesce a comunicare bene, è come se gli altri fossero lì con me. Proseguo senza mai fermarmi, ma le condizioni diventano sempre più difficili, perché lo strato di neve ghiacciata che ricopre le
Insomma, Bartek e il suo giocattolo hanno di colpo aperto gli occhi degli alpinisti su una serie infinita di possibili applicazioni, che possono cambiare il modo di fare alpinismo di esplorazione. Qualcuno potrà sbuffare, ma è l’evoluzione. Dopotutto all’epoca di Hermann Buhl non esistevano i GPS e i telefoni satellitari e dopo la loro introduzione nessuno si è mai rifiutato di usarli in caso di necessità, giusto? Federico Ravassard
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> storie
rocce si sta assottigliando. Il tempo è buono. Il cielo è limpido e per me questo è molto positivo, fondamentale. Sento di avere il controllo sulla situazione e questo m’infonde una carica di energia pazzesca». Andrzej raggiunge finalmente il campo tre, dove Janusz Gołąb lo sta aspettando. «Arrivo da Janusz ed è fantastico. Mi dice qualcosa del tipo: Benvenuto nel club! Nel 2014 Janusz è salito sul K2, quello che io sono riuscito a fare questa volta, anche senza di lui. E così ci facciamo i complimenti a vicenda. Ora Janusz sta meglio. Gli sherpa gli stanno venendo incontro, lo aiuteranno a scendere. Mi dice che sta bene e di non preoccuparmi, di continuare a scendere, e così faccio. Proseguo sulla mia via». Dal campo base gli sherpa, in effetti, stanno salendo per andare incontro a Janusz e aiutarlo a tornare alla base. Non solo, ci sono anche tutte le operazioni di smontaggio del campo e di disallestimento della via. Rimane ancora molto lavoro da fare per lasciare la montagna pulita, al suo stato originale. Il piano di Janusz è di arrivare al campo base in una sola tirata. Se però la sua schiena non dovesse reggere, si fermerà al campo due a riposare per una notte. Le previsioni danno il tempo in peggioramento, con nubi e nevicate: conviene andar via da lì e scendere rapidamente.
> Notte Andrzej Bargiel mentre controlla gli ultimi dettagli prima dell’ascensione al K2
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Andrzej è appena ripartito dal campo tre e si trova ad affrontare un tratto di discesa impegnativo. «Mi si presentava un compito molto difficile. Un passaggio tecnico fino al punto in cui inizia il canalone, che mi avrebbe portato alla vera e propria traversata Messner. Arrivo all’inizio della traversata. Bartek ha sostituito le batterie del drone e mi sorvola tutto il tempo. In alcuni tratti in cui devo passare tra i crepacci o sono nascosto da alcune rocce, lui non riesce a trovarmi. E io devo aspettare e… aspettare. La mia discesa, del resto, si basa anche su questo: fin dall’inizio volevamo raccogliere molto materiale fotografico e video esclusivo e quindi spesso mi devo fermare in attesa che Bartek sostituisca la batteria del drone e torni da me. Servono in genere non meno di quindici minuti per questa operazione. Per me, in quelle con-
Andrzej supera tutte le difficoltà e arriva finalmente al termine della traversata Messner. Quando lo vedono spuntare, al campo base tirano tutti un sospiro di sollievo. Da quel punto in poi la discesa sarà molto meno difficile. E anche a guardarlo con il binocolo, Andrzej non è più un puntino minuscolo sul pendio della montagna. Ora si distingue un uomo con le braccia, la testa e le gambe che si muove sugli sci. È Andrzej Bargiel, ed è sempre più vicino. Sta percorrendo l’ultimo tratto di discesa lungo la via Kukuczka e Piotrowski. Il terreno è difficile, c’è pericolo di valanghe e si deve fare attenzione ai crepacci: mai pensare che sia finita, il pericolo è sempre in agguato, soprattutto dopo un impegno così lungo e faticoso, anche in termini di energie nervose. Nel frattempo Janusz Gołąb comunica che sta lentamente scendendo. È ormai quasi al campo due, si sente bene e proseguirà fino alla base. Andrzej può sciare verso il campo base con un pensiero in meno. «Sono contento, mi sento sollevato, anche se so perfettamente di non potermi rilassare: è in questi momenti che, di solito, si commettono degli errori. Succede nella maggior parte dei casi sulle grandi montagne, gli incidenti avvengono quasi sempre quando ci si sente al sicuro e si abbassa la guardia. Bartek è in volo con il drone da qualche parte, ormai ho smesso di curarmene. Arrivo alla sezione prima della cresta per raggiungere la via Kukuczka, che è molto, molto tecnica. L’anno scorso, però, l’ho sciata due volte, quindi mi sento abbastanza sicuro. Uso cinque metri di corda per assicurarmi. Devo spingermi oltre uno sperone molto ripido, verticale, fino a raggiungere una cresta affilata. Raggiunta questa cresta ripida, con calma, aiutandomi con la piccozza, scivolo giù facendomi strada in un labirinto di rocce e ghiaccio, restando attaccato alla corda. A destra e a sinistra la parete precipita per oltre un chilometro. Circa milletrecento metri di vuoto verticale, fa davvero impressione. In qualche modo per-
corro questo crinale e raggiungo una chiazza di neve più morbida tra rocce e ghiaccio. Il tratto non è difficilissimo tecnicamente, ma è abbastanza esposto e pericoloso, soprattutto quando sei stanco. Sono in ballo da parecchie ore, ormai. In superficie c’è uno strato di neve ghiacciata orribile, fragile, sotto la quale c’è neve molto bagnata. Mentre scendo, raggiungo un punto in cui la neve è marcia e pesante. Fa caldo e in alcuni punti sprofondo fino alle ginocchia. Questo strato bianco bagnato è instabile e pericoloso, così escogito sul momento una tecnica per cui faccio un paio di curve e poi taglio in diagonale, in modo da innescare una valanga che scende a valle, per scaricare il pendio e non rischiare di restarne travolto. È soprattutto grazie a questa trovata che arrivo fin giù, in un punto sicuro al termine del tratto difficile, e mi sdraio nella neve. Sono esausto. Mi sento vuoto, devo assolutamente riposare. Avevo già avuto un momento simile di stanchezza e di capogiro quando ero più in alto, raggiungendo Janusz al campo due, per avere bevuto e mangiato troppo poco: non so perché non avessi fame, probabilmente per la tensione. Ho tentato di bere un drink con un isotonico, ma non sono riuscito per i conati di vomito. Avevo anche molta tosse a causa della gola secca. Adesso provo la stessa sensazione. Janusz mi ha dato una bottiglia di quella bevanda da portarmi dietro, ma non riesco a berla, il solo guardarla mi dà la nausea. Di tanto in tanto mangio un po’ di neve e questo mi fa sentire molto meglio. Il mio corpo tollera solo la neve, in questo momento. Scendo, sono quasi alla fine. Alla base della parete c’è un piccolo cocuzzolo e ci monto sopra con gli sci. A quel punto sento che tutto è finito, alzo le mani al cielo e urlo. Poi, dopo qualche minuto, riprendo a scendere e faccio le ultime curve prima di togliere gli sci. Marek Ogień, che mi parla alla radio, mi sta osservando dai piedi della parete. Lo vedo e lo raggiungo». È un istante che dura un’eternità e poco dopo tutti sono al sicuro e anche la via è stata ripulita, rimessa in ordine senza lasciare traccia del passaggio della spedizione. A parte quella lasciata da Andrzej Bargiel: la lunga traccia dei suoi sci, che resterà per sempre dentro tutti quelli che hanno contribuito al successo di 2018 K2 Ski Challenge, ma che il vento cancellerà presto.
Testo di STORYTEL ORIGINAL/JOANNA CHUDY, ANDRZEJ BARGIEL - Tradotto da BARBARA DELFINO - editing di EMILIO PREVITALI
dizioni, è una quantità enorme di tempo, ma non stiamo parlando di gare di Coppa del Mondo di sci alpino. In discese come queste non conta il tempo, quindi nessuno ha fretta».
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M I S C R E D E N T I A D A LTA Q U O TA
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> incipit
Vent’anni di sci sugli 8.000
I PRECEDENTI SUL K2 1998 - Edmond Joyeusaz e Marco Barmasse, sci Discesa dal C3 a circa 7.000 metri nel tratto inferiore della via dello Sperone degli Abruzzi, aggirando il Ca-
Abbiamo dedicato le prime 32 pagine di questo numero all’impresa di Andrzej Bargiel al K2, ma la new age della pente raide in alta quota è stata inaugurata da Marco Siffredi > Marco Siffredi
mino Bill
2001 - Hans Kammerlander, sci Al suo quarto tentativo sulla montagna, lungo la Via Cesen, Hans Kammerlander raggiunge la cima del K2 e ini-
di EMILIO PREVITALI
zia la discesa, che interrompe a metà del Collo di Bottiglia quando un al-
Marco Siffredi ha disceso per la prima volta l’Everest in snowboard lungo il Couloir Norton il 23 maggio del 2001 e la sua, compiuta lungo un itinerario differente rispetto alla linea di salita, può essere considerata l’inizio della new age dello sci ripido d’altissima quota. Fino a quel momento lo sci sulle montagne di 8.000 metri, esclusi pochi sporadici tentativi d’avanguardia, andava piuttosto alla ricerca della ripetizione in discesa di itinerari classici di salita. In Himalaya e in Karakorum, sulle montagne più alte della terra, la storia dello sci estremo già vista sulle Alpi si stava ripetendo. Al K2, la montagna della montagne, quella dove senz’altro la via normale di salita è più difficile e tecnica rispetto a tutte le altre 13 montagne di 8.000 metri, l’idea di ripetersi in discesa con gli sci lungo lo Sperone degli Abruzzi mostrava l’evidenza dell’impossibilità di una discesa integrale, a causa dei numerosi tratti di arrampicata della via, tra questi oltre al Collo di Bottiglia nel tratto terminale della montagna, anche il famoso Camino Bill, una sezione di roccia verticale normalmente attrezzata con corde fisse. Per questa ragione, fin dall’inizio i tentativi sciistici si sono concentrati sulla via Cesen che, a parte i pericoli oggettivi, la lunghezza e la difficoltà di allontanarsi pericolosamente dalla linea di salita avventurandosi in un terreno ine-
pinista coreano cade e scivola davanti ai suoi piedi.
2002 - Jordi Tosas, snowboard Insieme
a
Jordi
Corominas
e
Mikel
Zabalza realizza la salita al K2 lungo la via Kukuzca/Cesen e scende in snowboard da 7.000 metri.
2009 - Michele Fait, sci Il 23 giugno 2009 Michele Fait, al secondo tentativo sulla montagna, questa volta in compagnia di Fredrik Eriksson, perde la vita sciando verso il campo 2 della via Cesen.
2009 - Dave Watson, sci Nell’anno che, oltre al decesso di Michele Fait, non ha registrato nessuna salita alla cima del K2, Dave Watson realizza la discesa lungo lo Sperone degli Abruzzi, a partire da circa 8.400 metri, 200 metri sotto la vetta della
> Collo di Bottiglia Dave Watson è stato il primo a sciarlo integralmente ©Facebook/Dave Watson
montagna.
2010 - Fredrik Ericsson, sci A sua volta al secondo tentativo, salito con Gerlinde Kaltenbrunner, perde la vita a circa 8.200 metri in salita in prossimità del Collo di Bottiglia.
splorato, offriva quantomeno la possibilità teorica di compiere una discesa integrale. Nessuno però, in realtà, aveva mai approcciato con la stessa determinazione e con uno sforzo di squadra la realizzazione del progetto, così come ha fatto Andrzej Bargiel che per venire a capo del problema ha impiegato due stagioni.
2017 - Davo Karniçar, sci Il primo uomo a sciare integralmente l’Everest (nell’autunno del 2.000 dal versante nepalese) effettua un tentativo di scendere il K2, a cui rinuncia a causa delle difficili condizioni ambientali e di un problema alla schiena.
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FUTURE AT PLAY S/Lab esiste per creare il futuro. Questo era l’obiettivo di Benoit Sublet, Binding Engineer, quando ci siamo riuniti con l’atleta d’élite Cody Townsend per creare S/Lab Shift, un attacco con tecnologia Edge Amplifier per farvi sentire l’esplosione in ogni curva. Al Design Center Annecy, la formula è semplice: Gioco e progresso. Ma i risultati sono incredibili, i risultati sono S/Lab.
> sommario 120
#
ottobre \ novembre 2018
72 Quelli del Laila Peak A tu per tu con i tre francesi che hanno sciato la montagna del Karakorum di Andrea Bormida
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Questa è la mia vita
Portfolio UTMB rosa
Winter is coming!
Alba De Silvestro, nazionale di skialp, al via di una stagione decisiva
La gara di Chamonix in immagini e non solo
Abbiamo messo ai piedi di due atlete otto scarpe per correre in inverno
Di Luca Giaccone
Di Martina Valmassoi
Di Claudio Primavesi
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> sommario
Mira Rai, la storia continua
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La nuova vita della carismatica trail runner nepalese di Claudio Primavesi
K2 Ski Challenge Tutto quello che c’è da sapere sull’impresa di Andrzej Bargiel
114 Free to run
L’avvocatessa canadese corre per i diritti umani di Claudio Primavesi
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DoloMyths per 3
Gallagher, dal corallo alla CCC
Cristina Parisotto
Tre atlete top e la regina delle skyrace, sul Pordoi
La new entry del team Scarpa è una runner ambientalista
Dialogo con la creativa dietro ai modelli più d’immagine di Scarpa
di Luca Giaccone
di Claudio Primavesi
di Claudio Primavesi
La mia UTMB è come un rock
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Ötztal grande nord
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Tutto quello che avreste voluto sapere su Catherine Poletti
Ghiacciai immensi e tradizionali hütte a Obergurgl, in Austria
La stilista valtellinese che ha inventato la tutina da skialp
118
di Tatiana Bertera
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di Tatiana Bertera
Valeria Colturi
> Exploit Francesca Canepa con le Scarpa Spin usate per vincere l’UTMB. È stata la prima italiana a salire sul gradino più alto del podio della gara delle gare, quando in pochi avrebbero puntato su di lei ©Nicolò Balzani
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EDITO d i C L AU D I O P R I M AV E S I
Non ci avevo mai pensato. La montagna è donna. Anche la neve. Forse una ragione ci sarà se due degli elementi fondamentali per confezionare un numero di Skialper sono sostantivi femminili. E anche la scarpa. Come quella che ha usato Francesca Canepa per vincere in maniera strepitosa l’UTMB, che per una ultra-trailer vale come la medaglia olimpica. In fondo la montagna è donna e, come ha ben detto Cristina Parisotto, intervistata in questo stesso numero, la donna è generatrice. Generatrice di nuove idee, di uno spirito diverso, nuovo. Che non è necessariamente femminile. Ragionando sugli argomenti di Skialper 120, senza volere per forza mandare in stampa il solito speciale girl power, abbiamo messo insieme una serie di personaggi e imprese, piccole o grandi, che ci sembravano innovative: l’avvocato per i diritti umani che corre con la bandiera di Paesi dove i problemi sono altri, come la Palestina o l'Afghanistan; la runner nepalese che con la sua storia ha ispirato (e aiutato concretamente) centinaia di ragazze a trovare una
montagna mon·tà·gna/ s o s t a n t i vo f e m m i n i l e svolta con lo sport prima di finire tra le braccia di un marito in tenera età; l’attivista ambientale che cerca di sensibilizzare i trail runner sul climate change; la donna che ha inventato l’UTMB e ne tiene saldamente le redini. Stefanie, Mira, Clare, Catherine. Ma anche Tiphaine, Carole e Boris, che hanno sciato per la prima volta il Laila Peak e soprattutto Andrzej. Non tutte donne. Non c’è dubbio che la discesa di Bargiel dal K2, alla quale dedichiamo un long form di 32 pagine, sia un elemento di novità dopo quasi 20 anni di tentativi. Non solo per il fatto in sé, ma per come è stata realizzata, utilizzando un drone per le riprese ad altissima quota, ma anche per la ricognizione dei percorsi, i soccorsi, il trasporto di medicinali e attrezzatura. Una scoperta che potrebbe cambiare il modo di fare alpinismo. La montagna è generatrice di idee, c’è forse della femminilità, un lato glamour, nel modo di pensare e affrontare certe sfide. Ecco il senso di questo numero: non un vademecum di quote rosa, ma un inno a un modo di guardare oltre l’apparenza. Che vede tante donne protagoniste. L’essenziale è invisibile agli occhi. Firmato Antoine De Saint-Exupéry. Sì, un uomo…
Direttore editoriale DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it MULATERO EDITORE | Via Giovanni Flecchia, 58 - 10010 - Piverone tel 0125.72615 - mulatero@mulatero.it - www.mulatero.it
Direttore responsabile
Cartografia
Claudio Primavesi
Marco Romelli
claudio.primavesi@mulatero.it We b m a s t e r s k i a l p e r. i t Il nostro team
Silvano Camerlo
Andrea Bormida, Emilio Previtali, Federico Ravassard,
Collaboratori
Guido Valota
Andrea Bormida, Luca Albrisi,
S k i a l p e r. i t
Danilo Noro, Luca Parisse,
Leonardo Bizzaro, Caio, Luca Giaccone
Andrea Salini, Flavio
luca.giaccone@mulatero.it
Saltarelli, Davide Terraneo
Amministrazione
Hanno collaborato
Simona Righetti
a questo numero
simona.righetti@mulatero.it
Tatiana Bertera, Roberto Bontempi, Matteo Ghezzi,
Magazzino e logistica
Melissa Paganelli, Marta
Federico Foglia Parrucin
Poretti, Martina Valmassoi,
magazzino@mulatero.it
Simone Sarasso
Segretaria di redazione
Hanno fotografato
Elena Volpe
Bartek Bargiel, Brey
elena.volpe@mulatero.it
Photography, Stefano Jeantet,
Progetto grafico e impaginazione
Alice Russolo, Andrea Salini,
NEXT LEVEL STUDIO
Martina Valmassoi
Achille Mauri, Marek Ogien,
info@nextlevelstudio.it
In copertina ©Achille Mauri
TION SELEuCntain mo
2018
Distribuzione in edicola
Numero Registro Stampa 51 del
MEPE - Milano - tel 02 89 5921
28/06/2018 (già autorizzazione del
Stampa
05/12/1995). La Mulatero Editore srl è
STARPRINT Srl - Bergamo
Tribunale di Torino n. 4855 del iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.
© copyright Mulatero Editore - tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge
The Micro Puf f ® Jacket La nostra giacca imbottita più leggera e comprimibile di sempre.
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> CONTRIBUTORS Quelli bravi, prima o poi, passano tutti da Skialper Marta Poretti
Melissa Paganelli
Lavora in un’azienda aeronautica. Ma, appena può, si trasferisce da Busto Arsizio alla Valle d’Aosta, dove ha una casa per le vacanze. E corre, lontano. Per esempio sui sentieri del Tor des Géants, oppure sulle piste ghiacciate dell’Alaska, dove ha vinto l’Idita Sport: 550 km nel freddo intenso. L’importante è correre…
Non si può certo dire che Melissa Paganelli non sia una vincente. E una dura. Sì, perché è stata campionessa italiana di kick-boxing. Poi ci ha provato con la boxe. Risultato? Gara vinta, due Cinture lombarde e due bronzi negli Assoluti. E che c’azzecca con Skialper? Ha vinto il Gran Trail Orobie, la Grande Marcia Bianca...
Andrea Salini
Achille Mauri
Martina Valmassoi
Andrea Salini in montagna ci va da sempre, in montagna ci è nato ed è il suo terreno di pratica sportiva preferito. Pensare di dedicarsi alla fotografia e alla produzione di video dove altri fotografi e video-maker magari si fermano è stata la scelta naturale. Meditata insieme al socio Francesco Andreola. Così si è spinto anche sul Sentiero Roma a fotografare Mira Rai.
Ventisette anni, lecchese, grazie allo sport ha viaggiato fin da piccolo, per arrampicare, andare in skateboard, per lo snowboard e l’alpinismo. Ha studiato nuove tecnologie dell’arte, il videomaker è un lavoro e la fotografia, più pratica e semplice nel suo essere, una compagna di viaggio. Proprio per questa sua sensibilità artistica lo abbiamo scelto per curare i tanti ritratti di questo numero. Missione compiuta!
Qualche lettore forse ricorderà la sua rubrica su Skialper agli albori dell’esperienza nella nazionale italiana di skialp. Da allora Martina di strada ne ha fatta: scialpinista, trail-runner (beh, noi firmeremmo subito per un quinto posto al Kima…), ma soprattutto ha saputo trasformare le sue passioni in lavoro. Corre per il team Salomon, fotografa, fa la testimonial nelle pubblicità. Anche in tv! Ma non ha perso quell’aria sbarazzina degli albori ;)
> BACKSTAGE Storie dietro alle storie che leggerete su Skialper di ottobre
1. Winter in Cervinia Trovare l’inverno il 2 settembre non è facile. A meno che decidiate di salire a Cime Bianche Laghi, sopra Cervinia, al limite dei 3.000 metri e imbattervi in un’autentica bufera di neve. L’idea iniziale era di provare le scarpe sul ghiacciaio, ma più inverno di così… Raffreddore incluso!
2. Il tapiro di Cala Pronto, ciao Cala, aspetta che ti passo un paio di persone. Federico Ravassard e Andrea Bormida hanno detto così quando hanno chiamato Cala Cimenti dalla Val Ferret e gli hanno passato Boris, Tiphaine e Carole, i francesi che hanno sciato per primi il Laila Peak, proprio qualche giorno prima di Cala. Vabbé dai, Cala lo conosciamo, l’attapiramento è sicuramente passato in fretta…
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3. Old style La copertina che avevamo inizialmente pensato era con una semplice foto del K2. Poi, parlando con Achille Mauri, è venuta l’idea di fotografare una diapositiva della montagna, a simboleggiare i lunghi anni di tentativi di sciarla… La diapositiva è di Alessandro Gogna. Qui sopra una delle immagini che abbiamo scartato.
> login \ brevi
N E WS mostre
Anche lo sci al Sony World Photography ©Federico Ravassard
Era il 2009 quando lo sci faceva la sua prima comparsa ad Au Bala, nella valle di Foladi, nella provincia afghana di Bamyan, grazie a un uomo e una donna di una associazione umanitaria. Da allora i ragazzi hanno continuato a costruire i loro sci e il fotografo australiano Andrew Quilty li ha immortalati, vincendo anche un premio al prestigioso Sony World Photography Award. Questa e le altre foto finaliste sono esposte fino al 28 ottobre alla Villa Reale di Monza. www.villarealedimonza.it
contest
Diecimila dollari per sciare in tre continenti Un lavoro da sogno. L’agenzia americana Ski sta cercando uno sciatore per girare 19 resort in tre continenti. Naturalmente viaggio, alberghi e attrezzatura sono compresi ed è previsto anche un assegno di 10.000 dollari. È la trovata per promuovere l’Epic Pass, uno skipass che offre l’accesso a 46 resort in giro per il mondo. www.ski.com/dreamjob
©Facebook/François Cazzanelli
record
Cazzanelli-Steindl da record sulle creste del Cervino Sedici ore e 4 minuti. Per fare su e giù dalle creste Hörnli, Furggen, Zmutt e Leone, sul Cervino. È questo il nuovo record fatto segnare il 13 settembre da François Cazzanelli e Andreas Steindl. Entrambi Guide alpine, uno valdostano e l’altro svizzero, sono partiti alle 2.20 dal rifugio dell’Hörnli. Un concatenamento che portava la firma di Kammerlander-Wellig nel 1992 in 23 ore e che ha comportato più di 20 km di percorso e oltre 4.000 metri di dislivello.
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beverage
Birra Ultra fresca Si chiama Ultratrail - Italian Runner Ale ed è aromatizzata con bacche di goji e zenzero, caratterizzata da luppolatura fresca e abbondante. Una birra da bere con moderazione per ricaricare le pile dopo un lungo. E infatti è prodotta dal Birrificio Indipendente ELAV ed è nata in occasione dell’Orobie Ultra-Trail.
aziende
Vibram sbarca a Montebelluna Una sede a due facce, da una parte punto vendita, dall’altra laboratorio e ufficio. È questa la funzione del nuovo negozio aperto da Vibram in via Mazzini 101 a Montebelluna, inaugurato lo scorso 7 settembre. Il nuovo spazio Vibram sarà dunque al servizio delle aziende partner e dei consumatori. Le prime potranno lavorare allo sviluppo di nuove idee e di prodotti innovativi; gli appassionati potranno acquistare i prodotti a marchio Vibram e le calzature più innovative dei brand partner. Non solo prodotti, ma anche tecnologie, che sarà possibile testare dal vivo presso il nuovo spazio.
comprensori
A fuoco le Grands Montets L’11 settembre è una data funesta. Nell’anniversario dell’attentato alle torri gemelle infatti è andata distrutta la stazione intermedia di Lognan della funivia delle Grands Montets, nella valle di Chamonix, autentico santuario dello sci di alta montagna. L’incendio ha provocato la fusione della fune e il distacco della cabina presente in stazione, oltre a ingenti danni.
libri
Cognetti tra i giurati dell’ITAS Arriva un nuovo e autorevole giurato per il Premio ITAS, il più importante riconoscimento della letteratura di montagna. Paolo Cognetti, salito alla ribalta nazionale grazie alla vittoria del Premio Strega 2017 con Le Otto Montagne, è stato cooptato su proposta dei membri storici della giuria guidata da Enrico Brizzi.
3h59’52’’ Il tempo impiegato dalla Guida alpina svizzera Andreas Steindl per salire e scendere da Zermatt al Cervino il 27 agosto lungo la cresta Hörnli. Steindl era salito già più di 80 volte sulla Gran Becca e il suo crono non può essere confrontato con quello di Kilian da Cervinia.
U LT I M AT E C H A R G E D R I D E
> login 1. Miao Yao
2. Robert Hajnal
Una gioventù difficile, a raccogliere cereali e verdure nella remota regione del Guangxi, in Cina. Ora ventiduenne, Miao Yao è un’atleta professionista e si è fatta notare alla CCC, classificandosi prima donna e undicesima assoluta. Questa stella orientale del trail vive a Dali con il fidanzato Ming Qi, che le fa anche da allenatore. Ed è arrivato secondo alla CCC.
Quella del 2018 è stata l’UTMB delle sorprese: tra abbandoni inaspettati, punture di api e crisi di freddo, ecco che al traguardo molti dei super favoriti non sono arrivati. Lasciando il posto a volti nuovi. Come il rumeno Robert Hajnal, in seconda posizione nella gara regina. Occhio di ghiaccio e lineamenti severi, ha bagnato il naso ai big del trail.
©Zoom/UTMB
©Martina Valmassoi
FAC T S & F I G U R E S Famosi o meno, hanno fatto cose che non passano inosservate
©Christophe Angot/Vibram
©Stefano Jeantet/TDG
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4. Yuan Jia e Riccardo Landi
3. Stefano Ruzza
Il Tor è una gara democratica. Dove l’ultimo viene celebrato come il primo… anzi dal primo! Quest’anno gli ultimi giganti sono stati la trentenne cinese Yuan Jia e Riccardo Landi, poliziotto di Chiavari. Come da tradizione sono stati accolti dal vincitore, Franco Collé, e da un pubblico super caloroso.
Con il suo settimo posto all’UTMB Stefano diventa l’icona dell’uomo ordinario (beh, si fa per dire!) che riesce a fare qualcosa di straordinario. In barba a chi lo credeva ormai vecchio (lo dice lui in un lungo post Fb) oppure non all’altezza. E pensare che qualche mese fa Stefano ha avuto un brutto infortunio che lo ha costretto ad allenamenti con la bicicletta…
> login / libri
di Leonardo Bizzaro
Eravamo immortali
Let my people go surfing
Alpinisti illegali in Urss
Manolo prima del Mago. È un Maurizio Zanolla giovanissimo, sballottato tra famiglia, lavori poco graditi, speranze e rischi, tanti rischi (con certi amici in auto è anche peggio), quello che si racconta in Eravamo immortali, la sorprendente autobiografia che ha già vinto il prossimo premio Mazzotti. Un libro che meriterebbe di uscire dai confini angusti della letteratura di genere per trovare lettori diversi. E chi lo critica, finisca di leggere queste 412 pagine e poi si chieda se ci sono in giro tanti altri suoi simili che sanno scrivere così (di arrampicare, poi, non se ne parla).
Leggere un manuale di management come fosse un libro di (appassionante) narrativa. È possibile, quando si tratta di Yvon Chouinard, fonditore di chiodi per sé e gli amici nella sua leggendaria fucina di Ventura, prima, poi fondatore di marchi altrettanto leggendari come Chouinard Equipment e Patagonia. Yvon passa dalle strategie aziendali all’ambientalismo, torna all’arrampicata, all’alpinismo, al surf, alle mille avventure vissute tra gli altri con Doug Tompkins, fondatore di The North Face e di Esprit. Seconda edizione con prefazione di Naomi Klein.
Guerra fredda: mentre tutti cercano di lasciare l’Unione Sovietica per fuggire dal comunismo reale, c’è chi invece le inventa tutte per entrarci di nascosto. Sono gli alpinisti dell’Europa dell’Est, ma non solo, che puntano alle vette dell’ultimo impero: l’Elbrus, il Picco Lenin, il Picco del Comunismo. Cornelia Klauss e Frank Böttcher, dopo Viaggiare controvento, hanno ordinato un ventaglio di racconti di montagna - o di tentativi di arrivarci - talvolta esilaranti, in parte tragici, sempre veri.
DI MAURIZIO ZANOLLA (Fabbri Editori, 412 pagine, 20 €)
DI YVON CHOUINARD (Ediciclo editore, 260 pagine, 25 €)
DI CORNELIA KLAUSS E FRANK BÖTTCHER (Keller editore, 144 pagine, 14,50 €)
Novità novembre 2018
La Grande Ascensione Arriva l’alpinismo per bambini Una collana per bambini ambientata in montagna non l’aveva finora inserita in catalogo alcun editore. Da novembre ce l’avrà Mulatero, con una prima uscita che stupirà i lettori: La Grande Ascensione. È un album illustrato britannico del 1910, scritto da Graham Clifton Bingham e disegnato da George Henry Thompson, che racconta un’ascensione tra vette e ghiacciai di un elefante, un ippopotamo e un leone. Le immagini sono stupefacenti, il testo - in rima come ogni vecchio libro per bambini che si rispetti - è stato reso in italiano da Leonardo Bizzaro e Pietro Crivellaro. E lo stesso Crivellaro ha firmato un breve saggio che svela tutti i segreti del libro e degli animali umanizzati in montagna. Da non perdere.
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> login \ negozi
Gialdini Sport Tu t t i i m o n d i d e l l a n e ve Pistaioli che passano allo skialp, ciclisti che gareggiano nei vertical: sono tante le tendenze con gli sci ai piedi e il negozio di Brescia copre ogni segmento di un settore sempre più ampio
Parlare con i negozianti specializzati è il modo migliore per sondare il mercato e le sue tendenze. Solo chi ha a che fare tutti giorni con gli sciatori può dire se quello che il mercato propone è ciò che chi scia chiede. C’è un negozio che più di altri ha legato il proprio nome allo sci fuori e all’avventura, anche se non viene trascurata la pista di sci: Gialdini Sport. Alle porte di Brescia, aperto dal 1852 (inizialmente come ottoneria), Gialdini è un po’ il termometro del mercato outdoor. Milleduecento metri quadri di esposizione dove si trova l’attrezzo, ma anche la guida con gli itinerari, il gps, il
> Esperienza
fornelletto ultra-light da spedizione, la scarpa d’alta quota, la
Marco De Lorenzi, responsabile del reparto sci, si occupa di lavorazione degli scarponi da 30 anni
piccozza o il localizzatore satellitare Spot, che viene distribuito in Italia proprio dal negozio della famiglia Massardi. «Negli ultimi anni osserviamo una grande mobilità interna al mondo della neve, con diversi pistaioli che si spostano sullo
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scialpinismo, ma anche persone che non sciavano più che
lavorazione della scarpa e segnala che ora anche lo scialpinista
riprendono ad andare in pista; c’è stato poi un progressivo
è diventato molto esigente: «sullo scarpone in molti arrivano
passaggio di freerider verso versioni meno spinte come il
con idee chiare, legate al feeling con il marchio o il look, ma
freetouring e sci meno larghi, intorno ai 100 millimetri al
appena lo mettono ai piedi cambiano orientamento facilmente,
centro, per un utilizzo prevalentemente con le pelli» dice
perché il comfort e la calzata sono fondamentali». Gialdini
Marco De Lorenzi, responsabile del reparto sci.
propone sci da skialp e freeride di Atomic, Blizzard, Dynafit,
Se quello del freeride appare un segmento più piccolo di anni
Dynastar, Fischer, Movement, Salomon, Ski Trab e, da questa
fa, di pari passo si è ristretto anche lo sci: «Abbiamo avuto
stagione, Zag. Per gli attacchi si spazia da ATK Bindings a
stagioni nelle quali i 100 millimetri erano in cima alle vendite,
Dynafit, Atomic e Salomon, nel reparto scarponi ci sono
ora siamo tornati tra gli 85 e i 95, che però per lo scialpinista
Atomic, Fischer, La Sportiva, Movement, Salomon e Scarpa.
classico segnano un aumento rispetto ai 78-80 millimetri».
Se non siete a Brescia e dintorni, nessun problema, c’è lo shop
Un altro trend interessante è quello in entrata nel mondo race:
on-line: non è la solita vetrina, ma Marco e tutto lo staff di
«Sono molti per esempio i ciclisti che partono proprio con
Gialdini ci tengono a sottolineare che dietro alla web page ci
l’attrezzatura da gara per fare vertical e allenarsi in inverno,
sono delle facce, sempre disponibili per una consulenza prima
poi magari a metà stagione tornano a chiedere sci più adatti
dell’acquisto. Chiamateli!
per fare qualche gita». Marco ha un’esperienza di 30 anni sulla
www.gialdini.it
| Photo M. Reggiani
Maestrale RS | Gea RS To snow designers.
Location > COURMAYEUR (italy) Dalla cima, rivolgendo lo sguardo verso il basso, un’enorme tela bianca si svela in tutto il suo candore. Invita a graffiarla con curve sinuose e a provare quella libertà che solo un fuori pista sulla neve fresca sa dare. Abbiamo pensato e progettato il Maestrale per darti il potere di disegnare le tue linee e tracciare i tuoi percorsi. SCARPA, compagni di avventure. • wEb fRAME dEsign E CARbOn gRilAMid lft: RigidEzzA , COntROllO, stAbilità , lEggEREzzA . • wAvE ClOsURE sYstEM: ChiUsURA AvvOlgEntE . • MAssiMO divERtiMEntO in disCEsA .
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> login \ brevi Liv Sansoz scala tutti i 4.000
Il NYT sulle Dolomiti e quello stupore che ci manca
©Shutterstock
«Per la bellezza ultraterrena delle Dolomiti non è necessario l’intervento di alcun traduttore». Sono parole pubblicate alla fine di agosto sul quotidiano New York Times della giornalista Ingrid K. Williams, inviata in Italia per costruire un ampio reportage sulle montagne che, dal 2009, sono state dichiarate patrimonio dell’umanità dall’Unesco. «Questa monumentale catena montuosa della zona dell’Italia nord-orientale costituisce un terreno di gioco idilliaco per gli avventurieri dell’outdoor e per tutte le persone che cercano un assaggio del patrimonio culturale della regione». Le Dolomiti, si legge ancora, rappresentano «una delle zone più belle per vivere avventure nella natura, sci, escursionismo, bicicletta, arrampicata e molto altro». Il giornale americano ripropone a
molti italiani distratti l’unicità del patrimonio naturale del nostro paese. Ci insegna che il pieno godimento di tutte le sue meravigliose forme e opportunità non può che giungere dal riconoscimento di una bellezza che interroga l’uomo. Solo uno stupore sperimentato e condiviso genera il rispetto che la montagna merita. Oggi più che mai. Ruggero Bontempi
Contest
Vogliamo la tua storia. E il tuo disegno Un animale, rosa. Sono questi i due elementi sui quali costruire la tua storia. O il tuo disegno. Per raccontare come è nato il filato Mizuno Breath Thermo di Mizuno, l’unico tessuto sintetico in grado di produrre calore dal vapore acqueo del corpo, come avviene per le pecore che infatti, quando si bagnano, fumano. E vincere un completo underwear Mizuno. A prova di freddo. Come funziona? Semplice, scrivi all’email skialper@mulatero.it per aderire al contest artistico/letterario e riceverai a casa un piccolo tester con un campione del filato, che è rosa all’origine. Usalo per ispirarti e inviare allo stesso indirizzo una storia di fantasia (l’animale non deve essere necessariamente una pecora, anzi…) di massimo 50 parole o un disegno per raccontare e illustrare come è nato Breath Thermo. Le 2 migliori storie e i 2 migliori disegni verranno premiati con un completo underwear Breath Thermo. E poi chissà, se sei stato bravo (e avrai rispettato le lunghezze) potresti anche iniziare a collaborare con Skialper… We want you!
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She did it. La francese Liv Sansoz ha portato a termine a metà settembre il suo progetto di scalare tutte le 82 vette di 4.000 metri delle Alpi. Un progetto che si è chiuso con la salita dell’Aiguille Blanche de Peuterey (4.112 m) e del Grand Pilier d’Angle (4.243 m), nel gruppo del Monte Bianco, in compagnia dello svizzero Roger Schaeli, e con un volo in parapendio dalla vetta. L’idea di salire tutti i 4.000 era venuta a Liv dopo che nel 2015 Ueli Steck aveva portato a termine l’impresa in 62 giorni. Liv, amica di Steck, si era data 12 mesi e a marzo 2017 era partita forte: 21 cime in tre settimane in compagnia di Colin Haley. Poi alla numero 38, l’Aletschorn, un infortunio con relativo congelamento l’aveva costretta a fermarsi per qualche settimana e fatto mancare l’obiettivo per sole sei vette, così ha concluso l’opera nel 2018. Senza usare mezzi motorizzati.
©Alice Russolo
> login \ appuntamenti
©Federico Ravassard
M i l a n o Mo n t a g n a : parliamo di ripido Andrzej Bargiel ed Enrico Mosetti tra i protagonisti della serata Lamine organizzata da Skialper il 26 ottobre nell’ambito di Milano Montagna Festival powered by Vibram
«La mia traccia, la mia vita, la mia traccia preferisco disegnarla dove nessun’altra conduce. Posso voltarmi indietro e valutarla, cosa che altrimenti non potrei fare perché si perderebbe fra le tante altre». Parole di Heini Holzer, protagonista assoluto dello sci estremo degli anni Settanta. Cosa c’è di ancora attuale della sua proposta? Che cosa lo collega alla nuova generazione di ripidisti? Un’ottima occasione per scoprirlo potrebbe essere partecipare alla serata Lamine organizzata da Skialper a Milano Montagna Festival venerdì 26 ottobre alle 21.45. Nella prestigiosa cornice del BASE, in via Bergognone 34, parleremo dell’evoluzione del ripido con tanti ospiti, da Enrico Mosetti e dalla sua
> El Gringo Eskiador In occasione della serata del 26 ottobre sarà presentato El Gringo Eskiador, il nuovo libro della collana Lamine dedicato al mitico Patrick Vallençant (nella foto tra Boivin e De Benedetti)
spedizione in Perù a Tommaso Cardelli, che ha ripercorso
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le scie di Holzer spostandosi in bici tra uno spot e l’altro.
la prima volta e acquistare l’attesissimo Il Nuovo Polverelli
Da non perdere l’atteso intervento di Andrzej Bargiel, per
Minore, il leggendario vocabolario della lingua pauderolesa
la prima volta in Italia dopo la discesa del K2 grazie alla
curato da Davide Zeo Branca. Naturalmente l’autore sarà
collaborazione con Storytel, e la proiezione del film della
a disposizione per firmare le copie! Le iniziative curate da
sua impresa. Non mancheranno tante altre chicche che
Skialper sono solo alcune delle tante proposte del Festival,
non possiamo ancora svelarvi. Saranno protagonisti anche
che si arricchisce anche di un Fuori Festival in giro per la
i libri della nostra collana Lamine, da Sulle tracce di Coomba
città (in programma dal 22 al 28 ottobre, mentre il Festival
a quelli in divenire su Sylvain Saudan, Jean-Marc Boivin,
sarà dal 25 al 28). Tutti gli eventi del festival saranno ospitati
Marco Siffredi, Patrick Vallençant. Naturalmente sarà
da BASE. Tra le storie e i personaggi di questa edizione,
anche possibile acquistare i libri e ai primi cinquanta che si
da segnalare Hansjörg Auer, Xavier de le Rue, Matteo della
presenteranno regaleremo una imperdibile t-shirt El Gringo
Bordella, Arianna Tricomi, Markus Eder, le proiezioni dei
Eskiador in ricordo di Patrick Vallençant. La serata, con tanto
film Hoji con Eric Hjorleifson, Sky Piercer con Xavier de
di live music, sarà condotta da Claudio Ruatti e non sarà
le Rue, Sam Smoothy e Nadine Wallner, e Duality con le
l’unico appuntamento firmato Skialper a Milano Montagna
quattro atlete del Trailrunning Team Vibram: Yulia Baykova,
Festival. Domenica 28 ottobre alle 18, infatti, l’aperitivo
Audrey Bassac, Juliette Blanchet e Uxue Fraile Azpeitia.
serale di chiusura sarà l’occasione per toccare con mano per
Il programma completo è su www.milanomontagna.it
La Bridge Technology riduce il peso e garantisce la stabilitĂ torsionale e la trasmissione diretta degli impulsi alle lamine. Il Carbon Power Shell, uno strato in carbonio dalla punta alla coda, viene applicato sulla forma 3D del telaio dello sci dove dimostra la potenza naturale del carbonio per uno sci piĂš leggero e piĂš resistente. Gli inserti Vaport Tip nella parte anteriore riducono peso i vibrazioni, creando una forte, leggera e fluida performance.
> login \ iniziative
O b i e t t i vo Me z z a l a m a g r a z i e a Mo u n t o p i a > Campione d’ispirazione:
Dal 9 al 30 ottobre si può partecipare al contest firmato Dynafit, che mette in palio sei pettorali per la gara delle gare. E non solo…
Mountopia, nell’ambiente degli appassionati di montagna e
(e i 3.145 in discesa): i sei vincitori di Mountopia potranno
di outdoor, è diventato ormai sinonimo di sogni nel cassetto.
contare su un kit completo da gara di prima qualità e sui
Chi non vorrebbe avere a disposizione attrezzatura, consigli
consigli degli atleti del team Dynafit. Per allenarsi, poi,
e accesso gratuito ad una delle gare più emozionanti del
ci sarà la partecipazione alla Sellaronda Skimarathon, il
panorama scialpinistico mondiale? Per la quinta edizione
22 marzo. Come funziona? Dal 9 al 30 ottobre ci si può
del popolare contest inventato da Dynafit e reso possibile
candidare sul sito www.dynafit.com/mountopia. Una
dalla collaborazione con Gore-Tex e Primaloft ci sono però
giuria specializzata, composta da atleti ed esperti alpinisti,
delle interessanti (soprattutto per gli skialper) novità.
sceglierà fra i candidati 20 finalisti, 10 uomini e 10 donne,
Il contest diventa infatti una selezione per partecipare
che dal 13 novembre al 4 dicembre dovranno dimostrare
al Trofeo Mezzalama, il sogno di ogni scialpinista che si
in una sfida tracking (tutti i partecipanti dovranno avere
rispetti. Il marchio che ha fatto dello #speedup il proprio
un account su Strava, che verrà collegato al microsite
motto, sosterrà infatti con consigli ad hoc sei atleti nella
di Mountopia per battersi a suon di metri di dislivello e
preparazione, fornendo l’equipaggiamento completo, dalla
chilometri) di essere gli atleti giusti per aggiudicarsi la
testa ai piedi, per affrontare la competizione scialpinistica
Mountopia Mezzalama. La giuria sceglierà quindi fra i
più ad alta quota del mondo. Sei atleti, divisi in due squadre,
finalisti i sei fortunati vincitori che nell’aprile del 2019
che si sfideranno lungo i 45 chilometri del percorso sul filo
affronteranno in due cordate da tre il Trofeo Mezzalama.
dei 4.000 metri di quota il prossimo 27 aprile o in una delle
Naturalmente non sono ammessi atleti di sport alpini
date di recupero previste. Mezzalama, sfida impegnativa, ed
con contratti di sponsorizzazione già attivi. Speedup for
è per questo che Dynafit mette a disposizione tutto il suo
Mountopia Mezzalama!
know-how per affrontare i 2.862 metri di dislivello positivo
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Lars Erik Skjervheim, detentore del record di 20.939 metri di dislivello in 24 ore
#speedup for Mountopia Mezzalama
> login \ ambiente
Le donne di Kruščica e Patagonia vincono la prima battaglia contro le dighe A giugno un tribunale della Bosnia Erzegovina ha revocato il permesso di costruzione di uno sbarramento, ma ci sono ancora altri 3.000 progetti che mettono a rischio l’ambiente dei Balcani
> Resistenza Le donne del villaggio bosniaco di Kruščica di guardia per evitare la costruzione della diga ©A.Burr/Patagonia
Si sono organizzate in turni per presidiare 24 ore su 24 il ponte di accesso che avrebbe permesso l’inizio dei lavori di costruzione della nuova diga, per oltre 300 giorni. Il loro sacrificio ha ottenuto un primo successo: le donne coraggiose di Kruščica sono infatti riuscite a ottenere a metà giugno che la corte cantonale di Novi Travnik, in Bosnia Erzegovina, stabilisse che il permesso ambientale per la costruzione di dighe sul fiume Kruščica deve essere annullato immediatamente. Il racconto della loro lotta fa parte di un documentario, Blue Heart, che racconta tre storie di persone che combattono per proteggere gli ultimi fiumi selvaggi d’Europa dalla minaccia di 3.000 dighe idroelettriche. Il documentario, prodotto da Patagonia, è stato presentato in anteprima a marzo 2018 e proiettato nelle sedi di tutta Europa, Giappone, Sud America e Australia. Oltre al film, è stata lanciata una petizione globale che chiede alle banche internazionali di smettere di investire nella distruzione del Cuore Blu d’Europa, nella penisola balcanica. La petizione ha ottenuto 123.529 firme al momento di chiudere in redazione questo articolo. La decisione del tribunale di annullare il permesso di costruzione della diga è stata presa sulla base del fatto che nessuna delle comunità interessate dalla proposta
dimostra che, in quanto cittadini interessati di tutto il mondo,
pubblica obbligatoria della diga fosse stata invitata all’udienza o sul
possiamo far sentire la nostra voce a sostegno delle popolazioni
dubbio che fosse addirittura a conoscenza dell’esito dell’udienza.
locali che lottano per proteggere i loro fiumi e le loro comunità
Il prossimo passo nella lotta delle donne sarà chiedere al ministro Salkan
- ha dichiarato Ryan Gellert, general manager EMEA Patagonia
Merdazani di cancellare due concessioni per la costruzione di dighe
-. Insieme possiamo contribuire alla realizzazione di decisioni
sul fiume Kruščica. Fino a quando questo non accadrà, le donne hanno
fondamentali come questa. La più grande battaglia non è ancora
intenzione di continuare a presidiare il ponte 24 ore su 24, nel caso
stata vinta, perché c’è ancora uno tsunami di dighe con oltre
in cui si decida di svolgere lavori di costruzione illegali. «La sentenza
3.000 progetti distruttivi pianificati nei Balcani».
La petizione promossa da Patagonia può essere firmata qui: blueheart.patagonia.com/intl/it/take-action 60/176
PAT R O L E 1 A P 3 0
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CORTINA D'AMPEZZO
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È arrivato Storytel, il Netflix degli audiolibri Una produzione originale esclusiva sull’impresa di Bargiel al K2 ha tenuto a battesimo la piattaforma nata in Svezia nel 2005
gli audiolibri e gli ebook anche in modalità offline per garantirne l’accesso in assenza di connessione internet. «ATAK2 ha riscosso un grande successo in tutti i Paesi e per questo stiamo pensando a nuove
> Audiolibri La schermata di ATAK2 su Storytel
produzioni legate alla montagna e all’avventura anche se - lo ammetto - prima di questa fortunata serie non era nei nostri programmi» ha detto Marco Ferrario, country manager di Storytel Italia. I primi dati disponibili, anche in un Paese con scarse abitudini di lettura come l’Italia, fanno ben sperare. «Confrontando i dati delle prime settimane, siamo in linea con le altre nazioni nello stesso periodo e sembra confermarsi come in Svezia una percentuale del 30% di utenti che non sono lettori abituali» aggiunge Ferrario. Ed è proprio questa la
L’incredibile impresa di Andrzej Bargiel al K2 è stata il trampolino di lancio per un’app che potrebbe a breve rivoluzionare il nostro modo di ‘fruire’ i libri, come Netflix ha fatto per la tv. Da fine giugno, infatti, anche in Italia è possibile abbonarsi a Storytel, la prima piattaforma europea di audiolibri - non a caso considerata il Netflix degli audiobook - che consente agli utenti un ascolto illimitato, attraverso un’app proprietaria per smartphone e tablet Android e iOS, al prezzo di 9,99 euro al mese. Il servizio è gratuito per i primi 14 giorni, ma per i lettori di Skialper, registrandosi sulla pagina www.storytel.it/skialper è possibile ottenere un periodo di prova di 30 giorni. Proprio ATAK2, che racconta l’impresa di Bargiel in cinque episodi, ha tenuto a battesimo il catalogo Storytel Original: prodotti di qualità, serie di circa dieci episodi, di fiction e non-fiction, pensati e scritti appositamente per essere letti e per il formato audio. Storytel ha lanciato il suo servizio in Svezia nel 2005 e oggi conta oltre 80.000 audiolibri in tutte le lingue (con oltre 5.000 novità l’anno) e più di 27 milioni di ascolti (per un totale di oltre 100 milioni di ore di ascolto annue) in 13 Paesi. I titoli in italiano sono circa 1.500 ma ogni settimana ne vengono rilasciati di nuovi e quelli in inglese 40.000 di cui 20.000 disponibili anche in versione ebook. L’applicazione consente di scaricare
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nuova frontiera: aumentare il consumo di storie in movimento. Sono moltissime le situazioni della vita quotidiana in cui è possibile ascoltare un audiolibro: in auto, facendo sport, cucinando, prendendo il sole, facendo giardinaggio o semplicemente rilassandosi a occhi chiusi.
Prova gratuitamente per 30 giorni Storytel registrandoti su www.storytel.it/skialper
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©Stefano Jeantet/TDG
Collé bis Ne s s u n o c o m e l u i a l To r Curiosità e aneddoti dietro al successo del valdostano nell’endurance trail più famoso del mondo
sarebbe stato una sconfitta. Così ho cercato di gestire il mio corpo in maniera più conservativa con l’obiettivo principale di arrivare a Courmayeur. Purtroppo però il caldo è stato la mia bestia nera, visto che lo patisco abbastanza, così ho cercato di limitare i danni nelle ore più roventi e aumentare un po’ il ritmo di notte e sono arrivato a Saint-Rhémy con circa quattro ore di vantaggio. A quel punto ho deciso di fermarmi e dormire un’ora. Sapevo che questo stop avrebbe rallentato di molto i miei ritmi, ma avevo un buon margine sugli avversari». Gambe, testa, ma anche lo staff, l’abbigliamento (Crazy Idea) e le scarpe (Hoka One One) hanno avuto il loro peso. «I capi Crazy The Legend avevo già avuto modo di testarli durante il Tor dello scorso anno e nelle condizioni
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He didi it. Franco Collé lo scorso 12 settembre ha conquistato
estreme della gara Alagna-Monte Rosa. Sono molto validi, con
per la seconda volta il Tor des Géants. Nessuno come lui.
un’ottima vestibilità. E pensare che non ho mai cambiato il
«Vincerlo per la seconda volta non può che essere magnifico
pantaloncino, ho tenuto sempre lo stesso capo dalla partenza
- ricorda Franco a mente fredda -, perché è una gara molto
all’arrivo, senza alcuna irritazione: non credo che serva altro
dura e ciascun vincitore non era più riuscito a ripetersi.
per illustrare la sua validità...». Quello dell’abbigliamento
Proprio per questo ci tenevo tanto a riconfermarmi o
è un aspetto sul quale un atleta preciso come Franco non
almeno ad arrivare in fondo dopo il ritiro dello scorso anno».
lascia nulla al caso. «In una gara come il Tor ogni dettaglio
Già, dopo il ritiro, quando fu trovato addormentato a 22
va curato, a volte gli atleti si preoccupano solo di prepararsi
chilometri dal traguardo. «Quell'esperienza non ha cambiato
atleticamente, ma secondo me anche gli accessori, dallo zaino
la mia preparazione, durante la gara invece ho modificato
alle scarpe, dalle calze all’abbigliamento, sono fondamentali.
completamente la mia gestione. Lo scorso anno volevo
Anche una piccola vescica o una banale irritazione della
provare a fare un qualcosa di eccezionale con tempi da record.
pelle con il passare dei chilometri può diventare fastidiosa e
Sapevo che avrei preso dei grandi rischi nel non riuscire ad
compromettere tutto». Appuntamento nel 2019? «Da tempo
arrivare in fondo, l’avevo messo in conto. D’altronde avevo già
vorrei mettermi alla prova nell’UTMB, vediamo, al limite farò
fatto un quinto e un terzo posto oltre alla vittoria. Quest’anno
il Tor più da turista dopo aver partecipato alla gara attorno al
non potevo permettermi un altro ritiro. Per il mio morale
Monte Bianco».
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> Natura e storia Non solo panorami sconfinati, ma anche il passaggio nelle trincee della Grande Guerra all'Adamello Ultra Trail ©Mauro Mariotti
questo numero di Skialper andasse in stampa. Sui 165 km e 11.500 m D+ dell’Adamello Ultra Trail Luca Manfredi Negri e Daniela Montelli protagonisti. Già terzo qui due anni fa, Manfredi Negri ha ingaggiato un serrato testa a testa con il trentino Jimmy Pellegrini, prima di scappare via in solitaria verso il traguardo di Vezza d’Oglio. Per lui un tempo di 28h33’51” che gli ha permesso di tenere dietro il trentino Andrea Mattiato (31h08’17”) e il bresciano Nicola Manessi (31h54’54”) mentre Pellegrini si è ritirato. Al femminile a incidere il proprio nome nell’albo d’oro Daniela Montelli. La portacolori del 3.30 Running Team ha vinto stoppando l’orologio sul tempo di 40h07’46”. Secondo posto per Federica Menti (42h42’15”), mentre terza si è piazzata Mara Toffanin in
Fe s t a p e r 4 7 0 a l l ’Ad a m e l l o U l t r a Tr a i l Nella classica di chiusura
47h15’16”. La distanza 84 km e 5.700 m D+ ha visto trionfare Dino Melzani, mentre nella gara in rosa la piemontese Katia Figini ha avuto la meglio sulla veneta Cristiana Follador. Pronti, via e subito un colpo di scena. Al chilometro 17, controllo ai primi 20 concorrenti, più diversi altri presi a campione. Per mancanza del materiale obbligatorio richiesto, due insindacabili squalifiche, una eccellente: il vincitore 2017 Gianni Penasa. Da quel momento Dino Melzani non ha più perso la testa della corsa. Per lui un crono finale di 11h11’52”. Nella prima serata sono arrivati al traguardo di
della stagione ultra vittoria
Vezza d’Oglio anche Carlo Salvetti (12h06’32”) e il tedesco
di Manfredi Negri e Montelli
André Purschke (12h15’20”). Al femminile una super sfida e gara davvero avvincente con Cristiana Follador partita subito forte. La svolta nella seconda metà del percorso, quando
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Quattrocentosettanta trail runner in arrivo da 10 Paesi, tre
Katia Figini ha innestato le ridotte e messo la freccia sulla
gare, due parchi naturali coinvolti (Parco nazionale dello
regina dell’ultimo Sellaronda Trail. Per la piemontese del
Stelvio, Parco Regionale dell’Adamello), 11 comuni toccati
Team Ferrino finish time di 14h34’08”. Seconda la Follador
(Edolo, Monno, Incudine, Vezza d’Oglio, Vione, Temù, Ponte
in 15h05’11”, terza si è invece piazzata Daniela Bonnet in
di Legno, Vermiglio). Adamello Ultra Trail, meglio conosciuto
15h28’52”. La domenica mattina invece 220 concorrenti si
come AUT, anche nel 2018 è stato il gran finale della stagione
sono sfidati nel Trenta Trail sulla distanza di 20 chilometri.
long distance. Un gran finale andato in scena nel fine
A vincere Simone Brunelli e Laura Brenna. Ma hanno fatto
settimana del 21-23 settembre, proprio pochi giorni prima che
festa tutti, dagli organizzatori ai finisher.
SIMONE MORO,
Alpinista ed elicotterista di montagna
Abbonamento richiesto
Photo credit: H.Barmasse
1
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Scarpa F80 F1 lo conosciamo bene, è uno dei best seller della collezione Scarpa da scialpinismo, primo modello con sistema Recco per la ricerca in valanga integrato. Nel 2018, però, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’azienda veneta, è stata realizzata la versione speciale F80, esattamente 2018 esemplari al costo di 649 euro. Rosso Ferrari e logo vintage dell'azienda. Indovinate che numero ha quello che abbiamo fotografato noi?
5
1. Fast Buckle Closure garantisce una chiusura rapida e precisa 2. X-Cage Evo: riduce la torsione grazie a geometrie variabili e spessore costante 3. F1 Lever, leggera, blocca e sblocca il gambetto in un unico movimento
1
4. Carbon Core Evo per il massimo controllo anti-torsione 5. Scarpetta Pro Flex Evo: termoformabile in esclusiva da Intuition per Scarpa 6. Evo Tongue: con snodo mediale che facilita la calzata
3
7. Il sistema di chiusura Boa è veloce e 6
garantisce un fit personalizzato 8. Suola Scarpa/Vibram Ufo Evo: ottimo 7
grip su tutti i terreni 9. Ogni esemplare è numerato: noi
2
abbiamo fotografato il numero 1!
9
10. Peso: 1.260 gr
4
8
©Achille Mauri
LA SPORTIVA ® is a trademark of the shoe manufacturing company “La Sportiva S.p.A” located in Italy (TN)
FRONTIER DOWN JKT W
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Photos by G. Calzà
Photos by P. Sartori
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Testo di ANDREA BORMIDA - foto di FEDERICO RAVASSARD
> people
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Q U E L L I
L A I L A
D E L
P E A K
ŠCarole Chambaret
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SKIALPER
Sono saliti alla ribalta delle cronache per la prima discesa della più bella montagna del Karakorum, in primavera, giusto qualche giorno prima di Cala Cimenti. Ma hanno molto di più da raccontare, per esempio un anno in giro per il mondo a cercare la neve migliore. E non se la tirano… «Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio. È una barca che anela al mare eppure lo teme». Quanti di noi sono quella barca dipinta dai versi del poeta e avvocato americano Edgar Lee Masters. Quante volte vorremmo seguire una nostra passione fino in fondo e invece siamo trattenuti dal farlo da quel senso di sicurezza che in realtà ci imprigiona e lega alla routine che ci siamo costruiti. A volte invece capita d’incontrare persone che amano talmente quello che fanno da mollare gli ormeggi dal porto delle loro abitudini per seguire semplicemente questa passione. Qualcuno le giudicherà egoiste, fuori dagli schemi, certamente fortunate: io so solo che quando le incontro il mio livello di energia interiore cresce in maniera naturale. Persone così sono una sorta di power bank del buon umore. Ecco Carole Chambaret, Tiphaine Duperier e Boris Langenstein! In loro brucia una passione fortissima per lo sci, per lo stare in montagna il più tempo possibile. Forse lo davo per scontato, anzi non ci avevo neanche pensato: sarebbe stato ovvio iniziare questa intervista parlando del Laila Peak. Sono questi tre ragazzi francesi quelli che hanno spaccato il Laila per primi! Le montagne con i nomi di donna sono affascinanti. I triangoli intriganti. Le sciatrici poi! Quando a queste cose aggiungi una neve perfetta, il fatto di essere in Himalaya su uno dei pendii più iconici e in voga degli ultimi anni, il gioco parrebbe fatto. Eppure… Eppure dopo cinque minuti che eravamo con loro in un tavolo all’aperto della Val Ferret davanti a una bella birra, era chiaro quello che già nel nostro inconscio
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sospettavamo. Va bene il Laila, ma la cosa bella era che ci trovavamo di fronte a tre veri appassionati di montagna. Due donne e un uomo col coraggio di vivere al 100 per cento la loro passione per lo sci, per i viaggi in quota e per la neve. Energia genuina, pura e semplice! L’anno trascorso a girare il mondo con gli sci, seguendo l’eterna primavera per avere la neve più bella dalle Alpi all’Himalaya, passando per il Perù e l’Alaska, è solo una piccola parte della loro attività. Il Laila è la ciliegina sulla torta e sinceramente pienamente meritata. Questo incontro è stato una scoperta, nel pieno della filosofia che guida la scelta dei personaggi delle nostre interviste. Non ci importa che abbiano un sito, che postino 5.000 foto da quando si lavano i denti a quando sono in cima. Ci piace parlare di sci con persone che si sentono vere senza doverlo dimostrare. Carole, Tiph e Boris sono stati davvero il prototipo dello skier che ci piace. Energia, pochi fronzoli. Come dice Fabri Fibra (mi sto violentando a fare questa citazione, ndr) nelle canzoni per i giovani …se non usi i social nessuno si fida. Quando invece capisci che ci sono ancora quelli che preferiscono investire ogni minuto libero per stare all’aria aperta su qualche pendio invece di trascorrere tempo a postare, un senso inconscio di speranza ti pervade. Forse non è ancora tutto perduto. Non vivono fuori dal mondo e dai suoi canali di comunicazione, sia chiaro. Ma abbiamo dovuto indagare un po’ per capire chi sono questi tre ragazzi francesi. La pagina Facebook correlata al loro progetto 12 mois d’hiver recita Ski de pente raide autour du monde. Il sito omonimo non funziona e allora partiamo da qui per conoscerli. La prima domanda è sempre importante, ed è un po’ che ci frulla in testa: due ragazze e un uomo in giro per il mondo a sciare, chi è che dormiva in mezzo?
> people
> Trio Carole, Boris e Tiphaine. I primi due sono compagni nella vita, Tiphaine andava a scuola con Boris
Ridono tutti un po’ imbarazzati. Carole alza la mano e prende la parola: Ero io! Carole Chambaret, 32 anni, bionda savoiarda di Albertville, si avvicina allo sci col padre, quindi agonismo e un po’ di gobbe, maestra di sci in Val d’Isère; conosce il suo coetaneo e poi compagno di vita Boris Langenstein a 18 anni, anche lui trasferitosi lì per fare l’istruttore di sci e preparare gli esami per diventare Guida alpina. Boris e Tiphaine invece andavano nella stessa scuola per discipline alpine di Annecy e da allora vanno in montagna insieme. Dei veri compagni di cordata. Boris non esita a definire Tiph la sua best partner per sci e salite. Tiphaine è originaria della zona montuosa dei Bauges, poi migrata in Tarentaise. Essendo un moniteur de ski lo sci occupa molto suo tempo. D’estate ha anche lavorato come operaio forestale. Dopo essere stata membro del gruppo Excellence National Mountaineering, ha inseguito i sogni d’infanzia diventando Guida alpina.
Viaggiare in montagna è definitivamente una delle loro attività preferite. Prima d’intraprendere il progetto 12 mois d’hiver avevano già alle spalle numerosi viaggi per sciare in Turchia, Perù e Nuova Zelanda, solo per citare alcuni dei posti visitati. Poi arriva il 2016, inverno particolarmente capriccioso qui sulle Alpi, almeno all’inizio: Carole e Boris tagliano il cordone ombelicale che li lega alle loro abitudini e decidono di seguire il sogno. Un anno, 365 giorni di sci intorno al mondo, senza pressioni, solo seguire la propria voglia di sci. Il sogno di generazioni di sciatori. Come tutti anche per loro nella vita c’erano un sacco di progetti, ma era sempre difficile realizzarli tutti. Magari organizzavi un viaggio, andavi in un posto per sciare una determinata montagna. Poi uno si doveva scontrare con le condizioni, con il meteo, con il conto alla rovescia del tempo che era sempre poco. Basta! Dopo averci pensato quasi tre anni, Carole e Boris hanno deciso di vivere
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SKIALPER
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> people > Incontri Boris, Carole e Tiphaine in Val Ferret in occasione della nostra intervista
a fondo quello che volevano fare: prendersi una finestra temporale sufficientemente lunga per potersi muovere in libertà, seguendo letteralmente la neve e le stagioni, fermandosi nei posti quanto bastava per fare quello che volevano. Un vero e proprio flow sciatorio intrapreso a gennaio 2016, inizialmente in due in furgone sulle Alpi francesi, partendo senza un vero e proprio piano per le prime settimane, se non per seguire il proprio istinto e adattarsi alle condizioni per scoprire le montagne. E poi gli amici che via via li raggiungevano e si univano a loro per piccoli periodi. Quindi Italia, in Valle d’Aosta, intorno a RhêmesNotre-Dame a respirare la prima polvere. Poi via accompagnati dal sottofondo del diesel del loro van verso Est, l’Austria, di nuovo l’Italia, i periodi di maltempo. Quindi Slovenia, Bosnia, Montenegro nel massiccio del Durmitor, nelle Alpi Dinariche dove a detta loro ci sono spettacolari montagne dai caratteri alpini. A seguire Albania, poi su verso la Polonia e i Tatra, quindi nel Sud-Ovest della Bulgaria, nei gruppi del Pirin e del Rila. E siamo solo nei primi due mesi. Arriva marzo: ovvio che ci si sposta in Turchia, nella zona dell’Ala Daglar, dove ad attenderli c’era una moltitudine di canali perfetti per sciare, come sul Demirkazik. Spesso capitava che i due sciavano al mattino e magari arrampicavano al pomeriggio. Senza un piano preciso, in fondo in montagna se la cavano abbastanza bene e la cosa compensava abbastanza la mancanza di un’organizzazione minuziosa. E poi in Turchia il kebab era troppo buono! Aprile in Georgia, il Mount Kazbek fino ad arrivare nella regione Svaneti a Mestia: questo periodo Carole e Boris lo hanno condiviso con i rispettivi padri che li hanno raggiunti e sono rientrati Francia con il furgone dei figli, visto che la coppia si stava per spostare in Alaska: rock’n roll insomma! E in Nord America i fortunelli, raggiunti da altri amici,
trovano condizioni epiche nel Denali Range: 17 giorni su 18 nei quali hanno sciato in continuità una linea dietro l’altra, molte delle quali aspettavano qualcuno che le sciasse per la prima volta. Chiedere i nomi di tutte? Non se le ricordano. Insomma, occhi illuminati a palla e sciare. Punto. Poi arriva il turno del Perù, dove trovano condizioni meno buone e più secche. Ciò comunque non impedisce loro di sciare il mitico Artesonraju (6.025 m) con una doppia di 40 metri, il Tocllaraju e di provare per due volte ma senza successo l’Huascaran. Una chicca: il secondo tentativo su questo gigante, visto il buon acclimatamento (dopo quello che avevano già sciato ci mancherebbe…) e la partenza per un’altra destinazione imminente, lo hanno effettuato one push, direttamente da Huaraz, fallendo per il cattivo tempo nella parte alta che ha aiutato a sbagliare percorso. Dopo l’avventura peruviana arriva il tempo del Tagikistan, un po’ in anticipo rispetto all’apertura dei campi del Peak Communism, quindi perché non spostarsi in Kirghizistan dove sono stati solo due giorni ma hanno provato lo stesso il Peak Lenin arrestandosi a 6.400 metri? Tornati in Tagikistan, hanno poi sceso una linea splendida sul Korzhenevskaya Peak (7.105 m). Con l’arrivo di settembre e ottobre vengono raggiunti da Tiphaine Duperier in Tibet per tentare lo Shishapangma, la quattordicesima montagna più alta della Terra con i suoi 8.027 metri. Tiph è alla sua prima grande spedizione. Purtroppo però le condizioni sulla montagna sono pericolose, nevica continuamente e una valanga uccide uno degli sherpa. Carole non si è ben acclimatata, Boris e Tiphaine stanno bene, ma c’è troppa neve fresca, o semplicemente troppo per noi, come ci dicono. L’incidente, poi, ha contribuito a creare una strana atmosfera. A novembre si torna a casa, in Francia: due mesi ancora nel 2016 per sciare!
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> people Poche chiacchiere e tanto sci. Di solito chi realizza progetti come questo cerca più supporto mediatico e da aziende di settore. Che scelta è stata la vostra? «Guarda, siamo un po’ pigri. Pigri nel cercare sponsor e quel genere di supporto. Ci sono state delle ditte come Outdoor Research o Völkl che ci hanno aiutato con materiale e piccoli contributi, ma tutti e tre abbiamo un lavoro e i nostri soldi li spendiamo per fare le cose in montagna!» O per Carole - aggiunge Boris - anche se lei non pare convintissima e arrossisce. Il vostro progetto 12 mois d’hiver lo avete portato a termine nel 2016. Poi subito Laila? «No, no anzi! Ci piace troppo viaggiare con gli sci! Nel maggio 2017, io (Boris, ndr) e Tiph siamo stati in Kashmir e Ladakh. Una spedizione bellissima, forse la più bella che abbiamo fatto. Non c’era nessuno, solo la gente dei villaggi di alta montagna. Abbiamo sciato montagne tra 5.000 e 7.000 metri tra cui il Nun. Sempre nel 2017, abbiamo tentato il Pumori (7.161 m) sul confine tra Nepal e Tibet, la stessa linea che aveva tentato Paul Bonhomme. È stata una bella spedizione, ma anche per noi niente cima: troppo ghiaccio, abbiamo tentato anche senza sci, come salita alpinistica, ma ci siamo dovuti fermare a 100 metri dal punto più alto. Pazienza, magari torneremo». Poi basta e via per il Laila? Siamo qui per farcelo raccontare. Una montagna che è diventata un’icona per lo ski de pente. «Sì, la spedizione dopo è stata quella del maggio 2018 del Laila. Tutti e tre insieme. Forse la spedizione più facile che abbiamo portato a termine, per condizioni e logistica. Quando siamo arrivati, il nostro contatto dell’agenzia locale ci ha detto che a breve sarebbe arrivato anche un team italo-svizzero per provare il Laila (quello di Cala Cimenti, Matthias Koenig e compagni). Quasi non ci credevamo e nemmeno eravamo sicuri di aver ben capito. Di Laila in Pakistan ce ne sono ben tre dopotutto». Sentivate un po’ di pressione? «No, però confessiamo che alla prima finestra di bel tempo, anche se non eravamo perfettamente acclimatati essendo appena arrivati, abbiamo provato! Bam! (ridono, ndr)
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Siamo stati molto fortunati, eravamo saliti un paio di volte oltre i 5.000 metri, ma poi abbiamo deciso di provare direttamente dal campo base. Partenza poco dopo mezzanotte, 2.000 metri di dislivello, un percorso vario e con diverse esposizioni sulla montagna, con sezioni più o meno tecniche. Il traverso per entrare in parete ci sembrava carico, forse abbiamo osato, c’era una neve stupenda, ma era tanta. Dopo quasi dodici ore eravamo in cima. In salita per la neve e per la quota è stato faticoso, ma una volta fatti scattare gli attacchi è stato incredibile, neanche difficile se vogliamo. Ovvio, la prima parte era davvero dritta, ma con quella neve sciare è stata la cosa più facile! Volevamo venire a sciare questa montagna già durante il nostro anno sugli sci, ma non siamo riusciti a organizzare bene il periodo per avere buone condizioni. Quest’anno è stato davvero perfetto. Forse la migliore neve che abbiamo mai sciato in quota!». Siete stati molto fortunati, Cala ci ha riferito di condizioni diverse durante la sua discesa. «Sì, sì, è vero, ce lo ha detto, le condizioni sono cambiate, la neve si è compattata. Non sappiamo se sarebbe stata così facile». Una discesa che ha avuto molta visibilità sui media. «Guarda, la cosa incredibile è che quando abbiamo chiamato i nostri amici in Francia, già la cosa si sapeva, e noi non avevamo ancora detto niente, quasi dubitavamo che i nostri genitori avessero cantato. Potere del web». Visto che siete veramente degli esperti del connubio sci-viaggio, che posti vi sentite di consigliare per un’esperienza di questo tipo? «La Turchia, la zona dell’Ala Dağlar, senza dubbio. È un buon compromesso tra uno sci selvaggio e accessibile senza troppa fatica. È un viaggio per divertirsi e godere dello sci su un terreno adatto e ricco di possibilità anche ripide. Il periodo migliore di solito è marzo, ma non è troppo difficile raccogliere informazioni. Più in primavera anche l’Alaska, se si vuole qualcosa di più lontano. Come dicevamo prima, noi siamo stati nella zona del Ruth Glacier, nel Denali Range. Siamo stati fortunati ma è un posto fantastico per linee e neve».
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> Globetrotter Carole e Boris non hanno al loro attivo solo il Laila Peak, ma discese da sogno in tutto il mondo. Nel 2016, infatti, decidono di fare un anno in giro per il globo alla ricerca della neve, per esempio in PerĂš (in alto)
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Qui attorno a questo tavolo siamo stati tutti in Perù ultimamente, per vacanze, per sci e soprattutto voi per un periodo più lungo, ci tornereste per sciare? «Non so (Carole, ndr). Magari mi piacerebbe di più vedere il Cile e la Patagonia. M’ispira molto un viaggio con gli sci nello Hielo. In Sud America comunque ci sono anche montagne più alte e discese ambiziose che ancora aspettano di essere percorse (Boris, ndr)». Lo sci nella vostra vita di tutti i giorni che posto occupa? È quasi scontato che sia rilevante, ci pare. «Se dobbiamo essere sinceri, più che lo sci in sé, ci piace da matti stare in montagna. Meglio se a scoprire posti nuovi. (Tiphaine, ndr) Mi piace il senso di avventura che sa regalare stare in un posto che non conosco. Addirittura certe volte, quando devo affrontare una salita o una montagna che è stata già percorsa, preferisco documentarmi dopo. Non raccolgo particolari informazioni o impressioni, magari in rete. Così non sono influenzata e vivo meglio quel sentimento di scoperta. Non mi importa molto essere la prima su una montagna». Sci e viaggio: un po’ come i pionieri dell’alpinismo qualche decennio fa. Quali sono secondo voi le prossime frontiere della disciplina? «Non so, in questa disciplina è scontato dirlo, dipende sempre tutto o quasi dalle condizioni. Sul Laila eravamo a 6.000 metri e abbiamo avuto le condizioni per il migliore sci della nostra vita, ad esempio. Spesso Boris ripete che, in realtà, se uno vuole fare qualcosa di più difficile di un altro, allora deve fare certe discese con cattive condizioni, con neve dura o crostosa. La difficoltà non sta esclusivamente nella pendenza». Boris, quindi, non cerchi solo la bella neve? «Beh, diciamo che a volte, non troppe ovviamente, mi piace anche fare qualcosa quando non ci sono le condizioni. M’impegna ed è più coinvolgente. Ma non esagero. Per me lo ski de pente è un’opportunità per scoprire nuovi terreni di gioco!».
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Domanda classica sui materiali che utilizzate. «Materiale Völkl, della serie BMT tra i 90 e i 95 mm. Per quanto ci riguarda spesso per il grip su nevi dure è importante anche il tipo di scarpone che si utilizza, ma comunque niente di estremo o particolarmente pesante, tipo Maestrale o Tlt, ognuno usa quello che preferisce». Ora, come da tradizione delle interviste con più persone, la stessa domanda con diverse risposte: chi è il più fanatico di sci tra voi? Carole: «Boris!». Tiphaine: «Boris». Boris: «Io, senza dubbio!». Chi è quello che osa di più in momenti difficili? Carole: «Sempre Boris!». Tiphaine: «Difficile dirlo, è raro che siamo in conflitto su una decisione». Boris: «Mi conosco e capisco con Tiphaine, e Carole si fida di noi». Il più attento? Carole: «Strano a dirlo, di nuovo Boris». Tiphaine: «Carole». Boris: «Carole!». Domanda che vi metterà in difficoltà: il migliore a sciare? Carole: «Boris». Tiphaine: «Carole è perfetta». Boris: «Carole». Il più buffo e divertente del gruppo? «Impossibile dirlo… presi tutti insieme siamo davvero divertenti!». Il sogno nel cassetto? Carole: «Mmmm… troppi». Tiphaine: «Come Carole, ho troppe cose che ritengo importanti e vorrei fare». Boris: «Non ho ancora mai visto la mia linea perfetta».
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Mira
MIRA LA STORIA CONTINUA
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SKIALPER
National Geographic Adventurer of the Year, protagonista dell’omonimo film, forte trail runner. Dietro a questa ragazza nepalese così determinata a cambiare il corso del proprio destino c’è molto più di quello che può trasmettere un cortometraggio e il bello deve ancora venire
Non devi per forza essere nata in una ricca città del mondo occidentale, avere frequentato le migliori università, un master negli Stati Uniti, costruito un impero attraverso i post di Instagram per diventare una influencer, fonte d’ispirazione per milioni di tue coetanee. Puoi diventare influencer se ti chiami Chiara Ferragni, puoi diventarlo se ti chiami Mira Rai e sei nata a Bhojpur, Nepal, dove non arrivano strade asfaltate, linee telefoniche e corrente elettrica. Ed è prodigioso nel primo caso - perché emergere non è mai facile, anche nella sovrabbondanza di opportunità offerte dalla società del benessere - come nel secondo. Cambiano solo le prospettive e il fine delle proprie azioni. Puoi diventare una case history per la Business School di Harward e avere quindici milioni di follower. Oppure essere nominata National Geographic Adventurer of the Year, finire sulla copertina di Outside in compagnia di Lindsey Vonn e venire premiata insieme a Indra Nooyi, potente ceo della PepsiCola, come Game Changer dalla Asia Society di New York, fondata da John D. Rockefeller terzo. Puoi diventare l’idolo di milioni di teen-ager, organizzare un matrimonio con annesso luna park e andarci con un aereo che porta il tuo nome. Oppure puoi arrivare in Europa e non sapere neppure cosa è un treno; aiutare Rashila Tamang a diventare guida di trekking in Nepal; permettere a Sunmaya Budha di correre alla Livigno Skyrace; fondare una onlus per dare un’opportunità in più alle donne del tuo Paese attraverso lo studio e lo sport; organizzare un trail nel tuo villaggio; andare dal presidente del Nepal e convincerlo a portare la corrente elettrica e le telecomunicazioni in un remoto paese di montagna. E non sono differenze di poco conto.
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Quando Mira Rai ha deciso di arruolarsi nell’esercito maoista, dicendo alla madre che sarebbe stata via per una settimana, a 14 anni, aveva un unico scopo: cercare qualche opportunità in più di quelle che la vita riserva a un’adolescente nepalese, imparare invece di finire nelle braccia di un marito a 12 anni. «Le donne nepalesi accudiscono la casa e vanno a dare da mangiare agli animali sulle montagne, mia madre non esce quasi mai, al massimo per andare al bazar» dice quando ti guarda con quegli occhi che se avessero una bocca sorriderebbero. Mira è la perfetta incarnazione del capitolo 25 del Principe. «Giudico che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi» ha scritto Machiavelli. La sua storia è un incredibile groviglio di incontri e coincidenze, ma quel 50% di fortuna è stata creata dalla determinazione fuori dal comune di questa trentenne con il viso ancora da bambina. «Nel 2014, per i miei primi 50 anni, i primi 30 di yoga e 15 di trail, mi sono imbattuta in un evento che sembrava lì per me, la Mustang Trail Race, in una regione himalayana dove si dice che i monaci tibetani siano stati visti sfrecciare staccati da terra - racconta Tite Togni, insieme a Richard Bull, il principale mentore di Mira -. La gara capitava proprio nei giorni del mio compleanno ma, per una serie di coincidenze, ho perso l’aereo interno e ho dovuto affrontare il viaggio in pullman, con alcuni atleti: Mira mi ha colpito subito perché mi guardava con quello sguardo intenso e curioso, mentre le donne nepalesi tengono gli occhi bassi». Dopo quella gara Richard Bull, il co-fondatore inglese di Trail Running Nepal, che organizza gare e aiuta i runner nepalesi, e Tite Togni sono riusciti a portare in Europa, per correre qualche gara,
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> Trofeo Kima In alto, Tite Togni e Richard Bull sono i due mentori di Mira. Richard l’ha scoperta e aiutata per primo, Tite l’ha portata in Italia, la ospita spesso e le fa assistenza alle gare europee. Curiosamente chiama Tite ‘sister’, sorella, e Richard ‘mentor’.
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> people > Martina «Come si chiama tua figlia?». «Martina» «Ciao Martina, non sprecare il tuo tempo, impegnati subito per ottenere quello che vuoi, voi avete molte più possibilità delle ragazze nepalesi, noi lottiamo tutti i giorni per mangiare, bisogna cogliere il momento e non rinviare le decisioni»
Upendra Sunuwar. Mira però non è restata a guardare, insistendo per avere anche lei una chance e ha ottenuto il suo primo biglietto aereo e il visto. In Italia, da perfetta sconosciuta, ha vinto la Sellaronda Trailrunning e il Trail degli Eroi. A premiarla, nelle Dolomiti, c’era Augusto Prati, country manager di Salomon, che l’ha segnalata a Greg Vollet, boss del team internazionale di atleti del marchio di Annecy. Entrata nel team Salomon, non più giovanissima, a 27 anni, nel 2015 è salita sul podio in Australia e in Europa, arrivando seconda nel ranking delle Skyrunning World Series. Ma la storia di incontri e coincidenze inizia prima e continua anche dopo quello straordinario 2015, come in un secondo film. Finito l’addestramento di due anni con l’esercito maoista, anni nei quali ha fatto lunghe marce notturne che sono diventate il migliore imprinting per la sua carriera di trail runner e praticato karatè, Mira non vuole tornare al villaggio e si trasferisce a Kathmandu, cercando fortuna con la corsa e il karatè. Però è difficile sbarcare il lunario, i soldi finiscono ed è già pronto il visto per andare a lavorare in Malesia. Lavori duri e rischiosi, nelle miniere o nelle fabbriche, dai quali spesso i nepalesi non tornano vivi. Il suo inconscio non ne vuole sapere di andare in Malesia e all’ultimo minuto riesce a convincere il maestro di karatè, conosciuto nell’esercito maoista, ad ospitarla per un anno. Il destino vuole che, durante una corsetta nel parco nazionale Shivapuri Nagarjun, alle porte di Kathmandu, incontri due ragazzi che la invitano a tornare qualche giorno dopo per un allenamento. Uno di questi ragazzi è Bhim Gurung, vincitore del Kima nel 2016. Mira torna, ma a sua insaputa si trova al via del Kathmandu West Valley Rim, un trail di 50 chilometri. «Non avevo mai corso su una distanza così lunga, non avevo i vestiti adatti, né da bere e da mangiare» ricorda ora.
Grandine e acqua la mettono a dura prova, però arriva al traguardo ed è l’unica concorrente donna. Richard Bull rimane impressionato dalla forza fisica e mentale di quella ragazza che non molla mai e inizia ad aiutarla con cibo, visti, iscrizioni alle gare e facendola lavorare nell’organizzazione della Mustang Trail Race. Nel 2015, al termine delle Skyrunner World Series, Mira deve affrontare un problema più volte rinviato: una vecchia lesione del legamento crociato che, sottoposta a stress, non le consente più di correre veloce. E il nostro Paese le dà un’opportunità: grazie all’affiliazione con la società sportiva Freezone, ha potuto ottenere il permesso di soggiorno temporaneo ed essere operata a Verona. Il rientro non è stato facile, ma grazie all’aiuto dello yoga, ai consigli del preparatore atletico Eros Grazioli e alla pazienza degli sponsor, che non le hanno mai messo fretta, nel 2017 è arrivato il successo alla Ben Nevis Ultra Sky Race. Il resto è storia recente: nel 2018 seconda alla Hong Kong 100 Ultra, quarta alla Lavaredo Ultra Trail, terza al Kima. Mira è tornata. Ci sono altri trail runner nepalesi conosciuti, per esempio Dawa Dachhiri Sherpa, primo vincitore dell’UTMB, ma lei, oltre che la prima donna sportiva, è stata l’unica a scegliere di rimanere nel suo Paese e di combattere ogni giorno per dare l’opportunità a tante ragazze di studiare, lavorare facendo le guide di trekking, correre e avere di che vivere, evitando di diventare una delle tante spose bambine. «Dopo le vittorie al Sellaronda e al Trail degli Eroi - racconta Tite Togni - aveva guadagnato un paio di migliaia di euro e, prima di partire, me li ha dati in mano dicendomi: tienili, gestiscili tu, io non so cosa siano. Io ho accettato l’invito a patto che iniziasse a studiare matematica». Mira la matematica l’ha studiata e anche l’inglese. E ha dato il sorriso e un’opportunità di riscatto a tante ragazze nepalesi, anche con quei soldi vinti in Italia.
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DIALOGO Sulle priorità della vita Mira, che cosa puoi fare per le donne nepalesi? «Mi è stata data una grande opportunità, ora voglio darla io ai miei fratelli e alle mie sorelle in Nepal. La nostra cultura non ci permette di fare quello che vogliamo, voglio dire alle ragazze nepalesi, alle donne, che ce la possono fare, che se vogliono praticare sport o altro, di provare, di non arrendersi mai e prima o poi, con un po’ di fortuna, ce la faranno. In Nepal le donne gestiscono la casa, danno da mangiare agli animali, raccolgono la legna, camminano per ore per andare a prendere l’acqua e si rassegnano a questa vita senza riuscire a guardare oltre».
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©Mira Rai Film/Lloyd Belcher
ALLENAMENTO Mira Home Valley «Ho iniziato ad amare la corsa tra le montagne nei due anni con l’esercito maoista. Vivevamo nella giungla, facevano decine di chilometri al giorno e in quegli anni ho imparato anche il karatè, che per una donna è molto importante. Pensandoci bene però da bambina facevo un’ora al giorno per andare e un’ora per tornare da scuola, camminavo su per i monti per andare alla ricerca delle capre, ritornavo dalla valle con sacchi di riso da 12 chili sulle spalle o andavo a prendere l’acqua: tutto allenamento per l’ultra trail».
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OUTSIDE COVER Nel 2017 Mira Rai è stata una delle dieci donne immortalate nella copertina celebrativa dei 40 anni della rivista statunitense come nuove icone dell’avventura. La foto, con abiti total white, è stata scattata a Los Angeles.
RELIGIONE NEPAL «La mia famiglia è induista, ma io penso che ci sia un solo Dio e diversi modi di pregarlo, in Nepal siamo sia buddisti che induisti e andiamo d’accordo»
©Richard Bull ©Philipp Reiter
LECCO NEW HOME Nella foto Dawa Gelzen Sherpa (in basso) con la famiglia e Tite Togni. Dawa Gelzen Sherpa abita a Lecco e ospita spesso Mira.
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POLLO E LENTICCHIE FOOD Mira in una simpatica posa alla Transvulcania. «Mangio principalmente carne di pollo, riso, frutta secca e lenticchie. Alle gare utilizzo anche i gel e le barrette» dice della sua alimentazione.
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©Martina Valmassoi
CHAMONIX GARE Nel 2015 Mira Rai è arrivata seconda nel circuito delle Skyrunner World Series, dietro a Emelie Forsberg. Oltre al secondo posto alle finali dell’Ultra Pireneu, la prestigiosa vittoria alla 80 Km du Mont Blanc.
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SKIALPER SELLARONDA E CANAZEI L’ITALIA NEL CUORE Mira si è imposta all’attenzione dell’opinione pubblica quando ha vinto, appena arrivata in Italia, la Sellaronda Trail Running, nel 2014. In Italia ha anche gareggiato alla Dolomites Sky Race nel 2015. ©Martina Valmassoi
©Filippo Menardi
PATAGONIA E DOLOMITI MONTAGNE DA SOGNO Quali sono le montagne che ami di più? «Sono tutte belle, mi piace molto il Mustang, qui in Europa le Dolomiti, perché sono diverse dagli altri monti». C’è un posto dove vorresti andare? «In Patagonia».
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SORRISO NAMASTÉ Mira Rai, anche nel momento della trance agonistica, non perde mai il buonumore, come sull’impegnativo percorso del Trofeo Kima
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SPORT NEL SANGUE «Mi interessano tutti gli sport, il karatè, l’arrampicata (è arrivata seconda ai campionati nazionali, ndr), il calcio. Tifo Argentina e soprattutto Messi, perché lui è un sostenitore del popolo nepalese».
©Richard Bull
LIZZY HAWKER L’AMICA La leggendaria trail runner inglese, regina dell’Ultra Trail du Mont Blanc, è spesso in Nepal e all’ultima Lavaredo Ultra Trail ha fatto assistenza a Mira insieme a Tite Togni.
©Filippo Menardi
ESERCITO BAMBINA SOLDATO «In Nepal non ci sono molte possibilità di studiare per una ragazza. Quando nella mia valle sono passati i reclutatori dell’esercito maoista, ho pensato che sarebbe stata l’unica strada per avere altre opportunità e aiutare la mia famiglia. A mia mamma ho detto che sarei stata via per due settimane e invece non sono tornata a casa per due anni e non sapeva neppure se fossi rimasta viva». ©Richard Bull
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©Mira Rai Film/Lloyd Belcher
TITOLI DI CODA Con i soldi guadagnati nelle gare europee Mira ha comprato una allevamento di polli per il fratello, fatto studiare a Kathmandu la sorella, che si occupa di marketing per la polleria, pagato il viaggio per portare i genitori per la prima volta a vedere la capitale. Ha studiato l’inglese e la matematica e imparato a fare i conti. Dal 2015 organizza la Bhojpur Trail Race, nel villaggio dove abita la sua famiglia, per portare turismo nella regione e aiutare i giovani runner locali. L’edizione 2018 è in programma il prossimo 15 dicembre e prevede due distanze, 36 e 8 chilometri. È possibile contribuire alle spese per l’organizzazione dell’evento. bhojpurtrailrace.com Nel 2017 Mira Rai è stata nominata National Geographic Adventurer of the Year. Nel 2017 è uscito il film Mira: la corsa della libertà, di Lloyd Belcher. Dalla scorsa primavera è disponibile su Vimeo On Demand con sottotitoli in italiano per il noleggio o l’acquisto. Nel 2018 ha fondato la Mira Rai Initiative, una charity registrata in Nepal e nata per aiutare le giovani trail runner nepalesi attraverso lo studio della lingua inglese, la partecipazione ai corsi per diventare guide di trekking, l’allenamento, la partecipazione a gare in Nepal e alla Hong Kong 100 km. miraraiinitiative.org Il 9 ottobre a New York riceverà il prestigioso premio Game Changer dell’Asia Society, assegnato alle persone che si sono distinte, rompendo gli schemi, per meriti umanitari, imprenditoriali o nella difesa dei diritti delle donne e delle ragazze. La motivazione? Per aver sfidato quote vertiginose, distrutto record, ispirato - e aiutato - milioni di ragazze.
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Testo di CL AUDIO PRIMAVESI - foto di ALICE RUSSOLO
C L A R E G A L L AG H E R
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L’americana, new entry del team La Sportiva, è un’ambientalista convinta e ha scoperto il trail nelle foreste della Thailandia
«Se sei sulla strada giusta, le porte si aprono; se sei su quella sbagliata, puoi aspettare, ma non si apriranno». Parola di Clare Gallagher, Boulder, Colorado. Probabilmente non erano tutte sbagliate le strade che ha percorso per buona parte dei primi 26 anni della sua vita. E sono tante. A 18 anni si è trasferita a Est, all’università di Princeton, dove ha iniziato a occuparsi di difesa dei coralli e ha seguito un corso di etica ambientale con Peter Singer, australiano, uno dei filosofi più influenti del mondo. Poi ha vissuto un paio di anni in Thailandia, prima insegnando l’inglese nei villaggi più poveri, poi impiegata in un programma di sensibilizzazione sulla difesa della vita marina. Ed ecco la prima strada sbarrata: le mancano gli amici, il Colorado, le montagne. Non è necessario essere una martire ai tropici per fare qualcosa per l’ambiente. Le
porte si chiudono, mentre si aprono quelle della corsa. «Ho sempre corso a scuola, ma facevo atletica o strada e, mentre alla high school ero bravina, all’università non andavo» dice Clare. Poi corre per caso un trail di 50 chilometri nel nord della Thailandia ed è subito amore. «Eravamo nella foresta e c’erano serpenti ovunque, era così selvaggio, mi è piaciuto subito». Torna a casa, nel 2015 fa un paio di gare e l’anno dopo vince subito la Leadville Trail 100 Mile, da quasi sconosciuta. Roba che ci sono atlete che ci tentano una vita senza successo. Le porte si aprono. La ragazza corre, forte. Però vuole provare a fare il medico e continua gli studi. Bastano poche settimane per capire che non è la sua strada. Le porte si richiudono. Lascia tutto per vivere di corsa. I risultati non mancano, la CCC del 2017 vinta con il record della gara dice qualcosa?
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SKIALPER > Ama l’Italia Nel 2018 Clare Gallagher ha corso lo Sciacchetrail (dove è stato realizzato il servizio fotografico) e la LUT
Portacolori del La Sportiva Ultra Running Team Si completa il La Sportiva Mountain Running Team che vede ora atleti impegnati su gare vertical, sky, trail ed ultra. Nel 2018 infatti è nato anche l’Ultra Running Team internazionale, di cui fa parte Clare Gallagher (nel 2018 prima allo Sciacchetrail, nona alla LUT e ottava ai Mondiali di Penyagolosa). Il primo atleta è il francese Sacha Devillaz, dodicesimo alla 80 km du Mont Blanc nel 2014, quarto alla CCC nel 2015 e nel 2018 vincitore alla Maxi Race du Lac d’Annecy XXL, vincitore della X-Alpine di Verbier su una distanza di 110 km nel 2017. Nel team Roberto Mastrotto, quindicesimo alla LUT 2018, già vincitore della 110 Km of Istria e diciannovesimo all’UTMB 2018. Christian Insam è una presenza fissa già da qualche anno sui podi delle gare endurance più dure: primo posto alla Sky Run Dolomiti nel 2015, quarto posto nello stesso anno all’Orobie Ultra Trail, nel 2016 vince il Trail du Cro, nel 2017 è terzo alla Dolomiti Extreme. Il suo 2018 inizia con un secondo posto al Garda Trentino Trail (long version) e con un ottimo sesto posto alla Dolomiti Extreme Trail, seguiti dal quarto posto al Gran Trail Courmayeur e al Comano Ursus Extreme Trail. Infine new-comer Elisabetta Luchese, che appena affacciatasi sulla scena delle ultra distanze porta a casa nel 2018 una settima posizione all’AIM Energy Trail, è terza al Duerocche Trail e seconda alla 100eLode. Taglia anche il traguardo della LUT come sesta donna italiana in circa 20 ore. Chiudono la rosa gli italiani Francesco Rigodanza, Georg Piazza, Anna Pedevilla, Francesca Pretto, Cristiana Follador e il tedesco Johannes Hinterseer.
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E la Endurance Challenge - California Trail 50 Miles al secondo posto nel 2017? Le porte si riaprono, comprese quelle del team La Sportiva, dove Clare è arrivata proprio quest’anno. «Avevo già usato le Helios, erano le mie LaSpo preferite, valide anche per correre su terreni duri, poi quest’anno ho provato di tutto, soprattutto le Mutant e ora ho trovato le mie nuove LaSpo preferite, le Bushido II, simili alle uno, protettive, ma morbide». Le porte del professionismo si aprono. «Sì vivo della corsa, più o meno, diciamo che la mia unica preoccupazione è mangiare» scherza. C’è una cosa che accomuna Clare e La Sportiva, entrambe hanno costruito i loro successi a partire dagli insuccessi. La casa di Ziano di Fiemme su questa dinamica ha impostato la sua festa per i 90 anni. Una scelta coraggiosa, come quella di Clare di abbandonare gli studi: «Quel fallimento mi ha dato tanta benzina per correre forte». Corre forte, eppure Claire non si definisce proprio una runner, piuttosto un’attivista ambientale e una runner. «Metto davanti la parola attivista, penso che viviamo sulla terra e dobbiamo fare di tutto per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata, dobbiamo restituire quello che ci ha dato e ancora di più come americani». Basta seguire i suoi account social per capire che Clare ha fatto delle scelte radicali e la difesa dell’ambiente è al primo posto nella sua vita. Non mangia carne, perché è la prima e più facile scelta se sei ambientalista convinta e vuoi minimizzare la tua
impronta ambientale, «però poi mi sono accorta che sto anche meglio e corro più veloce». A proposito d’impronta, Clare compensa anche le emissioni prodotte dai suoi spostamenti in aereo. È appena tornata da San Francisco dove con POW (Protect our Winters, un’associazione che cerca di sensibilizzare sul climate change e gli effetti sull’inverno e la neve) ha partecipato a una grande marcia per invitare gli americani a votare per candidati che s’impegnano a difendere l’ambiente alle elezioni del mid term. «Il principale problema delle nostre società è proprio questo, che la gente non vota più perché pensa che sia inutile, invece bisogna votare per le persone giuste». Votare per le persone giuste e parlare con chi si sta vicino, sensibilizzarlo dopo avere spiegato i problemi. Il sogno però è riuscire a creare un movimento ambientalista anche tra i runner. «Io, Luke Nelson, Anton Krupicka, Joe Grant, Stephanie Violett, Dakota Jones siamo tra i più attivi e stiamo cercando di avvicinare quanti più runner a POW, vediamo cosa succederà nei prossimi anni, se funzionerà, per ora non ha senso creare un’altra associazione e disperdere gli sforzi». Protect our winters… dunque in inverno scii? «È il primo sport che ho praticato, poi tre anni fa ho iniziato a fare gare di scialpinismo, giusto per allenarmi, ho partecipato anche alla Grand Traverse, ma fa freddo, molto freddo e io sono freddolosa, anche quando corro». Però è meglio proteggere i nostri inverni, vero Clare?
La LUT e la Leadville targate LaSpo Non è solo la creazione del team ultra a segnare l’ingresso di La Sportiva nel mondo ultra trail, ma anche la title sponsorship di due importanti gare del circuito Ultra Trail World Tour, la Lavaredo Ultra Trail e l’americana Leadville 100. Due gare storiche che legano il loro nome a quello del marchio italiano. Dal 2019 e per tre anni la LUT si chiamerà La Sportiva Lavaredo Ultra Trail, un passaggio importante in termini di immagine che andrà a sottolineare ancora di più il carattere dolomitico e territoriale della manifestazione che punta a organizzare anche una gara da 90 chilometri (UltraDolomites) accanto alla tradizionale 120k, alla 48k e alla 20k. L’appuntamento è dal 27 al 30 giugno 2019.
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DoloMyths per 3
©Ralf Brunel
Tre atlete top e la regina delle skyrace, sul Pordoi. Storie, speranze, passioni e frammenti di vita quotidiana che s’intrecciano con quelle di una gara mitica Testo di LUCA GIACCONE - foto di ALICE RUSSOLO
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Canazei, fine luglio 2018. Hillary Gerardi from USA, Maite Maiora from Spain e Martina Valmassoi from Cadore. Tre vite diverse. Ma quando arriva il fine settimana della gara, arriva anche il momento più bello, uguale per tutte, perché non bisogna rifare il letto, passare l’aspirapolvere, preparare il pranzo. È tempo di DoloMyths Run Skyrace, nome nuovo per una grande classica come la Dolomites SkyRace. COLAZIONE DA HILLARY - Su Messenger ci dà appuntamento alle 9.30, ma io sono in ritardo, come sempre. Arrivo che ha finito. È in camera con Holly Page: parlano ovviamente in inglese tra di loro, visto che una arriva dal Vermont (anche se il cognome tradisce origini italiane, della Campania per la precisione) e l’altra da Londra. Ma potrebbero farlo benissimo in francese, perchè Hillary lavora a Chamonix e Holly per un’organizzazione legata al governo britannico che si occupa di progetti di sviluppo internazionale, soprattutto in Paesi africani dove la lingua madre è quella di Napoleone (ma sa parlare benissimo anche spagnolo e italiano). Hillary a Chamonix lavora al CREA, il Centre de Recherches sur les Écosystèmes d’Altitude, un’organizzazione di ricerca specializzata nello studio degli ambienti montani naturali. «Ho la fortuna di poter gestire i vari progetti: diciamo che il grosso del lavoro è tutto di planning. So quando devo consegnare i risultati, quando organizzare gli incontri o le uscite sul territorio e nel mezzo ci piazzo gli allenamenti». Si stupisce del nostro interesse. «Posso farti io una domanda, perché mi intervisti?». «Perché vai forte e sei un po’ un nome nuovo». «Beh - mi risponde - fino a pochi anni fa mi limitavo a una serie di gare vicino a casa. Ed è vero anche che lo skyrunning è entrato nella mia vita solo ultimamente, prima mi dedicavo di più alla montagna, poi dopo un brutto incidente sugli sci ho deciso che era meglio correre per non rischiare. Mi è subito piaciuto l’ambiente e adesso sto iniziando a viaggiare di più anche all’estero. Così devo essere ancora più attenta a come programmare la settimana, mettendoci dentro anche le trasferte. Ma ormai sono una maestra nella pianificazione».
ARRIVA MARTINA - Martina Valmassoi arriva a Canazei direttamente da Chamonix con il suo furgone, che è casa, studio… Lei in fondo è e si sente ancora un’atleta ma è stata bravissima a costruirsi un presente lavorativo nel mondo che ama. Merito dei suoi studi, della padronanza delle lingue. L’abbiamo vista negli spot televisivi, ma l’impegno principale adesso è con Salomon. Fotografa, social manager, fate voi: di fatto cura l’immagine del marchio francese, seguendo alle gare gli atleti del team. «E quando sono lì per lavoro, mi muovo, ma non posso certo dire di allenarmi. E neppure prendermi il tempo per farlo. Non puoi dire adesso basta è tardi, devo uscire a correre. Penso che tu sappia benissimo cosa intendo!». Ma c’è il vantaggio di potersi gestire al meglio gli altri giorni. «Quello è vero, basta farsi un bel piano a lunga distanza. Quest’estate avevo più tempo libero e mi sono allenata bene, mettendo il Kima in cima alla lista. E poi vorrei continuare in inverno con lo skialp. Ma non sono più in Nazionale, non avevo il tempo per affrontare lunghe trasferte per la Coppa del Mondo e ho deciso di farmi un po’ da parte. Però sono ancora pronta e credo competitiva anche sugli sci. Vorrei fare la Pierra, ma se sei un po’ fuori dal giro pensano che non vai avanti e allora non è così facile trovare una socia. Però non dispero, anzi». MAITE IN VAL DI FIEMME - Dalla Val di Fassa è scesa a Ziano: lei è atleta LaSpo. «Sì, ma non sono una professionista. Mettiamola così, una semi professionista, nel senso che le gare sono una parte importante della mia vita, ma c’è pur sempre un lavoro, una famiglia, una casa. Sono nella polizia locale del mio paese, un piccolo villaggio a una quarantina di chilometri dal Bilbao, e non ho agevolazioni visto che corro. Qualche aiuto per i permessi, ma nessun impegno solo d’ufficio, faccio i turni fuori come tutti i miei colleghi. Il più duro? Quello di notte di sicuro, perché al mattino non riesco poi ad addormentarmi, ma anche quello 6-12 pesa un po’ visto che mi scombussola la giornata. Per fortuna che si sono i riposi e soprattutto mia mamma che mi dà una mano nelle faccende di casa».
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TEMPO DI RELAX - Hillary e Martina sono rientrate dopo una corsetta insieme. Massaggi, quattro chiacchiere. Ma come ci rilassa a casa? «Podcast» risponde Hillary. Che non è quello che intendiamo noi, di riascoltare trasmissioni radio registrate su app o siti, ma live di programmi di stazioni americane. O così ci sembra di aver capito. Ci consola che anche Martina non abbia capito bene di cosa si tratti. Lei invece ha scelto Netflix. «Mah, mi sono abbonata, sicura che così avrei potuto vederlo quando volevo. In realtà il tempo è quello che è, allora mi dico di disdirlo, ma mi dimentico ed è rimasto lì, così qualche volta guardo qualcosa in albergo, se non c’è niente di meglio da fare». IL BREEFING DAL MACHA - Maite questa gara la conosce bene. O meglio, queste montagne le conosce bene. «Venivo già nelle Dolomiti da ragazza, con la mia famiglia. Allora però non correvo, era solo mio fratello che praticava atletica: andavamo per sentieri, per ferrate. Poi mi ha trasmesso la passione della corsa; in realtà ero stufa di aspettarlo alle sue gare e ho iniziato anche io. Ma anche con mio marito siamo venuti spesso su queste montagne: qualche settimana fa, quando siamo arrivati per la Stava, mi ha detto: ti ricordi quella montagna? Potremmo tornare a salirla. Ma l’ho riportato subito alla realtà, visto che ero lì per correre. Tra qualche anno ci torneremo da turisti». Ascolta le indicazioni che il Macha dà agli atleti LaSpo, ma lei il tracciato della DoloMyths lo conosce bene. «Mi piace questa gara e sono venuta tantissime volte. Anche se non è il mio tracciato ideale, quello che si addice alle mie caratteristiche: ci fossero altre due salite forse potrei essere più competitiva. Non importa: non si corre solo puntando alla vittoria, va bene anche esserci se l’ambiente è quello che ti piace». HILLARY AL SUPERMERCATO - Prima di cena incontro per caso Hillary al banco del formaggio: io cerco il puzzone di Moena da portare a casa, lei il parmigiano. «Perché in Francia è molto più caro». Le chiedo com’è la sua dieta da atleta. «Faccio attenzione, ma mangio un po’ di tutto, non sono così maniaca. Se mi manca qualcosa dell’America? Guarda, voi siete un po’ abituati
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a pensare agli Stati Uniti come il regno degli hamburger: è vero, li mangiamo, ma io arrivo da un piccolo paese del Vermont dove non è che ci siano i chioschetti che vedete nelle vie di New York. A Chamonix abbiamo creato un piccolo gruppo d’acquisto da produttori locali per avere il massimo della freschezza: l’unica cosa che non trovo così facilmente sono le patate rosse, tipiche invece da noi. Ma per il resto va bene così: alla fine sì, meglio la raclette che gli hamburger!».
> Spettacolo naturale La discesa nella Val Lasties (sopra) e Hillary Gerardi in azione (a sinistra) nello spettacolare paesaggio di una gara mitica come la Dolomyths Skyrace In apertura, da sinistra, Maite Maiora, Hillary Gerardi e Martina Valmassoi
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LA GARA Hillary ci ha provato. Dopo il secondo posto dello scorso anno, una nuova piazza d’onore, sempre alle spalle di Laura Orguè. Aveva circa quattro minuti di ritardo sul Piz Boè, ha rimontato posizioni in discesa. «I love downhill! Ma ci torno per vincerla, sicuro». Martina è arrivata nona, prima delle italiane, ma lei è in un periodo di carico per distanze più lunghe. Tredicesima Maite, però ce l’aveva detto che avrebbe faticato a tenere il ritmo delle migliori. IL NUOVO PROGETTO DOLOMYTHS RUN Una sorta di debutto. Sellaronda e Dolomites sono nomi storici, ma adesso è tempo di DoloMyths Run. Cambia il nome, ma non la sostanza. L’impegno non manca, però alla fine Diego Salvador gira soddisfatto in piazza Marconi a Canazei la domenica sera: «Abbiamo chiuso nel modo migliore una nuova avventura. Abbiamo portato avanti importanti novità, in primis la diretta streaming della skyrace che ha avuto riscontri eccezionali, altre ne abbiamo in testa per la prossima stagione. Intanto ripartiamo con l’inserimento della gara nel neonato circuito mondiale Salomon (nuovo main sponsor), quello delle Golden Series. Tutto questo grazie ai tantissimi che ci danno una mano, un aiuto concreto nell’organizzazione». ATTORNO AL SELLA Primo atto con la Ultra il 14 luglio e nuovo sigillo stagionale per Luca Carrara, mentre al femminile sul traguardo di Canazei ha trionfato Cristiana Follador. L’alfiere del team Salomon ha concluso i 61,05 km con un dislivello positivo di 3.378 metri facendo registrare il tempo di 6h34’35”, staccando di 4’40” il valdostano Davide Cheraz, con terzo il ceco Tomas Farnik a 11’55”. In campo femminile prima affermazione dopo un secondo e un terzo posto nelle precedenti edizioni per Cristiana Follador, che ha concluso con il tempo di 7h47’07”, staccando di 7’36” la parmense Katia Fori, quindi terza la statunitense Andrea North, che era transitata davanti a tutti fino al Passo Sella, per poi cedere alle due rivali, soprattutto in discesa. VERTICAL Il fine settimana tappa anche del del Crepa Neigra zionante testa a
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successivo si è aperto con il vertical, Vertical Kilometer World Circuit. Re Davide Magnini al termine di un emotesta con Nadir Maguet e lo sloveno
Che cosa rappresenta il nuovo logo? Ci sono i tre elementi che identificano queste tre gare, ovvero il Piz Boè stilizzato in cima, i colori dell’enrosadira e le ali del gracchio, l’uccello che s’incontra spesso su queste montagne. La stessa icona viene declinata in verde per la gara più lunga, in rosso per quella più esplosiva e in azzurro per quella a contatto con il cielo.
Nejc Kuhar, a completare il podio. Nella gara rosa successo della svizzera Victoria Kreuzer, davanti alla giovane svedese Lina El Kott Helander e alla catalana Laura Orgué. SKYRACE Chiusura con la skyrace, la gara per eccellenza, il 22 luglio. Una prova che ancora una volta regala emozioni. Il norvegese Stian Angermund Vik arriva per primo sul Passo Pordoi, poi preferisce salire in coppia con il connazionale Stian Aarvik verso Forcella Pordoi. Però allunga ancora e lo Stian più giovane viene raggiunto da Nadir Maguet e Davide Magnini. In discesa il Mago scappa e si porta dietro Stian Aarvik. I due raggiungono il battistrada, però Stian Angermund Vik, quando li vede vicini, cambia letteralmente passo, allunga e non lo prendono più. 2h01’18’’ il tempo a Canazei del portacolori del Team Salomon, piazza d’onore per l’altro atleta Salomon, Stian Aarvik (2h02’53”), terzo Nadir Maguet del Team La Sportiva in 2h03’26”. Quarto Davide Magnini, quinto il britannico Finlay Wild, Nella gara rosa Laura Orguè cala il poker a Canazei e la terza vittoria consecutiva dopo i successi del 2016 e 2017. All’attacco in solitaria dall’inizio alla fine: 2h28’54” per la portacolori del Team Salomon. Alle sue spalle piomba Hillary Gerardi che in discesa recupera e passa le sorelle svedesi El Kott Helander: terza è Sanna, quarta Lina. Quinta la britannica Holly Page, con nona la prima azzurra Martina Valmassoi.
built to last just like you
SUUNTO 9 •
Durata della batteria fino a 120 ore in modalità Ultra
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Batteria con tecnologia e promemoria intelligenti
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Testato in condizioni estreme
suunto.com
SKIALPER
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Q U E S TA È L A M I A V I TA Atleta di punta della nazionale e dell’Esercito, al primo anno Senior, Alba De Silvestro è a una svolta della sua carriera. E affronta la maturità agonistica
Testo di LUCA GIACCONE - foto di ACHILLE MAURI
con il sorriso e un cronometro sempre in tasca
Alba è diventata grande. Serena, determinata e chiacchierona. «Eh, non sono più quella che qualche anno fa rispondeva solo sì e no alle domande». Adesso quella che era solo una passione, è un lavoro: Alba De Silvestro è una skialper professionista. «Ho tanti privilegi, ma anche molte responsabilità. Sono finiti i tempi che appena staccavo dal lavoro al bar, sfruttavo ogni singolo minuto per allenarmi: entrando nell’Esercito posso organizzarmi al meglio la preparazione, scegliere come e quando uscire per ogni sessione, curare ogni dettaglio. Magari, se fa brutto, posso posticipare un po’, prima si partiva a qualsiasi ora e in qualsiasi condizione, pur di andare. Al tempo stesso, però, devo essere pronta al massimo per la gara. Prima potevo trovare un’attenuante nel fatto che non avevo avuto il tempo necessario, che ero stanca, adesso non più. E anzi, proprio in questa stagione viene il bello: sarò al primo anno Senior e non avrò più il contentino della classifica Under 23». Tradotto significa che un fuori podio vuol dire proprio fuori dal podio, non più magari la migliore delle giovani. Una prospettiva che non spaventa Alba: «Sono qui per questo: è la vita che mi piace, che volevo fare. Magari ad altre mie amiche può sembrare da pazzi andare tre ore a correre sotto la pioggia,
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ma per me è il massimo. Non mi pesa affatto: sono contenta così». Però c’è quel cronometro che un po’ la assilla… «Forse una cosa sola mi manca: poter andare in ferie senza pensare ad allenarmi. A fine stagione sono andata a Tenerife con Katia e Mara (Tomatis e Martini, sue compagne in nazionale, ndr), ci siamo dette, solo in infradito, ma alla fine non so quanti chilometri avremo fatto in bicicletta. Forse una vacanza vera la farò a fine carriera. O forse no, visto che difficilmente mi vedo a star ferma tutto il giorno sulla sdraio a prendere il sole». Alba è il futuro dello skialp rosa italiano, è coccolata in azzurro e dai suoi sponsor, ma è rimasta con i piedi per terra. «Non esageriamo, mi sono tolta belle soddisfazioni, ma devo ancora dimostrare tanto. Coppa del Mondo, Mondiali, le classiche de La Grande Course, i traguardi possibili sono tanti, bisogna dimostrare sul campo quanto si vale. Non voglio mettere paletti. Un passo alla volta, poi chissà». Il chissà è presto spiegato. «Hai capito, sarebbe il massimo arrivare ai Giochi Olimpici. Non è che quando sono in caserma i miei colleghi dello sci o dello snowboard mi facciano pesare le loro medaglie, ma di sicuro hanno un fascino particolare. Insomma, non ci sentiamo di serie B, ma se arrivassimo anche noi alle Olimpiadi sarebbe bellissimo, un grande riconoscimento. Anche per le nostre fatiche, aggiungo». Fatiche doppie quelle di uno scialpinista: avere motore in salita, avere gambe in discesa. Quanto si allena una professionista come lei? «Ho un programma di massima, su questo aspetto sono molto meticolosa. Anche troppo: pianifico tutto. Eppure spesso fai tutti i programmi del mondo e poi li stravolgi. Generalmente due sessioni al giorno, tra corsa e bici d’estate, e poi sulla neve, spesso e volentieri anche in pista. Se riesco con mia sorella Martina: ci siamo sempre allenate insieme, adesso i nostri impegni non coincidono, ma visto che lei è maestra di sci qualche dritta la ascolto volentieri». Il campo di allenamento preferito sono le montagne di casa del Cadore, la sua casa. «Sono fissata sui percorsi, quando ne trovo uno che mi piace lo faccio in continuazione, fino alla saturazione e cambio tutto. Mi viene da dire basta, poi guardo Strava e vedo che quella salita l’ho fatta cinquanta volte e capisco perché». Poi si stacca, perché esiste la guerriera che macina metri verticali e la ragazza della porta accanto, con i suoi sogni e le sue abitudini.
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BIO Classe 1995, di Padola di Comelico, ha iniziato con lo sci alpino, poi nel 2011 è passata allo skialp e cinque anni dopo è stata arruolata nel Centro Sportivo Esercito. Da Junior ha vinto Coppa del mondo, Mondiali ed Europei; da Espoir ha chiuso al secondo posto il Trofeo Mezzalama e al terzo l’Adamello Ski Raid nel 2017, mentre nel 2018 si è aggiudicata l’Altitoy in coppia con Katia Tomatis. Atleta Dynafit, è sostenuta anche da Enervit, Mülworks e Fizik.
> Fatica Alba mentre si allena in bici, altra sua passione dopo lo skialp, sui tornanti dello Stelvio (sotto). La corsa è un altro dei modi per macinare dislivello in autunno (in basso)
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> Run Stretching prima e dopo la corsa che è un modo per aumentare il volume dell’allenamento
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> Fuori orario Spesso Alba si allena sulle piste chiuse, quando gli altri tornano a casa. Ma è la vita che ha scelto
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Testa e motore «Quando è arrivata era davvero una ragazzina, adesso è una donna consapevole della sua forza». Così Lillo Invernizzi, il suo coach nel Centro Sportivo Esercito, descrive Alba De Silvestro. «Il motore ce l’ha sempre avuto, adesso è cresciuta di testa. Ascolta e lavora duro, ma bisogna essere forti anche mentalmente nel nostro mondo: lei su questo aspetto è migliorata tantissimo. E sa benissimo dove vuole arrivare». Alba in estate ha una grande passione, le due ruote. «Mi piace anche vedere il ciclismo in televisione - dice -, ma alla fine mi faccio prendere dalle gare… e quasi quasi sudo più di loro, anche se sono sul divano. Allora è meglio uscire». Scelta azzeccata. «La bicicletta nel periodo estivo-autunnale è per noi un’ottima base per fare quantità - ribadisce Manny Reichegger, adesso nello staff tecnico dell’Esercito e della Nazionale, con Denis Trento -, diamo a tutti indicazioni di massima, ma lasciamo ai singoli atleti la possibilità di gestire personalmente cosa preferiscono fare. Che sia corsa, bicicletta, camminate: hanno tutti qualità importanti, ma ognuno deve anche ascoltare il suo fisico e rispondere alle sue esigenze. In questo periodo della stagione abbiamo di solito tre settimane di carico al mese e un raduno collegiale dove valutiamo anche le condizioni. Qual è il programma settimanale di Alba? Lo chiediamo direttamente a lei. «Durante la stagione si va sempre in crescendo, è ovvio. Ma la base è quella di tre uscite a piedi e quattro in bicicletta, anche mountain-bike, ma preferisco le strada. In una stagione arrivo a 5.000 chilometri, diciamo una media di 300 a settimana. Uscite da tre-quattro ore, poi capita anche di arrivare a un centinaio di chilometri e di stare più di cinque ore in sella. Però sono eccezioni, anche perché le mie strade sono di montagna e il dislivello non manca. I veloci li faccio quasi sempre di corsa, preferisco così. Pochi lunghi, al massimo una ventina di chilometri».
«Amo fare stretching la sera, anche il giorno prima della gara, ma lo ammetto, il massimo del relax è alle 14, d’inverno, quando tra un allenamento e l’altro mi piazzo sul divano mezz’ora con la copertina, il gatto sulla pancia e guardo i Simpson». Ride quando la Dynafit le consegna un nuovo pantalone di jeans. «Sono giusti giusti. Vabbè, almeno quando ingrasso me ne accorgo!». Ma come, un’atleta che ha paura di ingrassare? «Beh, calorie ne brucio e faccio attenzione a quello che mangio. Senza eccessi anche in termini di attenzioni: non credo che zucchero e farina facciano male, non sono vegetariana, vengo matta per i dolci. Non amo cucinare, diciamo che mi arrangio: sono brava proprio solo con i dolci. Fosse per me, andrei avanti ad hamburger e patatine tutti i giorni. Lo so, non sono il massimo per la salute, ma mi piace mangiare male!». Siamo allo Stelvio, pedala sui tornanti, corre, sale con le pelli in ghiacciaio. Poi ci sono da fare le foto-ritratto. «Non sono così maniaca dell’aspetto. Il giusto direi, quello che mi basta per sentirmi bene. I capelli non li curo granché, primo perché non riesco a stare così tanto tempo ferma dal parrucchiere, secondo perché comunque, quando mi alleno, più che la coda non faccio. Peggio ancora per le unghie: cosa le sistemo che tanto le rompo al primo cambio pelli? L’unica concessione è l’estetista, quella sì. E lo shopping con le amiche. Anche se devo sempre cercare i buchi giusti nel mio programma per poter uscire con loro». Giornata finita, si riparte. Alba carica la bicicletta in auto. «Ecco, se ci sono aspetti della mia vita dove sono meticolosa, ce ne sono altri dove sono una casinista vera, come in auto. La metto solo un po’ in ordine quando vado con Manny Reichegger ai raduni». Sorride. Ci sarà anche qualche giornata no, ma si vede che è felice, che sta vivendo la sua passione al massimo.
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FREE TO RUN L’avvocatessa canadese Stephanie Case corre con la bandiera della Palestina, lavora per l’Onu e aiuta le donne dell’Afghanistan a emanciparsi attraverso lo sport. Oltre ad andare veloce
Testo di SIMONE SARASSO - foto di STEFANO JEANTET/TDG
È giovane, bella e ha i superpoteri. Può correre per 330 chilometri in montagna senza un graffio. Parla un sacco di lingue. Sa cavarsi d’impiccio nelle zone più pericolose del mondo: Afghanistan, Palestina, Sud Sudan, Striscia di Gaza e perfino Courmayeur durante il ponte di Sant’Ambreus. Il suo nome è Stephanie Case, di mestiere fa l’avvocato e lavora per l’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU. Sul suo sito c’è scritto che ha trentacinque anni e immagino che, se
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quella dichiarazione è marchiata a fuoco nella pagina about (non proprio up to date), la signorina abbia deciso di averli per sempre. Stephanie non invecchia. Perché corre più veloce del tempo. È una donna pragmatica e professionale, ma è capace di ridere e sognare. Il suo sogno più grande è quello di trasformare lo sport in libertà. La Case, da ormai quasi un decennio, è un’ultrarunner tenace e potente. Nel suo carnet ci sono storie di gare straordinarie, dalla Western States Endurance Run, alla Transvulcania, passando per l’UTLO, la Lavaredo Ultra Trail, la Vibram Hong Kong 100, l’UTMB e quattro Tor des Géants. Il Tor, dice lei stessa, è la sua ossessione. Ne ha parlato perfino al TedX (Technology Entertainment Design Talks) di Losanna, lasciando gli ascoltatori a bocca spalancata. Con questo spirito, e con la medesima tenacia con cui le sue suole scolpite mordono pietre e sassi, Stephanie ha fondato Free To Run, un’associazione benefica che supporta le donne che vivono in zona di guerra, offrendo loro un’occasione di emancipazione attraverso lo sport. La charity fornisce materiali e supporto, consulenze e training specifico, nonché assistenza nelle gare.
TOR DES GEANTS 2018
1st place: Franco Collé, The Legend. Thank you Franco.
Crazy The Legend collection Thank to our partners VALLE D’AOSTA
Vertical no Limits Sport, Quart (AO) Ulisse sport, Courmayeur (AO)
PIEMONTE
Cuore da sportivo, Torino Trailmarket.com, Busano (TO) Mosoni sport, Domodossola (VB) Sportway, Gravellona (VB)
PH: Stefano Jeantet
TRENTINO ALTO ADIGE Vertical Bike & Climb, Pietramurata (TN) Crazy Store, Arco (TN)
LOMBARDIA
DF Sport Specialist, Bevera (LC), Lissone (MB), Milano, Orio (BG) Faletti mountainstore, Darfo Boario terme (BS) Gialdini sport, Brescia (BS) Kappaemme sport, Parre (BG) Crazy Store, Tirano (SO), Morbegno (SO), Livigno (SO) Castione Andevenno (SO)
LIGURIA
Ride and run, Finale ligure (SV)
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> Gigante In queste pagine alcuni momenti del Tor des Géants 2018 di Stephanie Case, chiuso al quarto posto della classifica femminile
Tramite Free to Run, donne che, in Paesi pesantemente oppressi come l’Afghanistan, a malapena avevano facoltà di uscire dalle proprie case, hanno partecipato a gare mitologiche, come la 4 Deserts, in giro per il mondo. Il sogno di Stephanie, però, era ancora più grande: portare cinque ragazze afghane in Valle d’Aosta. E schierarle al suo fianco alla partenza del Tor. Si è impegnata a fondo per questa visione, ma alla fine il governo di Kabul ha negato i visti. La Case era delusa, si capisce. Ma non ha mollato: quelle come lei non mollano mai. Al Tor ci è arrivata come sempre: sguardo glaciale e concentrato, t-shirt a maniche lunghe, infradito e testa bassa. La scorgo alla consegna dei pettorali dei top runner. Ci siamo scritti alcuni giorni prima, e le avevo proposto un’intervista, ma non siamo riusciti a combinare. Troppi impegni per l’algida runner canadese che corre sotto la bandiera della Palestina (la scelta non è un vezzo, ma un grande motivo d’orgoglio: la Case ha trascorso
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anni nel Paese diviso per eccellenza e, benché ora il suo lavoro faccia base a Ginevra, la sua residenza è rimasta là. Insieme al suo cuore). Fa capannello coi giganti americani, scambia due battute con Scilla Tonetti (in forma smagliante), diversi sorrisi con la regina del Tor Alessandra Nicoletti, e sembra aver tutto sotto controllo. Alla partenza, la domenica mattina, la scorgo battagliera. Quando il viaggio inizia, mi riprometto di starle alle costole. Macino dislivello su e giù per le valli, ogni tanto la pizzico in base vita (a Donnas, a momenti, andiamo a sbattere l’uno contro l’altra mentre esce di corsa, caricata a pallettoni. Mi scuso, si scusa. Il viaggio prosegue). Stephanie fa una gara eccellente, e conclude il Tor in meno di cento ore, aggiudicandosi il quarto posto nella classifica femminile, dietro alla Tonetti, a Jamie Aarons e a una Silvia Trigueros Garrote in condizione spaziale. Un risultato che vale oro, l’ennesima medaglia sul petto della superavvocatessa dalla volontà d’acciaio.
TION SELECrail t
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LA MIA UTMB È COME UN ROCK Catherine Poletti è la persona più influente del mondo dell’ultra-trail. Criticata, temuta, invidiata, ma sempre ascoltata. E non si ferma mai, proprio come chi vince una cento miglia. O Mick Jagger sul palco Testo di TATIANA BERTERA - foto di MARTINA VALMASSOI
Non ci sono solo le note di Conquest of Paradise di Vangelis nella compilation di Catherine Poletti, meglio conosciuta come la signora di ferro del trail. Madame UTMB è una che le suona a tutti e infatti nel suo passato e in quello del marito Michel, che sta sempre un passo indietro come il principe consorte, ma è in perfetta sintonia con Catherine, ci sono tante note. «Siamo imprenditori e abbiamo sempre lavorato insieme, gestendo per 20 anni un negozio di musica e dischi dice mentre parla seduta alla scrivania del 36 di Avenue du Savoy, quartier generale dell’UTMB, naturalmente
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a Chamonix - . Siamo complementari sia come forma mentis che a livello decisionale e questa nostra sintonia si è subito palesata anche nell’avventura dell’UTMB». Un’avventura iniziata lontano e accompagnata per 17 lunghissimi anni dalle note di Conquest of Paradise. «Agli inizi degli anni 2000 le competizioni sulle ultradistanze erano pochissime, almeno qui in Europa. E mio marito, appassionato fondista, le inseguiva da un luogo all’altro. E io seguivo lui, accompagnandolo e facendogli assistenza. È stato proprio dopo una di queste gare che io e lui, di rientro a Chamonix, abbiamo pensato sul serio, per la prima volta, all’UTMB». Ma se Michel era l’atleta, perché proprio Catherine è la direttrice di gara della più importante (e ricca) gara del mondo ultradistance? «È ridicolo, ma delle nove persone che facevano parte del comitato organizzatore, io ero l’unica che non l’avrebbe corsa e quindi quella che avrebbe potuto tenere, anche durante la gara, le redini della situazione». La fama non sempre fa rima con simpatia e questo Madame UTMB lo sa. Spesso le decisioni targate UTMB sono
state impopolari e criticate, ma alla fine si sono rivelate giuste. «Non proprio tutti ci amano, ma la maggior parte sì, noi facciamo il nostro e lo facciamo al meglio, del resto poco importa, o meglio, non ci preoccupa. Quando per la prima volta abbiamo introdotto materiali obbligatori, molti non ci hanno visti di buon occhio. Fino a che tutti sono convenuti alla nostra stessa conclusione: correre leggeri come Kilian è il sogno di chiunque, peccato che non tutti siano veloci quanto lui e quindi i materiali obbligatori non sono qualcosa di superfluo, ma un vero e proprio salvavita in caso di emergenza». La mente va ancora alle note dei Vangelis, a Catherine che balla, incurante della folla e dello stile, a Catherine che abbraccia i concorrenti all’arrivo. «Alla sua prima vittoria all’UTMB Rory Bosio per la fatica si lasciò cadere a terra. Io andai a sollevarla e i media dissero che mi ero intromessa e che avrei dovuto lasciarle vivere questo momento da sola. Sulla scorta di queste critiche, l’anno successivo mi guardai bene dall’andarle incontro. Lei, memore di quanto accaduto
l’anno prima, appena tagliato il traguardo mi fece l’occhiolino e si gettò letteralmente tra le mie braccia!». Da donna a donna, in un triangolo perfetto: Catherine, Rory, io. Ma qual è la differenza tra i due sessi in gara? «Non è durante la gara, ma soprattutto al traguardo. Dopo una fatica immensa le donne arrivano composte, dignitose. Sono più eleganti, più attente anche al lato estetico. Vedi il poster di questa edizione? Quella è una finisher, una finisher vera: sorridente, raggiante, bellissima… Non abbiamo voluto appositamente usare Photoshop né alcun altro ritocco proprio per non rovinare l’immagine luminosa di questa donna fantastica». Lo scettro della scena internazionale del trail è saldamente nelle sue mani, ma chi sarà il delfino? «Io e Michel non ci saremo per sempre, questo è ovvio, non abbiamo ancora designato dei successori, ma sicuramente ci stiamo già lavorando». Intanto si pensa già all’UTMB 2019 perché, alla domanda su quale sia stata l’edizione migliore, Catherine ha risposto senza esitazioni: «La prossima!». Cento di queste UTMB, Madame Poletti!
SKIALPER ©Andrea Salini
VA L E R I A C O LT U R I DIETRO LA TUTINA La stilista valtellinese che ha inventato il capo tecnico per le gare di scialpinismo ha dato un look diverso all’abbigliamento funzionale, attingendo a piene mani dalla moda
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La prima tuta da scialpinismo è nata su richiesta di due uomini. Ma l’ha inventata una donna. Un capo che ha segnato la svolta nel modo di vestire questo sport. «Fino a 18 anni la mia vita era fatta di allenamenti e gare nello sci di fondo, mio fratello e mia sorella sono stati atleti di livello olimpico nello snowboard e nello short track, fin da piccola ho avuto la passione per i vestiti, creandoli per me stessa e per i miei fratelli dice Valeria Colturi, responsabile creativa e titolare di Crazy -. Le soluzioni che trovavo per i capi sportivi piacevano anche ai miei amici e in seguito ho creato capi per gli atleti di molte discipline che passavano da Bormio per gare ed allenamenti, ma anche le tute per diverse squadre nazionali, per esempio dello short track». Così, concentrandosi sempre sull’innovazione e pensando fuori dagli schemi, è nata la tutina.
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Funzionalità e look, un equilibrio difficile nell’abbigliamento tecnico, perché la funzione ha sempre la priorità. Eppure Crazy fa capi inconfondibili e molto tecnici… «Io parto sempre dalla funzionalità, ma non sopporto creare capi che non abbiano un proprio stile e una propria individualità. Seguendo questo schema penso prima alla tecnicità e poi mi concentro sullo stile, per me è un equilibrio importantissimo».
La moda si è appropriata di molti dettagli tecnici del mondo outdoor. Che cosa c’è al contrario del mondo della moda che l’abbigliamento outdoor può ancora fare proprio? «La moda è sempre più avanti per quanto riguarda scelte stilistiche, cromatiche, ricerca, innovazione e tendenze. Oggi c’è un grande interscambio tra le diverse correnti e questo è davvero entusiasmante per chi è attento e pronto a cogliere le diversità e ad applicarle nel proprio campo. Di solito il mondo dell'outdoor è poco ricettivo alle contaminazioni della moda. Io al contrario azzardo, adoro il colore e le fantasie perché mettono di buon umore e danno molta energia, per questo le mie collezioni sono così diverse dalle altre».
Quanto è cambiata la tutina da skialp negli anni? «Molto, ho seguito fin dagli inizi l’evolversi della disciplina praticando questo sport anche in prima persona, ho sfruttato le nuove tecnologie. Molte volte sono stata io stessa artefice dell’innovazione, chiedendo ai produttori di tessuti e accessori di sviluppare miei progetti che poi ho utilizzato sul prodotto. Molte delle mie soluzioni sono tuttora utilizzate anche da altre aziende».
La moda lancia tendenze e stili, da dove prendi ispirazione per il look Crazy? «Questa sì che è una bella domanda, forse non ci crederete, ma prendo spunto da tutto quello che mi circonda, sono da sempre attratta dalle cose belle. Adoro l’arte, l’architettura, la moda, il design, le auto, le calzature, l’arredamento, la natura, i quadri, insomma qualunque cosa che sia bello mi ispira e stimola la mia creatività».
Abbigliamento da donna, non è solo questione di taglie, ma anche di forme, in cosa deve essere diverso? «Penso che solo una donna possa conoscere le esigenze e i piccoli segreti delle donne. Disegno i capi per me stessa, li utilizzo, ne correggo i difetti e mi devono entusiasmare; il risultato non può che essere tradotto in comodità e stile. In seguito mi confronto con il mio staff e il team di atlete: la mia esperienza e la condivisione del risultato mi danno la certezza di aver creato sempre un capo perfetto e piacevole da indossare, studiato per le donne. Ho visto tanti brand produrre capi con colori che (loro) ritengono tipicamente femminili mantenendo i tagli da uomo. Il risultato? Beh, basta guardarsi in giro».
Cosa pensi delle wearable technologies? «La tecnologia applicata ai tessuti ci riserverà delle sorprese incredibili, la ricerca sta facendo passi da gigante e noi stiamo attingendo a piene mani da tutte le novità che questa rivoluzione ci offre. Da anni utilizziamo anche per i capi da skialp tessuti che interagiscono con il corpo. Il Powerkler, ad esempio, con cui confezioniamo la NRG e la Hugo Race Suit, è un tessuto che, tramite uno scambio attivo con i muscoli, ne riduce l’affaticamento. Utilizziamo anche imbottiture come il Celliant, una fibra tessile terapeutica che, catalizzando la luce, aumenta il livello di ossigeno nel sangue. Ogni collezione presenta molte novità in questa direzione e il futuro è sempre più stimolante».
«Quando Fabio Meraldi e Adriano Greco mi hanno chiesto di realizzare il capo per lo scialpinismo, ho attinto da tutta questa preziosa esperienza e confrontandomi con le loro esigenze ho ideato la prima tuta da gara» dice con naturalezza Valeria.
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Testo di CL AUDIO PRIMAVESI - foto di ACHILLE MAURI
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CRISTINA PA R I S O T T O
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I L B E L L O O LT R E LA SIEPE Botta e risposta con la creativa della famiglia Scarpa. Che ha lasciato la sua firma su alcune delle calzature più d’immagine del mondo outdoor
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare. Giacomo Leopardi
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«Una volta in India un indovino mi disse che non avrei avuto figli ma molti bambini: mi piace pensare che quei bambini siano quelli a cui, grazie alla vendita della serie speciale Mojito for Nepal, abbiamo dato una scuola nuova, che verrà inaugurata l'8 dicembre ad Ashrang» Che relazione c’è tra l’Infinito di Giacomo Leopardi e una calzatura di Scarpa? Una relazione molto più diretta di quanto si potrebbe pensare. Lo capisci, comprendi di saperlo già, in una sorta di processo maieutico, dopo qualche ora di piacevole conversazione con Cristina Parisotto, responsabile della ricerca e sviluppo dell’azienda di Asolo. Dopo che ti ha portato a visitare il cantiere di quella che a breve sarà la nuova Scarpa, di quegli uffici nei quali ci sarà tanto di suo e della sua idea di azienda e di design. Cristina è l’anima creativa di Scarpa, con la collezione Lifestyle ha aperto un mondo nuovo, a partire dal modello cult Mojito, copiato da tanti ma inimitabile. Una donna che ha dato forma all’idea di bello partendo dalle sue esigenze, pensando all’Africa e viaggiando per il mondo. Quello stesso mondo che è disegnato sulle suole di alcuni modelli. Quando sei entrata in Scarpa? «Sono entrata in azienda a 20 anni, subito dopo il diploma di scuola media superiore, è stato mio padre Francesco a convincermi. Così per un paio di anni sono andata in giro a vendere con lui, che presidiava il Trentino-Alto Adige. Naturalmente discutevamo molto perché avevamo metodi diversi, ma siamo sempre andati d’accordo. Mi sono trovata subito bene perché spesso frequentavo persone della mia età. Per me vendere voleva dire fare l’ordine con Giovanni Paiz e poi andare insieme a scalare. Lui lo considero la mia Guida, Ehrard Loretan la mia seconda Guida e anche Ueli Steck non potrò mai dimenticarlo». Di cosa si occupa Cristina Parisotto oggi? «Dopo la parentesi iniziale nella vendita ho seguito un percorso formativo complesso e ora sono impegnata nella ricerca e sviluppo, osservando il mercato e,
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soprattutto, i nostri clienti. Ho anche rapporti con gli atleti per comprendere e anticipare i loro bisogni e, se possibile, i loro sogni. Stando con gli atleti ho imparato molto, ci sono degli innovatori come Ueli Steck che mi hanno fatto capire la direzione da seguire, ma dico sempre che le aziende devono soddisfare prima di tutto i bisogni delle persone normali, degli eroi sconosciuti, di tutte quelle persone che mi scrivono delle lettere bellissime per raccontarmi come hanno utilizzato le nostre scarpe». Che cosa vuol dire essere l’unica donna del management? «Vuol dire vivere in un mondo maschile senza perdere la propria identità, vuol dire affrontare la propria identità senza compromessi: non ho mai cercato di emulare comportamenti noti, ma ho sempre seguito la mia passione, il mio istinto. È vero che ci sono tante donne atlete, anche forti, ma quante sono le donne product manager di scarpe? Questo non vuol dire che sia un mondo maschilista, ma maschile sì. Non sono una femminista, però ho sempre combattuto, perché noi donne vediamo il lato diverso, sappiamo guardare dall’altra parte, siamo multi-tasking. A volte mi rendo conto che ci vuole un attimo per conquistare la fiducia di alpinisti o atleti esperti: devono sentirti parlare, capiscono che sei competente e allora vedi che la loro espressione cambia completamente». Mojito è diventata una case history, come è nata? «Ripensandoci bene è nata da un’esigenza personale e da una passione per le scarpette da arrampicata e da approach sviluppate da Heinz Mariacher. Volevo
> Letture Cristina Parisotto ci ha aperto la porta di casa sua, un accogliente rustico nella campagna asolana, dove ama ritirarsi a leggere qualche pagina di Le Voci di Marrakech di Elias Canetti
una scarpa comoda da mettere in ufficio, ma che allo stesso tempo appartenesse a quel fantastico mondo del climbing. Era una combinazione nuova per una tribù che in quel momento stava nascendo, ma io non lo sapevo. Una tribù nel senso contemporaneo del termine, ossia un gruppo di persone che sanno condividere le passioni e le emozioni. Il nome? Il progetto si chiamava semplicemente Cristina, poi è venuto fuori Mojito, quasi per caso, a suggerire una scelta conviviale e per il tempo libero».
I colori accesi hanno reso Mojito e altre scarpe della collezione lifestyle inconfondibili, come siete arrivati alla decisione di usare toni così decisi? «Distinguersi vuol dire scegliere oltre le mode del momento, sviluppare un determinato gusto estetico che sia riconoscibile, anche attraverso i colori, anche attraverso la combinazione del gusto della tonalità. Ricercare una tonalità, una nuance, vuol dire interpretare il mondo, saper vedere oltre i colori della tradizione».
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> Under construction La foto di apertura e quella a sinistra sono state scattate all’interno di quelli che saranno i nuovi uffici di Scarpa, in un suggestivo gioco di materiali e luci
Non c’è dubbio che le collezioni lifestyle o mountain inspired siano diventate una parte importante delle produzioni dei marchi outdoor e che Scarpa sia stata l’inventrice di queste linee, quali potranno essere gli sviluppi futuri? «Alla base di questo sentire c’è sempre un’idea. E sono convinta che il quotidiano abbia bisogno di idee, d’ispirazione, di passione. Tutti cerchiamo calzature che facciano vivere delle esperienze. Ecco, il futuro sarà quello di rendere sempre più mitiche le nostre produzioni: una combinazione tra tecnicità e vita quotidiana con scelte tecniche e tecnologiche particolarmente innovative». Dare stile alle scarpe… Scarpa è un po’ come essere un bravo fotografo. La difficoltà sta nell’utilizzare l’emisfero destro e sinistro del cervello. Come per la fotografia sono richieste infatti tecnica e allo stesso tempo creatività. E in effetti Scarpa è famosa, oltre che per la varietà della proposta, per la tecnicità unita al gusto. Quanto è difficile unire tutti questi elementi, apparentemente in contrasto? «Abbastanza, ma è il nostro lavoro. Ho sempre cercato di guardare altrove, percorrere percorsi inesplorati per combinare diversamente elementi forse già noti, in un modo nuovo, innovativo. Tecnicità e gusto possono andare d’accordo, anzi devono andare d’accordo perché c’è del bello nell’essere degli esperti. È la bellezza del cammino, della neve fresca, di una parete, di un percorso mai tentato prima, di un marciapiede mai attraversato in città». Da dove prendi l’ispirazione? «Dalla natura, tanto, perché nella natura ci sono tutti gli elementi e le forme, ma anche dalla lettura, dall’architettura, dalle esperienze e dall’osservazione
nei miei viaggi e nei racconti degli atleti e dei grandi viaggiatori. Non seguo la cosiddetta tendenza, cerco di conservare l’identità, un’identità che possa essere in armonia con il mondo, che non lo consumi ma lo sostenga. Non produciamo calzature usa e getta, ma prodotti che mantengano le loro caratteristiche nel tempo. Almeno questa è la nostra aspirazione». Guardi anche ad altri settori? «Il mondo che è più avanti nei colori è la moda, anche sulle forme ci sono delle soluzioni interessanti, ma esasperate quasi alla follia: la moda è divertente perché in fin dei conti una scarpa deve solo farti camminare… Credo che il mondo dell’automobile e quello dell’architettura siano molto interessanti a livello di piattaforme. Rimane il fatto che il bello è bello e resta, il brutto muore. Se vai in un museo e vedi un bel vaso, puoi pensare di riproporlo in chiave moderna, con materiali diversi, ma la forma è immortale. Così se una scarpa è bella, la puoi ritoccare, ma rimane per sempre, mentre ci sono modelli che magari rompono gli schemi ma dopo tre anni sono già vecchi. La mia moda è per sempre». Lavorare con la creatività è una delle cose più difficili, la creatività non è infinita e soprattutto programmabile. Che idea ti sei fatta in questi anni? Dove trovi ispirazione? «Fare e dire qualcosa di nuovo, d’imprevisto, di sorprendente, cercare una soluzione, questa è la creatività. Il comportamento creativo svolge una funzione essenziale nell’industria calzaturiera, ossia permette l’adattamento alle nuove esigenze. In qualche modo è un’arte. Ricordo che il modello della Mojito Patchwork è nato dall’osservazione della manualità dei sarti nei mercati popolari di Nairobi, dalla gioia degli artigiani nella combinazione dei
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>people > Verde Anche la quiete del giardino può essere un luogo di sospensione per trovare la creatività
tessuti, nel loro riutilizzo in un mondo difficile e senza tempo. La creatività è la capacità di combinare elementi noti in una formulazione innovativa e, in questa prospettiva, il design rappresenta una bella interpretazione della soluzione. Gli Achei costruirono un cavallo di legno dal design funzionale (sembrava un dono degli dei) che fu posizionato di fronte alla città di Troia per risolvere il loro problema: sconfiggere i Troiani». La scienza ha dimostrato che alla base della creatività, dell’idea, poco prima c’è un attimo di blackout, di isolamento da quello che ci circonda. Hai un buen retiro dove ti isoli quando devi trovare una soluzione? «No, mi piace immaginare il futuro nel momento in cui viaggio, ossia quando sospendo la mia attività e vivo lo spostamento, nell’attimo in cui il mio quotidiano si sospende. Anche camminare nella natura in solitudine, altro momento di sospensione, diventa uno spazio creativo per eccellenza». No place too far, nessun luogo è lontano: raccontaci una vacanza in stile Scarpa. «Saper guardare dove altri non hanno mai guardato. Trovare ciò che non è scontato laddove tutto sembra ovvio. Lo stile Scarpa è distinzione perché, come osserva Antoine de Saint-Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi».
Si potrebbe stare delle ore a guardare le impronte lasciate dalle scarpe sulla sabbia o sulla neve. Scarpa ha utilizzato suole molto creative, per esempio con il disegno del mappamondo. Come è nata questa idea? «Nessun luogo è lontano perché vorrei attraversare il mondo con un’impronta che sappia unire; sono certa che solo attraversando il mondo con delicatezza se ne potranno assaporare le gioie. È l’identità Scarpa: con le nostre scarpe siamo stati ovunque». Ha rivoluzionato di più il nostro modo di vivere il ’68, l’iPhone o la Ryanair? «Il mondo è cambiato perché disponiamo di tecnologie sempre più vicine alla persona, ma soprattutto la seconda metà del ventesimo secolo ha significato una generale affermazione dei diritti umani, almeno nel mondo occidentale. L’iPhone può essere utilizzato da tutti, senza conoscenze specifiche; le compagnie low-cost hanno allargato il piacere del viaggio. Il mondo cambierà ancora, sempre più veloce e denso e, mi auguro, più dolce e più bello, l’importante è dare il giusto valore e spazio agli oggetti: in Africa il telefonino è davvero un’esigenza e ha cambiato la vita di tanti, perché serve per comunicare e rispondere a delle esigenze dove le line telefoniche fisse non esistevano».
«Da cinque anni passo dei lunghi periodi in Kenya. L’Africa è un mondo da scoprire, ogni giorno ti sorprende. Una volta, a Marrakech, dopo ore di piacevole discussione con un venditore berbero, ho comprato una collana e il prezzo l’ho fatto io: dimmi qual è il prezzo giusto, decidi tu, mi ha detto. In certe situazioni ti rendi conto che i soldi sono relativi e il valore degli oggetti segue altre regole, come scrive Elias Canetti nel libro le Voci di Marrakech» 128/176
L’ultimo libro letto? «Quando viaggiare era un piacere, di Evelyn Vaugh. Una serie di ricordi di viaggio scritti fra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta del ventesimo secolo. È un libro che consiglio perché descrive con garbo la differenza fra il turista e il viaggiatore, fra chi cerca l’emozione immediata e chi vuol fare l’esperienza. Il viaggiatore assapora il piacere dell’esperienza. Viaggiare non è altro che il passo e l’aura: è gioia. Chi viaggia arriva ovunque, costruisce con l’esperienza le sue mete». L’insegnamento che non scorderai mai di tuo padre? «L’impegno, la dedizione, la costanza, la fermezza, il sorriso. Mi ha insegnato a guardare tutti, a non escludere nessuno, anzi a fare dell’incontro con gli altri ricchezza. Dopotutto abbiamo uno scettro che passeremo, le aziende non devono essere fatte per noi, ma con una funzione. Se non ci fosse Scarpa 250 famiglie non avrebbero il lavoro e a volte mi piacerebbe poter dare stipendi più alti. C’è una verità che Papa Francesco non si stanca mai di ripetere: il lavoro è dignità».
Una scarpa da montagna deve necessariamente essere bella? «Sì, deve essere bella, deve essere in armonia con il luogo che sappiamo essere sublime, ossia ciò che è al limite. Sentire il bello è anche il piacere provato guardando, appunto, un oggetto piacevole». Che cos’è il bello? «È bello ciò che suscita un’emozione. È bello ciò che commuove. È bello sapere combinare, pensare in maniera nuova. L’Infinito di Leopardi è il bello della poesia perché suscita un’emozione oltre il significato letterario delle parole contenute. Cito l’Infinito di Leopardi perché il poeta racconta un’avventura dell’anima: un viaggio fantastico nell’immensità. Il bello è un viaggio, una fantasia che prende corpo dietro quella siepe». È stata una bella intervista. Bella nel senso di piacevole, emozionante. E unica. Perché Cristina non rilascia interviste. «È stata la prima e ultima» ha detto congedandosi da noi sull’uscio di un rustico perso nella vegetazione dei colli asolani, semplice come la persona che l’ha arredato e zeppo di ricordi dei suoi viaggi. Dopo tutto il bello è anche unico.
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Testo di TATIANA BERTERA - foto di BREY PHOTOGRAPHY
Testo di TATIANA BERTERA
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Ö tztal G R A N D E
N O R D
Ghiacciai immensi dalle forme pianeggianti e tradizionali hütte dove non manca l’atmosfera. A Obergurgl e dintorni lo skialp è sinonimo di avventura, ecco perché la valle austriaca è stata scelta da Salewa per il suo Get Vertical La montagna è donna. Non ci avevo mai pensato, mai fino ad oggi. È un sostantivo femminile che declina in sé tutta la forza, la bellezza, la delicatezza e insieme la potenza dell’essere donna. A volte ha gli occhi dolci di una madre mentre altre la prorompente forza vendicativa di un’amante che si sente tradita, oppure l’entusiasmo di una giovane puledra che scalpita nervosa incontro alla vita. L’amore per lei, per la montagna, è il filo invisibile capace di unire, a pelle, la madre e la puledra. Senza se e senza ma. Riflessioni che possono venire solamente mentre sei al volante, con Crazy degli Aerosmith in sottofondo, di ritorno da un weekend di avventura. A Obergurgl, in Tirolo, nella vallata dell’Ötztal, ho conosciuto sia la madre che la puledra. Persone, età e indoli diverse, eppure così vicine. L’occasione è stata il viaggio premio del concorso Salewa Get Vertical. Obergurgl è un paese il cui nome è letteralmente impronunciabile. Soprattutto se sei italiana, se non conosci il tedesco e se hai la
erre moscia. Vicky, Caterina, Giacomo, Jacopo, Matteo e io: siamo i sei italiani selezionati dal brand per partecipare a questa avventura a quota tremila. Oltre a noi, una ventina di altri partecipanti provenienti da tutta Europa e un team di validissime Guide alpine. Per vivere quattro giorni tra montagne e vallate di superba bellezza, con campo base presso il rifugio Langtalereckhütte (a quota 2.450 metri) e per assaporare il gusto di questa terra fatta di ghiaccio e neve, immobile eppure in moto perenne, tutta da esplorare. La valle separa le Alpi Venoste (ad Ovest) dalle Alpi dello Stubai (ad Est) ed è solcata dall’Ötztaler Ache, che sgorga dalle pendici del Monte Similaun (3.655 metri) e confluisce nell’Inn circa 8 chilometri a Est di Imst e 42 a Ovest di Innsbruck. Quando me lo hanno raccontato, prima della partenza, pareva complicatissimo mentre ora, con la cartina alla mano, tutto sembra più semplice e immediato. Così come la conoscenza dei miei soci di avventura, anche quella è imme-
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> Polvere Alcuni momenti della salita a Cima delle Anime e la discesa in powder
diata. Me ne accorgo fin dal primo istante: sei personalità completamente differenti. C’è l’aspirante Guida alpina, il fotografo e viaggiatore, il docente di giorno e avventuriero il fine settimana, la madre di famiglia che vuole rimettersi in gioco e la giovane ragazza che sta scoprendo ora le gioie dell’andar per monti e dello stile di vita wild. E poi ci sono io, che per mia natura osservo e racconto, cercando di cogliere quelle sfumature che appaiono evidenti solo all’occhio sensibile. La scelta di usare la Langtalereckhütte come base fissa è strategicamente perfetta perché, data la quota, ci permette senza troppa fatica di raggiungere ogni giorno vette oltre i 3.000 metri. Le previsioni meteo non sono delle migliori, ma le nostre Guide sono di grande esperienza e prendono tutte le precauzioni per affrontare le ascese nel modo più sicuro possibile, a partire dal controllo ARTVA, obbligatorio non appena si mette piede fuori dal rifugio. Ed è interessante osservare il comportamento di ciascuno. Chi va in montagna lo sa: ci sono degli atteggiamenti o della azioni che sono equiparabili a riti scaramantici, da rispettare la sera o la mattina prima della partenza. C’è chi, come mamma Caterina, preferisce preparare lo zaino in maniera attenta e meticolosa, fare una chiamata a casa al marito per assicurarsi che il bimbo stia bene e abbia mangiato e andare a letto presto. Viki invece sembra non voler perdersi neppure un istante di questa avventura e si unisce ai più festaioli, che salutano la luna già alta nel cielo degustando la grappa locale offerta dal rifugio. Le Guide sono intente a studiare la cartina e a valutare il percorso e le possibili alternative per l’uscita dell’indomani. La Cima delle Anime sarà la nostra meta, in tedesco Hinterer Seelenkogel (3.472 metri). Diciassette chilometri di sviluppo (andata e ritorno) per un’ascesa di circa mille metri, con un ultimo tratto da affrontare a piedi, fino a toccare la bella croce lignea. Nonostante il nevischio fitto con cui inizia la giornata, non ci perdiamo d’animo e iniziamo l’ascesa. Caterina, con il cuore (ma anche l’età e la saggezza) di una madre, è titubante. Viky non vede l’ora di salire. Sta di fatto che la giornata si conclude con un brindisi al rifugio, per festeggiare l’arrivo in vetta con
il sole e la vista stupenda sul versante italiano. Il rifugio è bello e accogliente, ma la nostra pazza compagnia decide di passare la seconda notte in tenda, sotto le stelle. Con Viky si opta per condividere il giaciglio. E così, come in ogni spedizione che si rispetti, iniziamo a scavarci un piano orizzontale nella neve su cui montare la tenda. Vedere due donne alle prese con una tenda è piuttosto divertente. «Da che parte si infilano questi? Come si blocca il telo? E ora come la picchettiamo a terra? Prendi gli sci, che fanno da picchetto… E anche il manico della pala». Ogni tanto ci guardiamo e scoppiamo in una fragorosa risata. Siamo due formiche intente a costruirsi la casa, alle quali manca però qualche dote ingegneristica. Ma è anche il bello. Dopo oltre un’ora di fatiche la tenda è montata. Forse non è perfettamente in piano ma almeno sta in piedi e pare solida. All’interno materassini e sacchi a pelo d’alta quota. La notte scende lenta e viene il momento di accendere le frontali. L’accampamento, con ogni tenda illuminata dalla propria lucina, pare un piccolo presepe. Prima di addormentarsi Viky mi racconta qualcosa di lei, della sua vita. Mi lascia intuire. Si mette a nudo, ma solo in parte. È strano come questa situazione di comunanza e condivisione sia capace di far parlare (ma parlare per davvero) due persone che fino a due giorni prima neppure si conoscevano. Sogni e speranze, desideri che passano anche attraverso la montagna. Ma la notte affonda le proprie dita sulle nostre palpebre e alle cinque del mattino siamo già impegnate a smontare il base camp e a entrare in rifugio, dove ci aspetta un’abbondante colazione prima di ripartire. Meta della giornata, un sabato contraddistinto da una nebbia fitta fitta, è il Gurger Ferner. Una lunga distesa ghiacciata e praticamente piatta, dal fascino siberiano. Il grande nord, quando te lo immagini, te lo immagini proprio così. Con vette rocciose e solitarie, che spuntano dal nulla, e ti fanno sentire così piccolo… La comitiva parte in fila indiana. Si sente solo il rumore degli sci sulla coltre bianca a tratti ghiacciata. Mettere e togliere le pelli di foca è diventato ormai un rito. Mentre procediamo lentamente scambio qualche parola anche con Caterina. «Amo la montagna, da sempre, ma dopo
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essere diventata mamma mi è diventato praticamente impossibile andarci. Il concorso indetto da Salewa è l’occasione di rimettermi in gioco, di dimostrare a me stessa che ancora posso andarci». Quando parla di suo figlio, ora a casa con il papà, gli occhi le brillano. La distesa di neve che ci si para dinanzi a un certo punto ci lascia letteralmente senza fiato. Nessuno parla più. Siamo tutti imbambolati davanti a quella vetta appuntita, stile Cervino, che si staglia dal nulla. La mente è già lontana, in terre selvagge e sconosciute. Ma poi è anche vero che, come mostrano questi luoghi incantati, spesso la meraviglia è molto più vicina a noi di quanto potremmo aspettarci. E a fine giornata, ridendo e scherzando, collezioniamo altri 1.200 metri di dislivello positivo. Siamo di nuovo al rifugio e questa volta con tante belle immagini negli occhi e, nel cuore, la voglia di ripartire. Nonostante tutto, nonostante la fatica inizi a farsi sentire. Mi guardo allo specchio, nel bagno del rifugio, e vedo la mia pelle scottata e stressata dal freddo. Siamo tutti così, nessuno escluso. Frugo nello zaino e cerco un minuscolo barattolo di crema per il viso e un lucidalabbra rosato. Pochi gesti ma importanti, tanto per ricordarmi di essere donna. Accanto a me Caterina che si sistema i capelli, raccogliendoli in una coda alta sopra la nuca. Nella sala da pranzo del rifugio, davanti a un boccale di
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birra chiara, i nostri tre compagni italiani se la ridono, raccontandosi di scalate fatte e ancora da fare, di sogni e capelli arruffati, decisamente poco preoccupati del loro aspetto, della pelle arrossata e delle labbra screpolate. Li guardo e sorrido. Le nostre guide sono instancabili ed è avventura anche il quarto giorno, con una super pellata fino a raggiungere quota 3.230 metri e una emozionante discesa in fresca, merito dell’abbondante nevicata notturna, passando anche per una piccola ferrata. Giusto per impegnare anche l’ultima mezza giornata, prima di fare rientro in Italia. La macchina corre veloce e passa il confine, e dal cd degli Aerosmith siamo ora passati a quello più forte dei Metallica. C’è bisogno di musica potente, di sensazioni forti, per rimanere in tema con il fine settimana appena trascorso. Ci siamo salutati, una volta scesi da quello che per quattro giornate è stata la nostra casa-rifugio. Ci siamo salutati con un abbraccio forte e pieno di sentimento. Magari con l’idea di ritrovarsi un giorno, su altre cime e in altri luoghi. Tra uno o tra vent’anni, tanto probabilmente non farà differenza. La montagna, donna, ha unito questa volta e unirà anche un domani. Anche se poi, nella vita, rimarremo sempre esseri diversi, separati e differenti. Lo penso in questo momento mentre sono al volante e mentre corro veloce verso casa.
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Portfolio UTMB rosa foto di Martina Valmassoi
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Uxue Fraile e il marito. Sono spagnoli, o meglio dei Paesi Baschi. Non sono fatti per passare inosservati. Sono passione
Il traguardo è ancora lontano, Jocelyne Pauly si è allenata duramente, ma non sa che arriverà terza
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Catherine Bradley, vincitrice della Western States 2017, è arrivata ottava. Il rifornimento è il momento di recuperare qualche forza
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Fernanda, Katia, Francesca, Jocelyne: la gara è lunga e lottano tutte per un traguardo che sembra non arrivare mai. Per fortuna che c’è un po’ di tifo, ma mai come per gli uomini
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IN PUNTA DI PIEDI Un giorno a seguire Francesca, Uxue, Katia & co di MARTINA VALMASSOI
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Che palle. Odio questo evento. Odio passeggiare per le strade di Chamonix in questi giorni e odio ancor di più rinunciare a due palline di gelato perché qui costano nientemeno che 5,50 euro. Purtroppo non sono pagata per lamentarmi bensì per lavorare, allora mi decido ad uscire dal letto. La routine di questi giorni consiste nel rotolare fuori dalle coperte con la persistente sensazione di non aver dormito, staccare i caricabatterie di GoPro, macchine fotografiche e quant’altro ancora prima di varcare la porta del bagno per poi guardarsi allo specchio e chiedersi: perché? Tutta questa insofferenza probabilmente deriva dal fatto che appena cinque giorni fa ho partecipato, anche con discreto successo, allo storico e severo trofeo Kima. Confesso: questa settimana avrei tanto desiderato vegetare sul divano o fare qualsiasi altra cosa meno impattante piuttosto che girare con la macchina ripetutamente attorno al Monte Bianco. Talvolta, quando si è in forma, si tende a sopravvalutarsi. Ci si crede invincibili. Ci si dimentica dei tempi di recupero, delle ore di sonno, del mangiare bene e tanto, di prendersi del tempo per se stessi. Dopo il Kima e soprattutto dopo i sei gel alla caffeina, di dormire il mio corpo non ne aveva proprio voglia. Dopo un acceso dibattito tra quest’ultimo e la parte di me consapevole che un buon sonno sarebbe stato come fare il bagno nell’acqua santa, mi sono dovuta arrendere a guardare invidiosamente Mira sognare beata fino a che s’è fatto giorno. Forse è proprio nel post gara che scopri quali sono gli atleti veri e quelli che provano semplicemente a buttarsi nella mischia di tanto in tanto. Un’altra cosa insolita di questa mattinata è stata guardare il cellulare e trovare 295 notifiche su WhatsApp. Normalmente la gente dorme la notte, ma quella che è appena passata non è una notte qualsiasi, è la notte dell’UTMB. Ma come mai io ero a dormire e non lì fuori a congelarmi come tutti gli altri? Bè, diciamo che seguire da sola tutta la CCC fino a tarda serata mi ha permesso di guadagnare il golden ticket per
sette ore di sonno nella notte più attesa dell’anno. Sarò sincera: come ho dormito beata! Il mio giorno all’UTMB parte proprio dalla lettura di quei messaggi. Quello che fa male è leggere del precoce ritiro di Mimmi Kotka. Lei, il soldato svedese, la dominatrice di tutte le ultra svoltesi attorno a Chamonix, l’atleta più attesa. Ci credevo, ci speravo pur sapendo che la pressione era tanta. Anche lei non ha retto, e questa vulnerabilità sempre nascosta da una montagna di muscoli e un sorriso dolce mi fa capire come proprio tutti siamo prima umani, poi atleti o supereroi. Di certo non invincibili. Clare Gallagher, Magdalena Boulet, Amy Sproston e infine Caroline Chaverot sono le altre big che lasciano la sfida prima di metà gara. Quindi chi se lo sta giocando questo UTMB? Sono quasi a Champex. Tra circa due ore è attesa la prima donna. Guardo il ranking sul Live Trail. Fernanda Maciel! La mia amata Fer in testa al Gran Col Ferret. Questa è una gran bella notizia. Poi guardo meglio. Ci sono quattro\cinque atlete molto vicine. Due italiane! La gara si fa eccitante. Francesca Canepa la conoscevo già per i ripetuti successi e polemiche al TOR, ma Katia Fori? L’ignoranza mi disturba. Per essere quasi in testa a un evento simile non sei una qualunque e allora mi metto a indagare sul cellulare. Dagli aperitivi a Parma alla vittoria di quasi ogni trail a cui abbia preso parte dal 2007, almeno gare a livello italiano. Ma guarda un po’, un quarto posto proprio qui, all’UTMB del 2013, un altro al TDG e un terzo alla Lavaredo. Mi sento un po’ più preparata o almeno meno ignorante. Dopotutto sono solo tre anni che seguo questo sport. Uxue Fraile, una guerriera basca. La provenienza basta per capire che questa è un osso duro, una a cui piace stringere i denti, lottare e soffrire per raggiungere un obiettivo. Sul podio ci è già salita due volte e non ci è mai andata distante. A seguire, tutte in una manciata di minuti, Jocelyne Pauly, Juliette Blanchet, Beth Pascall. Sto ancora guardando il monitor quando ecco Katia entrare nella tenda. Occhi che corrono
(In alto) A fare assistenza a Katia Fori il marito. Lei è nervosa: ma questo bicchiere dov’è? (Sotto) L'allenatore Renato Jorioz con Francesca Canepa: in alcuni rifornimenti non si è quasi fermata
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> momenti
(In alto) La Pauly rimane immobile sotto quell’arco, circondata da un’aura di incredulità. La guardo e posso capire come si sente. Ci sono risultati troppo grandi da digerire quando non sei pronto
(In basso) A Chamonix trionfa quella piccola grande donna che è Francesca Canepa. Come l’ho vista entrare nella tenda di Champex, così la vedo tagliare il traguardo. In punta di piedi, seguita dai figli, alza le braccia, finalmente sorride
di qua e di là per capire dove può sedersi per il rifornimento. Il marito la chiama, finalmente si siede e, dopo aver cambiato fascetta e guanti, parte all’attacco di un piatto di pasta. Tutto avviene con molta calma e pazienza, sembra quasi di assistere a un pranzo in famiglia. Katia è gentile non solo all’apparenza, ma anche nei modi. Mi sorride e si stupisce che io sia lì ad incitarla e a farle foto. Chiede un bicchiere al marito Nicola, quest’ultimo risponde che il bicchiere doveva avercelo lei. Allora Katia sbuffa sottolineando che poteva pure portarne un altro, ma continua a mangiare e a bere dalla borraccina. Infila lo zaino, saluta, ringrazia e riparte. In quello stesso momento Francesca varca la soglia in punta di piedi. Quasi non ci si accorge del suo arrivo. Aiutata dal suo allenatore, in un attimo fa il rifornimento e sta già uscendo. Appena Uxue viene annunciata partono gli schiamazzi del marito che la trascina letteralmente fino al loro tavolo. Lei si siede sulla panca a fianco. Lui le urla che non deve sedersi lì, la prende per le spalle e la sposta. Continua la lite. Qualche attimo dopo iniziano a ridacchiare, pur continuando a litigare spiritosamente a modo loro. Sono spagnoli, o meglio dei Paesi Baschi. Non sono fatti per passare inosservati. Sono passione. Fernanda arriva subito dopo e sembra essere ancora lucida sebbene abbastanza provata dal freddo della notte. Mangia veloce, mi regala un sorriso e un occhiolino e parte determinata. Le due francesi inseguitrici e l’inglese Beth Pascall sembrano tutte in ottima forma e pronte a giocarsela. Nel giro di 15 minuti sono in sei. Questa sì che è gara! Da lì in poi mi sposterò al Col de la Forclaz, Trient, Vallorcine per dirigermi infine verso l’arrivo. A Trient Francesca Canepa e Katia Fori s’incrociano davanti all’iconica chiesa rosa. Una in entrata del rifornimento, l’altra in uscita. Francesca non si guarda intorno, accenna un ghigno e sfreccia via. Non le servono molte parole. Il linguaggio del corpo e il suo sguardo parla-
no per lei. Vede solo il traguardo di Chamonix. Timidamente Katia abbassa la testa e stringe i denti. Ci crede ancora, ma sa benissimo che dietro di lei c’è Uxue che sta guadagnando terreno a vista d’occhio e oltre a questo i crampi in discesa la rallentano più del dovuto. Qualche minuto dopo arriva Fernanda seguita a ruota da Jocelyne, sarà quest’ultima ad uscire quarta al rifornimento. Testa bassa e concentrazione. Fernanda non molla ma le espressioni in volto dicono tanto. La lotta prosegue con ripetuti colpi di scena. Di pubblico purtroppo non ce n’è nonostante questa gara sia molto più avvincente di quella maschile. È sempre la solita storia. Nel mio piccolo sono felice di esserci. A Chamonix trionfa quella piccola grande donna che è Francesca Canepa. Come l’ho vista entrare nella tenda di Champex, così la vedo tagliare il traguardo. In punta di piedi, seguita dai figli, alza le braccia, finalmente sorride. Uxue, dopo aver limato il distacco nell’ultima discesa, tentando l’impossibile, rallenta e si arrende finalmente, godendosi il calore del pubblico. La Pauly rimane immobile sotto quell’arco, circondata da un’aura di incredulità. La guardo e posso capire come si sente. Ci sono risultati troppo grandi da digerire quando non sei pronto. Nonostante tutta la preparazione e il duro lavoro. Nasconde il volto con le mani, non vuole voltarsi e salutare la folla. Prende coraggio, alza la mano e abbassa la testa. Dopo di loro arriveranno Beth, Katia, Juliette, Ildiko, Cat, Maria, Kaci, Fernanda… In un’edizione caratterizzata dai ritiri e da condizioni meteorologiche difficili, nonostante la stanchezza fisica, quello che rimane è un profondo senso di gratitudine per queste donne che hanno lottato, provato, creduto e sognato. Grazie anche a quelle che si sono arrese, perché essere capaci di arrendersi a volte è una vittoria. Oggi sono più forte e motivata di ieri e ahimè, devo ammetterlo, valeva proprio la pena di uscire dal letto questa mattina.
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W i n t e r
> materiali Testo di CL AUDIO PRIMAVESI - Foto di STEFANO JEANTET
i s c o m i n g ! Abbiamo messo ai piedi di due atlete che hanno vinto gare invernali quattro scarpe da trail integrali, per neve e freddo, e quattro modelli più versatili
Correre in inverno. Per allenarsi, ma anche per il piacere di continuare a macinare chilometri e metri di dislivello quando la natura si ferma. Oppure per partecipare a qualche gara sulla neve o in ambiente invernale. Però, se d’estate è importante avere la giusta scarpa, d’inverno lo è ancora di più. Ecco perché abbiamo messo ai piedi di due specialiste alcuni modelli specifici. Scarpe per la neve e il freddo, ma anche semplicemente per una corsa in collina o a media quota, su terreni umidi o resi duri dal gelo. Per questo abbiamo deciso di dividere in due la vasta gamma delle calzature utilizzabili in inverno, creando una categoria delle super-specialistiche, cioè quelle scarpe con ghetta e proprietà termiche pensate per affrontare l'inverno. Per correre in un ambiente più fresco e umido, invece, ecco le versioni Gore-Tex dei modelli estivi. Due testatrici esperte in materia: Marta Poretti, che nel
Tips & tricks
Atterraggio morbido In inverno, in generale, meglio puntare su mescole e cushioning più morbidi, per attutire l’impatto con terreni gelati o più duri.
2018 ha vinto l’Idita Sport, gara di 550 km tra i ghiacci dell’Alaska, con temperature che raggiungono anche i -35 gradi, e Melissa Paganelli, vincitrice dell’ultima Corsa Bianca e del Winter Trail Monte Prealba. A Marta l’onore (e l’onere) di provare le scarpe con ghetta, a Melissa quelle semplicemente in Gore-Tex. Per il primo test un campo prova d’eccezione: le insidiose pietraie sopra Cime Bianche Laghi, ai piedi del Cervino, rese viscide da un sottile strato di neve e dal-
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> materiali
ŠAchille Mauri
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> materiali
la bufera. Per andare più a fondo, poi, ci siamo spinti su ampie chiazze di neve. Per la seconda prova, invece, ci siamo concentrati su un fondovalle molto umido. GHETTA SÌ, GHETTA NO - Fatta la premessa, che vale in generale anche per le calzature estive, che ormai di scarpe brutte non ce ne sono più, abbiamo riscontrato importanti differenze d’impostazione tra i sette modelli provati. Le La Sportiva Uragano e le Salomon S/Lab XA Alpine 2 sono le più integralmente invernali, con morbida ghetta, come Uragano, o a stivaletto e doppia costruzione (con una normale scarpa da running interna) come S/Lab XA Alpine 2, che non nasce come pura invernale ma per imprese fast & light in quota. Queste due soluzioni sono pensate per le condizioni più estreme, soprattutto con neve bagnata, la più insidiosa e umida, e quelle che garantiscono una migliore termicità. «Sono modelli molto validi nei nostri climi, naturalmente per correre gare specifiche in Alaska o nel grande nord ci vogliono ancora più termicità e accorgimenti specifici e, a quelle temperature, può succedere che le ghette si bagnino e poi gelino, diventando rigide e a volte fastidiose» dice Marta Poretti. Ci sono invece soluzioni meno estreme, a metà del guado, come la La Sportiva Tempesta, che rappresentano un giusto compromesso tra protezione dagli elementi e libertà della caviglia. Inoltre la
facilità e velocità d’accesso è migliore. In generale, correndo sulla neve, abbiamo riscontrato che non è sempre scontato che la soluzione con ghetta sia la più indicata. Anche una scarpa bassa in Gore-Tex, abbinata a una ghetta adeguata, se non si corre in neve fresca, può essere una valida scelta. Abbiamo inoltre inserito nel lotto dei modelli più estremi la Scarpa Atom SL che è una via di mezzo tra un semplice modello in Gore-Tex e la Tempesta, con una specie di calzino basso a proteggere la caviglia dall’entrata di detriti, oltre all’utilizzo della membrana Gore-Tex. Si tratta di una soluzione che la casa indica in modo specifico per utilizzo invernale, anche se non ha particolari doti di termicità. OPZIONE CHIODI - Premesso che su terreni duri o ghiacciati esiste sempre la possibilità di usare un ramponcino (sul mercato se ne trovano di diverse marche e categorie di prezzo), segnaliamo un plus non da poco delle scarpe La Sportiva: la possibilità di montare chiodi AT Grip con un apposito accessorio simile al cacciavite. L’operazione è abbastanza semplice e le zone dove inserirli sono segnalate sulle suole di Uragano e Tempesta. Un’operazione che richiede pochi minuti e non rovina le scarpe. I chiodi, infatti, possono essere tolti e rimessi. Il kit costa 49 euro ed è acquistabile nello shop on-line della casa di Ziano di Fiemme o nei negozi specializzati.
La scarpa di Marta Una curiosità: ma che modello si usa per correre ai -35 dell’Alaska? Marta Poretti se l’è fatto in casa… Non proprio così ma, nella sostanza, ha optato per una La Sportiva Crossover 2.0 GTX con suola e intersuola Hoka One One. La scelta è stata dettata dal fatto che la Crossover (come dice il nome) è una scarpa più versatile, anche per escursioni con le ciaspole e ritmi meno veloci, mentre Marta voleva correre. Naturalmente si tratta di una combinazione specifica non commercializzata, ma realizzata da lei con l’aiuto di un artigiano.
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> materiali
Salomon S/Lab XA Alpine 2
La Sportiva Uragano GTX
Grazie alla doppia costruzione, dentro è molto simile (se
Protezione totale e libertà dei movimenti. Non entra
non uguale) alla S/Lab Sense e il fit e le sensazioni si
nulla, la termicità è buona e le doti dinamiche anche.
avvicinano. È risultata quella con migliore termicità.
Un po’ difficoltoso l’accesso, ma poi quando sei dentro la
L’accesso è abbastanza facile e nella corsa non impaccia,
vestibilità è valida. Ben studiata anche la flessibilità,
sembrando un unico corpo, anche se le sensazioni sono
grazie alla Gore Flex Construction, sostanzialmente simile
abbastanza diverse da un modello estivo. È reattiva e secca
a quella di modelli come la Mutant. Mescola pensata per
e la suola ha la climbing zone in punta.
superfici morbide, per il duro c’è l’opzione chiodi AT Grip.
Peso: 375 gr
Drop: 6 mm
Peso: 350 gr
Drop: 10 mm
Prezzo: 250 euro
Suola: Premium Wet Tractrion Contagrip
Prezzo: 189 euro
Suola: FriXion Blue
La Sportiva Tempesta GTX
Scarpa Atom SL GTX
Condivide con Uragano lo stesso chassis e la suola. Però
La più leggera del lotto, una vera invernale per il grip,
non ha la ghetta ma linguetta e collo rialzati. È risultata
risultato il migliore. Non per la termicità e la protezione
un ottimo compromesso tra le semplici scarpe in Gore-Tex e
della esigua calzetta che la rende indicata per utilizzatori
le integrali. Per situazioni non estreme, versatile. Per il
di livello, alla ricerca di una scarpa performante e veloce e
resto vale quando scritto di Uragano.
per climi/nevi non estreme. E per correre veloce…
Peso: 300 gr (340 gr uomo)
Drop: 10 mm
Peso: 290 gr
Drop: 4 mm
Prezzo: 169 euro
Suola: FriXion Blue
Prezzo: 169 euro
Suola: Megagrip
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Dynafit Trailbreaker GTX
New Balance KOM GTX
La versione in Gore-
La novità 2018
Tex della scarpa con
New Balance per le
la caratteristica
ultra-distanze in
suola a S firmata Pomoca
versione Gore-Tex.
(che si comporta
Calda e traspirante il
bene). Termicità e
giusto per un utilizzo
traspirazione indicate
invernale non estremo,
per un utilizzo
protettiva, ha buone
invernale non estremo,
doti dinamiche e
tanta protezione dietro,
un valido grip,
sensazione di drop e più
che la rendono una
sensibilità davanti.
allround (per terreni
E una buona scelta
e utilizzatori)
per utenti di livello
no problem.
intermedio alla ricerca
L’impostazione
della protezione e di
iniziale è rigida e
una scarpa versatile,
sostenitiva, ma dopo
anche per camminate
qualche chilometro
veloci.
‘si fa’ e diventa molto comoda senza perdere il sostegno.
©Achille Mauri
©Achille Mauri
Peso: 250 gr (290 gr uomo)
Drop: 10 mm
Peso: n.d.
Drop: 8 mm
Prezzo: 160 euro
Suola: Pomoca Alpine TB
Prezzo: 140 euro
Suola: Vibram Megagrip
Mizuno Wave Mujin GTX
Scott Kinabalu Power GTX
Il grande classico
L’ultima versione
della casa giapponese
della best seller
tradisce l’origine
di casa Scott nella
stradistica del marchio,
versione con tallone
con un’impostazione
rinforzato, che
molto comoda, che non
sostiene di più.
va a discapito della
Rispetto ai precedenti
protezione, che è
modelli Kinabalu,
valida, anche da sotto
concede qualcosa
grazie al rock plate.
di più a comfort e
Lo spazio ampio davanti
ammortizzazione, ma
la indica anche per
rimane un modello
percorrenze lunghe con
cattivo e veloce.
clima fresco grazie a
La versione in Gore-
una discreta termicità.
Tex non tradisce le attese per qualche corsa bagnata in climi freschi.
©Achille Mauri
©Achille Mauri
Peso: 320 gr (375 gr uomo)
Drop: 12 mm
Peso: 350 gr (390 gr uomo)
Drop: 8 mm
Prezzo: 155 euro
Suola: Michelin
Prezzo: 179 euro
Suola: Scott, anche per bagnato
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> materiali
GORE-TEX - In inverno la prima richiesta che si fa a una scarpa è quella di tenere asciutti (e a una giusta temperatura) i piedi. La membrana Gore-Tex utilizzata, solitamente la Extended Comfort, è la più traspirante e leggera e i modelli sono risultati confortevoli dal punto di vista climatico, con il piede sempre al caldo ma mai troppo in un clima fresco. Buona anche la dinamica di marcia anche se bisogna tenere contro di un peso leggermente aumentato rispetto ai modelli estivi e una flessibilità minore, ma assolutamente accettabile. «Solitamente utilizzo scarpe in Gore-Tex quando devo uscire per allenarmi su terreni che so essere innevati o molto umidi e nella stagione invernale, in queste condizioni, le differenze sono minime e comunque inferiori ai vantaggi» dice Melissa Paganelli. I modelli senza ghetta, naturalmente, se utilizzati in acqua e ad alta velocità, lasciano entrare qualche schizzo dall’alto. Ma nell’utilizzo medio invernale vanno più che bene (e potrebbero essere un’opzione anche per le mezze stagioni) e al limite si può sempre usare una ghetta.
La ghetta è servita Una ghetta, anche non impermeabile (purché non si corra nella neve bagnata), può essere un ottimo ed economico investimento per ampliare la gamma di utilizzi della propria scarpa in Gore-Tex. Noi abbiamo provato le Outdoor Research Overdrive Wrap Gaiters e le Ferrino X-Track Gaiter. Si tratta di due modelli non impermeabili (ma X-Track è ad asciugatura rapida nella parte bassa), due modelli minimalisti, con tessuti
BENVENUTO INVERNO - In conclusione… non ci sono scuse per non andare a correre in inverno, il mercato propone la scelta di prodotti più vasta di sempre, per tutte le esigenze. Anche la categoria più specialistica delle integrali che solo qualche anno fa era occupata dalla sola La Sportiva Crossover GTX (ora disponibile nella versione 2.0), è ormai sufficientemente ampia (e comprende anche la Scarpa Spin Pro OD, con ghetta in OutDry, che purtroppo non abbiamo potuto provare, e la Dynafit Transalper U GTX, disponibile solo in versione maschile/unisex). L’importante è sapere che utilizzo prevalente si farà della scarpa invernale e orientarsi verso modelli più o meno specifici. Winter is coming!
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leggeri, dal peso impercettibile e ben elasticizzati. Sono molto pratiche da indossare, non danno fastidio e proteggono bene, anche da detriti e sassolini per un utilizzo non necessariamente invernale. Il modello Ferrino (43 euro) è più alto sulla caviglia, mentre quello di OR ha un taglio più basso (30 euro).
> materiali
Scott Supertrac Ultra RC L’ultima arrivata della casa svizzera ha protezione, ammortizzazione e rullata in perfetta sintonia con le lunghe distanze e una tomaia molto particolare. E bella
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Testo di CL AUDIO PRIMAVESI - Foto di ACHILLE MAURI
Dopo l’arrivo di Scott Kinabalu RC e Scott Supertrac RC e il lancio nella primavera dell’ultima generazione della Kinabalu, a luglio è arrivata in alcuni selezionati negozi Supertrac Ultra RC a completare la collezione da trail della casa svizzera. Era la scarpa che mancava nella gamma Scott, quella per le ultra distanze. Un modello solo nel look simile alle altre RC, con la classica colorazione giallo-nera, ma con diversi accorgimenti per rendere una ultra più agevole possibile. Abbiamo provato Supertrac Ultra RC, presentata su Skialper 119 di agosto, con Melissa Paganelli, atleta Scott che ha già macinato centinaia di chilometri con questa scarpa e che corre proprio sulle distanze per la quale è pensata. Nel suo palmarès vittorie al Gran Trail Orobie, alla The Abbots Way e alla Grande Corsa Bianca, tutte gare oltre i 70 chilometri. «Ho sempre usato la Kinabalu e la Kinabalu Power, e mi sono trovata bene, ora però non ho dubbi, la scarpa su queste distanze è la Supertrac Ultra RC, più adatta a gare lunghe e ultra» esordisce Melissa. Due i plus più evidenti: protezione e grip. «La suola mi ha subito trasmesso molta fiducia: l’ho usata sul duro e sul molle, con bello e brutto tempo, e non mi ha mai tradita». Si tratta di una mescola studiata appositamente da Scott che trasmette già al primo impatto una sensazione di gommosità e aderenza. Il disegno è a geometria ellittica, pensata per offrire trazione nella parte anteriore e frenare in quella posteriore e ha tacchetti importanti, da sette millimetri. Il disegno è ben studiato anche per garantire una valida autopulenza dal fango. «Mi trovo più a mio agio sulle salite, ma Supertrac Ultra RC in discesa mi ha trasmesso sempre una bella sensazione di stabilità e controllo ed è ben ammortizzata, aiutandomi non poco» aggiunge Melissa. Il cushioning non manca mai, ma non va a discapito della reattività. Quando si corre sulle lunghe distanze, soprattutto nei tratti finali, la stanchezza può giocare dei brutti scherzi e l’attenzione cala. Per questo la protezione è importante e con l’ultima arrivata di casa Scott siamo ai livelli più alti. «Sia davanti che lateralmente il piede è sempre al sicuro» aggiunge Melissa. Oltre a un bumper ben studiato, infatti, c’è uno strato perimetrale in KPU che lavora bene, aiutato dal profilo abbastanza alto e da quella che è la vera particolarità di
Scott Supertrac Ultra RC Peso: 310 gr (340 gr uomo) Prezzo: 165 euro Drop: 8 mm Suola: All Terrain Traction, tasselli da 7 mm Intersuola: Aerofoam Infinity Tomaia: Schoeller Dynamic 4 way stretch
questa scarpa: la tomaia. È stata realizzata in tessuto Schoeller Dynamic 4 way stretch, molto resistente alle abrasioni e piacevole al tatto. Sembra anche ben studiato per fare scivolare via polvere e sporco e il colore nero aiuta a mantenere il look sempre pulito. Una nota positiva anche per la linguetta che avvolge bene ma non è fastidiosa o troppo invadente. Last but not least, il disegno della suola ha un rocker moderato (tecnologia eRide) che è perfetto per aiutare la rullata senza essere fastidioso. Certo, per chi come Melissa corre bene non serve (ma non è di troppo), però per tanti potrebbe essere un grande aiuto!
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> materiali
Il Gore-Tex c’è ma è invisibile Abbiamo provato la nuova tecnologia invisible Fit, con laminazione della membrana direttamente sulla tomaia della scarpa Foto di ACHILLE MAURI
Salomon Sense Ride GTX Invisible Fit Peso: 302 gr
Intersuola: 19-27 mm
Drop: 8 mm
Prezzo: 170 euro
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È risaputo che gli atleti top preferiscono utilizzare scarpe da trail leggere e flessibili e, alla certezza di avere il piede ben asciutto, antepongono la facilità di asciugatura e di uscita dell’acqua che eventualmente entra nella calzatura. Se vai veloce come il vento, ogni grammo in meno conta più di tutto. Questo però non vuol dire che una scarpa perfettamente impermeabile e traspirante non sarebbe gradita. Ed ecco che, dopo che negli anni le membrane a prova di acqua si sono sviluppate sempre più nel senso della leggerezza e della traspirabilità, con categorie di prodotto del leader di mercato Gore-Tex specifiche per il running e ottime per utilizzatori di medio-alto livello, ora arriva la nuova tecnologia GORE-TEX Invisible Fit, che potrebbe spostare gli equilibri. L’obiettivo è ambizioso: offrire il comfort e la calzata ideali per la corsa di tutti i giorni e senza elementi aggiuntivi come le membrane in una scarpa impermeabile nel tempo. Questo è reso possibile dall’esclusiva tecnologia costruttiva che non prevede il tradizionale bootie in GORE-TEX, ma la laminazione della membrana antivento, impermeabile e trasparente direttamente sulla tomaia, eliminando il peso eccessivo e aumentando la flessibilità. Questo processo ha un altro vantaggio oltre a quello di rendere la scarpa più leggera e flessibile, pur mantenendola impermeabile: i tempi di asciugatura sono fino al 50 per cento più veloci.
Arriva GORE-TEX INFINIUM™ Da questo autunno Gore-Tex non è più sinonimo solo di impermeabilità. Con l’arrivo sul mercato del marchio GORE-TEX INFINIUM™, infatti, viene lanciata una nuova serie di prodotti, dalle calzature ai guanti, per attività dove le alte prestazioni non sempre richiedono l’impermeabilizzazione. I nuovi prodotti GORE-TEX INFINIUM™ saranno riconoscibili per il logo con il diamante bianco, mentre rimarrà il tradizionale diamante nero per tutti gli altri. Una delle applicazioni più interessanti della nuova tecnologia è indubbiamente nei guanti. Abbiamo provato il modello The North Face Gore-Tex Closefit Soft Shell, perfetto per un uso in climi moderatamente freddi come la stagione autunnale o in inverno in città. La tecnologia utilizzata è GORE-TEX INFINIUM™ STRETCH, una combinazione di struttura 3D preformata ottenuta con processo di termoformatura, tessuti elastici e un numero inferiore di cuciture per migliorare la vestibilità e la tattilità dei prodotti. Le fasi di design e produzione consentono una riduzione del 30% delle cuciture (spesso i punti di maggiore ingombro in
SUL CAMPO Abbiamo messo alla prova uno dei primissimi modelli equipaggiati con GORE-TEX Invisible Fit, le Salomon Sense Ride, nell’ambiente umido sopra il lago di Lecco. A testarle Matteo Ghezzi, atleta Salomon che già conosce bene le scarpe della casa di Annecy e corre anche con la versione estiva di Sense Ride. Classe 1983, Matteo ha in palmarès una vittoria al Gran Trail Rensen. «L’impermeabilità non è in dubbio, a meno di non guadare un torrente con acqua fonda, perché naturalmente l’acqua entrerebbe da sopra, quello che invece stupisce, essendo abituato alla versione senza membrana, è che non si percepiscono differenze rilevanti di peso e di flessibilità, a me sembra quasi di avere ai piedi la stessa scarpa» dice Matteo. «Anche la traspirazione sembra adeguata per un utilizzo in climi non caldi» aggiunge. Asciuga nella metà del tempo delle altre scarpe in GORE-TEX? Beh, se sia proprio la metà non lo sappiamo, però noi le Sense Ride le abbiamo immerse in un torrente, di sera e la mattina dopo, nonostante all’interno ci fosse ancora acqua che non avevamo fatto fuoriuscire, la tomaia era perfettamente asciutta. E il clima non era dei più secchi…
un guanto) e una diminuzione del 35% del materiale utilizzato nel confezionamento. Sono antivento, leggeri, caldi e molto comodi, perché prendono perfettamente la forma della mano. Inoltre la perfetta aderenza elimina gli strati d’aria interni e aiuta la traspirazione. Ma quello che noi abbiamo apprezzato ancora di più è la possibilità di usarli con lo smartphone (sono infatti tattili) e per scattare fotografie, perché sensibilità e agilità sono al top. Utile l’inserimento di puntini gommosi nelle zone dove è richiesto maggior grip, che infatti è perfetto. Il modello in prova costa 55 euro ed esiste anche il Gore-Tex Closefit Tricot, con lavorazione leggermente diversa, che costa 45 euro.
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> materiali
FRITSCHI VIPEC EVO 12 Facile e sicuro L’attacco step-in della casa svizzera ha una talloniera robusta a tutto vantaggio di sicurezza e piacere di sciata Il nuovo attacco step-in di Fritschi punta sulla facilità di utilizzo e la sicurezza. Il rilascio rapido basato sui valori preimpostati e la prevenzione di rilasci indesiderati aiutano a ridurre al minimo gli infortuni. È risaputo che nello sci le forze più alte vengono trasmesse alla parte posteriore e per questo Vipec Evo 12 ha una talloniera massiccia che non ruota, nello stile degli attacchi da pista. A tutto vantaggio di uno stile più dinamico e sicuro in discesa. Il giusto mix di materiali sintetici high-tech leggeri e leghe metalliche di alta qualità offre una stabilità superiore a un peso ridotto (solo 500 gr). www.socrep.it
SKI STOPPER (OPTIONAL): 80, 90, 100, 110 mm peso 80 gr
PESO: SGANCIO FRONTALE della talloniera
500 gr (senza ski-stopper)
ed elasticità 9 mm
RAMPANT TRAXION a profondità variabile
DIN: 5-12
90/100/115 disponibili come accessorio
LARGHEZZA SCI: superiore a 70 mm
SGANCIO LATERALE della punta con standard DIN ed elasticità di 13 mm
MONTANA MONTAMIX La pelle per tutti i tipi di neve Il tessuto composto da mohair e fibre sintetiche rende Montamix particolarmente robusta e resistente alle abrasioni. La percentuale di nylon aumenta la durata e garantisce buone proprietà di climbing e di scivolamento a qualsiasi temperatura. Sagomata per gli sci Elan.
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> negozi
COMPETENZA FORMATO XL Continua la solidissima collaborazione con il negozio specializzato XL Mountain per la Buyer’s Guide La competenza di Danilo Noro e del suo staff vanno ben oltre il
Ma diamo anche molto, perché ogni rapporto che funziona deve
conoscere l’attrezzatura e saper fare bene le operazioni di messa
essere bilanciato. E così Danilo ha la possibilità di passare tra
a punto e montaggio dei materiali. C’è qualcosa di più, che è
le sue mani tutti i prodotti che vengono presentati sulla nostra
una visione dell’evoluzione di questo settore, una profonda
Guida, un’opportunità che nessun altro negoziante può avere.
sensibilità verso la trasformazione dello sci di montagna che
Un ulteriore arricchimento professionale, a tutto vantaggio
nasce da una dote innata e da un attento confronto con ogni
della sua clientela. C’è da spiegare, insomma, perché vale la
cliente che varca la soglia del negozio, che sia un principiante
pena di farsi consigliare da lui e acquistare l’attrezzatura da XL
oppure un freerider di primo piano. E una continua voglia
Mountain?
di migliorare, di sperimentare, provando in prima persona. Naturalmente riceviamo tanto in termini di preparazione degli sci, precisione nel montaggio, fondo, lamine e sciolinatura di ogni paio che va sulla neve sotto i piedi dei nostri testatori, contributo nelle valutazioni al banco di sci, scarponi e attacchi.
XL MOUNTAIN SS26 n. 76 Settimo Vittone (TO) tel 0125 659103 info@xlmountain.it aperto tutti i giorni tranne lunedì
AZIONE DI RICHIAMO PRECAUZIONALE DEL DISPOSITIVO A.R.T.VA ORTOVOX 3+ CON
VERSIONE SOFTWARE 2.1
Alcune segnalazioni di nostri PARTNER SAFETY ACADEMY hanno fatto notare che nel dispositivo a.r.t.va. 3+ con versione software 2.1, in rare situazioni, si può verificare un inconveniente temporaneo nella funzione di trasmissione. Il motivo di questo inconveniente è da ricercare in un errore di software. Con la nuova versione di software 2.2 l’inconveniente sarà risolto.
Per sapere se il tuo dispositivo è coinvolto nell’azione di richiamo e per sapere come scaricare l’ultima versione sul tuo dispositivo, vai alla pagina ortovox.com
Non sono noti episodi nei quali la ricerca, in un intervento di autosoccorso in valanga , sia stata influenzata negativamente dal menzionato errore di software. I DISPOSITIVI COINVOLTI NELL’AZIONE DI RICHIAMO NON POTRANNO PIÙ ESSERE UTILIZZATI SENZA AVER EFFETTUATO IL NECESSARIO AGGIORNAMENTO SOFTWARE 2.2.
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> materiali
il touring secondo armadA Pensi all'azienda americana per i fat da freeride e invece la linea Tracer è tra le più innovative da scialpinismo e freetouring
TRACER 98 Lo sci da fuori pista per tutti i giorni, costruito con un obiettivo sopra a tutto: la versatilità. Il Tracer 98 è rapido nei cambi di lamina, veloce sulle piste battute, agile ed affidabile in ogni condizioni di neve: se vuoi uno sci davvero pronto a tutto il Tracer 98 è la tua scelta naturale. I bordi superiori smussati poi tolgono un po’ di peso (1.780 gr nella misura 180 cm).
JP Auclair, Tanner Hall e Julien Regnier dicono qualcosa? Sono questi tre famosi skier ad avere inventato il marchio Armada nel 2002. Con una mission che non lascia spazio a dubbi: costruire lo sci del futuro. Il brand di Salt Lake City è sempre sulla cresta dell’onda, soprattutto per chi ama galleggiare su metri di powder. Naturalmente con uno sci della serie Tracer! www.armadaskis.com
Struttura: Hybrid Ultra - Lite Core Anima: Wood Core Antivibrante: Carbon Fiber Lamine: 1.7 Impact Edge Soletta: Comp Series Base Prezzo: 579,90 € Misure: 164 - 172 - 180 - 188 cm Sciancratura: 133 / 98 / 124 mm Raggio: 18.5 m
TRACER 108
TRACER 88
L’Armada Tracer 108 è il migliore
L’essenza dello skialp in uno sci
compromesso tra riduzione del peso
creato dagli alpinisti per alpinisti.
e stabilità per gli amanti del
Un modello ultralight pensato per
fuori pista. Versatile al punto
risparmiare il maggior peso possibile
giusto per le uscite in backcountry
senza compromettere il piacere della
e per la ricerca della linea
sciata… american way. Premiato come
perfetta. Uno strato antivibrante
uno dei migliori sci d’alpinismo grazie
Xrystal Mesh rende la sciata
alla velocità in salita e al suo ottimo
precisa e il rinforzo in titanal
galleggiamento in discesa. In ogni
dà una sensazione di solidità ed è
condizione di neve.
garanzia di reattività.
Struttura: Hybrid Ultra - Lite Core Struttura: Hybrid Ultra - Lite Core
Anima: Wood Core
Anima: Wood Core
Antivibrante: Carbon Fiber
Antivibrante: Xrystal Mesh Damping
Lamine: 1.7 Impact Edge
Lamine: 1.7 Impact Edge
Soletta: Comp Series Base
Soletta: Comp Series Base
Prezzo: 549,90 €
Prezzo: 599,90 €
Misure: 162 - 172 - 182 cm
Misure: 164 - 172 - 180 - 188 cm
Sciancratura: 119 / 88 / 110 mm
Sciancratura 135 / 108 / 126.5 mm
Raggio: 20.7 m
Raggio: 20 m
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ATK CREST LA NOVITà è DIETRO Nuovo ski-brake posteriore, invidiabili caratteristiche costruttive e un prezzo interessante per la new entry della casa di Fiorano Modenese SLITTA ELASTICA
La stagione invernale alle porte vedrà l’esordio sul mercato di ATK Crest, il nuovo attacchino da touring che si affianca allo storico RT, recentemente aggiornato alla versione 2.0. Perfetto per un range di sci che vanno da 80 a 100 mm sotto il piede, intuitivo ed affidabile come tutti i prodotti ATK, Crest in soli 280 gr di peso offre le migliori funzionalità disponibili per un attacco da touring. Le novità vengono tutte dietro: la talloniera è infatti montata su una slitta che ospita uno ski-brake potente ed efficace, di chiara derivazione alpina. Crest, proposto al prezzo di 399 euro, è anche disponibile nella versione Lightweight, uguale ma con valori di sgancio da 3 a 8 e una colorazione differente. www.atkbindings.com
ELASTIC RESPONSE SYSTEM un sistema di scorrimento elastico (derivato da R12|2.0) applicato alla
SKI BRAKE integrata sulla piastrina per garantire il mantenimento del valore di sgancio laterale.
SPORTELLINO CON ALZATACCO fornisce tre differenti posizioni di camminata (FLAT, +36 mm e +50 mm).
talloniera che garantisce CAM RELEASE SYSTEM:
un perfetto flex dello sci
il tipico sistema di sgancio a camme di
in fase di compressione e
ATK estremamente stabile e preciso.
quindi ottime performance di sciata.
VALORI DI SGANCIO: sistema di regolazione dello sgancio (5-10) VERTICALE (My) e LATERALE (Mz).
SUPPORTO RAMPANT SRA incluso.
SKI BRAKE INTEGRATO
SLITTA DI REGOLAZIONE (20 mm)
Perfetta compatibilità con ogni tipo
integrata nella talloniera per
di sci grazie alle varie misure
fornire una rapida regolazione
disponibili (75, 86, 91, 97, 102,
in caso di sostituzione di
EASY ENTRY SYSTEM: la nuova geometria del
108, 120 mm). La nuova geometria dei
scarponi (fino a due misure).
puntale rende l’ inserimento dello scarpone
terminali, co-stampati e realizzati in
intuitivo e rapido in ogni condizione.
nylon caricato, permette una migliore efficienza in frenata.
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> materiali ©Klemen Razinger
LA FORMA particolare impedisce alla neve di aderire alla punta dello sci
MOUNTAIN ROCKER: moderato profilo
ELAN Ibex Il nuovo standard La serie di sci dell'azienda slovena è stata pensata per rendere facile lo scialpinismo, magari per chi lo prova per la prima volta Il know-how Elan nello skialp non si discute. E la nuova serie Ibex non fa eccezione. Ogni modello dispone della Bridge Technology, un nucleo ultrasottile di legno che crea un’unica struttura 3D rinforzata con inserti a ponte da punta a coda, che garantiscono la stabilità torsionale e una diretta trasmissione degli impulsi alle lamine. Un sottile Tubelight core composto da due tubi in carbonio è integrato nell’anima in legno lungo il perimetro dello sci, sormontato da un AluPlate che offre leggerezza e stabilità. Gli inserti Vaport Tip nella parte anteriore riducono peso e vibrazioni, a tutto vantaggio della fluidità. Ibex 78, in particolare, è uno sci progettato per ispirare gli appassionati di outdoor, per le persone attive che vogliono provare lo skialp per la prima volta. Ed è perfetto per progredire velocemente.
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Elan Ibex 78
rocker per un miglior galleggiamento, facilità di curva e maneggevolezza
LARGHEZZA AL CENTRO di 78 mm,
Prezzo: 369 euro
perfetta per
Peso: 1.190 gr (163 cm)
iniziare
Lunghezze: 149, 156, 163, 170, 177 cm Sciancratura: 114-78-100 mm Raggio: 18/17 m (163 cm)
COSTRUZIONE LEGGERA che permette di affrontare le salite senza LA TECNOLOGIA BRIDGE
sforzo pur
un nucleo ultra sottile di
mantenendo una
legno, rinforzato con inserti a
sensazione di
ponte da punta a coda che danno
stabilità
stabilità torsionale e una diretta trasmissione degli impulsi, riduce al minimo il peso
SEMPLICEMENTE NON SI PUĂ’ NON AVERLO
il nuovo POLVERELLI minore di Davide Zeo Branca e della community dei liberi scivolatori foto di Federico Ravassard, disegni di Caio 144 pagine a colori 19 euro Nelle migliori librerie da inizio novembre. Disponibile on-line su www.mulatero.it
SAVE THE DATE!
Non mancare alla presentazione in prima assoluta a Milano Montagna! Zeo firmerĂ la tua copia. Domenica 28 ottobre, ore 18.
> materiali
©Alice Russolo
Tecnica Zero G Tour Pro Il piacere della discesa Il successore di Guide Pro è ideale per una sciata moderna, sullo stretto e aprendo il raggio, con sci fino a 110 millimetri sotto il piede e oltre. Per non parlare della camminata sempre più agile
Freetouring, ma anche touring tradizionale. Il Tecnica Zero G Tour Pro è la grande novità 2018/19 della casa italiana e rilancia le ambizioni di mercato del brand che aveva già guadagnato la stima di molti appassionati con Guide Pro, rispetto al quale la nuova scarpa è uno step avanti. Tecnica crede sempre più nello skialp e il know-how nel mondo della pista e delle competizioni porta interessanti innovazioni anche nello scialpinismo. COME È FATTO Last di 99 mm e peso che, nella numerazione 26/26.5, si ferma a poco più di 1.315 grammi con lunghezza suola di 306 millimetri per Zero G Tour Pro. Suola Vibram con spessore della base sottile e molto leggera, con tre diverse mescole, una delle quali grigia e omologata ISO Touring 9523, indispensabile per scarponi di questa categoria.
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La leva posteriore a doppio armamento Uno dei segreti di Zero G Tour Pro è la leva posteriore ski/ walk self-adjusting system a doppio armamento, nel gambetto e nel tallone, dove c’è un uncino di sicurezza. Il gambetto ha un’inclinazione di 12° (invertendo la piastra di fissaggio del meccanismo possiamo arrivare a 13°), mobilità di camminata anteriore di 15° e posteriore di 40°.
La forma è rockerata per facilitare la rullata e i ganci sono quattro, in magnesio e base alluminio con micro regolazione di sette millimetri. Il primo è invertito per avere la sicurezza che non si apra in arrampicata o in sciata su neve crostosa. Ganci superiori con blocco in apertura e rastrelliera con uncino anti apertura in fase di camminata.
L’attenzione al peso ha riguardato anche il Powerstrap light da 35 mm con spalmatura interna di silicone per ottimizzare la stabilità sul gambetto durante la sciata. Per lo scafo è stato utilizzato Grilamid con zone C.A.S per la lavorazione in caso di operazioni di boot fitting. Si tratta di una tecnologia Tecnica ampiamente collaudata negli scarponi alpini con settori a porosità accentuata che garantiscono una migliore e più uniforme lavorazione quando scaldati. Il gambetto invece è co-iniettato in carbonio per garantire un flex progressivo e il giusto avvolgimento. RULLA BENE, SCENDE MEGLIO Le prime impressioni in camminata sono più che buone, grazie a un bell’effetto rullata, ma è soprattutto in discesa che Zero G Tour Pro dà il meglio. Traspare il know-how della casa in materia: nelle curve strette, grazie alla giusta presa di spigolo, permette cambi veloci e precisi sullo sci. Ottimo nelle curve medio-lunghe, dove è molto progressivo. Per chi è? Sicuramente sci fino a 100 millimetri al centro (ma anche un po’oltre) e sciatori di livello medio alto per uno skialp esigente.
TECNICA ZERO G TOUR PRO Scafo: C.A.S. Grilamid Gambetto: co-iniettato in Pebax/Carbonio Mobilità gambetto: 55° Leve: 4 Light Magnesium Suola: ISO 9523 con Low Tech VIBRAM rubber toe & heel Scarpetta: Ultralight-Light Fit ready to go con lacci Last: 99 mm Flex: 130 Prezzo: 700 euro ©Alice Russolo
SKIALPER
Tutto nacque con un Frassino Giacomo Trabucchi utilizzava le migliori essenze per produrre sci resistenti. Oggi in Ski Trab la ricerca di materiali innovativi ha portato a scelte alternative, come la tecnologia alveolare. Ma quel Frassino continua a essere impiegato per produrre sci senza compromessi Da qualche tempo la homepage del sito di Ski Trab si apre con un breve video che alterna a immagini di sci nella polvere una foto in bianco e nero del bosco di Gotrosio. Il video è muto e lascia ai tanti appassionati che l’hanno guardato diverse possibili interpretazioni. Quel bosco e quell’albero, un Frassino, sono al tempo stesso il paradigma e il filo rosso che unisce la storia della vecchia Ski Trab e della nuova. Un albero, un’essenza che attraversa 70 anni di storia, da Giacomo ad Adriano e Daniele Trabucchi. «In molti ci chiedono perché noi, che siamo made in Bormio, con la sede a due passi dai boschi, siamo anche l’unica azienda a produrre uno sci da gara in materiale alveolare» dice Adriano Trabucchi. Quell’albero spiega la filosofia più profonda del marchio e il perché di alcune scelte tecnologiche. È un Frassino e l’idea di inserirlo nella clip è venuta ad Adriano incontrando un vecchio artigiano a una fiera locale. «Quel signore si ricordava che mio padre Giacomo voleva comprare un Frassino dal suo bosco, a Gotrosio, perché era l’essenza utilizzata per gli sci, ma c’era Frassi-
> 14 strati Qui sopra, la sezione esplosa dello sci che mostra la tecnologia 14 strati. Nella pagina accanto, a sinistra il fotogramma iniziale del video aziendale pubblicato sul sito www.skitrab.com, a destra Daniele Trabucchi, responsabile ricerca e sviluppo impegnato in laboratorio
no e Frassino, e in quel bosco si trovavano i migliori esemplari». È proprio grazie alla cultura dei materiali, all’esperienza e alla passione che le proprietà del legno migliore sono state ricercate in altri materiali come l’aramide. Ed è dalla continua ricerca del meglio di Daniele Trabucchi, così come faceva il padre Giacomo con il legno, che si è arrivati a capire che il legno da solo non può resistere a certe sollecitazioni e così è nato il famoso sci a 14 stati. Che poi il legno alla Ski Trab lo usano ancora, quello leggero, come il Paulownia, dove non è richiesta grande resistenza, il più robusto Frassino in altre parti e poi l’alveolare. Appunto, un vero e proprio sandwich di 14 strati. Indistruttibile.
Il leggero come mezzo Un attrezzo da scialpinismo deve essere leggero, innegabile. Ma non basta. È fondamentale il modo in cui si arriva a questo risultato. Il quadro d’insieme. Ski Trab affianca a materiali di pregio architetture assolutamente originali, studiate in funzione della leggerezza. Nella certezza che lo sci più leggero debba essere anche il più ‘costruito’. Ecco spiegata la struttura a 14 strati degli sci da gara, 14 elementi, ciascuno con carattere e funzioni diverse, in grado d’interagire sapientemente. Si potrebbero utilizzare anche sei/sette soli strati, come la maggioranza dei concorrenti, il peso dei race valtellinesi si attesterebbe magari a un centinaio di grammi in meno. Scendendo però a compromessi in termini di affidabilità e sciabilità. Compromessi inaccettabili a casa Trabucchi.
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> materiali
Ecco così che la tradizione e la passione del made in Bormio si fondono con i 14strati che sono poi i due marchi di fabbrica, i due hashtag, come va di moda dire oggi, di Ski Trab. Giacomo Trabucchi ha iniziato a trattare il legno per costruire serramenti e mobili, soprattutto le cucine. Le costruiva su misura per le vecchie case di Bormio, poi però arrivarono quelle già fatte, le future componibili, più facili, più economiche. Il lavoro di falegname prese in parte la piega della vendita di prodotti altrui, remunerativo ma di poca soddisfazione. Nel 1946 Giacomo, diciassettenne, aveva già costruito il suo primo paio di sci, per lui e per i tre fratelli, impegnati nelle gare di salto. Un paio di sci che si aggiungeva a quello, unico, che i quattro dovevano passarsi velocemente tra un salto e l’altro. Fu così che il passaggio dalle cucine agli sci divenne quasi naturale, prima con i legni di hickory studiati insieme al campione italiano di salto e poi, nell’inverno '53- '54, con quelli da discesa. Una sfida, più interessante dell’attività di mobiliere ormai consolidata e con poche prospettive di crescita. I primi sci da scialpinismo arrivarono nel 1961, con la partecipazione di Giacomo al Rally del Monte Bianco. Erano gli Stelvio, costruiti in duralluminio per soddisfare le prime esigenze di leggerezza. L’attacco era una rudimentale evoluzione di quello dell’epoca, costruito in casa con le molle di un letto e la sciolina da fondo faceva da colla per le pelli di foca. In seguito cominciarono a bazzicare la fabbrica Adriano e Daniele, i figli di Giacomo, prima utilizzando il capannone come teatro di gioco e poi aiutando il papà in piccoli lavoretti. Come quando negli anni ‘70 lo accompagnavano in giro per il Nord Italia a rilevare i macchinari delle aziende di sci in fallimento. In breve Daniele è diventato l’anima tecnica e Adriano quella commerciale di Ski Trab. Furono loro a prendere in mano l’azienda nei primi anni novanta, seguendo il solco scavato con mano decisa da Giacomo e… il resto è storia recente.
Q&A
Daniele Trabucchi Responsabile tecnico Skitrab Daniele, sei tu l’anima tecnica dell’azienda, cosa puoi dire in proposito? «Sono d’accordo con Adriano. Io sono sempre stato un visionario, ben ancorato agli aspetti tecnici, ma svincolato da quelli commerciali. E su questo in realtà con Adriano ogni tanto discutiamo. Mi piace pensare in maniera trasversale, prendendo spunto da altri settori. Frequento le fiere più strane, da quelle tessili a quelle alimentari, per cercare di avere idee tecnologiche innovative. Per trasferire le esperienze di altre menti e di altri campi nella produzione dei nostri sci. La struttura Hi-box dei nostri nuovi sci nasce ad esempio da una partnership con un’azienda tessile conosciuta a una fiera». Illustraci meglio il concetto di sfida. «Significa prendere spunto da una specifica esigenza per porsi un traguardo tecnico di livello assoluto. Quando parte una sfida non penso ad altro, mi concentro su quella, su tutte le strategie utili per vincerla. Mi piace soprattutto innovare, più che seguire le strade altrui. Come ad esempio tanti anni fa, quando ho ideato i primi sci da pista sciancrati, in anticipo su tutte le grandi aziende. Poi ho addirittura realizzato un prototipo di sci a sciancratura variabile, con la coda che si allargava e si stringeva con due viti. È stato così anche per il Maestro, uno sci a
rocker attivo, come lo chiamiamo noi, con le punte che non stanno lì rialzate ad aspettare la neve, ma si piegano solo se e quando serve.
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SKIALPER
Mammut Spindrift 14 Zaino 2 in 1 Un pratico e leggero gilet antivento integrato nella tasca laterale è perfetto per evitare di raffreddarsi quando si arriva in vetta
In 14 litri e 760 grammi c’è tutto. O quasi. Ecco Spindrift 14, l’ultima meraviglia della casa svizzera, modello con litraggio più piccolo di una linea pensata per lo scialpinista esigente, quello per il quale ogni grammo e minuto in più sono da evitare. I fratelli da 26 e 32 litri sono pensati per chi vuole un minimo di capienza in più senza salire troppo di peso (rispettivamente 850 gr e 1.190 gr). La versione da 26 litri, a differenza del 14 litri, ha portasci diagonal, mentre quella da 32 litri diagonal /lateral ed è sprovvista della tasca porta smartphone sulla cintura. Spindrift 32 ha inoltre una lunga zip che apre lo scomparto principale al posto di quella sullo schienale degli altri due. Però l’unico ad avere il pratico gilet antivento integrato nella tasca laterale è Spindrift 14.
> Tanti dettagli Tasca porta attrezzatura di soccorso Portasci Compatibile con sacca idrica Gilet antivento integrato nella tasca laterale Tasca porta smartphone sulla cintura Portabottiglia sullo spallaccio Portabastoni sullo spallaccio Accesso allo scomparto dalla schienale Portacasco espandibile (+ 2 litri)
www.mammut.ch
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> materiali
MUST HAVE Tre chicche per un autunno… bianco
CAMP Fast Jacket Guscio idrorepellente, molto traspirante, stretch, ideale per tutte le attività aerobiche. La costruzione a kimono riduce il numero delle cuciture, a vantaggio sia dell’idrorepellenza che del comfort ed è ripiegabile nella borsetta integrata. Disponibile in
BUFF Dryflx Hat
6 taglie dalla XS alla XXL, 220 gr. Prezzo: 99,90 euro.
È stato creato per attività ad alta intensità, con il nuovo tessuto Dryflx, estremamente estensibile e confortevole, morbido, protettivo e termico (49% Polyestere, 47% Polyamide, 4% Elastane) che offre
Marker Kingpin 13 Certificazione DIN/ISO 13992, facilità d’uso, valori DIN 6-13 e soprattutto grande trasmissione di potenza in discesa. The next step della tecnologia PinTech AT. In 750 gr, ski stopper incluso. Prezzo: da 539 euro.
traspirabilità e ottima gestione dell’umidità. Abbinabile a due tipologie differenti di DryFlx Neckwarmer. Prezzo: 22.95 euro.
> materiali
la donna in montagna secondo vaude
VAUDE ECO PRODUCT
L’outfit eco-friendly per la scialpinista che non vuole lasciare tracce del suo passaggio con finiture water repellent senza l’utilizzo di sostanze pericolose per l’ambiente e materiali certificati Bluesign
01. Larice Jacket III
02. Larice 2,5 L Jacket
03. Larice Pants III
04. Nendaz 18
Il segreto del successo
Uno strato antivento e
Come la Jacket sono pensati
Uno zaino molto
di questo softshell
Waterproof (membrana PTFE
per garantire il migliore
compatto per escursioni
con cappuccio è la
free Ceplex) leggero,
microclima, sempre. Infatti
scialpinistiche in
realizzazione con tre
perfettamente packable,
utilizzano tre diversi
giornata. La funzionalità
diversi materiali per
stretch e altamente
materiali, dal Windproof 100
fa rima con ecologia,
offrire sempre il migliore
traspirante, grazie
all’80, fino ad arrivare a un
visto che è realizzato
micro-comfort. Sul petto è
anche alle cerniere di
tessuto molto traspirante
con materiali amici
stato utilizzato tessuto
ventilazione sotto alle
sul retro delle ginocchia.
dell’ambiente e certificati
Windproof 100, nelle altre
braccia. Il cappuccio
Sono comodamente preformati
Bluesign. Studiato sulla
zone esposte Windproof 80
protegge dalle peggiori
e hanno l’orlo rinforzato in
conformazione della zona,
e sotto le ascelle e sulla
intemperie, le strisce
Stretch Cordura, a prova di
ha un fit molto avvolgente e
schiena un materiale molto
riflettenti sono garanzia
ramponi. La finitura water
la cinghia in vita sottile
traspirante. Non mancano
di visibilità e la tasca
repellent è PFC free e anche
permette di indossare
cerniere di ventilazione
mesh interna è perfetta per
in questo caso non mancano
un’imbragatura. Portasci
sulle maniche e strisce
tenere al caldo le pelli.
le strisce riflettenti.
diagonale o frontale,
riflettenti. La finitura
PREZZO: 215 euro
PREZZO: 175 euro
spazio per pala, sonda,
water repellent è eco-
PESO: 245 gr
PESO: 474 gr
smartphone…
friendly, senza l’utilizzo
PREZZO: 115 euro
di PFC.
PESO: 990 gr
PREZZO: 185 euro PESO: 513 gr
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> info pr
Folgore, la casa dello scialpinismo allo Stelvio Non solo gli azzurri dello skialp tra gli habituè, ma anche ciclisti e biathleti
Gli sportivi della fatica che scelgono il Passo dello
la neve scende a imbiancare il passo, c’è la possibilità
Stelvio per i loro allenamenti sono tanti e, se gli
di macinare più metri di dislivello e poi, proprio fuori
sciatori della Coppa del Mondo prediligono strutture
dall’albergo, parte la pista di fondo. Terminati gli atout
sul ghiacciaio, chi pratica sport endurance preferisce il
sportivi, iniziano quelli legati alla gestione
Folgore, dove gli scialpinisti sono di casa, dagli azzurri
famigliare delle sorelle Rizzi, che mandano avanti
a Mathéo Jacquemoud. Qualche altro nome? Per
questo ex rifugio del CAI di Bormio dal 1969: cucina
esempio il biathleta e fondista Ole Einar Bjørndalen,
tipica locale con piatti della tradizione e ampio buffet,
il ciclista Domenico Pozzovivo… Ma perché? Prima di
televisione satellitare e tanto altro.
tutto perché per gli scialpinisti in autunno, quando
il negozio di fiducia Giuliano Bordoni, Ph: Daniele Molineris
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PONTEDILEGNO-TONALE BREAKING NEWS www.pontedilegnotonale.com
It’s my nature
8 DICEMBRE WINTER OPENING PARTY
Una festa per l’inverno Il comprensorio Pontedilegno-Tonale darà il via ufficiale alla stagione invernale 2018-2019 con la tradizionale festa che coincide con il ponte dell’Immacolata. Siete pronti per una serata a ritmo di musica nella suggestiva piazzetta, cuore dell’isola pedonale di Ponte di Legno? Sabato 8 dicembre vi aspettiamo per dare tutti insieme il benvenuto all’inverno.
LAVORI LAGO DI VALBIOLO 120.000 METRI CUBI Sul versante trentino del Passo Tonale stiamo realizzando un lago artificiale da 120.000 metri cubi per l’innevamento programmato. L’obiettivo è quello di poter dare un’alternativa agli sciatori già all’inizio dell’inverno, quando solitamente c’è solo il ghiacciaio aperto. Oltre alla realizzazione di questo lago sono previsti l’ampliamento della pista Valbiolo e la riorganizzazione dello snowpark che questo inverno avrà un’entrata unica all’arrivo della seggiovia per la linea difficile e la linea mediofacile e lo skicross e presenterà tre salti in linea, ovvero uno in più rispetto all’anno scorso.
NOVITÀ ZIP LINE
Divertimento assicurato
7 APRILE
SCI
ADAMELLO SKI RAID
PISTA CASOLA
La Grande Course al Tonale
Discese a ritmo di slalom
È l’appuntamento più atteso dagli appassionati di scialpinismo e si ripete ogni due anni, coincide sempre con gli anni dispari. La data da segnare sul calendario per il 2019 è quella di domenica 7 aprile, quando si terrà la settima edizione dell’Adamello Ski Raid, gara del circuito internazionale La Grande Course. I migliori atleti di questa disciplina si confronteranno su un percorso di 40 km con un dislivello positivo di 4.000 metri che li porterà dalla vedretta del Mandrone al cannone di Cresta Croce e al Monte Adamello. www.adamelloskiraid.com
A Ponte di Legno la pista Casola è stata ampliata e questo inverno si presenterà con una larghezza di 40 metri, analoga a quella delle vicine piste di Temù. La Casola è una pista conosciuta e molto apprezzata dalle squadre nazionali che negli anni scorsi l’hanno utilizzata per i loro allenamenti: grazie a questo ampliamento risulterà sicuramente ancora più interessante. www.pontedilegnotonale.com
La grande novità per tutti, che potrebbe essere pronta già per la stagione invernale 2018-2019, sarà la Zip Line a Ponte di Legno. Si tratta di un percorso-avventura estremamente panoramico che permetterà di scendere attraverso il bosco, imbragati e in posizione seduta, zigzagando sopra gli sciatori.
La discesa avverrà per gravità, con l’imbrago agganciato a un carrello che percorrerà tratti in rotaia ed altri a fune, per uno sviluppo complessivo di 1.273 metri, un dislivello di 249 metri e una pendenza media del 20 per cento. La corsa durerà tra i 4 e i 5 minuti e potrà essere effettuata da soli oppure in due.
Anche per la stagione invernale 2018-2019 sarà possibile acquistare lo skipass online a un prezzo agevolato sul sito www.pontedilegnotonale.com
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> materiali
Salomon, ma con il disegno
Pierre Gignoux al K2
Un amico di Andrzej Bargiel, Sebastian Litner, ha
Gli scarponi utilizzati da Andrzej Bargiel al K2 sono
disegnato una grafica speciale per le cinque paia di
i Pierre Gignoux Black, in carbonio: «Ho inserito dei
sci Salomon (il modello è S/Lab Minim) che Bargiel ha
riscaldatori elettrici all’interno, mentre all’esterno
utilizzato al K2. Il disegno racconta la sua storia
dello scafo, per proteggermi ulteriormente dal freddo,
alpinistica e la sua vita in modo molto articolato.
utilizzo delle sovra-scarpe in neoprene».
servizi SEGRETi
Qualche informazione in più sui materiali che appaiono in questo numero
Le scarpe di Mira Che scarpe usa Mira Rai? Sempre le stesse, che si tratti di 40 o 100 chilometri, le Salomon S/Lab Sense. Unica variante... l’opzione soft ground per terreni umidi!
l’UTMB di Kilian Abbiamo parlato più della gara femminile, ma onore a Kilian, messo fuori gioco da un’ape. Che materiali ha usato? Eccoli: la maggior parte sono prototipi, la scarpa una S/Lab ME:sh.
> gare
Tutto pronto per il Tartufo Trail A inizio ottobre si chiude il Trofeo BPER Banca Agisko Appennino Trail Cup con il consueto appuntamento di Calestano, una grande classica del calendario italiano
Il Trofeo BPER Banca Agisko Appennino Trail Cup volge al termine: il 7 ottobre ultimo atto del circuito con il Tartufo Trail. E sarà lotta serrata per aggiudicarsi la graduatoria finale maschile con tre atleti racchiusi in pochissimi punti (Marco Franzini a 738.5, Pietro Ferrarini a 725 e Alberto Ghisellini e 722.5) mente al femminile Katia Fori ha piazzato la stoccata vincente superando quota 1.000 davanti a Moira Guerini e Giulia Magnesa. Una formula dunque vincente se tutto (o quasi) si deciderà all’ultimo. «Il nostro sistema di assegnazioni dei punti - conferma Roberto Mattioli, il coordinatore del circuito - ormai da anni è collaudato e permette di mantenere sempre viva la competizione. Merito anche degli atleti che sono sempre più affezionati e partecipano spesso a tutte le prove in calendario». Un calendario che quest’anno è stato condensato in dieci gare. L’Appennino Trail Cup è partita in quello Tosco-Emiliano, ma ormai ha raggiunto tutti i sentieri appenninici. «Sì - ancora Mattioli - abbiamo iniziato dalla Liguria arrivando fino alla Costiera Amalfitana, mantenendo alcune prove storiche che sono nel circuito dall’inizio. Lo spirito è sempre quello di far promozione per l’Ap-
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pennino, le sue bellezze e le opportunità per lo sport outdoor. Anche per correre. Tutto questo mantenendo altissimo il livello dell’organizzazione in modo che tutti tornino a casa soddisfatti e non solo per aver corso in luoghi affascinanti. Anche nel 2018 i riscontri che abbiamo avuto sono stati tutti positivi, un segnale che ci dice che la scelta fatta, quella della collaborazione tra organizzatori per offrire un circuito unico e di alto livello, è vincente. E proseguirà anche il prossimo anno: abbiamo qualche idea in cantiere, magari una gara alpina, un po’ come il Giro d’Italia che spesso e volentieri parte fuori dall’Italia. Ripeto, c’è interesse per il nostro circuito, per i numeri e per la qualità organizzativa». TARTUFO - Domenica 7 ottobre sapremo dunque chi volerà a Malta per l’Xterra Gozo Trail Run (con pettorale e fine settimana in albergo tutto compreso per chi conquisterà il primo posto): si corre nell’Appennino Parmense. Appuntamento a Calestano con quattro tracciati, dai 17 ai 68 chilometri. «I percorsi sono confermatissimi - aggiunge Roberto Mattioli, questa volta in veste di organizzatore della Tartufo - sono stati tracciati
in modo permanente con i punti di sicurezza, dove si trovano le coordinate da fornire ai soccorsi, disseminati sul territorio, utili per i runner ma anche disponibili per chi in questo territorio vive e lavora. Si corre nella Riserva MAB, Man and the Biosphere, tra il Monte Sporno e il Montagnana, le guglie rocciose dei Salti del Diavolo, la Via degli Scalpellini e la Via Francigena… sarò di parte, ma sono posti bellissimi». Posti bellissimi, ma anche cibi buonissimi a partire dal tartufo di Fragno, che dà il nome
alla gara, passando per prosciutto di Parma, Parmigiano-Reggiano, vino dei colli: tutto questo fa mettere in viaggio tanti runner verso Calestano. «È una bella gratificazione - conclude Mattioli - il fatto che nella starting list è cresciuta sempre di più la presenza internazionale, siamo arrivati a quindici nazioni. Siamo ovviamente contenti e faremo il massimo perché siano i nostri primi ambasciatori nel mondo. Perché conta la gara, ma conta anche la promozione del nostro Appennino».
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