Araba Fenice Marco Bagnoli Il lavoro di Marco Bagnoli (Empoli, 1949) si concentra sul rapporto fra arte, scienza e spiritualità, declinandosi ora in complesse installazioni ambientali, ora in azioni simboliche, sempre coniugando l’uso di molteplici mezzi espressivi, come disegno, pittura, stampa o scultura. Rimandi alle tensioni energetiche degli elementi così come a evocazioni magiche, costituiscono il nucleo di un’opera linguisticamente variegata, ma sempre tesa a sondare il rapporto tra una conoscenza razionale della realtà e una più propriamente immaginifica. La poetica di Bagnoli infatti mescola costantemente forme e materiali singolari, dando vita ad un sincretismo eccentrico che trae nutrimento da
elementi disparati come simbologie orientali, miti greci, filosofia occidentale, scienza sacra ed epistemologia contemporanea. L’artista adotta un lessico nel quale ricorrono schemi e formule, parte di una specifica mitologia personale. Ne è un esempio Araba Fenice (2013), l’opera collocata al centro del chiostro dell’antico Spedale delle Leopoldine, una struttura essenziale, una sorta di ‘mongolfiera’ formata da raggi metallici che si originano da un piedistallo su cui è ritagliato il profilo dell’uccello mitologico che dà il titolo all’opera. La stessa forma della scultura, con il suo alternarsi di vuoti e fragili pieni, genera un contrappunto
plastico e contemporaneamente un richiamo al colonnato del chiostro. La mongolfiera, figura ricorrente e cara a Bagnoli, costituisce una sorta di “autoritratto spirituale”, un simbolo del viaggio di elevazione dell’artista che abbandona la materia muovendosi verso l’alto, al fine di compiere un’esperienza di purificazione interiore. Il richiamo all’Araba Fenice, figura su cui la scultura si poggia e dalla quale pare prendere avvio nel suo percorso ascenzionale, rappresenta metaforicamente la rinascita spirituale, la sapienza, la pietra filosofale e il compimento della trasmutazione alchemica che è simbolo a sua volta della rigenerazione umana.
sul rapporto tra arte e ideologia, che tra le varie esperienze porterà all’apertura nel 1974 dell’artist run space di Zona, a Firenze, uno spazio autogestito co-fondato da Masi assieme agli amici e sodali Maurizio Nannucci e Mario Mariotti, crocevia di numerose e fondamentali esperienza artistiche a livello sia nazionale che internazionale. L’indagine di Masi sull’essenza stessa della pittura si esplica negli anni attraverso una continua sperimentazione sui materiali da un lato e su una gestualità significante dall’altro, alla ricerca di “una superficie non figurativa che abbia un significato attraverso un segno, un gesto. Un segno che abbia un evidente richiamo alla memoria”. Nelle opere degli ultimi anni gestualità, segno e colore rimangono elementi distintivi: ne scaturiscono superfici colorate solcate da impronte, segni, moduli, vere e proprie costellazioni di forme, che rendono evidente l’incessante percorso di analisi della superficie pittorica, tra creazione e ricerca
di differenziazione delle strutture interne all’opera stessa. Per il nuovo allestimento del Museo Novecento Masi presenta l’installazione Invaders (2018), uno specifico riadattamento dell’omonima serie, pensato per gli spazi del chiostro. I tondi in plexiglas, frutto della sovrapposizione di più strati di pellicola pittorica, inglobano segni differenziati, volti a creare un’esperienza percettiva singolare, capace di colpire l’immaginario del visitatore. La specifica collocazione sulle vetrate del chiostro fa sì che gli elementi circolari, come una sorta di pelle aggiuntiva sull’architettura esistente, reagiscano al variare della luce nelle diverse fasi del giorno, proiettando sulle pareti del loggiato un caleidoscopico insieme di forme e segni. La pittura e il colore dimostrano così la loro proprietà di assorbire e riflettere dando vita ad un intenso gioco di geometrie e riverberi, capace di richiamare alla mente le proiezioni immaginifiche delle lanterne magiche.
come ambiente fisico che come contesto socio-culturale. Centrale nel processo di significazione dell’opera è l’apporto soggettivo dello spettatore, che si trova ad esperire ed a elaborare livelli diversi di lettura e interpretazione. Posta all’interno del Museo da giugno 2014, l’installazione Everything might be different (1988), costituisce un lavoro esemplificativo della riflessione concettuale ed estetica di Nannucci. La frase a neon nella sua apparente assertività lascia allo spettatore un ruolo attivo nel costruire il senso della stessa affermazione: “tutto potrebbe essere diverso” funge allo stesso tempo come invito dell’artista ad una riflessione sulle dinamiche esistenti nella società contemporanea, come richiamo ad un ruolo partecipativo da parte del pubblico come agente sociale e politico, così come una frase provocatoria, ironica o semplicemente enigmatica.
L’opera del 1988, a trent’anni dal suo concepimento, non cessa di avere un molteplice potenziale semantico: qui, come in gran parte del corpus dell’artista, segni e linguaggio sono impiegati al fine di favorire riflessioni sulle connessioni e le contraddizioni del mondo. La sua collocazione all’interno di uno spazio museale connota ulteriormente l’asserzione di un potenziale suggestivo ma non definitivo, il suo “esserci” va infatti interpretato alla luce dello specifico contesto spaziale e culturale, ma allo stesso tempo non permette una lettura univoca e compiuta. In Everything might be different l’uso del colore e della luce funziona come elemento di compenetrazione tra la parola e la specifica architettura del museo, volto a generare una configurazione inedita dell’ambiente, una nuova “realtà mentale” a cui lo spettatore è chiamato ad attribuire molteplici connessioni di senso.
su sovrapposizioni di semplici fogli di piombo, creando così dei bassorilievi che rimandano a pattern geometrici in cui la figura del quadrato si ripete in plurime conformazioni. Il quadrato, così come il cerchio, è una figura ricorrente nell’opera di Salvadori, entrambi fanno riferimento agli elementi naturali, il cerchio al cielo, alla sua vastità, il quadrato alla terra e al suo potenziale generativo. L’uso di un metallo duttile e che ben si presta alla manipolazione, ma allo stesso tempo fortemente connotato di riferimenti all’esoterismo e all'alchimia, ribadisce l’interesse dell’artista per il carattere simbolico dei materiali, delle forme geometriche e dei colori. In particolare il piombo è un elemento cupo, saturnino, pesante, che attraverso l’azione continuativa, quasi rituale, dell’artista si schiude e si apre
al mondo e alla luce, vive un’esperienza che per sua natura non ha. Salvadori taglia e piega le lastre di piombo secondo rapporti numerici e armonici, che nella ripetizione assumono quasi la forma di un esercizio di autodisciplina: per l’artista l’opera necessita sempre di un tempo di gestazione lungo che replica quello della trasformazione naturale. L’inedita collocazione dell’opera sulla facciata del museo costituisce un richiamo simbolico ai motivi che decoravano fino alla fine dell’Ottocento l’Ospedale delle Leopoldine e allo stesso tempo fa si che l’installazione dialoghi con le tarsie quadrate della facciata di Santa Maria Novella, con cui condivide oltre a delle similitudini formali, l’adesione ai principi della geometria e delle proporzioni musicali, fondamento dell’opera di Leon Battista Alberti.
Museo Novecento museonovecento.it
Piazza Santa Maria Novella 10, 50123 Firenze
G
Invaders Paolo Masi Fin dagli anni Cinquanta la pratica pittorica di Paolo Masi (Firenze, 1933) costituisce una frattura rispetto ai canoni del formalismo e dell’accademismo: l’artista, dopo un’iniziale esperienza in campo informale e astratto, dà avvio ad un’intensa attività caratterizzata da un linguaggio diversificato, teso a una continua sperimentazione sulla materia e sulle modalità di operarvi. Agli inizi degli anni Sessanta l’opera di Masi si caratterizza per un maggior controllo sulla superficie pittorica rispetto alle sperimentazioni informali degli esordi, una razionalizzazione tesa a disciplinare e definire la visione della tela e la sua costruzione: questo interesse per la struttura risente anche di un passaggio ideologico vissuto da Masi e dagli artisti fiorentini a lui vicini, da un primario individualismo ad un interesse sempre più profondo per la collettività. Sono infatti gli anni degli spazi autogestiti e dei lavori collettivi, dell’impegno politico e delle riflessione
#museonovecento
n°3 - Aprile 2018
In occasione del riallestimento della collezione del Museo Novecento, le opere di quattro artisti fiorentini si pongono in stretto dialogo con l’architettura rinascimentale dell’ex Ospedale delle Leopoldine.
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Marco Bagnoli, Paolo Masi, Maurizio Nannucci e Remo Salvadori danno vita a Grafts,
Everything might be different Maurizio Nannucci Sin dalla metà degli anni Sessanta Maurizio Nannucci (Firenze, 1939) esplora la relazione tra immagini e linguaggio attraverso l’uso di molteplici media che vanno dal neon alla fotografia, dai video alle installazioni sonore, dal libro di artista ad azioni performative. Un approccio multidisciplinare capace di afferire a campi del sapere diversi, come l’architettura e la poesia, ma che mantiene tuttavia una cifra stilistica riconoscibile e un forte rigore procedurale. Noto principalmente per le sue installazioni luminose a neon, l’artista indaga il lato mutevole del linguaggio, evidenziandone sia l’aspetto analitico sia quello più strettamente immaginativo e creativo. Gli statement di Nannucci istituiscono un rapporto significante con l’architettura su cui sono collocate, la parola si connette dialetticamente con lo spazio circostante e instaura una relazione con il paesaggio urbano inteso sia
Nel momento Remo Salvadori Remo Salvadori (Cerreto Guidi, 1947) sin dagli inizi degli anni Settanta porta avanti con coerenza una ricerca incentrata sul rapporto diretto con l’osservatore, in una tensione empatica tra opera, artista e fruitore. La produzione dell’artista si esplica prevalentemente attraverso il linguaggio della scultura e dell’installazione site-specific; lo spazio diviene uno dei riferimenti principali, reinterpretato attraverso forme geometriche e simboliche che fungono da richiamo a stati esistenziali, ad entità cosmiche e a processi trasformativi. Per il nuovo allestimento del Museo Novecento, Remo Salvadori riformula un’installazione della serie Nel momento, a cui l’artista ha lavorato sin dal 1973. In queste opere Salvadori compie dei tagli e delle piegature
Testi di Elena Magini
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un intervento non unitario ma una serie di “innesti contemporanei”, capaci di dare una nuova forma agli spazi del chiostro e del loggiato esterno.
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Si tratta di lavori di natura estremamente diversa, riflessioni simboliche tradotte in interventi monumentali (Nannucci, Bagnoli),
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segni che si mimetizzano con lo spazio in cui sono inseriti a evocare memorie culturali (Salvadori), indagini sul rapporto tra forma e colore che si arricchiscono di nuove suggestioni percettive (Masi).
S
Una nuova relazione tra le opere e lo spazio architettonico delle Leopoldine che invita lo spettatore a sviluppare un’inedita relazione di senso con la collezione del museo.
Marco Bagnoli
Maurizio Nannucci
Paolo Masi
Remo Salvadori