Alvento 4

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S T R A D E B I A N C H E — S A N R EM O — A L A N M A R A N G O N I — PATAG O N I A — T R E C I M E D I L AVA R ED O PRIMAVERA — BIMESTR ALE

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in edicola dal 15 aprile 2019

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aprile 2 019

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PRONTI PER IL PROSSIMO ESAME —

I PANTALONCINI FREE AERO RACE 4 HANNO GIÀ SUPERATO MILIONI DI CHILOMETRI DI TEST. MA È IL MOMENTO DI PORTARLI ALL’UNIVERSITÀ DEL CICLISMO, PER L’ESAME SULLE PIETRE.

UN’ALTRA PROVA, CHE NON SARÀ DI CERTO L’ULTIMA.

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E allora uhe' oh' lievete 'a sotto: si nun te staje accorto quaccheduno te ciacca 'a ggente ca te guarda nun se ne fotte 'e niente. Maronna e comm'e' brutto a sta' c' o mal' 'e diente. E allora uhe' oh' tienelo a mmente: pe' cchi nun se fa' male rieste'na samenta e si pierde a' pazienza. Song'guaje 'e morte e allucca cchm' forte. E allucca cchiu' forte. E allora uhe' oh' lievete 'a sotto ... E allora uhe' oh' lievete 'a'nnanze: stanotte aggio durmuto senza mal' 'e panza. Quaccosa t'haie magnato ca t'ha fatto male. Tengo a televisione trentasei canali si parlano tutti'nzieme so'tanta capere. Ma quanno ascimmo fora sarra' primavera. Ma quanno ascimmo fora sarra' primavera. Ma quanno ascimmo fora sarra' primavera. Primavera Primavera Primavera Primavera. [STOP BAJON - TULLIO DE PISCOPO]

#4



Fermate Julian Alaphilippe. È lui il protagonista assoluto della primavera e anche di questo numero. Con la vittoria di Strade Bianche e Milano-Sanremo ha già ipotecato la stagione. «In gara sono uno che deve attaccare. Fuori gara sono un tipo allegro». A noi piace proprio per quello.

Sull’asfalto del Muro c’è scritto così: «Un passista non ha alternative. Deve arrivare ai piedi del muro con almeno dieci minuti di vantaggio così poi, se lo fa a piedi impiegando un quarto d’ora di più di quelli che lo faranno in bici, arriverà in cima con cinque o sei minuti di ritardo e potrà ancora sperare». [GINO BARTALI]

© Tornanti.cc

Chi lo ferma?



© Tornanti.cc

Polvere e sangue La polvere e le cadute fanno parte del gioco. Alle Strade Bianche quest’anno è stata una gara asciutta ma comunque durissima. «È la competizione in cui i nostri corridori lo scorso anno hanno prodotto il più alto wattaggio in corsa» ci ha detto Ralph Denk, Team Manager di Bora.


Sportivi La differenza tra uno tifoso e uno sportivo è evidente, per lo meno nel contesto del ciclismo. Il tifoso tifa e lo sportivo pedala. Chiunque pedali sa che non è bello farlo mentre a polmoni aperti respiri fumo arancione. I fumogeni: perchÊ non smettete di usarli?


© Getty Images for IRONMAN

© Tornanti.cc


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editoriale

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Siamo sporchi Sono in piedi sui pedali e insieme a me ce ne sono altri cinquanta almeno. Stiamo salendo uno strappo sterrato alla Granfondo Strade Bianche che è abbastanza duro, ieri in questo stesso punto ricordo di avere visto dei professionisti e andavano relativamente piano anche loro, figuriamoci noi. Qualcuno tenta di sfruttare l’inerzia e pesta sui pedali, altri lavorano più sapientemente con il cambio. Altri ancora cedono quasi subito alla tentazione di scalare i rapporti e salgono pedalando troppo agili restando inesorabilmente indietro a mangiare la polvere. Alle Strade Bianche mangiare la polvere non è un modo di dire. Davanti a me, da un bel tratto ormai, c’è un tizio con la maglia della nazionale belga che procede più o meno al mio stesso ritmo, ci siamo già superati e risuperati varie volte. È uno che avrà la mia stessa età o forse qualche anno in meno, è un tizio ben messo e con le gambe muscolose. Penso che è bella, la maglia del Belgio. Penso che il Belgio è un luogo dove la cultura ciclistica è profonda e radicata nella gente, e indossare la maglia della propria nazionale è un bel modo di celebrare questa passione e questo entusiasmo per il ciclismo. O più probabilmente è soltanto la combinazione dei colori della sua maglia che è bella da vedere, in fondo io non mi sono mica mai messo indosso un kit con i colori della Nazionale Italiana, per andare pedalare. La salita molla un po’, ci risediamo tutti sui pedali ed è il momento giusto per alimentarsi e bere. Il tizio belga deve avere pensato la stessa cosa che ho pensato io, lo vedo togliere una mano dal manubrio e prendere un gel di maltodestrine dalla tasca posteriore della maglia. Altri cinquanta metri e mentre a mia volta sto succhiando una bustina di gel vedo il belga lanciare nei prati la confezione vuota, come niente fosse. Siamo in un bellissimo tratto di sterrato, in Toscana, in uno dei luoghi più belli del pianeta in cui pedalare. E siamo amatori. Queste strade sono ciò che ci resta di centinaia di anni di storia e di cultura tramandata da generazioni e siamo qui per pedalare insieme, per divertirci. Se vogliamo dirla molto pomposamente siamo qui per celebrare il ciclismo e la sua storia. E questo idiota venuto dal Belgio, lancia i rifiuti a bordo strada. È domenica mattina e oggi mi sono alzato più tardi. Ho tempo solo per un giro breve prima di pranzo, prendo la bicicletta e mi dirigo a Nembro per fare la salita di Selvino, che è la mia salita. Mentre salgo vedo buttata a terra sull’asfalto una bustina di maltodestrine in gel vuota. Poco dopo un’altra. Sono combattuto tra il fermarmi a raccoglierla e il continuare a pedalare, ma continuo. Mi sento in colpa per questo. Noto un altro incarto di gel vuoto, ancora. E poi un’altro. Inizio a farci caso, ce n’è dappertutto a bordo strada. Arrivo in cima alla salita e scendo, rientro a casa. Mi faccio una doccia e pranzo. Poi nel pomeriggio prendo la bicicletta, uno zainetto e un sacco dell’immondizia e torno a Selvino. Rifaccio la salita un’altra volta e questo giro mi fermo a raccogliere tutte le bustine di gel e gli incarti di prodotti energetici che trovo a bordo strada, recenti e meno recenti, quello è sporco che abbiamo portato noi. Non avete idea di quanto ce n’è. E voi che ci leggete mi chiedevo, che tipo di ciclista siete?

di Emilio Previtali


#4 Sommario

STRADE BIANCHE

Può, in poco più di dieci anni, diventare una Classica Monumento una gara che sembrava nata quasi per scommessa? Sì, può.

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Etica e Polvere

La classica del nord più a sud del mondo

Maglie bianche sulle strade bianche

di Alessandro Autieri

di Emilio Previtali

di Gabriele Gargantini


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Mozza-fiato

Marangoni, Alan

«Siano atleti professionisti e non, l’asfalto per le Tre Cime di Lavaredo è sempre bagnato da pura sofferenza».

Dal suo racconto, quella volta in cui aveva deciso di organizzare un drappello di coraggiosi, o di folli, per una fuga impossibile. di Alan Marangoni

di Romina Venier

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Mister Di Maggio

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Ha tre bici gialle, una modificata per trasportare i suoi attrezzi. Siamo andati a conoscerlo nel suo studio di Milano.

Tour of Guangxi

di Emilio Previtali

Una gara del calendario World Tour in Cina? La UCI ci riprova. di Kåre Dehlie Thorstad

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Nella terra dei Giganti Un viaggio nato nell’immaginazione, leggendo le pagine di Walter Bonatti. In Patagonia, in cerca di avventura. di Montanus

La Sanremo A Sanremo, un tempo, l’anno nuovo incominciava due volte. La prima a febbraio, con il Festival. La seconda volta a marzo, con la Milano-Sanremo. di Emilio Previtali

124 Tutto il resto è noia Ricordi di biciclette e di un’infanzia a Cesenatico di Stefano Dragonetti

134 A rincorrere il sole

272 km, dall’Adriatico al Tirreno, prima che il sole tramonti. di Carlo Brena



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Contributors

Hanno scritto o fotografato per Alvento #4

Alessandro Autieri

Gabriele Gargantini

Carlo Brena

Stefano Dragonetti

Federico Ravassard

Luca Di Maggio

Webmaster, fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.

Gli piace scrivere. Gli piacciono le biciclette e il ciclismo. Scrive per Il Post, su Alvento scrive di biciclette e ciclismo.

Si definisce un pigro che tende a rimandare con scarsa propensione all'iniziativa. Però ha finito un paio di Ironman, qualche maratona e una manciata di granfondo. Ama Frank Zappa e lo sci di fondo ma non gli piace il freddo. In garage ha nove bici.

Si alza presto. Non appena può, pedala. Non riesce a fare a meno di disegnare. E di leggere, scrivere o raccontare storie. Al ristorante, prenderebbe sempre la zuppa inglese. Ha iniziato da bambino a disegnare ciclisti e non ha più smesso.

Con lui c’è un solo un rischio: che ci siano di mezzo le chiavi della macchina. Quelle le perde di sicuro, almeno una volta a servizio. Per il resto ha talento, è perspicace e vede le cose da un'ottica tutta sua. E poi sa anche scrivere bene. Ah è di Torino, ha 24 anni.

Disegna biciclette e ciclisti perché rappresentano la vita: il movimento, la fatica, l’arrivo e la ripartenza. Ha 40 anni e per il momento vive a Milano, gli piacciono le biciclette di colore giallo. Il disegno di copertina di questo numero, è suo.


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Novità


Illustrazioni irene e irene


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Potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera [PABLO NERUDA]

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S T R A D E

B I A N C H E

etica e polvere Testo Gabriele Gargantini

Foto tornanti.cc

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Castelnuovo Berardenga

Siena

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San Rocco a Pilli Asciano

63 km di strade sterrate divise in 11 settori.

Montalcino

1° settore (2.1 km) rettilineo in leggera discesa. 2° settore (5.8 km), prima vera asperità della corsa con pendenze attorno al 10%. 3° settore (4.4 km). 4° settore “La Piana” (5.5 km). 5° settore (11.9 km). 6° settore (8.0 km) ondulati, molto nervosi e con parecchie curve e saliscendi. 7° settore “San Martino in Grania” (9.5 km) Un lungo saliscendi nella prima parte e una salita a curvoni nel finale. 8° settore “Sante Marie”(11.5 km), prevalentemente in salita con molti saliscendi. 9° settore ”(0.8 km), uno strappo sterrato con pendenze a doppia cifra.

STRADE BIANCHE Quando Pro + Donne 8 marzo 2019 / GF 9 marzo 2019 Lunghezza Pro 184.0 km / Donne + GF 136.0 km / MF 86.6 km Settori sterrati Pro 11 /Donne + GF 8 / MF 6

10° settore “Colle Pinzuto“(2.4 km) - pendenze fino al 15%.

Vincitori Pro Julian Alaphilippe / Donne Annemiek Van Vleuten / GF Federico Pozzetto / MF Simone Lanzillo

11° settore “Tolfe” (1.1 km) discesa.

Info strade-bianche.it


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Quando ho guardato la Strade Bianche sapevo già chi fosse il vincitore. L'ho guardata su un iPad, dopo cena, in una stanza di Siena presa su Airbnb. Sapevo già che l'aveva vinta Julian Alaphilippe perché mentre lui vinceva io ero mezzo chilometro più indietro e stavo facendo la salita di Santa Caterina. A venticinque chilometri all'ora.

Tra-due-ali-di-folla. Seduto nel sedile posteriore di un'automobile nera. Quando ho guardato la Strade Bianche sull’iPad era per gustarmela finalmente con calma. Dopo che qualche ora prima l'avevo vissuta, senza calma, dall'auto nera con scritto sopra Direzione Corsa 3. Nemmeno l'ho vista partire, la Strade Bianche. Però ho visto, uno dopo l’altro, i corridori arrivare sulla linea di partenza. Il primo è stato il 206, Justin Mottier. Chissà se quando ti capita, di essere il primo alla partenza, ti senti come quello che arriva per primo a una festa. Chissà quando è successo che il primo alla partenza fosse poi anche il primo all'arrivo. Fatto sta che Mottier poi si è ritirato e io e lui eravamo già lì, sulla linea di partenza, quando quelli della Sky e della Bahrain Merida ancora erano a fare firme e interviste. Piano piano a Mottier si sono aggiunti gli altri 146 partenti. Poco dopo le dieci e mezza, un paio di minuti prima che i corridori incastrassero le scarpe nei pedali e iniziassero a far girare le gambe, io ero già partito. Seduto nella Toyota Hybrid nera guidata da Enrico Bonsembiante, accanto al

direttore di corsa Raffaele Babini. Mentre Enrico guidava, Raffaele mi ha messo in mano un po' di fogli. Ci ho rivisto le informazioni che già sapevo, ma che sarebbero state la mia giornata. Tre chilometri di trasferimento e poi 184 chilometri di gara. Con 11 settori di strada sterrata, per poco più di 60 chilometri: uno per ogni due di asfalto. Il più lungo: 11,9 chilometri. Il più corto: giusto 800 metri. E il più noto e temuto: l'ottavo, quello delle Sante Marie. Mentre Enrico continuava a guidare e io ripassavo altimetrie e numeri di pettorali, Raffaele aveva da fare con la radio. Anzi, le radio. Quella in cui parlavano i giudici, quella in cui parlavano gli altri direttori di corsa, quella di corsa in cui si parlava a tutti i mezzi della carovana. L'inizio delle comunicazioni di una carovana di una corsa in bici è facile: si fa l'appello. Ognuno conferma di esserci e nel farlo qualcuno ci infila qualche battuta o un saluto diverso dal buongiorno. Esauriti i convenevoli e superato il chilometro zero, Raffaele ha iniziato a occuparsi della corsa: vede che i mezzi, macchine e moto, stanno troppo vicini tra loro e quindi chiede a Enrico di farsi vicino a


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un motociclista della Stradale e gli dice, in modo garbato ma perentorio, Vi voglio meno raggruppati, più diluiti. La prima preoccupazione di chi dirige una corsa è garantire l'incolumità dei corridori. La seconda è far sì che la corsa sia regolare, senza intoppi. Dei mezzi diluiti permettono di presidiare meglio la strada che i corridori stanno per percorrere. Il fatto che ci sia spazio tra un mezzo e l'altro evita che il gruppo arrivi troppo vicino alle auto che lo precedono. È un problema sempre, ma lo è tanto di più alla Strade Bianche, dove ogni settore di non-asfalto è un ostacolo logistico non indifferente. I primi chilometri di una corsa sono molto più vivaci in auto che in gruppo, ma abbiamo trovato comunque il tempo per parlare un po'. Delle altre corse: Enrico e Raffaele sono appena tornati dall'UAE Tour. «Laggiù sono diventati bravissimi», dicono: «Un poliziotto a ogni incrocio». Della Milano-Sanremo: «Fino alla Cipressa non succede

nulla nemmeno in auto», mi conferma Raffaele. Dell'auto: «Sembra nuova», dico. «Lo è», mi risponde Enrico: «Cinquecento chilometri, per ora tutti su asfalto». Del tempo, anche: io dico che, forse, qualche goccia potrebbe arrivare; Raffaele è certo che no (non pioverà per tutto il giorno, nemmeno una goccia, in effetti). Alle 10:40, al chilometro zero, l'auto era pulita come quella di un matrimonio. Dopo 18 chilometri già non lo è più, perché c'è il primo settore. «Questa polvere ce la ritroviamo attaccata fino al Giro», dice Raffaele. In effetti, bastano dieci secondi di primo settore, in auto, per capire perché la Strade Bianche è quel che è. Siamo tra i primi mezzi della carovana, eppure si fa fatica a capire dove ci troviamo e a vedere dove stiamo andando. Penso a Enrico che ci guida dentro, ai 147 dietro che stanno per pedalarci e respirarci in mezzo, e a Raffaele che per lavoro deve occuparsi di tutti loro. Mentre attraversiamo il primo settore,


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Al km zero, l'auto era pulita come quella di un matrimonio. Dopo 18 km già non lo è più, perché c'è il primo settore sterrato. «Questa polvere ce la ritroviamo attaccata fino al Giro».

Siena. Julian Alaphilippe primo sul traguardo di Piazza del Campo, che sembra il Maracanã.

radiocorsa ricorda alle ammiraglie che, appunto, c'è un gran polverone e devono accendere gli abbaglianti. Raffaele dice, tra sé, a voce bassa, che dovrebbero farlo sempre per regolamento di tenere gli abbaglianti accesi, a prescindere dalla polvere. Dietro di noi c'è ancora il gruppo compatto e già mi rendo conto di quanto sia difficile, dal punto di vista della direzione, assecondare e bilanciare i comprensibili interessi di corridori, ammiraglie e moto dei fotografi. Nei primi chilometri il problema più grande sono proprio i fotografi. Vogliono fotografie del gruppo nella polvere e per farle devono quindi superare il gruppo prima di ogni settore, fare foto, farsi superare, rimontare in sella alla moto e poi passare di nuovo il gruppo prima del settore successivo. Così per ogni settore. Una corsa nella corsa. Verso le 11 e mezza, a 31 chilometri dal via, si movimenta la vera corsa: escono dal gruppo in tre: il 13, l'87 e il 167. A cui poco dopo si aggiunge il 15. All'inizio sono così, dei numeri, ben scanditi da radiocorsa: centosessantasette, uno-sei-sette. Poi arrivano i nomi: Nico Denz, Léo Vincent, Diego Rosa e Alexandre Geniez. Due francesi, un tedesco e un italiano. È la fuga di giornata e tre su quattro smetteranno di essere in testa ancora prima che

arrivi la televisione. Dopo un'ora i quattro hanno preso un minuto e hanno pedalato per 42 chilometri. Intanto, dalla radio, le solite cose sulla corsa: le forature (tante); la moderata apprensione prima dei passaggi a livello (la radio li chiama Pi-Elle); i primi ritiri; l'imprevisto di un'auto di un ignaro turista che, probabilmente perché uscito da un casale sui monti, stava per finire contromano sul percorso della Strade Bianche; la ramanzina per una bidon collé. Mentre qualcuno si aggrappa a quell'appiccicosa borraccia per risparmiarsi qualche secondo di fatica, i quattro davanti guadagnano vantaggio. Allora a Montalcino, al chilometro 66 di corsa, Enrico accosta, ci sgranchiamo le gambe e ci facciamo superare dai quattro di testa, per metterci tra loro e il gruppo. Raffaele mi spiega che, quando può, è lì che gli piace stare: davanti al gruppo. «Perché è il posto più vivace, perché è dove c'è bagarre, dove c'è la competizione, dove serve una costante lettura della corsa». A Montalcino consideriamo anche la possibilità di prendere un caffè, ma la corsa incombe e facciamo senza. Mentre Enrico guida verso il quinto settore, è un altro buon momento per chiacchierare. Dei decenni di esperienza di Raffaele, prima da corridore e


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La gara di donne e uomini pro si svolge praticamente in contemporanea. Le donne partono prima e affrontano un percorso di 136 km con 8 settori sterrati che è lo stesso della granfondo. Per gli uomini pro 184 km e 11 settori sterrati.


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Donne. Annemiek van Vleuten, solitaria sul traguardo, vince la gara femminile. «Ma quanto va forte, quella lì?».

poi da direttore di corsa. Del caffè di cui continuano ad aver voglia. Di quanto bene guida Enrico, anche lui ex-corridore, oltre che appassionato di rally. Di Annemiek van Vleuten, che alle 13, mentre noi siamo al centesimo chilometro, vince la gara femminile: «Ma quanto va forte quella lì», dice Raffaele. Dei ricordi belli: «La discesa dell'Aprica al Giro, l'anno che vinse Contador». Di quelli brutti: per Raffaele, senza dubbio, la morte di Wouter Weylandt al Giro del 2011. Della corsa, anche: perché noto che Diego Rosa è in testa senza che ci sia un'ammiraglia Sky dietro di lui: «Gli han detto solo vai e mena», sentenzia Raffaele. Nonostante le radio, Raffaele è anche spesso al telefono. In una di queste telefonate gli sento dire, con tono assertivo ma per nulla prepotente: «L'etica non ha tempi, e dimensioni, e condizioni. È un presupposto quando esci di casa. Ce l'hai o non ce l'hai». Non so a chi dica questa frase e nemmeno glielo chiedo, perché mi sembra giusta così. Tra un settore e l'altro mi faccio invece dire qualcosa sulla sua vita. Raffaele è del Cinquanta ed è di Faenza. Da ragazzo fu un corridore veloce, che in salita si difendeva, ma un paio di brutti incidenti gli fecero cambiare piani di vita. Entrò

quindi in Polizia, continuando però a seguire il ciclismo come giudice e come direttore di corsa. Dal 2008 lavora insieme a Mauro Vegni al Giro d'Italia e alle altre corse di RCS, come la Strade Bianche. È attento, Raffaele. Mai preoccupato e sempre calmo. Come uno che lo è davvero, non come uno che vuole farti credere di esserlo. «Più sei calmo e più la lettura del momento sarà corretta. Perché se c'è un problema non devi trovare la soluzione migliore-e-basta, devi trovare la soluzione migliore per quel momento». Raffaele è a suo agio con la tecnologia, ma sembra esserlo immensamente di più con la penna e il blocchetto su cui annota numeri, distacchi ed eventi di gara. Ha una faccia da vecchio film italiano bello: ma non so decidere se di Fellini, Bertolucci o Olmi. Ha il naso da vecchio pugile e una faccia in cui, comunque la guardi, sembra sempre di scovarci un mezzo sorriso. Il sorriso di uno che sta facendo qualcosa che gli piace da matti. Raffaele è qualcuno il cui spessore potrebbe mettere in soggezione, ma che non fa nulla perché succeda. È un uomo di cui vorresti la stima, di cui non puoi non ascoltare i consigli. È una persona a cui mi piacerebbe poter delegare le cose che mi mettono ansia, a cui assegnare l'incarico di


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Sulla Santa Caterina va in scena il duello finale tra i due battistrada: Fulsgang conduce, Alaphilippe segue e attende prima di piazzare la stoccata decisiva. Taglia il traguardo a braccia alzate e Siena esplode. «Quello che è cambiato in me come ciclista è che sono diventato più paziente. Ho imparato ad aspettare».


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Attendere. "Renditi invincibile e attacca il nemico solo quando è vulnerabile. Non attaccare per dimostrare la tua forza, ma attacca solo quando la tua forza può essere applicata." — Sun Tzu, il Tao della Guerra

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" PER PEDALARE SU UNA

STRADA BIANCA BISOGNA STARE CON IL CULO BEN PREMUTO SULLA SELLA A IMPROVVISARE LA ROTTA TRA BUCHE, DOSSI, SASSI E FOSSI. CONDURRE LA BICICLETTA, SI DICE. IN GENERE È FACILE, PERCHÉ LA BICICLETTA NON È CHE ABBIA ALTRE IDEE. SU QUESTE STRADE INVECE, TI TOCCA CONVINCERLA.


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risolvere i miei problemi. È il sindaco che vorrei per il mio paesino, il prete a cui parlare se dovessi confessarmi. L'altro giorno Spotify mi ha fatto partire This Charming Man degli Smiths. Ho pensato a lui. Nell'auto nera della Direzione Corsa 3 sono intanto diventate le 14, e in cielo appare l'elicottero della televisione. A furia di menare Rosa è riuscito a rimanere solo in testa. Ed è così, solo in testa, che si fa l'ottavo settore: quello del Monte Sante Marie, quello di Fabian Cancellara, quello pieno di discese balorde e salite bastarde. Gli 11,5 chilometri dell'ottavo settore sono, dal sedile posteriore dell'auto in cui li faccio, un'esperienza intensa. È un susseguirsi di voci, dentro e fuori dall'auto, notevolissimi paesaggi e parzialissime informazioni. Io, Enrico e Raffaele iniziamo quel settore dietro a Rosa e a un paio di quelli che erano in fuga con lui ma che non andavano quanto lui, e lo finiamo davanti a tutti. In mezzo: tanti tifosi, molti con bandiere fiamminghe, tanta polvere (e grazie), un furgoncino della Rai che fa fatica a salire dalla strada sterrata, la radio che parla quasi sempre. Ogni auto dice quel che vede, per provare a capire quel che accade. Arrivano anche tanti numeri: in particolare quelli dei corridori che hanno rotto il gruppo e sono rimasti in testa. Finito l'ottavo settore, si riesce a fare un po' di ordine: Rosa davanti, altri quindici dietro, altri otto ancora più dietro. Ma quel che è successo nell'ottavo settore mi è chiaro solo perché l'ho rivisto la sera dall'iPad. Ho visto Greg Van Avermaet partire per primo e accendere la miccia che fa esplodere la corsa innescando la serie di azioni e reazioni che ha portato alla chiara definizione del gruppo di quelli che volevano e potevano vincere. Con dentro

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Tiesj Benoot, vincitore nel 2018; Wout van Aert, sofferente e fotografatissimo terzo classificato nel 2018; e Julianne Alaphilippe, che già alla partenza era considerato tra i favoriti per la vittoria di una corsa che non aveva mai corso prima. Pensateci: non capita spesso. Sul Monte Sante Marie i metri che perdi non li riprendi più. Perché sul brecciolino della strada bianca devi improvvisare la rotta e non fidarti di nessuna ruota altrui, cambia poco che sia discesa o salita. Quando si spezza il gruppo, o sei davanti o hai un problema di difficile soluzione. Devi stare con il culo ben premuto sulla sella a improvvisare la rotta tra buche, dossi, sassi e fossi. Condurre la bicicletta, si dice. In genere è facile, perché la bicicletta non è che abbia altre idee. Su quelle strade, invece, ti tocca convincerla. Il paesaggio, tutto attorno, è tanta roba. Mi ha ricordato, passandoci, quello che si vede in tante scene di Cari fottutissimi amici, uno degli ultimi film di Monicelli. Non ne sono certo, ma per me lo hanno girato proprio lì, alle Sante Marie. Quel film parla di finti pugili sgangherati e finisce con Paolo Villaggio, il loro capobanda, che tira pugni nell'aria. Allora parte In the Mood di Glenn Miller e uno della banda dice che Villaggio lotta con l'ombra, il pane dell'atleta. Sul Monte Sante Marie c'è sempre un gran casino, inizia quel pezzo di corsa in cui si contano i chilometri che mancano, più che quelli che sono passati. A 36 chilometri dall'arrivo gli attaccanti riprendono Rosa, con gran delusione dei titolisti che già sognavano giochi di parole su uno che di cognome fa Rosa che poteva vincere una corsa che di cognome fa Bianche.


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Forza. Dopo il terzo posto dello scorso anno, Vout van Aert sognava la vittoria


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Ai meno tre dall’arrivo Vout van Aert completa l’inseguimento su Alaphilippe e Fuglsang. Sullo schermo dei telefonini è un puntino giallo e nero su una bici azzurra che prosegue all’attacco. Piazza del Campo esplode in un boato. Pelle d’oca.


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Trionfo. Dopo il trionfo in Piazza del Campo, c’è il bagno di folla.

A meno 23 dall'arrivo, appena la strada torna bianca e ripida, parte Jakob Fuglsang, che si porta dietro anche Alaphilippe e van Aert. A meno 18, su un'altra strada sterrata, van Aert perde terreno e resta a lottare con l'ombra. A meno 17 la Strade Bianche diventa una questione tra Fuglsang e Alaphilippe. Il francese che arriva dal ciclocross e il danese che arriva dalla mountain bike. Da lì in poi Fuglsang ci prova e ci riprova, ma niente. Alaphilippe è agile, scaltro, pronto. Sempre. A meno 1 dall'arrivo quel cagnaccio di van Aert rientra sui primi, giusto in tempo per prendere in testa la salita di Santa Caterina dove un anno prima finì disarcionato dalla bici causa crampi. La Salita di Santa Caterina, quindi. Van Aert la prende in testa, ma dura poco. Fuglsang lo passa a destra, cercando di sfruttarlo per mettere aria tra sé e Alaphilippe. Ma Alaphilippe se la mangia, quell'aria: passa van Aert a sinistra, riprende Fuglsang, se lo studia un po' e poi lo stacca. Per vincere da solo, scendendo nella conchiglia di Piazza del Campo senza nemmeno bisogno di

tirare gli ultimi colpi di pedale. Alaphilippe primo. Fuglsang secondo, presumo soddisfatto per averci provato e aver abdicato solo perché c'era un altro più forte. Van Aert terzo, stavolta senza crampi. Poi tutti gli altri e, tra loro, l'auto nera con scritto sopra Direzione Corsa 3. La Strade Bianche 2019 l'hanno iniziata in 147. L'hanno finita in 101, solo 83 dei quali entro il tempo massimo consentito. Alaphilippe ci ha messo 4 ore, 47 minuti e 14 secondi, a una velocità media di 38,476 chilometri orari. Tutti gli altri un po' di più. Da Santa Caterina in poi, nell'auto della Direzione Corsa 3 non si è parlato. Enrico aveva da guidare in mezzo al pubblico in mezzo a Siena. E Raffaele non ha niente da dirgli, se non bravo driver alla fine. Dopo il traguardo ci siamo salutati. Io contento per le cinque ore passate in quella macchina con Enrico e Raffaele. Enrico e Raffaele contenti per aver fatto per un'altra volta il loro lavoro. Poi ho girato Siena, ho visto tifosi felici e corridori stanchi, ma quasi tutti felici. Ho visto Daniel Oss che, bendato dopo una brutta caduta, sorrideva e faceva facce buffe con chiunque gli chiedesse una foto. Ho visto corridori lasciare borracce a chi gliele chiedeva. Tifosi guardare meccanici lavare biciclette. Meccanici cercare e trovare borracce nei bagagliai per lasciarle a bambini che gliele chiedevano. Le solite belle cose, insomma. Meglio smettere qui, prima di diventare retorico e mettermi a parlare di Siena, contrade, palio, cavalli e anticavalli. Come dice quel bigliettino che si vede appeso nel camerino di Michael Keaton in Birdman: «Una cosa è una cosa, non quello che se ne dice». Una corsa è una corsa, non quello che se ne dice.


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La classica del Nord più a Sud del mondo. Un po’ di storia. Testo di Alessandro Autieri

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Foto Bettini Photo

e lo sterrato è entrato prepotentemente nel ciclismo professionistico odierno, il merito è di Giancarlo Brocci. Dieci anni dopo aver ideato l’Eroica, la Federazione Ciclistica Italiana e la Regione Toscana gli fanno capire che scommetterebbero volentieri su un evento del genere pensato però per i corridori professionisti. Brocci, che come fossero ingredienti per una miscela sopraffina non aspetta altro che la possibilità di fondere Chianti e ciclismo, presenta il progetto. L’idea passa. Partono le ricognizioni sul percorso: Daniele Bennati, Paolo Alberati e Fabrizio Ravanelli (esatto, quel Ravanelli, l’ex-calciatore) pedalano con Brocci che li segue in macchina. Il potere di quell’idea si è fatta corsa e ha trasformato la Strade Bianche, in poco più di dieci anni, in un appuntamento fisso di inizio stagione per i corridori più forti del mondo. Qui si sfidano atleti di ogni genere come solo a volte accade nel resto della stagione: virtuosi delle corse a tappe, dominatori delle pietre del Nord, cavalieri delle Ardenne, classicomani di ogni razza ed estrazione. Diverse tipologie di pedalatori richiamati da un sapiente lavoro di marketing, dal fascino di una corsa che si differenzia dai soliti percorsi e che valorizza il patrimonio culturale e la tutela dei territori senesi. In Piazza del Campo non ha mai esultato un carneade: Kolobnev che aprì le danze in quello che oramai è un lontano 2007, ha medaglie mondiali e piazzamenti nelle grandi classiche, Lövkvist è un nome minore, ma ha indossato anche la maglia rosa, Iglinskij aggiunse la Liegi-BastogneLiegi 2012 (beffando Nibali sul traguardo di Ans) al successo nella Strade Bianche 2010. Moreno Moser vittorioso nel 2013, sembrava una dei giuramenti più sinceri fatti al ciclismo italiano, un po’ come Tiesj Benoot promesso sposo del ciclismo belga, corridore a tutto tondo che sul traguardo di Siena lo scorso anno ha conquistato la prima e finora unica gemma della sua carriera. Qui hanno vinto anche grandi campioni. Del mondo, come Gilbert nel 2011, come Štybar nel 2015 e come Kwiatkowski due volte. Fabian Cancellara invece si erge su tutti con tre successi e alla vigilia dell’edizione 2017 gli è stato dedicato uno dei passaggi decisivi: quello di Monte Sante Marie. Tra cent’anni verrà ricordato alla stregua di un pioniere, anche se in quel caso non saremo noi a scriverlo. I centottantaquattro chilometri in programma in questa edizione 2019 sono i medesimi della precedente. Sessantatré, spalmati in undici tratti, sono invece i chilometri di strada bianca: il 34% della corsa è una sfida a mani nude, un terno al lotto, una valvola di sfogo. Una contesa nella sabbia e nella polvere, su e giù per le crete senesi, in un paesaggio lunare che si infila tra balze e biancane. Perché viene organizzato tutto questo? Perché lo sport a Siena si spoglia di


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Prima vittoria. Fabian Cancellara all'arrivo nel 2008.

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La strada è alternanza di grigio asfalto e accecante sterrato bianco battuto. La sabbia che riempie i polmoni si deposita a bordo strada dove case in mattoni sembrano Golem a protezione dei corridori.


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Leggende. Luciano Berruti, eroico per eccellenza, ambasciatore de L’Eroica di Gaiole, a bordo strada ad applaudire il Re delle Strade Bianche.

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tutti gli accessori e si mostra per quello che dovrebbe essere: un gioco. Il divertimento è svincolato da qualsiasi forma di successo, il tempo che passa si misura con i muscoli che si sfibrano, lo spazio è la strada e la strada una tela bianca sulla quale buttare fuori la propria creatività. L’imprevisto è la norma, l’uomo svestito e senza supporti esterni sui quali contare, riscopre istinti che credeva sopiti. Il sole, in mattinata, ha lottato e vinto contro le nuvole, e pioggia e fango, protagoniste l’anno prima, diventano così solo un ricordo buono per immagini epiche da tramandare ai posteri. L’edizione numero tredici della Strade Bianche si presenta indossando l’abito primaverile, con un cielo azzurro macchiato da chiazze bianche che sembrano panna. I corridori, affiancati l’uno all’altro, sono guardati a vista dalle mura secolari della Fortezza Medicea e si gettano, subito dopo il via, come un organismo unicellulare, verso una gara che in pochi anni ha fatto storia. La Strade Bianche è fresca, ma ha già una sua tradizione, che è quella di esplodere sul tratto di Monte Sante Marie. Davanti, da diversi chilometri c’è Diego Rosa, ragazzo solitario che scarica dubbi e incertezze sui pedali, un giovane Adso da Melk che cerca la verità lungo gli sterrati toscani. Prova a tenere a bada un plotone che conta i danni e si riduce a plotoncino. Rosa è il superstite di una discendenza di fuggitivi con storie e visioni da tramandare: con lui c’era Nico Denz, ultimo a cedere di un gruppetto di oltraggiosi, e i francesi Vincent, nel cui nome non c’è il proprio destino, e Geniez; tutti e quattro hanno provato a farsi beffa di quei sentieri di sabbia e argilla battuti da ruote appartenute a moto, auto e biciclette. Nel gruppo principale qualcuno fa uno scatto e dietro di lui qualcun’altro si nasconde dietro a una nuvola di polvere. I corridori, ora sfilacciati come muscoli rotti dalla fatica, passano tra distese di campi verdi e gialli, come quadri dipinti da un pittore folle. Wellens smuove la sabbia, sembra un colpo di vento; Van Avermaet invece, vestito d’arancione, è come una tempesta. Dietro di lui si accodano altre facce, altri visi che sputano e bestemmiano, mandano improperi come se su quelle strade Cecco Angiolieri si fosse impossessato di loro. Niente è più effimero dell’aspetto esteriore, ma in una gara, i corridori si valutano per quello che mostrano dietro maschere che non potranno nasconderli in eterno. Nel gruppo che si forma a inseguire l’italiano del Team Sky si vedono facce conosciute, difficili da confondere nonostante nuvoloni di polvere da tempesta nel deserto: ci sono van Aert e Van Avermaet, Štybar che digrigna i denti e Alaphilippe che morde il freno, c’è Lampaert dal viso tagliato e spigoloso, Lutsenko con i lineamenti a mandorla e il suo compagno Fuglsang, con la faccia da bambino. C’è il duo Wellens-Benoot a rappresentare la lotteria di stato belga e a scommettere su un’altra vittoria, c’è Skujins che ha i connotati del sottovalutato; c’è Bettiol che fa una smorfia per i crampi e salta per aria, pedala così bene però che in questa stagione di sicuro farà un passo avanti nella sua eterna giovinezza. Allo scollinamento mancano meno di cinquanta chilometri all’arrivo: Rosa, in maglia Sky, lì davanti sembra un condannato ai lavori forzati. La sabbia dipinge sul suo viso una linea ben definita, la pedalata si fa più dura, i sensi amplificati. Perde progressivamente vantaggio, due auto lo superano come un semplice cicloturista e mentre scende in sicurezza evitando qualche buca, saltella sulla bici come una pulce al circo. La strada è alternanza di grigio asfalto e accecante sterrato bianco battuto. La sabbia che riempie i polmoni si deposita a bordo strada dove case in mattoni sembrano Golem a protezione dei corridori. A 36 chilometri dall’arrivo, Rosa termina la sua pena, il gruppetto dei migliori, ora ulteriormente frazionato, è un viscido organismo senza pietà e lo inghiotte.


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Tre volte. Tre le vittorie di Fabian Cancellara alle Strade Bianche nel 2008, 2012, 2016.

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C’è un punto in cui questa corsa, disegnata in maniera sopraffina, si addormenta, prima del grande risveglio dello strappo di Montaperti. È un tratto di asfalto e strade più larghe che si infila dentro distese increspate che sembrano onde di mare verde e dove i cipressi sono barche ormeggiate. Curvoni e ampie carreggiate sono un corpo avulso a una corsa che si innesca lungo sottili linee bianche e grigie. In questo tratto da dietro qualcuno prova a rientrare, c’è persino Nibali, brillante per essere a questo punto della stagione – ma con la testa verso altri obiettivi – c’è Canola che sarà il migliore degli italiani al traguardo, c’è Schachmann nato a Berlino e Kuznetsov nato a Togliatti: allungano e cercano di riportarsi sui battistrada. È il preludio alla battaglia di Montaperti. Proprio su quel tratto, Fuglsang, il cui celeste Astana è diventato colore della polvere, apre il gas: van Aert si accuccia alla sua ruota, Alaphilippe è lesto, dribbla gli avversari, alcuni dei quali stantuffano stanchi come vecchi macchinari in una fabbrica dismessa. I tre vanno via, un ex biker, un ex ciclocrossista e uno che invece del ciclocross ne fa ogni stagione una ragione di vita. Il belga si stacca sul penultimo settore di sterrato: quello di Colle Pinzuto. La pancia e la gola sono oramai piene di polvere che si mischia al vapore di una giornata primaverile. Fuglsang guida leggero sulla creta, accelera nel tratto più duro, passa in mezzo a due ali di folla che ripara i corridori da uliveti verdi mimetici e messi in fila come pattuglie militari. Alaphilippe risponde, siamo circa a meno diciotto dal traguardo e se ne vanno in due. Nei chilometri successivi van Aert rientra, ancora una volta la sua testa va più forte delle sue gambe: «Non avevo nessuna cazzo di scelta - afferma testuale a fine gara - stavo galleggiando tra i due gruppi, meglio rientrare davanti che farmi riprendere da quelli dietro. Due volte su due sul podio in questa corsa, non me lo sarei aspettato, adoro correre qui e tornerò per vincere». Il finale è un thriller che si completa sotto lo sguardo della Torre del Mangia. Alaphilippe gioca le sue carte e a trecentocinquanta metri dal traguardo, dopo aver fatto sfogare prima van Aert, che si stacca e finirà terzo, e poi Fuglsang, parte: è il suo trionfo.

Al termine di una corsa così il vincitore può esclamare: sono stato il più forte. Non il più veloce, il più adatto, il più scaltro: il più forte. Colui che ha dato alle sensazioni gambe solide con le quali scavare un solco, colui che ha capito che il coraggio è preceduto da un istante di paura che atterrisce. Come quando van Aert prova a tenere alto il ritmo o Fuglsang prova a spezzargli le gambe nel tratto più ripido. Greg Van Avermaet ogni anno tra i favoriti, viene ancora una volta respinto e sarà sesto preceduto anche da Štybar e Benoot: «Non ho rimpianti, oggi ha vinto il più forte corridore in circolazione». È il suo attestato di stima a Julian Alaphilippe che a sua volta ne dedica uno alle Strade Bianche: «Ho fatto una buona gara, sono stato bravo e fortunato, vincere qui è qualcosa di incredibile». Ha ragione.


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Maglie bianche SULLE

Strade Bianche Testo Emilio Previtali

Foto Sportful / Paolo Ciaberta

Siamo un a serie di puntini bianchi che pedalano e procedono in fila indiana dentro a un paesaggio verde e azzurro. Intorno a noi ci sono solo colline tondeggianti e cielo con dentro grandi nuvole cotonose, qualche auto passa raramente per strada e ci sorpassa, restandoci lontano. La vita ha un altro ritmo qui sulle colline senesi, nessuno sembra avere fretta. La strada per oggi è asfaltata ma domani e dopodomani sarà sterrata e polverosa, non che la cosa ci dispiaccia o ci spaventi – anzi – siamo qui proprio per quello: per veder pedalare i pro sul percorso delle Strade Bianche e per partecipare alla granfondo, dopodomani. È venerdì, a guidare la fila ci sono un ex-campione del mondo e il suo più fido scudiero che procedono affiancati, tutti noi comuni mortali seguiamo tenendo l’occhio sempre attento a non farci lasciare indietro, con il colpo di pedale pronto per recuperare i metri perduti, nel caso. L’andatura è tutt’altro che impossibile, procediamo regolari. Ce la stiamo godendo. L’intenzione è quella di rimanere

tutti insieme almeno fino all’inizio della salitella che dovremo affrontare, poi da lì ciascuno procederà con il proprio passo. Domani sarà il giorno dei professionisti e dopodomani quello degli amatori, oggi è il giorno della ricognizione e della gioia. Riconciliazione con il ciclismo in pantaloncini corti, è quasi primavera e per la prima volta dell’anno sento l’aria venirmi incontro sulle gambe. Bividi, ma non di freddo. È bellissimo. Finalmente. Quando arrivo in cima alla salita Paolo Bettini (è lui l’ex-campione del mondo che ci accompagna con Luca Paolini, il suo fido scudiero) non è ancora arrivato, è tornato indietro per rifare un pezzo di strada e scambiare qualche parola con chi si era attardato. Noi siamo un gruppetto di quattro o cinque persone, siamo saliti chiacchierando, c’è un bar e ci sono delle biciclette all’esterno, appoggiate al muro, è facile capire che è questo il punto in cui ci dobbiamo fermare ad aspettare gli altri. Scendiamo dalle bici e ci guardiamo in giro, qualcuno approfitta per una telefonata a casa o in ufficio, qualcun altro per un selfie o per controllare whatsapp. Io mi metto comodo su una sedia che c’è lì fuori dal bar. Si sta benissimo al sole, il muro in pietre restituisce calore. Sento un tintinnio di tazzine e di cucchiaini provenire da dentro il bar, gente che parla in spagnolo e inglese. Nel frattempo arrivano gli altri con


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Campioni. Nella pagina precedente, Paolo Bettini e Luca Paolini conducono il Gruppo.

Bettini e Paolini, che a loro volta parcheggiano le bici a bordo strada. Bettini entra nel bar proprio mentre i ciclisti spagnoli stanno per uscire fuori. Lo vedono e lo riconoscono ma nessuno ha il coraggio di dire niente, lì per lì. Uno degli spagnoli guarda me e cerca conferma nel mio sguardo. Sì, è lui faccio capire muovendo la testa. I quattro rientrano dentro e bevono un altro caffè e scattano qualche foto con Paolo-Bettinil’ex-campione-del-mondo e poi riconoscono anche Paolini. È una festa. Paolo posa docile e allegro, gentile. È una persona molto brillante, racconta aneddoti a raffica, uno dietro l’altro, con allegria e spontaneità. Stiamo lì un po’ e poi si riprende a pedalare in discesa.

Sabato, mattina

Oggi è il grande giorno, c’è la gara dei professionisti e delle donne. Paolo Bettini ci accompagnerà e ha pianificato i nostri spostamenti sul percorso in ogni particolare, seguiremo la gara con lui, muovendoci in auto e a piedi. Vediamo i professionisti partire a Siena e poi via in auto, ci spostiamo vicino a Radi, dove dopo l’ennesimo caffè rivediamo i corridori, questa volta, finalmente, su un tratto di strada bianca. Posteggiamo il furgone e ci mettiamo a bordo strada e qui, ancora, la scena si ripete. Quando i tifosi vedono arrivare Paolo si sparge prima un timido brusio e il darsi di gomito, il passa


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parola, poi i più audaci si avvicinano per una foto o una stretta di mano, che Paolo non nega mai a nessuno. È un vero ambasciatore del ciclismo e del marchio Sportful, nel senso più nobile del termine. Nel frattempo i corridori arrivano. Sono ancora in gruppo e pedalano veloci. Il rumore che fanno le ruote sullo sterrato è impressionante. Nessuno parla, si sentono solo i tubolari sul ghiaino e i sassolini che schizzano sui raggi, tintinnando. La gente urla e applaude e fotografa, tutto accade velocissimamente. Dopo i corridori, arrivano le moto dei fotografi e poi le ammiraglie e poi posso solo immaginare chi, c’è così tanta polvere che è perfino impossibile guardare. Non so come facciano i corridori a respirare, con una polvere così. E nemmeno i fotografi in moto. Sabato, pomeriggio incontriamo i corridori per la quarta volta, ed è la più emozionante. Siamo su un tratto in salita del settimo settore, quello

Primavera. Per molti è la prima pedalata in pantaloncini corti della stagione.

di San Martino in Grania, ci siamo posizionati su una collina rialzata di qualche metro rispetto alla strada. Ci sono ancora cielo azzurro e colline verdi e strade bellissime davanti a noi, poi nient’altro. Sembra di essere in un mondo a parte. La gente aspetta tranquilla nei prati e a bordo strada. Vediamo i corridori avvicinarsi da lontano, una immensa nuvola di polvere ce li annuncia. Paolo come sempre tiene banco e ci cerca di spiegare la dinamica di corsa, Diego Rosa è in fuga da tutto il giorno e ha allungato di un centinaio di metri sui suoi compagni d’avventura, procede da solo. A questo punto sui volti si legge la fatica.


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Siamo puntini bianchi che procedono in fila indiana dentro a un paesaggio fatto di colline tondeggianti e grandi nuvole cotonose.

Io sono un po’ preoccupato per la granfondo di domani. Siamo a marzo, soltanto. È presto. Sarò preparato abbastanza? Come reagirò alla distanza e al percorso così duro? Quest’anno mi sono allenato solo sui rulli. Quando tutti i corridori e le ammiraglie e la scopa sono passati, risaliamo in furgone e ritorniamo a Siena. Scaliamo la salita di Santa Caterina a bordo del fugone-ammiraglia Sportful che, tutto dipinto di arancione e nero, non passa certo inosservato. Quando la gente accalcata a bordo strada in attesa dei corridori si accorge che al volante c’è propri Paolo Bettini inizia a applaudire e a urlare più forte, a fotografare con il telefonino, il passaparola e il darsi di gomito corrono ed è come vedere un’onda propagarsi davanti a noi. La gente saluta Paolo urlano e Paolo saluta e guida, gentile. Noi dietro e a fianco a lui sorridiamo, un po’ imbarazzati, non abbiamo proprio nessun merito per essere lì a godere del privilegio di essere sul percorso insieme a lui, a parte il fatto di essere giornalisti al seguito della corsa. È emozionante.

La Piazza più bella del mondo

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Piazza del Campo è gremita di gente. È impressionante. Tutti sono in attesa dei corridori e gli speaker fanno la radiocronaca della gara in italiano e in inglese, è bellissimo. La gente attende eccitata i corridori e l’epilogo della gara seguendo le voci e le immagini proiettate su un maxi schermo all’ingresso della piazza. Ci sono un sacco di turisti, come è normale che sia, moltissimi sono familiari o accompagnatori degli amatori, che domani correranno la granfondo. Mancano tre chilometri all’arrivo e Vout van Aert completa il suo inseguimento impossibile su Alaphilippe e Fuglsang. Tutti immaginano che a questo punto si metterà a ruota dei due che ha appena raggiunto per rifiatare un po’ prima di affrontare la salita di Santa Caterina, poco più aventi. Ma non è ciò che van Aert ha in mente. Si sposta sulla sinistra della strada e rilancia, andando dritto per la sua, di strada. Alaphilippe e Fuglsang sono costretti ad alzarsi sui pedali ed andare a chiudere. Ma quanto è forte, van Aert? La gente è in delirio. Sul grande schermo e sui telefonini è un puntino giallo su una bici azzurra che schizza in avanti. Piazza del Campo esplode in un boato che mi fa venire la pelle d’oca sulle guance e sulla schiena. Da quanto non mi sentivo così? A questo punto vorrei avere Paolo Bettini al mio fianco e sentire un suo commento tecnico o una sua battuta di sintesi, come ha fatto per tutto il giorno, accudendomi e istruendomi. Mi trovo a bordo strada, nella


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Basta una discesa e un po’ d'abbrivio e a un non-campione viene subito voglia di sfidare un campione. A Luca Paolini bastano alcune centinaia di metri per segnare la differenza.

piazza, proprio sulla linea del traguardo, a due metri. Paolo chissà dov’è a questo punto? Inghiottito dalla folla. Mi godo il resto dello spettacolo da solo, la resa di van Aert, l’allungo e il duello dei due battistrada su Santa Caterina e e poi infine la stoccata di Alaphilippe e il suo trionfo, taglia il traguardo a braccia alzate. Siena esplode. Ancora una volta sento la pelle d’oca alzarsi sulle guance e sugli avambracci. Ho una voglia di pedalare domani che è incredibile.

Domenica, tocca a me

Sto pedalando da cento chilometri, fino a qui sono andato molto più veloce di quanto avrei dovuto andare. Sono sul percorso lungo e penso che forse avrei dovuto seguire i consigli di Paolo Bettini e a Luca Paolini e accontentarmi della mediofondo, visto che oltre che essere a inizio stagione ho anche una certa età. Sarei stato con loro, se fossi partito con loro, dalla loro griglia. Invece sono partito più indietro e nonostante la


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Montagnola Senese. La salita e la discesa di Monteriggioni sono regolari e poco trafficate.

media folle dei primi chilometri, né loro né i primi non li ho mai visti. Ovvio, vanno tutti fortissimo. Per questa ragione quindi ho optato per il lungo, per godermela e per la semplice soddisfazione di arrivare al traguardo. Ora sto godendo poco, in effetti. Ho fame e sete e ho la bocca impastata di terra senese. Ho appena passato il rifornimento senza prendere niente e quindi, senza vergogna, penso che mi fermerò ad un bar. Ne avvisto uno aperto e freno, accosto. Posteggio la bici ed entro, il barista e un avventore che mi hanno visto arrivare si prodigano per rifornirmi più in fretta possibile. «Calma – dico – tanto non vinco». Mi faccio portare due lattine di Cocacola e le trangugio al volo. La seconda aprendosi mi sfugge dalle mani e mi schizza sulla maglia inzozzandomi tutto, faccio schifo. Non che prima fossi pulito ma ora sono tutto una macchia. Sulla mia maglia bianca ora insieme alla polvere ci sono un sacco di chiazze scure. Pago, saluto,

riprendo la bici e mi rimetto a pedalare. Dopo pochi minuti lo zucchero entra in circolo e mi sento di nuovo bene, brillante, ho di nuovo voglia di pedalare. La Coca-cola è magica.

Arrivo

Gli ultimi metri della salita di Santa Caterina sono proprio duri. C’è gente che cammina e a bordo strada, dietro alle transenne, tifosi accalcati che urlano e incitano i granfondisti. Sono contento di essere quasi arrivato e sono allegro, ho voglia di ridere e di scherzare. Ho un’idea: quando sarò quasi in cima alla salita, appena prima di scollinare e della curva, urlerò qualcosa, per festeggiare. Arrivo in cima e strillo: È uno sport di merdaaa! proprio come quel famoso video che tutti i cicloamatori hanno visto in rete (in ogni caso anche per chi non avesse visto il video si tratta di un messaggio universale, facilmente comprensibile, a quel punto


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della giornata e della fatica tutti lo pensano ma nessuno lo dice). È un tripudio. La gente strilla e sbraita e applaude e ci incita ancora più forte di prima. E io rido. Ormai siamo arrivati. Mi godo gli ultimi metri che sono in leggera discesa e passo sotto lo striscione d’arrivo senza pedalare. Sono felice. Scendo dalla bici, la appoggio alle transenne e mi guardo intorno. Vedo altra gente felice. Mi guardo le gambe, sono luride di polvere e appiccicose per via della Coca-cola. Guardo alla maglia che prima era bianca e che ora è uno schifo. Anzi, è bellissima. È unica. La polvere si è attaccata alla mia maglietta e ne ha fatto un disegno astratto. Mi viene in mente una cosa che mi ha raccontato Paolo Bettini l’altro ieri: quando ha partecipato alle Strade Bianche indossando la maglia iridata è andato in crisi di fame ed è arrivato al traguardo con una decina di minuti di ritardo sui primi, ci teneva comunque a finire, per la sua gente. Ad attenderlo dopo il traguardo c’erano i suoi amici di Cecina che

è solo a 70 chilometri e ad uno di questi, che fa il carrozziere, Paolo consegnò la bicicletta da portare a casa. Gliela diede sporca, così com’era dopo la gara. E gli disse di tenerla così, di non lavarla. Il suo amico carrozziere ha preso la bici, l’ha portata in carrozzeria e gli ha dato una mano di vernice trasparente fissante, per tenerla così sporca per sempre. «Quella polvere è la mia storia – mi ha detto Paolo - Ce l’ho ancora a casa, quella bici, non l’ho mai più usata». Per un attimo penso che forse dovrei fare la stessa cosa con la mia maglia. In fondo la storia di questi tre giorni indimenticabili è scritta nella polvere come su una pagina bianca, che è la mia maglia. Che prima era uguale a tutte le altre e adesso è diventata la mia.

Salita ripida. Piede a terra su Santa Caterina ma non mancano i sorrisi.


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Mister Di Maggio Se proprio dobbiamo spiegare bene come sono andate le cose con Luca Di Maggio, bisogna dire che ha fatto prima lui a trovare noi, che noi a trovare lui. Ci ha scritto una email che cominciava così: Ciao, mi chiamo Luca Di Maggio e sono un artista ciclista. Abbiamo visto i suoi disegni ed erano bellissimi. È così che lo abbiamo conosciuto. Anche noi i suoi disegni, senza sapere che erano i suoi, li avevamo già visti. Poi è successo che ci siamo incontrati all’UpCycle Cafè a Milano durante una serata, abbiamo chiacchierato un po’ e proprio quella sera, davanti a una birra, ci è venuta l’idea di raccontare di lui e di mostrare sulla rivista qualcuna delle sue opere.

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Foto Federico Ravassard


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«Ho fatto disegni grandissimi, anche intere facciate di palazzi. Adesso sono attratto dai formati più piccoli, dai piccoli ritratti».

La copertina di questo numero è sua - un’altra idea è nata in quella stessa sera. Dopo qualche giorno siamo andati a trovarlo nel suo studio in via Melzi D’Eril a Milano, visitarlo ci ha colpiti molto. Luca ha un modo di fare semplice e naturale. Autentico. Ci ha raccontato che nella sua ricerca è interessato all'effimero, per questo dipinge su carta. «La carta è effimera per natura - ci ha spiegato - La carta è leggera e fragile e non dura per sempre, ed è questo che mi piace». Noi eravamo un po’ preoccupati a maneggiare i suoi disegni, avevamo paura di rovinarli. «Uso spesso il supporto della carta che simboleggia la fragilità degli uomini». Mi chiedevo perché non dipingesse su tela, invece. La tela a me sembra un materiale più consistente, più solido, più nobile anche, e in effetti lo è. «La tela è pesante» ci ha spiegato Luca. «È ingombrante. E poi è più complicata da portare in giro. Adesso, in questo periodo ho voglia di disegnare delle cose piccole sul cartoncino. Volti o paesaggi inventati». Mentre ero lì e lui ci parlava credo di aver capito che non c'è soltanto la questione del supporto su cui si dipinge, la carta c'entra e non c’entra: è questione di visione credo, di idea. Di mentalità. Di modo di vivere. Come tutti quelli della mia generazione, come molti di noi probabilmente, sono cresciuto con l'idea che il benessere avesse a che fare con il possesso e che parte della qualità (in ogni campo) avesse a che fare con la consistenza, con il supporto, anche con la cornice e quindi, inevitabilmente, anche con il contorno. Spesso è il contorno che ci impressiona, più della sostanza e ci convince della qualità, e a volte ci inganna. Ci facciamo fregare. Il lavoro di Luca invece è essenziale, come la sua arte. Sincera. I disegni di Luca hanno tratti semplici, essenziali. La sua arte è nitida, sincera, arriva diritta al cuore di chi pedala perche forse, da ciclista, lui riesce a cogliere alcuni momenti speciali, alcune cose essenziali che abbiamo dentro, che ci contraddistinguono e che non sappiamo nemmeno di avere. Lui queste cose sa dove andare a riprenderle. E le mette su carta in disegni di grandissimo e piccolo formato che propagano tutti lo stesso tipo di forza. Mentre lo visitavamo stava dipingendo il telaio di una Titici. «Ho fatto disegni grandissimi, anche intere facciate di palazzi. Adesso sono attratto dai formati più piccoli, dai piccoli ritratti, sono anche più comodi da portare in giro. È difficile disegnare le cose piccole. Quando ti avvicini i dettagli contano».

Studio. Una grande vetrata, spazi, biciclette e murales nell'atelier milanese di Luca.


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Trasformare. L’abbigliamento e le scarpe di Luca sono personalizzati. A sinistra, una parete di miniature.

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«Disegno biciclette e ciclisti perché rappresentano la vita: il movimento, la fatica, l’arrivo e la ripartenza».

La ricerca di Luca ha a che fare con il distacco dalle cose, con l'eliminazione di tutto ciò che non è strettamente necessario. Ci ha detto che cerca di possedere meno cose possibili, in effetti il suo studio è un grande spazio che sembra semivuoto ma che non è vuoto, in effetti. È pieno. C'è tutto quello che ci deve essere nella sua forma essenziale, niente di più e niente di meno. Ci sono dei bellissimi disegni alle pareti ma si capisce che la cosa più importante di tutto lo studio, la presenza più importante, è lui. Ciò che conta è quello che vede. Dipinge uomini in posa oppure in azione, di fronte e di profilo, si vedono lineamenti, spigoli graziati e tondeggianti, corpi muscolosi. Gambe che spingono sui pedali, boxeur, pedalatori in tandem. È una pittura incisiva che scalfisce a fondo l’immaginario. «Dipingo alcuni paesaggi o vedute che mi emozionano. I lavori raffigurano le mie emozioni ed il mio vissuto. Dipende un po’ dalla situazione in cui mi trovo in quel particolare periodo in quel luogo preciso. Non esiste un luogo specifico né studiato per i miei disegni. A Tel Aviv li trovi in strada, a New York sono sui tetti di alcuni palazzi di Brooklyn e sono stati affissi su cartelloni pubblicitari così come lo sono stati a Milano fino a due anni fa. Negli ultimi mesi sono stati creati in una stanza, per preparare le due mostre di Milano e Roma. Non mi interessa molto protestare per avere spazi dove creare, in un modo o in un altro ho sempre agito in qualsiasi situazione mi fossi trovato. Se hai dentro una forte motivazione, riesci a fare spontaneamente, tutto il resto vien da sé… e il tuo spirito è appagato. Uso pastelli ad olio, vinilici, acrilici, spray. Mi piace mischiare ed improvvisare, cancellare e rifare» Luca possiede tre biciclette, tutte e tre gialle. Una è una bici cargo con cui si sposta per la città e per lavorare. «Non è facile da guidare ma io ci sono abituato». Lo spazio in cui lavora è molto grande e ci sono poche cose. «Possiedo il minimo indispensabile. Così non devo preoccuparmi di cose inutili». Praticamente un mantra. Ciascuna delle cose che vediamo in giro o che indossa è personalizzata con dei disegni o con pezzetti di stoffa e tessuto che ha scelto lui e che ha fatto applicare in punti precisi da una sarta. «È abbigliamento per andare in bici che mi piace, ma mi piace anche che le cose che indosso siano uniche, mie». In un mondo dove tutti vogliono somigliare a qualcun altro, qualcuno che vuole rassomigliare soltanto a se stesso è sempre speciale.


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Patagonia

Nella terra dei giganti Testo, foto e illustrazioni Montanus / Francesco d'Alessio e Giorgio Frattale

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bikepacking

L’idea di questo viaggio nasce tra le pagine di un vecchio libro, in cui Walter Bonatti, alpinista ed esploratore italiano, descrive l’esplorazione di una terra remota e selvaggia. Un tempo abitata da mostri e giganti ancora oggi il suo nome evoca avventura ed esplorazione. Spinti dal suo racconto, ci ritroviamo a sorvolare l’Oceano Atlantico alla volta della Patagonia.


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DOVE

Parque nacional Los Glaciares

REGIONE

Provincia di Santa Cruz

PARTENZA

El Calafate

ARRIVO

El Calafate

VIDEO E INFO:

montanuswild.com

Buenos Aires

Patagonia

Giunti in prossimità della Cordillera delle Ande, scorgiamo dall’oblò dell’aereo un mondo alieno, che ci appare con la stessa forza e dirompenza con la quale questa terra doveva essere apparsa agli occhi di Ferdinando Magellano. La steppa patagonica, arida e sconfinata, i laghi San Martin, e quelli Viedma e Argentino, uniti dal tortuoso corso del fiume Rio Leona, il Rio Santa Cruz che dopo una corsa di 385 chilometri attraverso la steppa sfocia nell’oceano Atlantico, concorrono a disegnare un scenario unico e irreale. Sullo sfondo si ergono il Fitz Roy e il Cerro Torre, le maestose vette dello Hielo Continental Patagonico, un’enorme calotta di ghiaccio perenne, terza riserva idrica al mondo dopo l’Antartide e la Groelandia. Quegli ambienti a lungo immaginati e così minuziosamente descritti da Bonatti, improvvisamente emergono dalle pagine del suo libro e diventano realtà. Questo maestoso panorama ci accompagna fino all’atterraggio nel piccolo aeroporto di El Calafate, una cittadina argentina situata lungo le sponde del Lago Argentino, nella provincia di Santa Cruz, nella Patagonia meridionale. Il centro di El Calafate si è sviluppato sulle esigenze del turista, mentre la periferia è più modesta, abitata prevalentemente da famiglie di nativi e lavoratori locali. Passiamo un paio di giorni in relax per riprenderci dal lungo viaggio, tra ottime empanadas argentine e birre locali. Il terzo giorno lo dedichiamo alla preparazione delle bici, invadendo il giardino del piccolo albergo in cui alloggiamo. Qui facciamo la conoscenza con Lukas, un geologo svizzero che incuriosito dal caos che abbiamo generato sul prato inizia a farci domande sulle strane bici e soprattutto sui teli gialli e neri arrotolati. Rimane a bocca aperta quando gli sveliamo che si tratta di packraft, canotti compatti e leggeri con cui abbiamo intenzione di navigare i bacini glaciali. Lukas conosce bene la Patagonia, sono anni che lavora qui, e ci mette in guardia sulle condizioni meteo estreme e mutevoli di questa regione: «A volte il vento è così violento che vi sentirete come bucare il volto dal pietrisco! Sulla superficie dei laghi si innalzano trombe d’aria e acqua di diverse decine di metri, in grado di mettere in seria difficoltà anche le imbarcazioni di notevole stazza». Sapevamo già della forza del vento che sferza questa regione, così come eravamo consapevoli della nostra limitata esperienza con questi mezzi. Avevamo infatti avuto pochissimo tempo per testare i packraft, essendoci arrivati una settimana prima della partenza per il Sud America.


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L’ultimo Tehuelche

La mattina del giorno dopo si parte, ma prima di metterci in cammino decidiamo di prendere qualche empanadas da portare con noi. La panaderia La Familia è proprio di fronte al nostro alloggio ed è già aperta. Si tratta un piccolo forno a conduzione familiare, con l’insegna dipinta a mano sulla facciata color rosa, dove Josè, un ex-chef che si è messo in proprio, produce oltre al pane anche dell’ottimo cibo da asporto. All’interno il bancone del salato è vuoto. È domenica e in vendita ci sono solo i dolci. Ripiego su un paio di cornetti al cioccolato che Josè, dopo aver gentilmente rifiutato i miei soldi, mi regala augurandomi buena suerte per il viaggio. Josè è una brava persona, mi confida che deve lavorare duramente perché le condizioni economiche attuali non sono delle migliori. Dopo averlo ringraziato lo invito fuori per una foto ricordo, lo salutiamo, lui torna a lavoro e noi montiamo in sella. Dopo alcune pedalate, sentiamo Josè che ci urla qualcosa mentre ci corre dietro. In mano ha due cornetti anche per Giorgio. Viva l’Argentina! Ringraziato nuovamente Josè lasciamo El Calafate percorrendo uno stradone sterrato che attraverso la steppa arida e ventosa ci condurrà verso le ande Patagoniche. Si fa fatica ad avanzare a causa del vento contrario e dal fondo tormentato da una moltitudine di sconnessioni che fanno saltare la bici come un cavallo imbizzarito. Il vento aumenta, sempre contrario al nostro senso di marcia, ricoprendoci di polvere. Pedaliamo senza parlare con il sibilo del vento costantemente nelle orecchie. Sono quei momenti in cui tendi ad estraniarti e la mente viaggia più delle gambe. Ripenso al gesto di Josè e di quanto sia vero che le persone che hanno poco, sono anche le più generose.


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Josè è un tipo corpulento, molto alto, cordiale, dallo sguardo buono e dai tratti somatici Tehuelche, i nativi della Patagonia. Nel 1520, durante la circumnavigazione del globo, Magellano li definì come Giganti, per via della loro sbalorditiva altezza. Fu per questo motivo che all’inizio la Patagonia fu chiamata Tierra des Gigantes e sulle mappe e nei libri comparvero le prime raffigurazioni dei nativi come veri e propri giganti. Ancora oggi si indaga per trovare le prove scientifiche dell’esistenza dei giganti patagonici avvistati da Magellano. A noi è bastato molto meno per capire che Josè, come anche gli altri nativi che abbiamo incontrato, sia gente di gran cuore, veri giganti della generosità.

Estancia, baluardo della vita semplice

Il vento si placa e il rumore delle gomme sulla ghiaia ci riporta su quello stradone che sembra non avere mai fine. La monotonia di quei momenti è rotta quando da un cespuglio spunta una lepre e attraversa la strada. In una frazione di secondo, un’aquila le piomba addosso, la afferra con gli artigli e in una nuvola di polvere la trascina a bordo strada, dove comincia a divorarla. Una scena cruda che, nella sua estrema naturalezza, ci introduce alla Patagonia più selvaggia. Siamo così vicini a quello splendido rapace che avvertiamo il rumore delle carni della lepre lacerarsi. Giorgio riesce a filmare e fotografare quel momento di vita e di morte, avvicinandosi come non si potrebbe neanche con un animale ammaestrato. Nel frattempo il cielo si è oscurato e sopra le montagne verso cui siamo diretti lo scenario è


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“Da queste parti, come a Capo Horn, gli uccelli si lasciano avvicinare fino a pochi passi; ignorando l’esistenza e il carattere dell’uomo non lo considerano, per istinto acquisito, una minaccia.” [WALTER BONATTI – 1971, PATAGONIA]


apocalittico. Minacciosi cumuli di nuvole, spinti dalle correnti oceaniche, si innalzano fino ad oscurare le vette andine del Hielo Continental Patagonico. Torniamo a spingere sui pedali tra quella sterminata steppa, popolata apparentemente solo da cespugli giallastri, quando, su alcune colline poco distanti, scorgiamo un branco di guanaco immobili che ci osservano incuriositi. La curiosità è reciproca, fermiamo le bici, scattiamo qualche foto, poi un grosso maschio ci viene incontro, frapponendosi tra noi ed il branco. Ci fissa per alcuni istanti, poi emette uno strano verso, a metà tra la risata di una iena e il nitrito di un cavallo, richiama il branco all’ordine per scomparire lentamente dietro la collina. Le Ande si fanno più vicine e finalmente rusciamo a percorrere alcuni chilometri ad una buona andatura. Così come era andato via, ritorna il vento, sempre contrario, portando con se anche un terribile fetore di carogna. Più avanti, a bordo strada, troviamo il corpo di un armadillo in avanzato stato di decomposizione, con la parte alta della corazza divelta e svuotato delle parti molli. Probabilmente il risultato dell’azione combinata di un’autovettura e di un condor andino, incontrastato dominatore delle alte vette patagoniche e il più grande rapace del pianeta con i suoi tre metri di apertura alare. Dopo aver attraversato questo vasto altopiano una rapida discesa ci riporta alla stessa quota del Lago Argentino. Il peso dello zaino incomincia a farsi sentire, ma l’immensa steppa patagonica è ormai alle spalle. Seguiamo una deviazione verso la valle in cui si insinua il braccio sud del lago. La strada si fa più stretta e, dopo qualche chilometro, termina nei pressi di alcune costruzioni rurali, rivestite con lamiere ondulate. Il tetto di color verde scuro e le pareti beige chiaro, fanno si che questa estancia, la tradizionale fattoria argentina, sia in armonia con lo splendido scorcio di Patagonia in cui è inserita. La luce è incredibile, ha qualcosa di magico, filtra tra le nuvole, risplende alle nostre spalle e si infrange sulle montagne delineando le sagome dei ghiacciai e le loro venature


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celesti. Intorno regna il silenzio più totale, rotto soltanto dal cigolìo di un cancello lasciato aperto. Ci fermiamo davanti al capanno più grande. Poco dopo, forse incuriosito dalle nostre voci, ci viene incontro un gaucho, sui quarant’anni, basco consunto, volto scurito dal sole, sguardo fiero e deciso, braccia e mani possenti. Nonostante l’aspetto rude, Mario, questo il suo nome, è una persona affabile e ci accoglie nell’estancia in cui lavora, invitandoci ad entrare nel capanno. Mario parla soltanto in spagnolo, ma riusciamo comunque a intuire il senso dei suoi discorsi. All’interno del capanno ci mostra alcuni vecchi utensili e macchinari che erano utilizzati già all’inizio del secolo scorso per la tosatura e il trattamento della lana. Ci racconta che la lana, una volta trattata, veniva caricata sulle carretas, enormi carri traniati anche da 18 animali tra cavalli e asini, per raggiungere il porto di Rio Gallegos, sull’Oceano Atlantico, dopo un viaggio di oltre venti giorni. Mario poi rivolge lo sguardo alle nostre bici, e, incuriosito, ci chiede dove siamo diretti. A gesti e con il nostro spagnolo improvvisato cerchiamo di spiegargli che abbiamo intenzione di esplorare la valle in direzione dei ghiacciai, utilizzando i packraft per attraversare le acque del lago. Non appena capisce le nostre intenzioni si precipita fuori dal capanno, facendo cenno di aspettarlo. Quando torna ha con se un libro, lo sfoglia velocemente e poi ci indica una vecchia foto in bianco e nero che ritrae un uomo su un packraft. Incredibile! La didascalia indica che si tratta di Eric Shipton, uno dei più famosi alpinisti ed esploratori inglesi, che nel 1958 a bordo di un piccolo gommone esplorò il Lago Argentino e il lago Viedma. Lo stupore è grande, ma lo è ancor di più la fame che ormai ci attanaglia e ci convince a passare la notte all’estancia per assaggiare l’asado, l’arrosto di carne argentina, piatto tipico della cultura gaucho. La mattina seguente l’estancia è in pieno fermento e i gauchos sono già a lavoro: chi si allontana a cavallo per pascolare le pecore, chi doma i puledri nel recinto, chi si esercita con il lazo, chi raduna il bestiame.

Non solo vento. Pedalare in Patagonia significa combinare ciclismo e avventura.


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Mario è il gaucho più capace dell’estancia ed eccelle in tutte le mansioni. Stamattina è impegnato nella mungitura delle vacche, orgoglioso del suo stile di vita e fiero del suo lavoro. Una cultura tradizionale argentina quella del gaucho che, nell’epoca digitale del tutto meccanizzato e del veloce a ogni costo, è a grave rischio di estinzione. Mario nota che siamo in partenza e ci viene incontro per salutarci: Buena suerte amigos! Ci stringe la mano energicamente mentre con l’altra regge il porongo, un contenitore realizzato con una zucca, dal quale gli argentini bevono il mate, l’infuso ottenuto dalle foglie di yerba Mate, una pianta originaria del Sud America. Prima di tornare al suo lavoro Mario ci mette in guardia da alcuni animali pericolosi che vivono nell’area in cui siamo diretti: il puma, conosciuto in Nord America con il nome di Leone di Montagna, e il Criollo patagonico un bovino selvatico che ha sviluppato, unica specie al mondo, la capacità di resistere alla rigide temperature invernali di questa regione. Facciamo fatica ad immaginare del bestiame fuori dai recinti di una fattoria, eppure questi incredibili animali sopravvivono nelle aree più remote ed estreme della Patagonia. Mario ci dice che lo sbaglio più grande è quello di confondere questo bestiame con quello da allevamento. Questo bovino selvatico non è per nulla docile, è aggressivo ed è in grado di uccidere perfino un cavallo, caricando senza alcun motivo apparente, anche se soltanto si incrocia il suo cammino.

Il ruggito delle Ande

Percorriamo una vecchia traccia fuoristrada, che a volte si perde, nell’erba alta, lasciandoci alle spalle l’estancia. In poco tempo raggiungiamo un punto sopraelevato che ci permette di ammirare la sontuosa bellezza del posto. Le Ande, con i suoi ghiacciai, dominano la valle e le enormi masse nuvolose in continuo movimento ci regalano giochi di luci e ombre spettacolari. Più lontano, verso sud, dove la valle si stringe, compaiono arcobaleni di un’intensità mai vista prima che emergono dalle acque turchesi del lago e terminano tra le bianche vette dello Hielo Continental. Rimaniamo alcuni istanti




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ad ammirare così vasta e selvaggia bellezza. Luoghi che rapiscono l’animo e lo portano in un’altra dimensione. In lontananza, a circa un paio di chilometri da noi, avvistiamo una spiaggia molto ampia e decidiamo di dirigerci lì per passare la notte. Scrosci improvvisi di pioggia e raffiche di vento si alternano a sprazzi di sole che bruciano la pelle, provocando notevoli sbalzi di temperatura. Siamo costretti a indossare e togliere più volte la giacca antipioggia. Raggiungere la spiaggia risulta cosa tutt’altro che facile. Avanziamo a fatica, a causa del terreno molto accidentato. Tra l’erba alta si nascondo due piante spinose che ci massacrano caviglie e polpacci. Il Calafate è un pianta simbolo della Patagonia, dalle foglie piccole e molto verdi, con bacche di colore blu dal sapore squisito, e dalle spine lunghe e dure. L’altra, di cui ignoriamo il nome, è piccola e cattiva, formata da esili ramoscelli pieni di corpuscoli piramidali, con quattro o cinque spine ognuno. Questi si ancorano tenacemente al tessuto delle calze, provocando piccole ma insopportabili lacerazioni sulla pelle, soprattutto quando finiscono all’interno dello scarpone. Siamo costretti a fermarci quasi subito per ripulire le calze, un’operazione che richiede molto tempo e cautela, poiché le spine possono spezzarsi e rimanere conficcate nell’epidermide provocando infezioni. Un lavoro inutile, perché dopo pochi passi abbiamo di nuovo le calze piene. Queste spine saranno un tormento continuo e assaliranno le caviglie ogni qual volta saremo costretti a scendere dalla bici e spingere. Onnipresenti e snervanti, fino allo sfinimento. Raggiungiamo finalmente la spiaggia, lasciamo a terra le bici, togliamo le calze, e immergiamo i piedi nell’acqua gelida per attenuare il dolore. Allestiamo il campo e mangiamo qualcosa davanti al fuoco acceso con la legna trovata in riva. Fa buio, il lago è immobile, all’orizzonte si stagliano una coppia di nuvole lenticolari e, subito sotto, la sagoma delle Ande. Il fuoco, unico ad aver voce, proietta sulla tenda le nostre ombre. Siamo soltanto noi e la Patagonia. All’improvviso un boato incredibile scuote la valle, un rumore che atterrisce, simile a quello di un tuono, ma spaventosamente più violento, quasi un ruggito. Proveniene da dietro le montagne e si ripercuote sul suolo, risalendo dalle gambe fino alla cassa toracia. Ci convinciamo che si tratti di tuoni e che presto pioverà, decidiamo così di infilarci in tenda. Il tempo di spegnere le frontali e di nuovo quel boato cupo, questa volta sembra quello di un terremoto. Solo i tappi per le orecchie ci consentono di prendere sonno.


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Navigazione a vista

Una raffica di vento dritta in faccia mi colpisce, come uno schiaffo violento, e mi sveglio di soprassalto. Ho la sabbia tra i denti, nelle narici, e non appena li apro mi finisce anche negli occhi. È il caos totale! Giorgio non è nel sacco a pelo, la tenda è aperta, altre raffiche di vento fortissime mi colpiscono nuovamente in pieno volto. Lukas, il geologo svizzero, non aveva esagerato quando ci disse …vi sentirete come bucare il volto dal pietrisco! Tolgo i tappi dalle orecchie e cerco frettolosamente la frontale. Gio’ dove cazzo stai?! Ma tra il rumore del vento riesco a distinguere solo quello delle onde. Sento l’acqua vicina, molto vicina. Poi Giorgio torna nei pressi della tenda e urla: Frà, qua è un casino! Dobbiamo spostare la tenda, ora! Mi infilo le scarpe e la giacca, esco fuori. L’acqua è a pochi centimetri dalla tenda. La forza del vento è pazzesca. Alziamo la tenda di peso, con tutto quello che c’è dentro e a fatica la spostiamo più a monte, ancorandola alle bici, ad alcune pietre e a dei grossi tronchi che abbiamo recuperato a riva. Il lago ribolle come posseduto da una forza oscura. Torniamo dentro, la sabbia è ovunque, nei sacchi a pelo, nei vestiti, anche nelle orecchie. È da poco passata l’una di notte, proviamo a riprendere sonno, ma non c’è verso. Il vento aumenta, sempre di più e schiaccia le pareti della tenda con una violenza inaudita. Il rumore è assordante. Accendiamo le frontali, siamo costretti per più volte a passare da sdraiati a seduti per sorreggere la paleria della tenda. La sabbia sospinta dal vento si infila sotto il telo antipioggia e penetra attraverso le fitte maglie della zanzariera. Non c’è tregua, non c’è fine. Il timore è quello di ritrovarsi senza tenda. Basta una piccola lacerazione e scoppierebbe come

«Procediamo attraverso questo paesaggio irreale, a volte pedalando a volte spingendo, senza rotta e senza tempo, guidati soltanto dall’ago di una bussola biologica che punta verso l’istinto». un palloncino. Sette lunghissime ore, tanto è durato questo inferno. Poi, verso le otto del mattino, tutto si calma, all’improvviso. Riposiamo per venti, forse trenta minuti, poi il sole e il caldo insopportabile all’interno della tenda ci costringono ad uscire. Giorgio si allontana verso il fiume per fare rifornimento di acqua, poco dopo sento che mi chiama, lo raggiungo e indicando a terra esclama Queste cosa sono secondo te? Sulla ghiaia vicino al bordo del fiume c’erano impresse le impronte di un puma. Un rapido sguardo tra l’erba alta per controllare la zona circostante, ma non avvistiamo nulla se non un condor andino che volteggia in lontananza. Torniamo al campo, facciamo colazione e dopo aver assicurato le bici ai packraft decidiamo di proseguire in acqua. Le condizioni sono perfette anche se sulle vette si stanno addensando delle nuvole minacciose. Pagaiamo per un paio di ore, poi in pochi istanti il sole scompare, il cielo si fa plumbeo, torna la pioggia e con essa il vento, anche se meno violento della scorsa notte. Il packraft incomincia a scuotersi ed avanziamo con maggiore difficoltà. La visibilità è ridotta, dalla superficie del lago si alzano


nuvole d’acqua che ci colpiscono ripetutamente. È burrasca piena e decidiamo di approdare prima che la situazione peggiori. Giorgio tenta un approdo facendosi largo tra le fronde di un albero sommerso, ma siamo a ridosso di una parete rocciosa e per di più esposti alle raffiche di vento senza possibilità di riparo. Decidiamo quindi di tornare in acqua. La fatica per la notte passata in bianco si fa sentire. Proseguiamo in direzione sud seguendo un costone di roccia, sperando che si possa aprire su un buon approdo. Non abbiamo riferimenti, in quanto la morfologia del territorio era stata stravolta dall’innalzamento delle acque dovuto all’anomalo discioglimento del ghiacciaio Perito Moreno. Le mappe di cui ci servivamo per orientarci erano ormai inutilizzabili. Si fa una fatica incredibile ad avanzare, cercando di contrastare il vento, le onde, e soprattutto la corrente che ci spinge contro la parete di roccia che stiamo costeggiando. Intravedo Giorgio in lontananza che di tanto in tanto smette di pagaiare per far riposare le braccia, poi riprende. Faccio altrettanto, ma ogni volta che smetto di pagaiare la corrente mi spinge indietro e devo faticare non poco per recuperare la posizione in cui ero. Siamo allo stremo, a causa anche della notte passata in bianco, e le forze ci stanno abbandonando. Poi finalmente intravedo Giorgio alzare la pagaia in aria con le braccia tese, non riesco a capire cosa vuole comunicarmi, ma il gesto mi fa ben sperare. Pagaio con più forza verso di lui. Lo vedo finalmente che riesce ad approdare e poco dopo anche io tocco terra. È fatta! Ancoriamo i packraft utilizzando alcune rocce e montiamo la tenda in una piccola conca al riparo dal vento. Sfiniti ci infiliamo nei sacchi a pelo e crolliamo.


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La riconquista dello spirito selvaggio

Ci svegliamo dopo quindici ore di sonno ininterrotto. Mai dormito così tanto in vita nostra. Prepariamo un pasto caldo che mangiamo finalmente al sole. Nonostante la mancanza di sentieri, riusciamo comunque a pedalare e proseguire l’esplorazione di questo angolo sperduto di Patagonia a confine tra il mondo reale e quello fantasticato dalle letture di Bonatti. Tra le pagine di quei racconti emergono prorompenti i paesaggi patagonici: i colossi di ghiaccio dello Hielo Continental si elevano sulle acque turchesi del Lago Argentino, dove l’addensamento di umidità e gli improvvisi raggi di luce innescano arcobaleni che incorniciano capolavori di straodinaria bellezza naturale. Si respira aria di vita vera, di libertà, di simbiosi con un mondo di cui facciamo parte, ma da cui troppo spesso siamo lontani, rinchiusi dentro recinti, allevati per seguire le regole dell’uomo. Procediamo attraverso questo paesaggio irreale, a volte pedalando a volte spingendo, senza rotta e senza tempo, guidati soltanto dall’ago di una bussola biologica che punta verso l’istinto. Siamo trascinati da un qualcosa di primordiale e selvaggio, rapiti dalle incredibili sculture lignee che incontriamo di tanto in tanto, resti contorti di faggi modellati dal vento e vittime di incendi. Ci addentriamo in una zona dove la vegetazione è ancora più fitta, quando un boato assordante ci sorprende. Più imponente e, se possibile, terrorizzante, di quelli che avevamo avvertito il giorno prima scambiandoli per tuoni. È il grido cupo di un’enorme valanga che si stacca dalle vette che ci sovrastano, si insinua tra i seracchi e risuona lungo le nostre gambe fino allo sterno. Piove, torna il sole, poi di nuovo la pioggia, mai visti così tanti arcobaleni in un giorno solo. Arriviamo in un punto in cui un fiume con molte ramificazioni ci sbarra la strada. L’attraversamento è reso difficoltoso dal fatto che il letto di questo fiume è composto da enormi massi e il rischio di


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scivolare e rimanere intrapolati o, peggio ancora, di infortunarsi è molto alto. Qui puoi contare solo su te stesso. Indossiamo i sandali con chiusura a velcro e suola in gomma, per avere un buon grip sulle pietre e lasciare asciutti calze e scarponi. Attraversiamo non senza difficoltà questa distesa di massi, ci apriamo un varco attraverso degli arbusti e arriviamo in una zona aperta che sembra portare ad una specie di passaggio. Poco più avanti, tra due enomi macigni notiamo qualcosa muoversi. Avanziamo lentamente, poi all’improvviso ci immobilizziamo. Un massiccio esemplare di Toro Criollo, si erge davanti a noi, a circa venti metri. Ha il manto marrone chiaro, pelo corto, mentre il garrese e il cranio sono ricoperti da una folta e irsuta peluria. Il corpo è un insieme di fasci muscolari in tensione. Gli occhi piccoli, piccolissimi, si perdono nel cranio enorme. Un bestia selvaggia e aggressiva dalla potenza disarmante. Ci teniamo a debita distanza per non farci notare. Cerchiamo di prendere le macchine fotografiche dalle borse, ma al rumore delle zip, smette di mangiare, alza il cranio, sbuffa e ci fissa dritti negli occhi paralizzandoci. Riusciamo a scattare un paio di foto e a filmarlo. Poi inizia a innervosirsi, sbuffa nuovamente, stavolta con più rabbia, e con la zampa posteriore raspa violentemente sul terreno. Siamo degli intrusi, non graditi e ce lo fa capire in maniera molto chiara. Arretriamo prima che decida di caricarci. La vista dell’uomo risveglia nell’incoscio la schiavitù subita dai suoi progenitori. È un fuggiasco ribelle, pronto a difendere il suo stato di libertà, lontano da quei recinti in cui fu rinchiuso per molti secoli. Non siamo al cospetto di un animale, ma all’incarnazione dello spirito selvaggio riconquistato. In questo angolo remoto ai confini del mondo anche noi ci riscopriamo fuggitivi, fuori dai recinti, più che mai liberi e selvaggi.


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Testo di Romina Venier

Mozza-fiato all’ombra delle pareti nord

Foto Giuseppe Ghedina

"La realtà si presenta a Bardet nell'espressione contorta di Kwiatkowski, che getta gli occhiali e torna in testa al gruppo, ce l'ha scritto nelle iridi che non ce la fa più, eppure spinge ancora, e ancora..." DA BIDON - COMME L'EAU VIVE, TDF 2017

Questa pagina di ciclismo non si è scritta lungo questa salita, ma molte altre espressioni contorte hanno segnato i volti lungo questa strada. Siano atleti professionisti e non, l'asfalto per le Tre Cime di Lavaredo è sempre bagnato da pura sofferenza. Il mio primo ricordo legato a questa salita mi vede battere in ritirata. Agli albori della mia storia ciclistica stavo salendo da Auronzo, spavalda, fino a Misurina, ma appena incontrate le rampe che portano al Lago d'Antorno ne fui così impressionata che pensai di non potercela fare. Vi confido che al tempo pedalavo con un rapporto di cui non conoscevo la portata, un 39x25 con il quale pensavo si potesse e dovesse fare tutto. D'altronde non avevo altro. Si può fare tutto, tranne le Tre Cime. Rinunciai e rimasi seduta sul prato in prossimità del casello del pedaggio ad aspettare i miei amici che proseguirono la salita, ero convinta che fossero dei folli. Ancora oggi la salita alle Tre Cime è un itinerario che affronto poche volte, nonostante la poca distanza da casa. Mai per scelta. Esiste un richiamo, una voce interiore che mi invita a salire un paio di volte all'anno. Come per le migliori ferrate dopo le prime rampe, giunta al Lago d'Antorno, capisco se è il caso di andare avanti, oppure no. A differenza di molte salite che ripetute più volte, con l'abitudine, sembra che spianino, alle Tre Cime ad ogni chilometro percorso ne segue sempre uno più faticoso, non sono mai riuscita ad abituarmi a quella maledetta sensazione di crescendo. Nemmeno i tornanti, danno sollievo. Sembra che l'asfalto ti si avvicini sempre di più al naso. Le volte in cui ci sono salita le ricordo tutte, una per una. Di primo mattino, così



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presto che ancora l’omino al casello che esige il pedaggio delle automobili ha lo sportellino chiuso. Chissà se quell’uomo vive lì dentro? Il sole deve ancora arrivare e ancora nell’ombra io sfreccio davanti al suo baracchino. Immagino che di noi ciclisti che ci svegliamo all’alba per salire in bicicletta, pensi che siamo dei folli; forse pensa lo stesso anche della processione di automobili che di lì a poco si fermerà a pagare il biglietto e transiterà davanti alla sua finestrella impegnandolo per ore, in piena stagione estiva, gente che sale quelle rampe e tutte quelle curve restando rinchiusa dentro l’abitacolo. Se mentre salgo non sono di animo competitivo, mi fermo a fotografare il capitello che a grandi lettere segna la distanza fino alla vetta: Km 6. Arrivare al parcheggio sotto il Rifugio Auronzo prima delle corriere di linea è il miglior trofeo che si può meritare. Quando arrivo ci siamo solo io e l’addetto al parcheggio che raccoglie le cartacce da bordo strada, sistemando al meglio tutto il piazzale.

Tre Cime di Lavaredo. La salita dal casello al Rifugio Aurozo è di 4 km con rampe fino al 18% di pendenza. Oltre il Rifugio Auronzo serve una bici gravel.



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TRE CIME DIÂ LAVAREDO PARTENZA

Lago di Misurina

ARRIVO

Rifugio Auronzo

QUOTA ARRIVO

2333 m

QUOTA PARTENZA

1760 m

DISLIVELLO

573 m

PENDENZA

12% media con punte al 18%

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Lo spettacolo sta per iniziare. Se ritardo rispetto ai miei orari consueti del mattino, incontro diversi ciclisti avventurieri di giornata che costantemente metto nel mirino. Alcune volte vinco io. Altre volte la noncuranza e la facilità con cui qualcuno ci sale, mi distrae dal mio proposito di rimanere concentrata sul mio sforzo. Una volta con l’arrivo a pochi metri, sorpassata con facilità sorprendente da uno che saliva con un pacco pignoni che non contava più di 23 denti, ho dovuto resistere alla tentazione di scendere dalla bici e proseguire a piedi.

«Quando raggiungi Forcella Lavaredo, il grande miracolo dell’equilibrio della natura disorienta. Non ce la fai più ma spingeresti ancora e ancora. E ancora». Un’altra volta, in un fresco pomeriggio di fine settembre, ultimo giorno di lavoro di una lunga stagione, partii nel pomeriggio inoltrato per un giro d’aria verso Misurina. Poi non riuscii a non proseguire e a dire no alle Tre Cime. Non ero mai salita a quell’ora. Si sarebbe fatto tardi ma non era importante. Si fece tardi. Ricordo il freddo in discesa quando le ombre non c’erano più, i colori dei larici infuocati ormai spenti dal buio. Quel giorno capii che qualunque ora sia, il richiamo delle Tre Cime ha sempre il suo valore. Sono salita un giorno in un momento difficile della mia vita, pedalando con rabbia, confidando nella magnanimità di quelle rampe. Magnanime? Certo che non lo furono. Fui costretta sul fianco, vidi la ghiaia a bordo strada, il vento spingeva con una mano lungo una dorsale, con l’altra sulla successiva. Non comprendevo perché la salita ce l’avesse così con me, quel giorno. Raggiunsi la terrazza del rifugio pedalando curva e tirando forte sul manubrio con entrambe le mani, la giacca antivento rumorosamente sventolava e sbatacchiava contro le mie braccia spingendomi all’indietro. La salita delle Tre Cime volle vedere quanto della mia rabbia fosse in grado di trasformarsi in caparbietà e quanta in debolezza. Quel giorno rientrai a casa più consapevole delle mie forze e di questo la ringrazio. Infine sono salita forzando i confini dell’asfalto, puntando ancora più a Nord, laddove la difficoltà non sta nel vincere la pendenza ma nel reggersi in equilibrio tra le ghiaie e dove il fiatone non è il prodotto dello sforzo e della frequenza di pedalata ma della magnificenza della visione delle tre pareti Nord. Quando raggiungi Forcella Lavaredo, il grande miracolo dell’equilibrio della natura disorienta. Il vuoto dello spazio sembra voler sorreggere le imponenti pareti. Arrivarci per la prima volta in equilibrio su due ruote invece che camminando a piedi significa probabilmente provare quella stessa sensazione di Kwiatkowski. Non ce la fai più, ma spingeresti ancora, e ancora. E ancora.


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La San — remo


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IL CICLISMO, DOVE INIZIAVA OGNIÂ ANNO.


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Il ciclismo, dove iniziava ogni anno.

A Sanremo, un tempo, l’anno nuovo incominciava due volte. La prima volta a febbraio, con il Festival della Canzone Italiana e quella era roba che a me non interessava. La seconda volta a marzo, con la Milano-Sanremo, la gara di bici. Era la prima corsa importante della stagione. A parte un breve periodo qualche anno fa in cui si è corso di domenica, la Sanremo si è sempre corsa di sabato e una gara che si corre di sabato è più facile da tenere a mente, è speciale. Come ad Assen, nel motociclismo, fino al 2015 si correva di sabato. Il sabato arriva prima ed è più facile da ricordare, anche se uno non è un vero e proprio appassionato.


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corse

Il sabato della Sanremo era (ed è) quello della settimana della Festa di San Giuseppe, il 19 di marzo. Se uno riusciva a tenere a mente la festa di San Giuseppe, che è anche la festa del papà, poteva facilmente tenere a mente la MilanoSanremo e la Città di Sanremo. E il festival di Sanremo e le vacanze a Sanremo, se per caso a uno veniva voglia di andarle a fare da qualche parte, le vacanze. Magari con i nonni, che un tempo in riviera ci andavano a svernare. La Sanremo è stata la prima gara di ciclismo di cui ho imparato a tenere memoria, mi sono fatto l’idea che le chiamino corse monumento anche per quello, perché uno si ricorda esattamente dove stanno piazzate sul calendario proprio come certi monumenti in mezzo alle piazze, che uno li usa per girarci intorno e per prendere i suoi riferimenti nella scacchiera delle città.

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Domenico Modugno, nel 1958 vinse il Festival di Sanremo con “Nel blu, dipinto di blu” la canzone italiana più celebre di sempre. Il sabato della Milano-Sanremo del 1981 ero a pranzo da una zia che non visitavamo mai, il pomeriggio fu lungo e noioso e le forsizie in giardino erano già abbondantemente fiorite. Dal salotto al primo piano vedevo in obliquo i fiori gialli oltre la finestra che dava sul giardino. Alla televisione Adriano De Zan commentava la gara con la sua voce inconfondibile e liquida, ovunque nel teleschermo comparivano quegli striscioni con su scritto Rancilio che tappezzavano


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La Milano-Sanremo s’era trasformata in una lunga attesa dello sprint finale, perciò Vincenzo Torriani inserì negli ultimi chilometri il Poggio. Era il 1960, il primo anno senza Coppi.

Domenico Modugno, nel 1958 vinse il Festival di Sanremo con “Nel blu, dipinto di blu” la canzone italiana più celebre di sempre.

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i bordi della strada mentre le scritte Irge galleggiavano nell’aria sui cartelloni sospesi sopra il rettilineo d’arrivo. Le scritte Termozeta invece, tappezzavano l’asfalto. Termozeta non lo sapevo all’epoca cosa fosse, poi mio padre un giorno mi rivelò che si trattava di una marca di ferri da stiro. Saperlo fu un bel sollievo. Fu come se qualcuno mi avesse rivelato la parola d’ordine per poter entrare in un circolo segreto ed esclusivo. Termozeta, ferri da stiro, tutto chiaro. Ero entrato nel club. Irge faceva i pigiami e quello lo sapevo già da prima, li pubblicizzavano anche alla TV. Rancilio invece produceva macchine per il caffè, lo avrei scoperto tanti anni dopo. La gara quell’anno fu vinta da Fons De Wolf, per distacco.

La prima Sanremo di cui ho memoria, quella dove per me incomincia il ciclismo, è quella del 1981. Avevo 14 anni. All’epoca avevo una Saltafoss e andava benissimo così. De Wooolfffffff!! come lo diceva Adriano De Zan al microfono, era un nome impossibile da dimenticare che richiamava alla mente non solo l’asfalto belga ma anche la sabbia e l’odore di crema solare alla noce di cocco e le mattinate con il cielo blu giocando con le biglie colorate sulla spiaggia. Fece uno scatto sul Poggio, Alfons De



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Giorno di festa. Andare a vedere la Milano-Sanremo è anche l’occasione per stare insieme a bordo strada.


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Il sabato della Sanremo è quello della Festa di San Giuseppe, il 19 di marzo. Se uno riesce a tenere a mente la festa di San Giuseppe, che è anche la festa del papà, può facilmente tenere a mente anche la Milano-Sanremo.

Wolf, e non lo presero più. Sfrecciò sul traguardo mentre io ero svaccato sul divano in pelle della zia, mi ero tolto anche le scarpe per stare più comodo, i miei genitori e gli zii nel frattempo dopo il caffè erano quasi arrivati all’ammazzacaffè, di là in cucina. Saranno state le quasi le cinque del pomeriggio. La voce di De Zan rimbombava in alto nella stanza, agli angoli del soffitto. C’erano davanti a me delle caramelle Sperlari al gusto limone in un piatto d’argento sul tavolino davanti al divano, a quel punto ne avevo già mangiate almeno una ventina. Le forsizie erano sempre là al loro posto fuori dalla finestra, oltre il vetro s’era fatto più scuro e un po’ di foschia serale era arrivata, nel frattempo. Ieri c’è stata la centodecima edizione della Milano-Sanremo, ha vinto Julian Alaphilippe della Deceunink-Quick Step. Escluso Nibali lo scorso anno era da qualche edizione che vinceva un

velocista. Sulla Cipressa e poi sul Poggio è sempre più difficile fare il vuoto, il ciclismo è diventato un’altra cosa. Ieri Julian Alaphilippe ha dato una sferzata da centinaia di watt nel solito punto, prima di scollinare e dietro a lui sono rimasti soltanto altri sei: Kwiatkowski, Sagan, Matteo Trentin, il campione del mondo Alejandreo Valverde, Oliver Naesen e l’onnipresente Wout Van Aert. È tornato a essere un bello sport da guardare in tv il ciclismo. Bellissimo. I giochi di squadra sono alla luce del sole e le gare sono diventate più facili da comprendere anche per i meno esperti. I campioni sono tanti e diversi adesso e non sono più soltanto belgi o francesi o italiani, adesso i campioni arrivano da tutti i paesi del mondo: dalla Germania, dall’Australia, dalla Svizzera, dalla Tasmania, dagli Stati Uniti, dalla Norvegia, dal Portogallo, dalla Colombia.


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Dall’Inghilterra, perfino. In Inghilterra piove sempre, chi se lo sarebbe immaginato che in questi anni gli inglesi sarebbero impazziti per il ciclismo? Eppure. Forse è proprio per via della pioggia che il ciclismo piace così tanto agli inglesi: perché quando non piove e il cielo è azzurro, come succede da noi in primavera e quasi sempre alla Sanremo, il ciclismo è proprio bello da praticare, non soltanto da guardare in TV. Quello che ci rimane del ciclismo di una volta, l’eredità delle Sanremo di tanto tempo fa, è lo schema della gara: l’avvicinamento in pianura dove non succede mai niente, poi la Cipressa e il Poggio e il pubblico accalcato a bordo strada in Via Roma dove l’enigma dei pronostici trova soluzione una manciata di secondi. Dura tantissimo e finisce in un attimo, la Sanremo. Il meteo

rispetto a un tempo è diventato più bizzarro ma mediamente più clemente. Sono tornati di gran moda i tubolari con il bordo color corda, dopo un periodo di colori pazzi e poi il full black sono tornate a piacerci le ruote della bici fatte così, eleganti e classiche, come quelle di una volta. E poi c’è sempre il colore giallo delle forsizie, che a dire la verità adesso, da qualche anno ormai, al 19 di marzo succede sempre che hanno già messo oltre che ai fiori anche qualche fogliolina verde. La primavera comincia prima, quella del meteo perlomeno. Quella delle corse invece, no. La Sanremo, è sempre la Sanremo. È la prima vera corsa della stagione.

Doppietta. Dopo Strade Bianche Julian Alaphilippe, da favorito, è primo anche alla Milano-Sanremo.


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Il Poggio

Testo Alessandro Autieri

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Foto Bettini Photo

Si scala di scatto, discesa a tomba aper ta Il Poggio è luminoso. Ci si arriva dopo aver scollinato la Cipressa, dolce salita che si arrampica transitando per il comune di Costarainera, nella provincia di Imperia. Dalla discesa all'imbocco del Poggio, c'è un lungo tratto pianeggiante a tratti esposto al mare e al vento che scongiura le fughe, ammazza le velleità degli attaccanti, siano essi solitari o in gruppetto, e permette alle squadre dei favoriti di riorganizzarsi. Il Poggio lo imbocchi a una velocità supersonica. I colori sono accesi, le gambe dei corridori provano a ignorare i quasi trecento chilometri percorsi, la carreggiata è larga quanto basta, la distanza dal traguardo di Sanremo misura poco più di diecimila metri. Ti lasci la via Aurelia e Arma di Taggia alle spalle e alla sinistra il Mar Ligure che ti osserva con il suo blu e il suo Santuario dei Cetacei; dopo qualche centinaia di metri di salita, trovi invece il Santuario di Nostra Signora della Guardia, luogo simbolo di questa zona e tanto caro ai marinai che lasciavano doni chiedendo protezione per i loro viaggi, affinché la Madonna scongiurasse un mare in tempesta o un attacco di pirati. La strada qui spiana dopo aver percorso a tutta i primi tornanti del Poggio e le gambe sono già a pezzi. Se ti affacci verso sinistra il mar ligure è uno specchio che ti acceca e in fondo, in mezzo alle case, vedi Sanremo. Gli ultimi dieci chilometri di questa corsa, una volta imboccata la salita - che a farla normalmente sembra essere poco più di un cavalcavia - sono un mare in tempesta. La rampa con vista Sanremo è fatta apposta per invogliare attacchi. È come un’onda capace di scagliarsi con veemenza contro le rocce e di infrangere le residue energie di molti velocisti. Il Poggio è uno spartiacque. Divide i buoni dai cattivi, i campioni dai mestieranti. È un neo appena accennato su una pelle perfetta che trasforma la MilanoSanremo, dopo ore spesso passate a sbadigliare, nel quarto d'ora finale più folle dell'intera stagione ciclistica. Il Poggio è eccitazione, è uno shaker con dentro sogni, ambizioni, cuore, polmoni, fegato, gambe, sotto una pennellata di azzurro che acuisce i contorni. Sono quasi quattromila metri che spingono verso l'alto, ma non troppo; una decina di curve in totale, quattro tornanti secchi nei quali arrivi a una velocità così elevata

Il Poggio lo imbocchi a una velocità supersonica. I colori sono accesi, le gambe dei corridori provano a ignorare i quasi trecento chilometri percorsi, la carreggiata è larga quanto basta, la distanza dal traguardo di Sanremo misura poco più di diecimila metri.


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che sei costretto a frenare, e rilanciare. È uno zuccherino che potrebbe rimanerti sullo stomaco. Se ti affacci verso destra vedi serre e villette moderne; il mare è esattamente dall'altra parte. In queste zone si continua a coltivare un prezioso vermentino che rinfresca la gola, mentre uliveti e palme stanno sparendo per fare spazio alla floricoltura. Nelle giornate di grazia, dalla cima del Poggio puoi scorgere la Riviera genovese da una parte e quella francese dall'altra, come fossero a tiro. Una volta scollinato oltre alla cabina telefonica, la strada svolta bruscamente a sinistra e si lancia in un cavatappi in discesa formato da ventitré curve e sette tornanti da percorrere a folle velocità e dove si può pensare di resistere al ritorno del gruppo o addirittura dove fare ancora più differenza. Si racconta che nel 1992 Sean Kelly arrivasse giù dal Poggio così velocemente da toccare con il gomito il muro a ogni tornante come un motociclista ad Assen, lui ha sempre negato: «Argentin mi staccò sul Poggio, io scollinai poco dietro: si raccontano molte storie su quella discesa, è vero che andavo forte, ma non stavo toccando il muro, era il rumore delle mie ruote sull'asfalto»; raggiunse Argentin a un chilometro dal traguardo e vinse, a quasi 36 anni, l'ultima delle sue nove Monumento.

Capolavoro. Nel 2018 con una invenzione tattica Vincenzo Nibali riesce a vincere la MilanoSanremo, attaccando sul Poggio.

Non c'è un posto designato dove attaccare sul Poggio, se dal gruppo si fa andatura forte e regolare, si fa fatica a evadere. Per sorprendere o creare margine devi avere gambe farcite, fortuna, tempismo e volontà d'acciaio. Nel 2018 Nibali si inventò un attacco che oramai è storia, mantenne in discesa quel vantaggio, resistette al ritorno del gruppo con Trentin partito come una pallottola e poi risucchiato, e con il piccolo Caleb Ewan, secondo, che vinse la volata di gruppo appena in tempo per entrare nelle foto celebrative. L'anno prima ci fu un brutale attacco di Peter Sagan al quale risposero Kwiatkowski e Alaphilippe che si accodarono in discesa. Il polacco beffò poi Sagan sul traguardo. Spesso, a seguito della bagarre il gruppo arriva in cima sfilacciato e allora la discesa e poi il finale possono premiare i migliori finisseur del gruppo: è il caso di Cancellara che qui vinse nel 2008, dopo aver allungato il gruppo nella picchiata verso il traguardo attaccò a due chilometri dalla fine e vinse. «Guardi la cartina è non sembra difficile, è piatta, poi un po’ su e giù. Semplice, no? E invece…». E invece alla fine c’è il Poggio, dopo quasi trecento chilometri, luminoso come una giornata di fine marzo, inserito nel 1960 per indurire la corsa e diventato simbolo di quello che è definito il Mondiale di Primavera. Era luminoso anche quando nel 2013 una bufera di neve investì la corsa, e solo ad averla portata a termine i corridori ne vanno fieri. Lui resta sempre in alto a osservare, con il suo profilo un po' altezzoso e costellato di giardini in fiore, il traguardo poi è laggiù, in mezzo a quelle case che si vedono in fondo, nell'abitato di Sanremo.



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Marangoni, Alan Foto Bettini Photo

Alan Marangoni ha smesso di correre alla fine della stagione 2018. Se non conoscete il corridore (molto male, ha corso per dieci anni da pro) può darsi però che siate incappati almeno nella sua vicenda umana: all’ultima gara della carriera da professionista, al Tour of Okinawa in Giappone, lo scorso autunno, ha finalmente coronato il sogno di passare il traguardo a braccia levate e vincere una gara.

Alan ci ha raccontato di quel momento, prima e dopo il taglio del traguardo e della vittoria mentre pedalavamo nei dintorni di Riva del Garda, dove vive. Ci ha parlato della sua transizione da corridore professionista a conduttore/presentatore di Global Cycling Network Italia, il canale video che si occupa di ciclismo e che potete trovare su YouTube. Alan scrive bene. È un gran raccontatore ed è una di quelle persone in grado di prenderti, sollevarti da terra e farti fare un giro mentre ti racconta la sua storia. Un giro di quelli che, quando rimetti i piedi al suolo, hai quasi perso l’orizzonte e hai bisogno di un momento per riprendere il fiato e ricominciare a fare quello che stavi facendo prima, intanto il mondo non è più lo stesso posto. Gli abbiamo chiesto di scrivere qualche storia per noi e ci siamo fatti promettere di raccontarci di lui, della sua carriera, di quell’ultima vittoria pazzesca ma soprattutto di quello che succede dentro al gruppo o nella testa dei corridori. E lui ci ha detto di sì. Però soltanto quando ho tempo, ha tenuto a specificare. No stress, quando vuoi, gli abbiamo risposto noi. In quel momento, mentre ha prometteva, eravamo a casa sua dopo il giro in bici e stavamo davanti a un piatto di quinoa e a dell’invitante carne salada trentina preparata dalla sua fidanzata Lisa. I capelli erano ancora bagnati e spettinati dalla doccia. Abbiamo fatto un brindisi e l’affare era fatto. Buon appetito e a voi la storia.



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in prima persona

forse, di Alan Marangoni

I primi nove giorni di questo Giro 2015 sono stati un inferno, una guerra continua. Giornate lunghe, combattute, alcune davvero infinite. Il giorno di riposo di ieri è stato per tantissimi come prendere una grossa boccata di ossigeno mentre si rischiava di annegare. Oggi è una tappa è facile, Civitanova Marche - Forlì, la decima, comunque sono pur sempre 200 chilometri: per la maggior parte di noi sarà quasi come un secondo giorno di riposo, nessuno avrà voglia di scattare per primo perché il gruppo mollerebbe subito. E dopo chi li fa tutti quei chilometri al vento? È tutta fatica sprecata, una vera e propria follia. Domani poi ci sarà la Forlì - Imola, tappa corta e durissima, un giorno pericoloso per tutti quelli che sono un po’ al gancio. Sicuramente è meglio stare là in mezzo e far girare le gambe. A dire la verità però qualche folle in gruppo c’è. Sono giorni che io e Malaguti della Nippo Fantini abbiamo la fissa di fare questa tappa in fuga. Ci avevamo già provato alcuni giorni fa a Montecatini con altri tre, ma oggi giochiamo in casa, lui più di me essendo forlivese DOC. Come per tutti quelli che lo conoscono bene, Malaguti è per me Gnula, un soprannome affibbiatogli dal suo primo direttore sportivo quando era un bimbo e che si tira dietro da allora. Ci alleniamo spessissimo insieme e ci conosciamo ormai da una vita: siamo molto amici e ci fidiamo l’uno dell’altro. Sapendo per certo che il gruppo mollerà al primo colpo in partenza siamo schierati in prima fila. Nella giornata di riposo ho reclutato un altro folle, è Busato della Southeast. Büz ha corso con me tre anni alla Coppi-Gazzera da dilettante. Dal 2008, ultima stagione fatta insieme, siamo sempre rimasti in buonissimi rapporti. Un peccato che uno con il suo talento sia arrivato al suo primo grande Giro a ventotto anni suonati,

«Dopo qualche chilometro di trasferimento la macchina della direzione gara si sposta per il via ufficiale e si parte, io sono il primo a scattare». purtroppo ci hanno messo tanto, troppo tempo a capire il suo vero valore. Ieri al telefono gli ho detto che io e Gnula ci saremo lanciati e che sicuramente un altro paio sarebbero montati su. Lui mi ha risposto di non sentirsi sicuro perché era stanco e che forse era meglio provarci un altro giorno, io ho ribattuto semplicemente dicendo: «Sei libero di fare come credi, ma sappi che se non vieni poi te ne pentirai». Così, questa mattina prima del via mi è venuto vicino e mi ha detto: «Io, ci sono». Dopo qualche chilometro di trasferimento la macchina della direzione gara si sposta per il via ufficiale e si parte, io sono il primo a scattare. Il primo tentativo non va, ne faccio subito un altro e il gruppo molla. Mi guardo intorno e i due che dovevano esserci ci sono. In più, ci sono Oscar Gatto dell’Androni Giocattoli e Nicola Boem della Bardiani. Tutto come da programma, sapevo per certo che anche le altre due professional italiane avrebbero messo un uomo a testa dentro la fuga. I primi chilometri passano in fretta, l’andatura scende a un ritmo più blando. Sarà una lunga giornata, bisogna gestire bene lo sforzo. Gatto lo considero un alleato, lo conosco bene da una decina di anni, da quando nel 2006 andammo a Valkenburg a fare gli Europei con la Nazionale U23. La scorsa stagione eravamo compagni di squadra alla Cannondale e avevamo creato un ottimo rapporto. Insieme a lui scherzo sul fatto


Cronosquadre. I compagni di fuga di Alan sono quattro, li conosce tutti tranne uno. Pagina precedente, Alan disperato.

di quanto sia strano per uno del suo calibro ritrovarsi in questa fuga suicidio, lui che tra tutti noi qui è l’unico ad aver vinto una tappa al Giro, quattro anni fa, più un’altra decina di corse in carriera. Scherzando mi dice che forse l’ultima volta che è entrato in una fuga da lontano correva da allievo, altre risate. A detta di molti Gatto è il classico corridore pieno di talento che avrebbe potuto fare di più e che forse a volte si è un accontentato un po’ troppo. L’unico della fuga che non conosco quasi per niente – se non per i soliti ciao come va? – è Boem, un ragazzo valido, spesso all’attacco. Lo scorso anno ha vinto una tappa al

forse,

giro di Danimarca ma di sicuro è alla ricerca di quel qualcosa in più che lo possa portare più in alto rispetto al purgatorio del ciclismo dove si trova ora. Lui è l’unico che vedo come vero e proprio nemico in questa fuga. Il gruppo ci concede al massimo 3’40”. La corda non è molto lunga, adesso non conviene spingere a fondo perché lo farebbero pure dietro. Bisogna andare via regolari spendendo il giusto, lasciare che ci tengano a vista e sparare tutto negli ultimi 50 per provare a fregarli. Abbiamo l’1% di probabilità di andare fino in fondo, ma se gli altri quattro ci credono come ci credo io, forse anche qualcosa in più. Quando siamo a 130 chilometri dall’arrivo il gruppo si avvicina ai due minuti, ci guardiamo fra di noi con un misto di rabbia e delusione. «Cavoli, vogliono già chiudere la pratica? Impossibile, dai! Sicuramente si staranno accorgendo di aver tirato troppo forte e tra poco rallenteranno e


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torneremo sui tre minuti». Così infatti, succede. Comunque è davvero difficile credere di poter arrivare, dietro stanno giocando al gatto col topo. Forse se riusciamo a ottenere un po’ di diretta tv, è già grassa. Superiamo Pesaro e inizia così il tratto ondulato della tappa, che è lungo una trentina di chilometri e finirà poco dopo Cattolica. Il passo che teniamo è regolare ma deciso. In una discesa Gnula si butta giù con un po’ troppa foga sbagliando una curva e rischiando di far cadere tutti. Boem si innervosisce, urla che è inutile rischiare così, che tanto ci prendono quando vogliono e minaccia addirittura di non tirare più. Io lo tranquillizzo dicendogli di stare calmo e che avrei detto a Malaguti di non fare più stronzate, chiudo con un «continuiamo a tirare tutti e le cose andranno bene, fidati di me…» Tra di noi torna la calma. Arriviamo a Misano, le salite e le discese per oggi sono finite. Adesso restano settanta chilometri di pianura fino al traguardo. Dalla radio il

forse. «Penso a tutte le volte che nella mia vita mi sono sentito inferiore. A tutte le volte che mi sono odiato per aver ceduto alle mie debolezze e che ho rifiutato l’idea di poter vincere una corsa».


in prima persona

CSF NAVIGARE

COLNAGO CSF

LIQUIGAS CANNONDALE

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CANNONDALE

NIPPO FANTINI

Vittoria Tour of Okinawa

Delusione. Mancava poco al trionfo. Ultimi metri prima del traguardo di Forlì per Alan.

mio direttore sportivo Guidi dice di continuare ad andare regolare e dopo Rimini, quando il vento sarà completamente a nostro favore, iniziare a fare come in una cronosquadre, cioè sparare tutto quello che abbiamo e che ci è rimasto da sparare. E così facciamo. Una volta passata Rimini, a esattamente meno cinquanta chilometri dall’arrivo, si inizia veramente a fare sul serio. Il vantaggio oscilla tra i 2’ e i 2’30”. È pochissimo, ma è un vantaggio che dobbiamo farci bastare perché da adesso in avanti il gruppo comincerà ad avvicinarsi sempre di più inesorabilmente. I chilometri scorrono veloci, la nostra velocità è sempre oltre i 50 orari e appena mi accorgo che si rallenta un po’ riesco sempre a rilanciare e fare risalire la velocità più in alto. Dei cinque che siamo credo di essere quello che sta meglio e mi prendo la responsabilità di spendere qualcosa in più per il bene della fuga. Da bambino guardavo il Giro in televisione e sognavo un giorno di esserci e di vincere una tappa. Adesso sono proprio qua, a vivere quel sogno. Che strana la vita. Immagino tutti gli amici e conoscenti che stanno guardando la tv in questo momento, li vedo radunati insieme o da soli a soffrire, ci sarà stato un passaparola tra chat, social network e telefonate per far girare la voce che oggi sono nella

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Civitanova Marche — Forlì

fuga che forse andrà all’arrivo. Oggi Alan, se la gioca. Immagino mio babbo come la starà vivendo, lui che è così incredibilmente emotivo, spero non gli vengano attacchi di cuore. Me lo vedo in trepidante attesa con gli altri del mio fan club ai meno quattro dall’arrivo. Penso anche a mio nonno Renzo, se ci fosse stato ancora oggi, di sicuro, si sarebbe divertito. Per un attimo mentre pedalo mi sfiora un pizzico di malinconia. Comunque vada per anni si racconteranno aneddoti su questa giornata, ognuno racconterà con chi era, dov’era e cos’è successo mentre mi guardava in diretta alla tv. Si accende una scintilla di adrenalina. Penso a tutte le volte che nella mia vita mi sono sentito inferiore. A tutte le volte che mi sono odiato per aver ceduto a tutte le mie debolezze, in cui mi sono accontentato di fare il minimo sindacale oppure che ho rifiutato l’idea di poter vincere una corsa. Ancora un’altra scintilla, più intensa. Si viaggia davvero forte, ogni tirata è quasi uno sprint e accodarsi dopo aver ricevuto il cambio in testa al gruppo non è per niente facile. Ci stiamo spremendo alla morte. Urlo agli altri che possiamo farcela, non so perché, ma nell’enfasi dico a Gnula: «Comunque vada, oggi abbiamo vinto». A dir la verità però adesso, che mancano solo una ventina di chilometri, con ancora un minuto e


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mezzo di vantaggio voglio andare fino in fondo. Voglio vincere. Non ho mai desiderato tanto come oggi la gloria, quella che mi resterà scolpita per sempre, nella testa. E nell’anima. Sono stanco ma mi sento vivo, maledettamente vivo. Lucido. Sveglio. Sveglio a sufficienza per sentirmi già ben oltre la metà dell’opera. Anche se più che opera sarebbe meglio chiamarla follia. Vorrei che il tempo si potesse fermare, vorrei poter salvare questi minuti di incertezza e di pathos e poterli rivivere tutte le volte che ne avrò voglia. Le gambe fanno davvero male adesso, lo sforzo è estremo. Resisti vecchio cagnaccio! Il mio cervello deve produrre altra adrenalina per sentire meno dolore. Se sai indirizzare l’emozione nel canale giusto la trasformi in energia pura, in antidolorifico. Funziona, ormai l’ho imparato sulla mia pelle in tutti questi anni. Grinta! Ce ne vuole tanta, quella che può avere uno come me, che vuole fare quel qualcosa che fino a poco fa sembrava impossibile, che vuole uscire dall’ordinario per vivere un giornata indimenticabile, che vuole togliersi una soddisfazione che va oltre al semplice posizionarsi sul primo gradino del podio. L’ultima volta che ci sono salito ero dilettante, tanti anni fa, sinceramente fatico a ricordare che cosa avevo provato quel giorno. Oggi voglio essere quello che non sono stato mai. A quattordici chilometri dall’arrivo fora Gatto, per lui l’avventura finisce qui. Oscar mi sarebbe stato utile, se fossi scattato per primo ed essendo lui il più veloce, tutti avrebbero aspettato che chiudesse. E lui, già a oltre 100 dall’arrivo mi aveva detto che sarei stato l’unico su cui di sicuro non sarebbe andato a chiudere. Ecco, il destino sta entrando in gioco. Anzi, a dire la verità il destino c’è sempre stato, anche se noi pensavamo di fregarlo. Probabilmente ha

architettato qualche sadico giochetto. Ha fatto fuori l’unico che una tappa al Giro l’aveva già vinta, l’unico che in carriera si è già tolto più di una soddisfazione. Era già scritto da qualche parte che se la devono giocare i quattro cagnacci senza classe e senza gloria, dimenticati dal Dio del ciclismo. Siamo quattro che cercano disperatamente un successo che ci può cambiare la vita. Gnula arriva a pochissimi chilometri da casa sua, già lo scorso anno mi diceva di essersi fatto il film in testa di questa tappa più volte: fuga da lontano, gruppo che sbaglia i conti e io che arrivo a braccia alzate. So per certo che vorrebbe dedicare la vittoria a sua mamma che da due anni non c’è più e questo sarebbe il modo più bello per ricordarla. Büz dopo anni a girovagare ingiustamente in piccole squadre ha l’occasione per una grande rivincita su tutti quelli che non credevano in lui. Per Boem invece sta passando il treno giusto per sbloccarsi e magari trovare posto in una grande squadra. Io dopo anni a lavorare per gli altri senza mai ritagliarmi uno spazio personale ho l’occasione di trionfare a un passo da casa mia, posso togliermi una soddisfazione dal valore inestimabile che potrebbe di ripagarmi di tutte le fatiche senza gloria di questi anni. Vista dall’esterno, dalla parte di chi conosce un po’ il ciclismo e la nostra storia, c’è il condimento giusto per un finale thrilling. Drammatico. Al cardiopalma.

«Ho tre avversari da battere e due di questi sono amici. Forse se scatto per primo è fatta, forse posso farcela. Forse la posta in palio è troppo alta per credere alle amicizie. Forse, forse, forse».


Il "Nemico". Nicola Boem è il vincitore della Civitanova Marche Forlì, 10a frazione del Giro d’Italia 2015.

Ai meno quattro chilometri, per radio, mi urlano che abbiamo ancora cinquanta secondi, seguito da un oggi è la tua occasione. Dico a Gnula del vantaggio, lui mi guarda con uno sguardo teso, è incredulo. Ai meno tre passiamo davanti al mio fan club e riesco a riconoscere solo mio babbo. D’istinto lo saluto con un cenno. Sono lucido, so cosa devo fare: devo attaccare per primo. Boem è nervoso perché la velocità si è abbassata e tutti tirano corto. Ai meno 1800 metri, mentre lui si sta facendo sfilare, dopo aver cambiato ed è girato verso Büz a sbraitare, Gnula mi lascia qualche metro e io scatto secco. Arrivo nella piazza di

Forlì e il boato della folla è davvero assordante, adrenalina a fiumi, scariche elettriche, acido lattico. Attimi che non dimenticherò mai. Spingo con tutto quello che mi è rimasto in corpo, so di aver fatto il vuoto e decido di non voltarmi indietro, percorro l’ultima curva andando un po’ troppo piano perché sono poco lucido, lo sforzo che sto facendo è disumano. Mancano 400 metri. Dai Alan, è fatta! A un certo punto guardo da sotto il braccio e vedo la ruota di Boem dietro alla mia, tempo due secondi e mi ha già sorpassato. Mi giro e vedo gli altri due vicinissimi, pronti anche loro a saltarmi.


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A quel punto smetto di pedalare, non ne ho più. Adesso per me fare quarto o ultimo di tutto il gruppo ha lo stesso valore. Ho solo voglia di piangere. Vince Boem, il Nemico. Io taglio il traguardo in lacrime, l’occasione della vita è sfumata via per sempre. Mancava così poco al trionfo. Ero a un passo. Oggi forse i nostri sogni hanno fatto a pugni tra loro. Per andare all’autobus, percorro un tratto di strada parallela al rettilineo finale incontrando decine e decine di sguardi e facce che conosco, mi sento un gladiatore che sta uscendo dall’arena. Sento i vari Grande Alan!, Bravissimo Alan!, Dovevi vincerla tu…». Sono deluso ma felice di aver regalato emozioni vere e autentiche a tutti quelli che mi hanno sempre sostenuto. Poco dopo scopro che dietro di me è successo quello che non avrei mai immaginato. Gnula si è mosso per ben due volte, annullando così il mio attacco e per poi finire terzo. Pazzesco. Ha perso completamente la testa, l’adrenalina gli è andata al cervello e gli ha offuscato la mente, pensava di poter vincere pur avendo finito la benzina e ha rischiato l’impossibile, è l’unica spiegazione. Mi sento in colpa per non avergli parlato prima, dovevo dirgli non veniamoci a prendere oppure non facciamo cazzate sicuramente sarebbe servito a farlo ragionare di più. Perché non gli ho detto niente? Perché ho dato tutto per scontato? Perché, perché, perché? Avrei dovuto capire da quello sguardo che non era in sé, avrei dovuto ricordarmi che in certe situazioni vive quello che fa con trasporto emotivo e poca razionalità, invece niente. Ero troppo impegnato a pensare ad arrivare in fondo, a farmi tutti i miei viaggi mentali. Che stupido.

«Ho solo voglia di piangere. Vince Boem, il nemico. Io taglio il traguardo in lacrime, l’occasione della vita è sfumata per sempre. Mancava così poco al trionfo. Ero a un passo». Sono sicuro che in questa sua doppia azione non c’è stata cattiveria, se non fosse così vorrebbe proprio dire che io dalla vita non ho imparato proprio niente e che mi merito solo delle fregature. Dopo tutti questi anni a condividere i nostri pensieri riguardo la bici, le donne e la vita in generale, il cercare tante volte di farsi coraggio a vicenda quando le cose andavano davvero male, non può averlo fatto con cattiveria. Io non ci credo, non esiste. È tutta colpa del destino e dei suoi sadici giochetti, era tutto scritto. E io sciocco che il destino pensavo di fotterlo con questa folle avventura studiata a tavolino. Chi mi credevo di essere, io? Dio? Alla fine il destino ha fottuto me, anzi, noi. Come da copione. Ci metto dentro anche Gnula, oggi forse i nostri sogni hanno fatto a pugni. Pazienza. È inutile cercare di dare un senso a qualcosa che non ne ha mai avuto sin dall’inizio. Abbiamo fatto qualcosa di davvero folle e folle era giusto che fosse pure il finale. Anche se la rabbia resterà per un po’ di tempo esco da tutta questa indimenticabile avventura più forte di prima. Oggi ho raggiunto una consapevolezza in più nella mia vita: posso vincere. Posso vincere la tappa di un grande giro e me ne sbatto se oggi è andata così. Basta crederci, crederci, crederci per davvero e portare con sé sempre un pizzico di follia.


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glossario

Parla come pedali Capire e farsi capire in gruppo, è importante. Aprire il ventaglio, disporsi in file parallele diagonalmente alla sede stradale per contrastare l’azione del vento contrario. Lo scopo è restare protetti dal vento restando a ruota di chi precede. Avere la gamba, sentirsi molto bene Tenerli a bagnomaria, il gruppo tiene i fuggitivi sotto controllo a breve distanza senza di colmare il distacco. Chiudere il buco, rendere l’iniziativa per colmare il distacco dal corridore o dai corridori che precedono. Essere al gancio, essere al limite delle proprie possibilità. Essere ingolfato, sensazione di gonfiore e imballamento che impedisce di rendere al meglio. Fare il buco, come fare l’elastico ma in maniera più netta. A volte è causato dalla difficoltà di seguire i corridori che precedono. Fare il fagiano, allontanarsi dal gruppo incrementando progressivamente la velocità per tentare la fuga, in maniera tale da non farlo sembrare un vero e proprio tentativo di fuga.

Fare l’elastico, rallentare progressivamente la velocità, per favorire l’azione di attacco dei compagni che precedono.

Rompere i cambi, non collaborare all’inseguimento dei fuggitivi, per ostacolare un inseguimento o un tentativo di fuga.

Fare la corsa, prendere l’iniziativa per gestire la dinamica di gara.

Rompere il fiato, dopo un buon riscaldamento raggiungere l’equilibrio respiratorio.

Avere la gamba piena, sentire forza e buone sensazioni Avere la gamba vuota, non avere energia. Incatramata, andare in debito di ossigeno e perdere efficienza Limare, inserirsi nei varchi che si creano nel gruppo mantenendo caparbiamemte la ruota per conservare energie e posizione. Mangia e bevi, percorso saliscendi Mangiare l’erba, essere costretti a percorrere il margine più esterno della sede stradale, senza possibilità di essere riparati dai corridori che precedono. Generalmente accade a chi non riesce a inserirsi in un ventaglio. Menare, condurre a forte andatura. Non avere la gamba, non sentirsi bene.

Fagianata, mossa tipica in corsa del “fagiano”

Non sentire la catena, sentirsi talmente bene da non percepire lo sforzo.

Fare il treno, condurre il gruppo per mantenere il leader della squadra al riparo, nella posizione migliore.

Rimanere al vento, rimanere tagliati fuori dall’azione decisiva.

Scatto del morto, attacco poco convinto, nelle intenzioni e nella esecuzione tattica. Generalmente lo porta un corridore oramai tagliato fuori dalla gara. Scimmia, crisi profonda Segare, tagliare la strada improvvisamente, creando pericolo per i corridori che seguono. Succhiare le ruote, rimanere passivi a ruota di chi precede. Montare su, sprintare e accodarsi a un gruppo di fuggitivi. Fuga-suicidio, azione d’attacco senza speranza destinata inesorabilmente al fallimento. Tirare corto, alternare i cambi in testa con rapidità percorrendo solo brevi tratti di strada. Slamierata, caduta con lunga strisciata a terra. Tranvata, caduta con collisione contro un ammiraglia o contro un mezzo in corsa.


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TOUR OF GUANGXI Testo e foto KÃ¥re Dehlie Thorstad


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controvento

Siamo nel remoto sud della Repubblica Popolare Cinese, vicini al confine con il Vietnam. Il Golfo di Tonkin continua a essere un luogo rovente, a fine ottobre. In netto contrasto con i giorni precedenti le strade sono pressoché deserte mentre ci trasferiamo alla zona di partenza. A quanto pare l’organizzazione ha completamente neutralizzato il traffico della città in vista della gara di oggi. Ovunque, lungo tutto il percorso della gara, dietro alle transenne e attorno al villaggio di partenza ci sono poliziotti, militari, volontari e funzionari in borghese che disposti a intervalli regolari tengono gli spettatori lontani dalle ammiraglie e dai bus. Corsa

Guilin

Trasferimento

Liuzhou

Nongla

Nanning

TOUR OF GUANXI UCI WORLD TOUR

Quinzhou

KM TOTALI

920

PARTENZA

43,89km/h

TAPPE

6

WINNER 2017

Tim Wellens

WINNER 2018

Gianni Moscon


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Beihai, stage one

Più lontano, dietro ad altre transenne, centinaia – anzi, migliaia – di persone si accalcano a guardare tutto quello che succede, più interessati effettivamente dai media e dai giornalisti occidentali che dai corridori. L’entusiasmo a bordo strada è genuino ma differente da quello che siamo abituati a vedere in Europa. Non ci sono striscioni o bandiere che sventolano, nessuno indossa maglie delle squadre o cappellini e nessuno chiama per nome i corridori che girano per il villaggio ed entrano ed escono dai bus. Nessuno chiede di fare un selfie o un autografo. Allo stesso tempo è curioso vedere tanta curiosità un entusiasmo così genuino. Migliaia di nuovi potenziali appassionati stanno guardando il nostro spettacolo preferito e solo Dio sa cosa ne capiscono. Se solo riuscissimo a parlarci e a intenderci,

proverei a chiedere. Con il Tour of Guanxi, il ciclismo di alto livello fa il suo ritorno in Cina dopo la fine del Tour of Beijing del 2014. La collaborazione tra la Beijing City Government e UCI è durata solo per quattro edizioni. Al Tour of Beijing fu assegnato subito, sin dalla prima edizione, lo status di gara World Tour, il che significava la presenza obbligatoria dei top team i quali per essere qui a questo nuovo evento scavalcavano altre gare più vecchie e più rinomate nel calendario internazionale. Questo era ovviamente motivo di grande discussione tra le squadre, tra gli organizzatori e la UCI stessa. Il nodo centrale della discussione era il conflitto d’interessi che coinvolgeva UCI che era al tempo stesso ente di governo dello sport nonchè preparatore dei calendari e parte commerciale in causa, in partnership con la Cina. Qui, la storia si ripete. Quando il Tour of Guangxi a Dicembre dello scorso anno è stato presentato e poi immediatamente, al primo anno, la gara è stata

inserita nel calendario del World Tour, la reazione generale è stato lo scetticismo. C’era la sensazione che, come il Tour of Beijing in precedenza, anche il Tour of Guangxi non fosse altro che un facsimile di una gara di ciclismo così come la immaginiamo e guardiamo secondo gli standard occidentali. Mentre in Europa gli organizzatori spendono anni – se non decenni – per fare crescere la loro gara fino a raggiungere lo status di gara World Tour, il Tour of Guangxi ci stava riuscendo già dall’esordio. Le motivazioni di questa scelta addotte dall’UCI avevano a che fare con l’idea di fare del WorldTour un circuito davvero globale, la Cina con i suoi milioni di potenziali praticanti e spettatori (oltre che sponsor) rappresenta in questo senso un’opportunità da non perdere. È la strategia giusta? Il tempo dirà se la gara sarà in grado di sopravvivere più a lungo dell’altro predecessore, il Tour of Beijing.




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controvento

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Quinzhou stage two

Nanning stage three

Nanning stage four

Arriva il mio pilota di moto cinese, ci stringiamo la mano e proviamo a presentarci. Non spiaccica una parola d’inglese e io non sono nemmeno sicuro di aver capito bene come si chiama. Ma c’è una cosa che mi inquieta ancora di più: questa è solamente la seconda volta che segue una gara di ciclismo come motociclista. Non sono così convinto che questa cosa rispecchi gli standard per la sicurezza imposti dall’UCI, ma non ci sono alternative, devo farmelo andare bene. Oltretutto non so come si sviluppi il percorso di gara, ci hanno comunicato un punto A di partenza e uno B di arrivo ma non so niente di quello che sta in mezzo. Come se non bastasse non posso accedere a Google maps, che in Cina è bloccato e non funziona come Facebook, Twitter, Instagram, Youtube e tanti altri siti occidentali. In pratica la mia sarà una corsa nell’ignoto.

Siamo ben oltre la fine stagione del classico calendario UCI, la maggior parte dei corridori sono già da un po’ con la testa in vacanza. Qualcuno di forte però tra i partenti c’è, con l’intenzione di sfruttare un picco di forma inaspettato a fine stagione o per preparare al meglio la transizione verso i grandi impegni del prossimo anno, tra questi ci sono il favorito Tim Wellens della Lotto Soudal e anche Julian Alaphilippe della Quick Step. Altri ancora sono qui a caccia di qualche punto per scalare la classifica WorldTour ma soprattutto per mettersi in evidenza e confermare o trovare un contratto per il prossimo anno. Altri invece sono più semplicemente e genuinamente motivati dalla prospettiva di visitare la Cina per la prima volta nella vita. Per la maggior parte dei corridori, in ogni caso, si tratta di un impegno contrattuale da onorare, più che di un obiettivo sportivo programmato. E chi può biasimarli, questi ragazzi? Sono stanchi. Alcuni di loro hanno iniziato la loro stagione a gennaio correndo in Australia, si tratta di un anno quasi intero di vita lontano da casa e di viaggi che a questo punto della stagione, pesano come non mai.

Una combinazione di motivazioni e di aspettative inconciliabili tra loro non hanno reso particolarmente dinamiche e interessanti le prime tre tappe, complice di questo anche il profilo altimetrico praticamente piatto e poco interessante del percorso. Anche oggi non appena la fuga di giornata prende il largo, i corridori dietro mordono i freni e tengono i fuggitivi a bagnomaria a distanza controllata fino ai meno trenta chilometri all’arrivo. Fino all’inizio della salita finale della Nongla Scenic Area non succede praticamente nulla. Poi, incominciano i fuochi d’artificio: la salita è modesta e facile nel suo insieme, sono solo tre chilometri con una pendenza media del 6% ma si rivela decisiva per la classifica generale della gara. Tim Wellens riesce ad allungare su tutti nel finale e a qualche centinaio di metri dal traguardo ad assicurarsi la vittoria su Bauke Mollema e Nicolas Roche.

Fine stagione. Tom Wellens era in gran forma per l’edizione 2017, per altri era solo una coda di stagione. Pagina precedente, la città di Liuzhou conta quasi 4 milioni di abitanti.


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Liuzhou stage five

Un'altra città gigantesca e difficile da fotografare, la mia frustrazione aumenta di giorno in giorno e di ora in ora. Ho la sensazione di non riuscire a portare a casa nessuna foto buona. Viaggio in moto con il solito driver locale e la comunicazione tra noi è praticamente inesistente. Non riesco a fotografare niente di quello che vorrei fotografare perché non riesco mai ad essere nel posto giusto. La sua incapacità alla guida della moto mi fa preoccupare non solo per il risultato del mio lavoro, ma per la mia incolumità. Quando dobbiamo sorpassare le ammiraglie e risalire il

Ho escogitato il sistema di farmi scrivere su dei cartoncini da un collega cinese che parla inglese alcune informazioni essenziali in cinese: Vai avanti! Rallenta! Sorpassa! e Andiamo al traguardo! Mostro al mio pilota i cartoncini a secondo delle mie esigenze e tutto sembra andare un po’ meglio, adesso. Almeno in qualche modo ci intendiamo. gruppo destreggiandoci tra altre moto e tra i corridori, è panico totale. Più che preoccuparmi delle fotografie in realtà sono preoccupato di portare a casa la pelle. Cerco di farmi capire con i gesti e chiedo costantemente di rallentare e di fare più attenzione, di non prendere rischi inutili per noi e per i corridori. Sulla strada incrociamo moltissimi ponti e strutture sopraelevate che attraversano il percorso e da fotografo, studiando la mappa o guardandomi intorno, ho l’abitudine di prendere nota di queste possibilità per poter provare a realizzare qualche scatto particolare. Non ha

senso mettersi in coda al gruppo in attesa di qualche azione. È più intelligente portarsi avanti e cercare di piazzarsi in questi punti strategici con una visuale originale sul percorso. Individuo un ponte e cerco di salirci sopra. Il mio moto-man cinese si ferma all’inizio del ponte ma io voglio posizionarmi esattamente in mezzo, sopra alla strada per fotografare dall’alto. Senza un cartoncino scritto in cinese con l’esigenza specifica con cui provare a comunicare, è impossibile farmi capire. Un giudice di gara arriva a chiedere se ho bisogno di aiuto e tento di farmi assistere da lui,

prova a tradurre quello che voglio dire usando un app del telefonino. In mezzo al ponte viene tradotto dall’app come tieni a bada il cane. Quale cane? chiede moto-man, sempre più confuso. Alla fine riesco a farmi capire e raggiungiamo il centro del ponte appena prima del passaggio dei corridori, purtroppo non riesco a piazzarmi esattamente dove avrei voluto essere. Più o meno così, attraverso questo paesaggio meraviglioso, perdendo un’infinità di buone occasioni per fare belle foto e non capendoci, arriviamo fino al traguardo.


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㼂 琎 䊍 Guilin, stage six

In Cina c’è una quantità di persone in giro che è incredibile, è la cosa che ti colpisce di più. Ogni venti metri su ciascun lato della strada, sul percorso di gara, un militare o un poliziotto o un volontario con una pettorina gialla è disposto di guardia sul percorso, girato con le spalle ai corridori e impossibilitato quindi a vederli mentre transitano. Nessuno di questi guardiani sembra nemmeno interessato allo svolgimento della gara , in

effetti, o forse è solo un modo poco occidentale e molto diligente di lavorare. Ciascuno di questi uomini tiene lo sguardo ben fisso sul bordo strada e sugli spettatori, quando raramente capita che ce ne sono, in molti tratti il bordo strada è deserto. Gli occhi di questi addetti alla sicurezza scrutano ogni possibile interferenza tra la corsa e il mondo intorno. A occhio e croce, facendo due calcoli, sul percorso devono essere disposte circa 15.000 persone per ogni tappa. È davvero molto più che eccessivo, un uomo ogni venti metri per chilometro è imbarazzante. In effetti sembra che a nessuno attorno alla corsa, lungo al percorso,

interessi davvero lo svolgimento della gara e quello che fanno i corridori. A me pare che ai cinesi, più che il ciclismo, interessi vedere cosa succede di curioso. Forse, più che altro, sono interessati a capire cosa piace a noi occidentali, in fondo anche questo è un modo di conoscerci. In ogni caso ho la sensazione che – a meno che l’UCI si arrenda e smetta di collaborare con il governo – in Cina le gare di ciclismo sono destinate ad aumentare. Anche se probabilmente, ad andarle a vedere da vicino a bordo strada e a tifare come facciamo noi, non ci sarà mai nessuno. Almeno per un po’.


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Tutto il resto è noia Sulla canna della bicicletta porto le amicizie vere, quelle vecchie, solide. Vinco per me e so che è come se vincessero loro. E se sono sconfitto, sono sconfitti anche loro. Ho buona memoria. Ricordo di quando ci si andava a sedere davanti al mare, in fondo al Porto Canale, e ognuno tirava fuori i suoi sogni [MARCO PANTANI] Testo e illustrazione Stefano Dragonetti

Io me la ricordo bene Cesenatico. Ci andavo sempre al mare, d’estate, con la mia famiglia. Mi ricordo il Porto Canale, le barche storiche con le vele decorate gialle e rosse tanto belle che sembravano stendardi, nel primo tratto, e poi man mano che si usciva verso il mare la fila dei pescherecci tutti bianchi e azzurri con il nome, quasi sempre di donna, scritto sulle murate striate dalle colate rugginose, gli anelli neri delle vecchie gomme d’auto usate come parabordi, la torretta con il radar Furuno, gli argani a poppa e in coperta l’ammasso di reti, cime, catene e attrezzature varie. Mi ricordo il vecchio Mercato del Pesce, sempre in centro al paese, con il suo chiacchiericcio, il suo odore inconfondibile e il pavimento di mattonelle chiare sempre bagnate e scivolose. Mi ricordo i chioschi che

Foto Sirotti

vendevano la piadina per strada, tutti uguali, di legno verniciato a strisce bianche e azzurre, o bianche e rosse, o bianche e verdi. Mi ricordo di averla girata in lungo e in largo in bicicletta Cesenatico, quando finalmente riuscii a raggiungere la sella della bicicletta di mio padre, che era una vecchia bicicletta da uomo, color grigio ferro, con il portapacchi e il cestino per metterci la spesa, il giornale, il pesce comprato al mercato o la tanica dell’acqua riempita alla fontana, perché l’acqua che usciva dal rubinetto non era un granché per cucinare. Quando andavamo a Cesenatico mio padre la bicicletta non se la portava dietro, ma la spediva. E la bicicletta arrivava per conto suo, con il treno, e c’era questo piccolo rito in cui si andava tutti insieme alla Stazione a ritirarla,

così come si sarebbe andati ad accogliere un amico o un parente che arriva da lontano. E a me sembrava un po’ una cosa strana, un po’ magica, che la bicicletta non viaggiasse con noi ma invece per conto suo, in treno. Come se ci tenesse alla sua libertà, come se avesse una sua indipendenza. La si ritrovava poi alla Stazione di Cesenatico, sorprendentemente intatta, sempre uguale, con attaccato solo un cartellino grigio tenuto con lo spago, o una etichetta beige con l’indirizzo attaccata con una spennellata di colla sulla canna, che chissà che colla era perché non bastava certo qualche settimana di sole e mare perché l’etichetta andasse via. Poi la bicicletta se ne stava parcheggiata per tutta la vacanza, legata con un semplice lucchetto, in una rastrelliera di metallo nel cortile del condominio


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«Pantani, lo scalatore che viene dal mare, dicevano. E in qualche modo, si stupivano. A me in realtà, sembrava che uno così, uno che correva in quel modo, potesse venire proprio soltanto da quel posto lì».


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Pesca. Pantani in Adriatico, davanti al mare di Cesenatico, dopo una battuta di pesca notturna.

dove abitavamo, pronta a svolgere all’occorrenza il suo compito di mezzo di trasporto o di svago, a seconda delle occasioni. Mi ricordo che un giorno scesi in cortile e nella rastrelliera, parcheggiata a fianco alla nostra, trovai un’altra bicicletta. E fu come un’apparizione, perché era una fantastica bicicletta Bianchi da corsa. E aveva tutto quello che per un appassionato rende inconfondibile, da sempre, dai tempi di Fausto Coppi, una bicicletta Bianchi da corsa. Il telaio celeste con la scritta nera, il nastro manubrio bianco, il sellino nero, i coprileve dei freni color para come i fianchi dei tubolari. Io non solo non l’avevo mai avuta, una bicicletta da corsa, ma non c’ero nemmeno mai salito. E anche se era troppo alta per me, non ho resistito. Sfruttando l’appoggio della rastrelliera in qualche modo mi ci sono arrampicato sopra e mi sono aggrappato al manubrio, lasciando penzolare le gambe dal sellino per qualche minuto, sempre controllando che non arrivasse qualcuno, nel caso peggiore il proprietario, che potesse vedermi. Per qualche anno abbiamo preso in affitto un appartamento in uno dei condomini che si assomigliavano tutti di Zadina Pineta, una frazione un po’ fuori dal paese, verso nord, verso Cervia. La strada per andare in centro si é allungata di qualche chilometro, e c’era da percorrere un lungo tratto rettilineo che costeggiava la ferrovia e la Statale 16 Adriatica. E allora, specialmente

se dovevo rientrare per un orario prefissato ed ero in ritardo, mi mettevo a mulinare sull’unico rapporto che avevo a disposizione sino a slogarmi le anche, spostavo le mani dalle manopole in centro al manubrio d’acciaio da passeggio, puntinato di ruggine, e mi abbassavo a sgagnamanüber sino a sfiorare con il naso la scritta Schierano incisa sull’attacco. Io allora non sapevo nemmeno chi fosse, questo Domenico Schierano. Poi scoprii che era stato un corridore torinese degli anni ’20, uno che da dilettante andava forte e aveva vinto Giro del Piemonte, la Coppa del Re e la Torino-Milano, ma poi invece da professionista aveva collezionato solo piazzamenti, come i due quinti posti al Giro d'Italia nel 1920 e nel 1922. E, una volta smesso di correre, aveva aperto a Torino la sua fabbrica di manubri. Andavo a zonzo nei dintorni, con quella bicicletta. Un giorno, scorrazzando e perdendomi nelle stradine dietro la pineta, verso Cervia, sono capitato davanti a una specie di negozio, con un paio di vetrine, ma senza alcuna insegna o scritte. Dentro c’era un signore senza capelli e con gli occhiali sul naso che armeggiava su una bicicletta fissata a un cavalletto da lavoro. Un bancone con gli attrezzi da lavoro e appesi al soffitto, telai e biciclette. Quasi tutte da corsa. Non era un vero e proprio negozio, nel senso che non vendeva nulla. Né biciclette, né componenti. Le biciclette le riparava e basta. Presi a passarci di tanto in tanto, anche se

la bicicletta era a posto e in realtà non avevo niente da far sistemare. Ma ci potevo andare e stare lì a guardare mentre smontava e rimontava, a chiacchierare, a curiosare, a fare domande. La domenica invece restava chiuso. Tirava giù la sua bicicletta dal gancio a soffitto, la inforcava e si univa agli altri ciclisti della zona che si ritrovavano lì davanti alla sua officina per la sgambata mattutina sulle colline. La bicicletta era un po’ dappertutto, lì in Romagna. Biciclette da uomo, da donna, da corsa, sportive, con il manubrio a baffo rivestito col nastro come quelle da corsa. Tantissime erano biciclette Vicini. Ogni tanto con i miei genitori lasciavamo il mare e facevamo un salto nell’entroterra. Quando passavamo da Cesena si finiva sempre per andare a mangiare le tagliatelle al ragù al ristorante da Gianni, che credo abbia chiuso i battenti qualche anno fa, e prima o dopo io finivo immancabilmente con il naso incollato alle vetrine del negozio di Mario Vicini, da dove provenivano tutte quelle biciclette che vedevo in giro. Mario Vicini prima di mettersi a costruire biciclette era stato un corridore di razza negli anni ’40/50. Classe 1913, pioniere e bandiera del ciclismo romagnolo, fu secondo al Tour de France nel 1937, da esordiente e indipendente, cioè senza squadra, poi Campione Italiano su strada e terzo al Giro d’Italia nel 1939, vincitore di tre tappe al Giro d’Italia, di un Giro del Lazio e di un Giro di Toscana, oltre


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storie

a un’infinità di piazzamenti. Era uno di quelli che non mollano mai, che non smettono mai di pedalare, Mario Vicini. Continuò a correre sino a laurearsi Campione del Mondo dei Veterani in Austria nel 1973. A Cesena c’era anche un’altro negozio da cui passavo volentieri a dare una sbirciata. Era quello di Guido Neri, onesto corridore degli anni ’60/’70 con la maglia di Molteni, Max Meyer e Scic e vincitore di un Laigueglia, unica corsa vinta in carriera, nel 1966. Mi ricordo che un pomeriggio stavo pedalando con la solita bicicletta sul lungomare a Cesenatico. Ero poco distante dal grattacielo, diretto verso il Porto Canale. E mi ha superato un ragazzino, di qualche anno più grande. Ma lui era un corridore, con una bicicletta da corsa bianca, e addirittura la divisa della nazionale italiana. Che allora era semplicissima, maglia azzurra e i pantaloncini neri. Mi ricordo che i pantaloncini si erano scuciti su un lato, restavano un po’ aperti e lasciavano vedere una parte della coscia. Mi ricordo quel dettaglio lì. Non so chi fosse, né se quella divisa fosse davvero la sua, o se invece l’avesse comprata o recuperata o ereditata da qualcuno. Comunque io mi sono messo a ruota, con la mia bicicletta con i parafanghi, le luci, la dinamo, il cestino per la spesa, il carter chiuso e senza il cambio. Mi sono abbassato il più possibile e mi sono messo a frullare sui pedali per non perderla, quella ruota. Impossibile che

non se ne sia accorto, con il frastuono che faceva la mia bicicletta. Ma non si è voltato, ha fatto finta di nulla, forse avrà sorriso dentro di sé. Né ha provato a staccarmi. Tanto, prima o poi mi sarei staccato comunque da solo. Mi sono voltato a guardare il nostro buffo trenino passare riflesso nelle vetrine di una gelateria. E in un attimo mi sono ritrovato al Porto Canale, con la lingua fuori. Poi, per un pezzo, a Cesenatico, non ci sono andato più. Ci sono tornato solo dopo parecchi anni, quasi venti. Una sera d’inverno mi sono trovato da quelle parti, e ci sono andato a fare due passi. E sono finito a mangiare in un ristorante vicino al Mercato del Pesce. Mi sembrava in fondo che fosse rimasto tutto uguale, tutto come una volta. Solo ogni cosa mi sembrava più piccola, più raccolta, ogni distanza più vicina. Io ero solo e non c’era in giro quasi nessuno. Dopo cena ho continuato a passeggiare lungo il molo, fino in fondo, fino al mare. Negli anni in cui io non ero più stato lì, proprio da lì, da quell’angolo di Romagna, era arrivato Marco Pantani. E se n’era anche già andato, velocemente. Ma non senza che quel suo passaggio velocissimo ci abbia impedito di innamorarcene. Lo scalatore che viene dal mare, dicevano. E in qualche modo, si stupivano. A me, in realtà, sembrava che uno così, uno che correva in quel modo, potesse venire proprio solo da quel posto lì. A tutti noi che ce ne siamo innamorati,

Marco manca ancora. Ci manca sempre. Ci manca come tutti quelli che se ne sono andati troppo presto. O troppo in fretta. Senza che ci sia stato il tempo di abbracciarsi. Di salutarsi. Di capire. Di pensare. Ci mancano le sue sparate, i suoi affondi in salita, in piedi sui pedali, le mani basse sul manubrio, come un velocista, come un pistard. Ci manca quella macchia gialla che risale impazzita la montagna danzando lungo la striscia grigia dell’asfalto, con il gruppo sgretolato che scivola inesorabilmente indietro. Ci manca quell’omino con la testa rasata che pedala con il cuore in gola. E noi con lui. Ci mancano le sue imprese. Montecampione, il Mortirolo, Oropa, il Galibier, il Plateau de Beille, l’Alpe d’Huez, Courchevel. Ci mancano gli aneddoti su di lui. Ci mancano i suoi gesti. I pantaloncini senza fondello, le bandane colorate, il brillantino al naso lanciato via sulla salita. Ci manca quella bicicletta d’alluminio gialla e celeste, con la scritta Bianchi in blu. Eh già, ancora la Bianchi. Ci mancano le ruote Shamal d’alluminio che sparpagliavano lame di luce nel cielo, quegli assurdi tubolari gialli da diciotto millimetri e l’impossibile cassetta pignoni con la scala che finiva col ventuno. Insomma, ci manca un po’ tutto. Perché come diceva una canzone, senza di lui, tutto il resto è noia.


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sfide

bikepacker di prossimità

Testo e foto Eric Scaggiante

Primo giorno

Mi sveglio, faccio colazione, sistemo le ultime cose e anche se fuori fa fresco e c’è la nebbia indosso i pantaloncini corti e parto da casa, a Fornase city(1). Dopo due ore e mezza di noia padana finalmente sono ai piedi del primo sentiero. Come previsto sono circa 8 chilometri e 1000 metri di dislivello dove non c’è altro da fare che spingere, di gambe e braccia, la bici lungo il ripido e tortuoso track da enduro. In cima finalmente monto in sella e pedalo un po’ su sterrato e un po’ su asfalto fino ad entrare nel bosco attraverso una strada forestale. Il fondo, sdrucciolevole e pietroso non è un problema per la mia bici. I pneumatici da 27.5 per 2.2, gonfiati a 1.5 bar, vanno che è una meraviglia. Il sentiero da sterrato diventa innevato appena mi sposto sul versante nord, ma anche su ghiaccio e neve per ora si riesce ad andare avanti.

Sentieri innevati

Dopo la prima strada forestale vado a prenderne una seconda che mi porta a toccare quota 1.500 metri. Qui mi imbatto nella prima insidia che sarà una costante dei chilometri successivi: la neve. Una neve brutta, ghiacciata e cedevole, tanto che quando ti pianti e molli la bici, rimane ferma come il marmo, perfetta per essere fotografata. Comincia la mia vera avventura: scendo per una piccola gola, riesco a stare in sella con un piede sganciato ma poco dopo la consistenza della neve cambia e sono costretto a spingere. Affondo nella neve fino a metà stinco ma non soffro il freddo ai piedi. Le scarpe che ho, anche se sono prive

di imbottitura, sono sufficientemente impermeabili. Di tanto in tanto trovo le tracce lasciate dal battistrada di qualche veicolo fuoristrada, lungo quelle strisce non c’è neve ma ghiaccio, così in discesa tengo un piede libero e senza sedermi in sella uso lo uso come freno-spazzaneve, piantandolo nella neve al lato del solco ghiacciato. In base alle curve, a destra o sinistra, sgancio un piede oppure l’altro per curvare e frenare. Pinzare, soprattutto il freno anteriore, è fuori discussione. Il tutto mi diverte, ma puntualmente dopo poca discesa devo spingere.

Le vittime della tempesta

La strada forestale cambia versante, la neve non c’è più e ritorno a pedalare, ma dopo un paio di chilometri trovo le vittime della tempesta dello scorso anno. Conto ventotto abeti caduti di traverso sulla strada che devo scavalcare. Alcuni riesco a passarli facilmente, mi infilo attraverso i rami o li aggiro a monte della strada. Man mano che procedo la devastazione aumenta. Mi fermo a guardare il mio ostacolo e lo studio. Questa volta è più insidioso, sono due abeti aggrovigliati e folti, impossibile passarci sotto, così decido di sollevare il mio destriero sopra le chiome. Faccio attenzione a non danneggiare nulla della bici e dell’equipaggiamento, poi mi arrampico sopra le chiome in cerca di un buon appoggio sui rami più solidi, quindi sollevo la bici e la calo dall’altra parte. A questo punto la faccenda si fa ancora più interessante. Sembra un videogioco Arcade, uno di quelli che più vai avanti più ti devi sbizzarrire per arrivare


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al livello successivo. Sotto intravedo un varco e provo a rompere un paio di rami per farmi spazio, alla mia sinistra, a valle, ho uno strapiombo con un fitta vegetazione e altre devastazioni della tempesta, a monte ho una parete di terra e roccia inclinata a 50°. Sono le tre del pomeriggio e vista la situazione è meglio fermarsi per uno spuntino. Tiro fuori il vasetto del miele di fiori, granuloso e giallo come il grasso e ne mangio qualche cucchiaiata, mangio una banana e bevo un po’ d’acqua. Intanto mi giunge qualche folata di vento che si porta dietro le nuvole. Finito il breve pasto ritorno al mio rompicapo. Tornare indietro è fuori discussione, una via d’uscita c’è sicuramente. Allora lascio sul sentiero lo zaino, così da essere più agile, prendo la bici carica di tutte le borse e comincio ad inerpicarmi su per il ripido versante, cercando delle rocce stabili dove puntare i piedi mentre con le braccia tese sostengo la bici. Alcuni esili alberelli mi permettono di incastrare la bici con la piega su di loro, quindi guadagno il pendio a piccoli passi in cerca di un appoggio stabile e poi spingo la bici più su. Dopo dieci metri quasi verticali la pendenza si fa più lieve, deposito la bici a ridosso di un abete bello grosso e ritorno giù da dove sono salito, riprendo lo zaino e risalgo. Percorro diversi metri nel bosco per poi tornare sul sentiero che si rifà nevoso e sempre interrotto da grosse conifere. Penso a quanto la natura possa essere forte per far crescere quei tronchi più solidi del cemento e poi buttarli giù come stuzzicadenti. Tra neve e ghiaccio ricomincio la mia sciata,

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per poi tornare a sprofondare in salita. In quel momento comincia a cadere una pioggia ghiacciata, indosso il mio guscio colere giallo banana e continuo. Finalmente mi godo qualche chilometro pedalando in sella, la bici va alla grande e anche le mie gambe stanno bene, sono sorpreso da come mi trovo bene con questa che è praticamente una bici da corsa a pedalare su ogni fondo. All’improvviso, a pochi metri da me, un grosso cervo salta giù da una roccia di due metri d’altezza e piomba nel dirupo. È decisamente casa sua, questa. Mi imbatto nella prima insidia: la neve. Una neve brutta, ghiacciata e cedevole

La notte in tenda

Scendo fino alla strada che porta ad Asiago che mi separa dalla salita che si inerpica fino al piazzale Principe del Piemonte. Mentre salgo il clima si fa più insidioso, vento e ghiaccio misto ad acqua diventano, pedalata dopo pedalata, più intensi e così quando arrivo in cima alla salita, davanti ad un piccolo eremo attorniato da un prato, decido di piantare la tenda. Manca un quarto d’ora alle sette, subito fisso tutto con i picchetti, il vento soffia forte, metto in forma gli archi della tenda, li aggancio al primo telo e poi al telo esterno. La casa ora c’è, adesso va arredata. Sgancio le borse e le porto in tenda, prima la sacca impermeabile con sacco a pelo e tutte le cose che non si devono bagnare, poi prendo dalla borsa posteriore, dove invece ho messo tutte le cose non temono l’acqua e il materassino. Mi fiondo fradicio nella tenda, gonfio il materassino e comincio a spogliarmi e a


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Basta partire, l’avventura è ovunque e sta a noi cercarla. Non c’è bisogno di volare dall’altra parte del pianeta per viverla, grande o piccola che sia. mettermi indosso indumenti asciutti. Con mosse da contorsionista esperto apro il sacco a pelo e mi ci fiondo dentro. Nella tenda, a sinistra ci sono io, a destra le cose asciutte e quelle fradice, speriamo che per domani asciughino. Con tutta l’acqua, l’erba, la terra e i rami di abete che mi sono portato dentro la tenda ho pure un piccolo giardino con laghetto che sarebbe meglio non avere. Avverto la mia famiglia che sono ancora vivo e mi preparo la cena: una barretta al cioccolato e del miele, stop. Vado a dormire. Tempesta fino a mezzanotte circa. Durante la notte avverto i passi di qualche animale fuori dalla tenda, sento l’erba brucata e masticata, forse è il cervo del pomeriggio o forse qualche altra bestia.

meravigliato di come riesco a condurre in discesa la mia bici, nonostante le asperità e i chili in più. Le ruote 27.5 ancora una volta si rivelano davvero l’arma migliore per assorbimento delle asperità e sicurezza anche con tutte le borse annesse. A valle decido di godermi un po’ di sole in pianura. Ad un passo sostenuto, andando poco meno di 30 km/h, trascorro sei ore in sella tra bitume e sterrati pedalando fluidamente nonostante i grossi copertoni. Ritorno a Spinea, continuo fino a Portegrandi per poi fare dietro front e rincasare felice. Che grande avventura, proprio qui dietro casa. Il clima si fa più severo, vento e ghiaccio misto ad acqua diventano, pedalata dopo pedalata, più intensi.

Secondo giorno

Materiale

Sono le 7, ho dormito bene, fuori è tutto ghiacciato. Dopo un’ora esco dalla mia tana e indosso i pantaloni impermeabili che tengono caldo, le scarpe sono croccanti dal gelo così le calzo senza calzini e vado ad appendere su dei rami alcune delle cose ancora umide che non sono asciugate. Mi metto il mio caro guscio giallo banana e comincio a riordinare i materiali. La tenda è coperta da un velo di brina e i lacci delle scarpe sono come filo di ferro. Sistemo tutto e riesco a rivestirmi con i vestiti del giorno prima, compresa la canottiera in lana merino che avevo sotto il jersey. La pioggia della nottata ha ricoperto tutti i sentieri di una lastra trasparente ed uniforme di ghiaccio scivolosissimo, così decido di scendere a valle per un altro sentiero. Resto

Ho voluto pormi una sfida particolare: trascorrere due giorni senza comprare cibo e rabbocco d’acqua. E ci sono riuscito alla perfezione. Ho portato come me: cinque barrette, 250 grammi di miele e due banane. Sono sopravvissuto benissimo. In aggiunta alle ormai testate e fidate borse da backpacking Miss Grape questa volta ho introdotto uno zainetto in cui avevo: una sacca idrica da 3 litri che si aggiungevano ai 75 cl della borraccia, più le cose da mangiare, oltre che olio, camera d’aria in lattice e qualche attrezzo per le peggiori evenienze. Lo zaino nonostante il peso di circa 5 chili sulle spalle è stato molto confortevole oltre che utile (uno zainetto da enduro con chiusura sul petto). (1) Fornase è un quartiere del comune di Spinea in provincia di Venezia.


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A rincorrere il sole. chase the sun Testo e foto Carlo Brena

Dall’Adriatico al Tirreno, in giornata. Prima che il sole tramonti. Una sfida di 272 chilometri e l’idea che in fondo, era esattamente quello che cercavamo.

Un po’ moderni Icaro pronti a volare verso il sole e un po’ guerrieri d’acciaio e carbonio che rincorreranno un sogno. Ci sentiamo così mentre alle quattro della mattina, con il cielo ancora buio e le ultime stelle che si stanno spegnendo, usciamo dall’albergo per iniziare una giornata che definire lunga sembra poco. L’atmosfera è di quelle da frivola eccitazione: sai che stai entrando in una cosa grande, dove non avrai picchi di emozione, perché ogni secondo che vivrai sarà ciò che aspettavi da tempo. Esattamente da 63 giorni, tanti quanti ne sono passati dal giorno in cui Paolo, l’organizzatore, ti ha mandato una mail con su scritto: Hei Carlo, ti abbiamo iscritto alla Enervit Chase the Sun. Ci vediamo. A presto! Per scrupolo ritorno sul sito a rivedere per l’ennesima volta il tracciato, una linea rossa orizzontale che taglia in due l’Italia, un tratto di penna che inizia a Cesenatico e finisce a Tirrenia, un solco di 272 chilometri e 3.300 metri da superare tutti in questa giornata che, per inciso, è il 23 giugno, ovvero due giorni dopo il solstizio d’estate. Già, il solstizio, il primo giorno d’estate, la giornata di luce più lunga dell’anno. E in queste ore della notte, qui a fianco del porto di Cesenatico, anche i rumori hanno un suono particolare, sembrano attutiti, quasi ammortizzati, come se anche loro stessero ancora dormendo come quelli dietro alle tapparelle abbassate e alle persiane chiuse. Io e Antonio ci mettiamo in coda al gruppo di 180 partecipanti a questa cosa che va sotto il nome Chase the Sun e i cui confini, nella nostra mente, si devono ancora definire. Alle 5 del mattino, mentre l’alba prende a spallate la notte, Paolo abbassa con un gesto solenne il braccio teso verso il cielo, dando così il via alla seconda edizione di questo evento che - non smette mai di ripeterlo - It’s a ride, not a race. Lo dice in inglese non tanto perché sia più figo, ma perché quello che stiamo vivendo adesso è la versione italiana di Chase the Sun, la corsa da Burnham a Minster, nel sud dell’Inghilterra, di circa 200 miglia. Nessuna classifica ci aspetta dall’altra parte dell’Italia, solo un berrettino con sopra scritto Finisher, e tanto ci basta. Il gruppo esce ordinatamente da Cesenatico, sono chilometri piatti, calmi, con la campagna che


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271 chilometri dall’Adriatico al Tirreno, 271 chilometri e 3300 metri di dislivello, la data di quest’anno è il 22 giugno 2019. ancora riposa. In fondo al campo il rumore di un trattore e la nuvola di polvere che solleva dalla terra. Più avanti una signora alza la saracinesca del suo bar. Un ragazzo si ferma sull’orlo del marciapiede e ci vede scorrere via. Man mano che pedaliamo il gruppo si assottiglia e hai voglia a dire It’s a ride, not a race, perché davanti menano da paura, e in fondo lo sapevamo: all’uomo a cavallo di una bici è difficile impedire di guerreggiare. Noi, invece, che facciamo del peace & love il nostro motto, pedaliamo lentamente e quando è il caso appoggiamo la bici al muretto per un selfie da mandare a chi a casa tra poco si sveglierà. Dopo un paio di ore di pedalate sfioriamo un castello sulla sinistra, lo riconosco, è la Rocca di Meldola, e so che qui la strada svolta a destra: per la prima volta nella giornata aziono il deragliatore davanti. Si passa alla moltiplica da salita. In una decina di chilometri con muri impegnativi, corti ma cattivi, la strada ci porta a Predappio. Mi ritrovo a pedalare con un paio di ragazze inglesi, faccio il cicerone ricordando che cosa rappresenta questo paesino per la storia italiana del secolo scorso e in attesa di avviare un confronto storico culturale la piccola londinese mi racconta di aver scoperto per caso l’esistenza di Chase the Sun, e quando ha capito che il percorso l’avrebbe portata in Toscana, non ha resistito e ha contagiato anche l’amica. Forse devo migliorare il mio inglese, con discrezione allungo sul viale alberato. La discesa ce la godiamo: entriamo nel Parco delle Foreste Casentinesi. Sono muri di ossigeno per le


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Estate Chase the Sun si disputa il primo giorno d’estate.

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nostre gambe e il paese di Premilcuore, il cui nome mi commuove sempre, ci dice che mancano 200 chilometri al Mar Tirreno. Prima però ci aspetta il Valico Tre Faggi: sono quindici chilometri che salgono lentamente, costanti, senza strappi al motore. E quel gran genio del mio amico, l’Antonio, il cacciavite lo ha lasciato a casa, ma non ha dimenticato il cellulare che usa magistralmente per foto, selfie, scatti e pure video. Enervit Chase the Sun è un percorso da scoprire, e non solo stradale. Alle nostre spalle lasciamo la terra del Sangiovese e la salita ai Tre Faggi è lenta ma mai svogliata, è delicata ma mai banale, è un’ultima spinta sulla cima dove si apre la finestra del Chianti. È l’incontro di due vini, due culture, due terre, oserei persino dire di due razze. Dai veloci, giù in discesa che ci aspetta il Bar Cavallino. È il primo checkpoint. Fame da mezzodì. Un timbro sul tesserino a cui segue un panino con la finocchiona da mangiare sulle sedie scolorite con il gomito appoggiato sul tavolino Algida. Ci sarebbe stata anche una birretta, ma siamo solo al chilometro 94: fai il bravo Brena mi dico. Rientro per bere un caffè: il bar non ha mai fatturato cosi tanto come oggi, è un vero assalto al bancone. Fuori ciclisti che partono, ciclisti che arrivano. L’ultimo sorso alla tazzina e via verso Rufina, Pontassieve e Bagno a Ripoli. Il traffico aumenta, e poco dopo pedaliamo a fianco dell’Arno: Firenze è davanti a noi. Ride significa pedalata solitaria da fare in gruppo: l’unico che conosci della partita sei tu, gli altri li incontri durante il viaggio. Sono gruppi che si formano in modo naturale, un po’ come il movimento sincrono di certi fenomeni in fisica. Così io e Antonio ci ritroviamo a pedalare con Luca, Giovanni e Gianluca. Resteremo insieme fino a Tirrenia, aspettandoci in cima alle salite, rallentando nelle discese. Come amici di vecchia data, alla stregua di affiliati a una confraternita dalle regole non scritte. Sul pavé fiorentino resistiamo alla tentazione di attraversare il Ponte Vecchio. Cinesi, russi, giapponesi, sudamericani, francesi, un muro di turisti da tutto il pianeta. Alcuni ci guardano senza proferir parola, altri impugnano un bastone teleferico che produce autoscatti a manetta. Un signore


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dall’accento veneto che indossa un consunto cappello di paglia mi chiede cosa stiamo facendo: No’ si va' a il mare. Da lontano ci segue con lo sguardo lungo il Parco delle Cascine: chissà forse anche lui vorrebbe venire con noi. La Toscana è una cartolina ambulante, il sole adesso è esattamente a mezzogiorno, nel punto più alto della sua traiettoria. Sudiamo, beviamo, mangiamo, abbassiamo le zip delle magliette. La media è intorno ai 22 km/h, ma i calcoli qui contano poco. La salita di Carmignano sentenzia una certa sofferenza alle gambe e il consueto dolore alla schiena, che negli anni è diventato un mio amico. Quando arriviamo al Pinone, un ristorante dove le tagliatelle al cinghiale valgono il viaggio, faccio il timbro del terzo punto di controllo. Rinuncio al piatto che ha reso nota la locanda, e propendo per una piadina dalla forma rotonda: mai mangiato un sandwich così buono! In cinque ripartiamo per gli ultimi 100 chilometri, ovviamente i più difficili. I boschi intorno a noi sono ricchi di olmi e platani, dalla vista di Cerreto Guidi i cipressi disegnano i profili delle colline sullo sfondo. Antonio li fotografa tutti, o quasi. È una tappa di avvicinamento al vero moloch della Chase the Sun: il Monte Serra. Un valico di 640 metri di quota che ognuno di noi cinque conquista in solitudine, lasciando sull’asfalto pensieri e sudore. Nessuno raccoglierà i primi, il sole si prenderà le gocce della nostra fatica. In cima un ristorante rastrella uno ad uno il quintetto. Qualcuno tenta il conteggio delle lattine di Coca consumate fino lì: serve un pallottoliere. Iniziamo la discesa ma al primo tornante uno stop generale: il mare è là in fondo, sembra di toccarlo con un dito, ma chi di noi pensa ormai è fatta


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Ride significa pedalata solitaria da fare in gruppo: l’unico che conosci della partita sei tu, gli altri li incontri durante il viaggio.

Info blog.turbolento.net

commette un grosso errore. Sono gli ultimi 40 chilometri, dieci di discesa e trenta di pianura controvento. Una sofferenza interrotta solo dal transito in piazza dei Miracoli: Pisa non tradisce mai. E qui tentiamo la versione ciclistica di Amici Miei: pedaliamo in mezzo a turisti di ogni specie in posa fotografica con la classica posizione delle braccia e mani protese a sorreggere la torre, e noi a dare high five sui loro palmi aperti. E via a scappare. Pedaliamo a fianco dell’acquedotto mediceo (funzionante fino alla Seconda Guerra Mondiale) e sentiamo profumo di mare: le nostre dieci gambe sembrano andare ancora più forte. Io a dir la verità avrei un crampo, ma faccio finta di niente. Gli ultimi chilometri sono tra le pinete di Tirrenia e le case di villeggianti in Versilia. Sbuchiamo sul litorale e sul display leggo esattamente 272 chilometri, come una promessa mantenuta. Quattordici ore e qualche minuto, stop. Il sole è lì che guarda noi che ci abbracciamo, e poi ci osserva mentre ci tuffiamo in mare, con i nostri pantaloncini da ciclisti, le nostre gambe stanche, i nostri sorrisi e le strette di mano che ne seguono. Le urla di gioia in attesa del tramonto, quelle è difficile descriverle.


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libri

Le biciclette ispirano

Testo Davide Marta

CHE SIA UN ROMANZO, UN MANUALE O UN'ANTOLOGIA DI RACCONTI, IL CICLISMO È DA SEMPRE LO SPORT PIÙ AMATO DA CHI SCRIVE

Magnifici perdenti CICLISMO E ALIENAZIONE

Difficile scrivere un romanzo ambientato nel mondo del ciclismo professionistico ed uscire dai cliché del ciclismo professionistico. Ma se hai un nome così, ti chiami Joe Mungo Reed e hai un master in filosofia e politica all’università di Edimburgo e magari decidi di scrivere il tuo primo romanzo proprio sul ciclismo, potresti anche riuscirci. A noi che piace la bici affascina senz’altro uno dei due piani della narrazione in cui Sol (Solomon, tutti i personaggi sono chiamati con il nome di battesimo), il protagonista e voce narrante, racconta il suo lavoro, quello di ciclista professionista di buon livello, che gareggia al Tour de France come ultimo gregario sulle salite del suo capitano Fabrice, scalatore e aspirante al podio nella classifica generale. Sono belli i dialoghi, il retroscena e l’intimità dei corridori in gara, tra una tappa e l’altra, negli alberghi, la mattina quando si preparano per la partenza. Le loro abitudini, le solitudini, le riflessioni, il rapporto con il management della squadra. È affascinante quanto desolante la consapevolezza di Sol del proprio ruolo, che non viena mai messo in discussione: non sembra mai nemmeno contemplare la possibilità di ritagliarsi uno spazio da protagonista nella corsa. E poi c’è quella quotidianità

in cui la bicicletta è sempre presente, per allenarsi, semplicemente per andare a lavorare, come dice lui. Ma sarebbe troppo poco limitarsi a questi dettagli, che però sono tra i meglio riusciti da parte dell’autore. La trama si sviluppa su un secondo piano, alternato ai racconti di gara e allenamento: la vita privata di Sol e la sua famiglia. Emerge così un altro personaggio forte che è quello di Liz, la moglie di Sol, una genetista che si occupa di ricerca in laboratorio. Viene messo in scena un sorprendente incontro di due bolle tanto simili, quanto distanti, che quasi per caso si fondono in una sola alienazione sociale. Nessuno dei due si sforza minimamente di spiegare ad amici e conoscenti il proprio lavoro, tanto particolare e tanto strano. Loro sono standardizzati in vite molto più normali, orari normali, weekend liberi, non potrebbero capire. Forse è anche per questo che i due riescono ad integrarsi, a costruire una famiglia e mettere al mondo un figlio. In sostanza: il libro è scritto bene, la traduttrice Daniela Guglielmino ha fatto un ottimo lavoro. Per un ciclista risulterà coinvolgente, a tratti anche emozionate. Per un non ciclista, che di conseguenza non saprà cogliere tutto ciò che ho evidenziato sopra, forse la trama potrebbe risultare più debole, finendo con il perdere forza.


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Bike da te

IL SACRO FURORE DEL RESTAURO Sfido chiunque ami la bicicletta a sfogliare questo libro e dopo mezz’ora non essere colto dal sacro furore di correre dal primo rigattiere, comprare un catorcio di bici arruginita e desiderare con tutto se stesso di volerla ristrutturare. Con le proprie mani. 176 pagine di foto, consigli e trucchi per mettere a nuovo una vecchia bici. Leggetelo, è davvero ben fatto, ma state attenti ai danni che potrete fare subito dopo. Ah, è scritto da una donna. Si chiama Jenni Gwiazdowski.

In fuga

LIBRO CUORE È un bel libro. Davide Da Zan scrive bene, è uno che il ciclismo l’ha vissuto e lo vive in prima linea. È un figlio d’arte, è uno di quei giornalisti che sanno fare bene questo mestiere. Il libro è coinvolgente, tratteggia il rapporto con i grandi campioni che Davide ha incontrato sulle strade dei grandi giri. Ne escono aneddoti succosi, divertenti, emozionanti. Ma c’è una domanda che mi sono posto dopo averlo letto tutto: ma porcozio, sarà possibile che di oguno di questi big ne parli come fosse il suo migliore amico di tutta la vita? È l’unica critica che mi sento di muovere. Per il resto un bel taglio giornalistico, va via come leggere la Gazzetta.

.1 Bike da te di Jenni Gwiazdowski Logos, 2018 176 pagine, 16,50 €

.2 In fuga. di Davide De Zan Piemme, 2019 212 pagine, 18,50 €

.3 Magnifici perdenti di Joe Mungo Reed Bollati Boringhieri, 2019 248 pagine, 17,50 €


direttore DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it PRIM AV ER A — STR A DE BI A NCHE — S A NREMO — LUC A DI M AGGIO — PATAGONI A — CIME DI L AVA REDO

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via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it - mulatero@mulatero.it

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in edicola dal 15 aprile 2019

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RIVISTA BIMESTRALE

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Redazione Andrea Chiericato, Gabriele Pezzaglia, Claudio Primavesi Amministrazione Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it

Se siete fotografi e volete collaborare vale lo stesso sistema: fate una selezione di immagini, mettetele in una cartella e condividetele con noi attraverso Dropbox o inviatecele con Wetransfer. Non mandate centinaia di fotografie, fate una selezione, il lavoro di fotografo è anche questo. Non mettete watermark sulle foto. L’indirizzo a cui dovete scrivere è quello del Direttore Editoriale, cercatelo nel colophon.

Segretaria di Amministrazione Elena Volpe elena.volpe@Mulatero.it Logistica E Magazzino Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it Progetto grafico e Impaginazione tundra visit@tundrastudio.it Disegno di Copertina Luca Di Maggio Illustrazioni irene e irene ireneirene.carbonefrigo@gmail.com Hanno scritto su questo numero: Alessandro Autieri, Gabriele Gargantini, Davide Marta, Federico Ravassard, Romina Venier, Francesco D’Alessio e Giorgio Frattale, Alan Marangoni, Kåre Dehlie Thorstad, Stefano Dragonetti, Eric Scaggiante, Carlo Brena. Hanno fotografato su questo numero: Bettini Photo, Paolo Ciaberta, Giuseppe Ghedina, Kåre Dehlie Thorstad, Emilio Previtali, Sirotti Foto, Federico Ravassard, Tornanti.cc [Francesco Rachello, Eloise Mavian], Montanus [Francesco D’Alessio e Giorgio Frattale], Eric Scaggiante, Carlo Brena.

distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921 stampa STARPRINT srl - Bergamo

Autorizzazione del tribunale di Ivrea n. 1 del 27/06/2018 (Ruolo generale 1904). La Mulatero Editore è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.

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YOU, YOUR BIKE, YOUR ADLER

DOLOMITI

RENON

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TOSCANA


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ultimo chilometro

Benessere Ho un amico che lavora in Canyon a Coblenza, è una delle più grandi aziende del mondo che produce biciclette sportive. Hanno un modello di business rivoluzionario e la vendita delle loro biciclette avviene soltanto on-line. Ogni giorno il mio amico si fa 17 chilometri di ciclabile per andare a lavorare e altrettanti per ritornare a casa, tutti i giorni anche se piove o nevica, sempre. Non possiede un’automobile. Una volta gli ho chiesto se non era scomodo andare a lavorare tutti i santi giorni in bici e lui mi ha risposto che era una figata. «In fondo è un'ora di bicicletta tutti i giorni, c'è gente che se li deve fare in auto restando in coda». «E se un giorno per caso sei un po' malato?». «Ci vado con i mezzi pubblici». «Ma non è scomodo?». «Certo, infatti preferisco la bici». Gli avevo fatto una domanda che un secondo dopo averla posta mi ero reso conto che era una domanda idiota: gli avevo chiesto se per caso la sua azienda o lo Stato o qualcuno (non avevo idea chi, esattamente) gli dava un incentivo per andare a lavorare in bicicletta invece che in auto. Lì lui mi aveva guardato veramente come un poveraccio. Come un idiota. Come uno che non capisce. Come un italiano, come gli stranieri pensano agli italiani, gente che si aspetta sempre che per fare una cosa serva un’Olimpiade o un incentivo della Comunità Europea o dello Stato o delle Regioni, o di chissà chi. «L'incentivo è che dove vivo io ci sono delle ciclabili bellissime e vado in bicicletta tutti i giorni e intorno a me ci sono tante altre persone e famiglie che non usano l’auto e fanno come me. E si sta bene». Lì, io - che ho l'idea di me stesso di uno abbastanza moderno su certi temi - mi ero reso conto di quanto invece sono e siamo ancora indietro, di quanto anche quando ci crediamo progressisti e moderni siamo distanti anni luce dalla mentalità che serve per cambiare certe cose che in questo Paese ci tiriamo dietro da secoli. «Nella mia azienda, quando uno arriva al lavoro al mattino in bicicletta, ci sono degli spazi per sciacquare la bici, casomai si sia sporcata di fango pedalando sulla ciclabile. Poi ci sono degli spogliatoi dove se vuoi puoi lasciare la tua roba ad asciugare e le docce, se vuoi farti una doccia prima di andare in ufficio. Nella pausa pranzo puoi uscire ad allenarti. Gli incentivi sono il miglioramento della qualità della vita - mi aveva detto il mo amico - e bisogna darli alle aziende che lavorano in un certo modo, non ai privati cittadini». Lì ho capito che aveva ragione. Se noi vogliamo che il mondo cambi intorno a noi non bisogna sperare genericamente che questo cambiamento lo faccia lo Stato o la legge erogando dei contributi o degli incentivi ai privati; bisogna cambiare le aziende dove andiamo a lavorare. In fondo è lì che si produce la ricchezza e che spendiamo la maggior parte del nostro tempo. E poi il resto, cambierà di conseguenza.


PETER SAGAN, TEAM BORA - hansgrohe

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BOMBER SUIT 111 DALLE MANI SARTORIALI CHE DISEGNANO LE LINEE DEL BODY, ALLE MANI ALZATE AL CIELO DEL CAMPIONE CHE LO INDOSSA SUL TRAGUARDO. ECCO BOMBER SUIT. Una nuova idea di suit per i migliori atleti che puntano alla massima performance. I dettagli tecnici danno nuova vita al nostro miglior body.



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