Museo n4

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di Francesco Fumelli docente ISIA di Linguaggi multimediali, responsabile del progetto The Wall

Organizzare i dati, selezionarli, rappresentarli e visualizzarli per mostrare una tesi, significa operare una scelta in maniera piena e autonoma. Il dato è, infatti, un valore interpretabile a seconda di chi lo utilizza e del contesto in cui è utilizzato. Anche i dati - contrariamente a quanto considerato dalla maggior parte delle persone non sono neutri.

Dare forma grafica ai dati, trarne un processo comunicativo: questa è la natura dell’infografica, una tipologia di comunicazione molto diffusa che oggi normalmente associamo a notiziari, telegiornali o alla illustrazione di articoli e tesi. I dati sono – ed è una tematica attualissima – la grande ricchezza, ma anche il grande rischio del nostro tempo. I dati sono un capitale da utilizzare con responsabilità; un bene la cui importanza è unanimemente sottolineata da enti, governi, associazioni ed istituzioni economiche, pubbliche o private. Il World Economic Forum ne rende una idea quantitativa in un recente articolo “the value of data” che cita come - secondo una analisi IBM - in un solo giorno si producono “2.5 quintilioni di bytes” di dati. Organizzare i dati, selezionarli, rappresentarli e visualizzarli per mostrare una tesi, significa operare una scelta in maniera piena e autonoma. Il dato è, infatti, un valore interpretabile a seconda di chi lo utilizza e del contesto in cui è utilizzato. Anche i dati - contrariamente a quanto considerato dalla maggior parte delle persone - non sono neutri. L’elaborazione autoriale, del resto, è da sempre soggettiva anche quando siamo di fronte a un qualcosa che, soltanto apparentemente, si presenta come imparziale.

THE WALL - proprio come ogni altra mostra - rivendica ed esprime questa soggettività almeno su due livelli: per primo resta l’arbitrarietà di giudizio e di valore del curatore che definisce elementi e informazioni intorno al tema prescelto. Segue, quindi, l’interpretazione soggettiva di chi esplora e associa tra loro quei contenuti al fine di restituirli sotto forma di schemi visivi proprio come vuole l’infografica. Dati, tesi e progetto grafico sono gli ingredienti base che vengono poi trasformanti in una comunicazione chiara e sintetica, in un racconto figurato. O meglio, in uno dei racconti possibili tra i molti racconti in ipotesi. L’elaborazione dell’infografica per questa mostra che ha per tema il buio, un argomento già di per sé non confinabile, è il frutto di un lavoro quotidiano svolto insieme ai docenti dai ragazzi del primo corso del triennio ISIA ed è stato un impegno che è andato oltre le ore del corso previste dal piano di studi. I circa trenta studenti sono stati divisi in gruppi di lavoro e ad ogni gruppo è stato assegnato un preciso obiettivo. Così il gruppo documentazione ha verificato e reperito le informazioni passate dal curatore; mentre il gruppo infografica si è occupato di analizzare i dati; il gruppo identità ha lavorato sull’immagine complessiva del progetto, ed, infine, il gruppo web e multimedia della presenza della mostra sui vari media. La collaborazione tra i diversi gruppi si è avvalsa di strumenti di pianificazione e collaborazione remota, tra questi il software Trello che permette un costante controllo di gestione di un progetto e la piattaforma Google Documenti per la scrittura e la condivisione di fogli elettronici, utilizzata in maniera particolare per processare i set di dati. Gli strumenti di comunicazione digitale sono stati fondamentali per una collaborazione efficace, e grazie a questi si sono potuti realizzare - in tempi ridotti - tutti gli elementi del progetto: dal logo alla analisi dei dati, dall’elaborazione di ipotesi per la gestione social e sito web sino – ovviamente – alla realizzazione della infografica complessiva. Se una delle tracce di lettura principali di questa mostra è la “luce nel buio”, intesa come il “buio non buio”, è stato fondamentale validare la prima analisi soggettiva della luminosità delle varie opere fatta dal curatore con un metodo più rigoroso di analisi del valore LCH delle singole immagini. Per fare ciò è stato utilizzato un software specifico: Image Color Summarizer. Questo software assegna ad ogni immagine uno score LCH, vale a dire un valore di “luminosità percepita” come un valore medio, corretto secondo il parametro della percezione umana ed è l’evoluzione in termini di visione dei metodi HSV o RGB. LCH significa luminance, chroma, hue. Realizzare questa prima mostra in infografica è stata una sfida avvincente e un nuovo modo per misurarsi con un problema reale da parte di un’istituzione di alta formazione che pone al centro della sua didattica il design della comunicazione. Una sfida didatticamente interessante anche perché ha permesso ai ragazzi di un primo corso di entrare subito in contatto con le dinamiche, ed i ritmi, di un lavoro ricco e complesso, oltre che professionale.

IL BUIO OLTRE L’INFOGRAFICA E THE WALL di Mirko Balducci L’esperimento di The Wall è a tratti inedito perché non vuole rappresentare l’opera d’arte tramite dei dati (pratica di cui esistono molteplici esempi) ma far sì che l’opera stessa sia trattata come un dato, e che insieme ad altri grafici possa contribuire a raccontare una storia, la storia del “buio ai margini della visione”. In questo esperimento assistiamo quindi a una vera mostra, dove anche la disposizione della riproduzioni delle opere ci comunica un’informazione, in un sistema di lettura complesso che, rispetto a cataloghi e mostre tradizionali,

ha il pregio di poter presentare una visione d’insieme. Al centro della parete abbiamo il nucleo della mostra, le opere disposte su due assi ci raccontano in orizzontale la loro temporalità - si passa dalla più recente alla più antica - mentre in quello verticale la loro luminosità - in basso le opere percepite meno luminose, in alto quelle più. La risultante è un racconto che tramite lo scorrere del tempo ci mostra come sia cambiata, anche cromaticamente, la rappresentazione del buio nei secoli. Al di sotto della timeline sono presenti delle linee,

caratterizzate da texture diverse, che uniscono opere distanti centinaia di anni secondo delle categorie concettuali ideate dal curatore. In alto invece possiamo osservare la complessità semantica e linguistica che caratterizza il concetto di buio, in una visione olistica che risulta essere più articolata di quanto si possa essere portati a pensare. Infine alcuni schemi, delle “infografiche dentro l’infografica”, ci raccontano curiosità e approfondimenti.

Museo Novecento museonovecento.it

Piazza Santa Maria Novella 10, 50123 Firenze

n°4 - Aprile 2018

Sezione linguistica

#museonovecento

The Wall un progetto ideato da Sergio Risaliti in collaborazione con ISIA Firenze

Luminosità

LA DIDATTICA ALLA PROVA DI THE WALL

Temporalità

Sezione tematica

Buio Ai Margini della Visione 21 aprile - 21 giugno a cura di Marco Bazzini

Infografica: schema di lettura

The Wall è un diverso e innovativo modo di presentare una mostra. La visualizzazione tipica dell’infografica offre allo spettatore uno schema figurato, ricco di informazioni e di suggestioni tra loro interconnesse, sviluppato graficamente su una delle grandi pareti del chiostro interno del museo. L’obiettivo è quello di raccontare al pubblico, in maniera concisa e visivamente chiara, la ricchezza di un percorso di ricerca scelto tra gli originali ed eccentrici temi che caratterizzano la nostra contemporaneità; temi che, in un

percorso a ritroso, sono rintracciabili anche nelle opere di artisti del passato. The Wall organizza, in un modello grafico facilmente comprensibile, le informazioni i concetti e i dati sulle opere raccolte dal curatore così da suggerire al visitatore nuovi stimoli e nuove tracce di lettura. Le mostre si presentano come un rinnovato Atlas a poca distanza da uno dei maggiori esempi di arte della memoria qual è l’affresco di Andrea di Bonaiuto in Santa Maria Novella. ISIA Firenze è il partner operativo del progetto per l’ela-

borazione grafica e sistemica dei dataset e per la visualizzazione infografica dei dati. ISIA Firenze è un istituto di alta formazione al design e alla comunicazione del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca MIUR-AFAM. Il lavoro è stato elaborato dal primo corso del triennio ISIA anno accademico 2017/2018 sotto la guida del docente di linguaggi multimediali Francesco Fumelli e di Mirko Balducci.

PREMESSA AD UNA GRAMMATICA DELL’ESPRESSIONE VISIVA

Il secondo era destinato a rimanere, come osservava il primo curatore dell’opera Lodovico Domenichi, l’unica testimonianza di uno strumento del sapere al quale Camillo aveva dedicato tutta la sua vita: un “teatro” nel quale raccogliere e ordinare, secondo le tecniche dell’arte della memoria, l’intero sapere umano, fino a far rispecchiare nella sua struttura quella dell’universo. Nel trattato del Vasari migliaia di immagini erano studiate ed interpretate in relazione alla vita, alle intenzioni ed alle capacità dei propri autori. Nel trattato di Camillo, che è solo una versione semplificata del reale Theatro abitabile che l’autore aveva in mente di realizzare, una serie di immagini anonime vengono utilizzate come accessi per la memoria, cioè come indizi che ricollegandosi parzialmente gli uni con gli altri conducono a ottenere qualcosa che prima non si conosceva (lo spettatore si sarebbe trovato al centro della scena e sugli spalti egli avrebbe trovato una serie di immagini disposte in sette file). Da una parte il significato dell’immagine viene spiegato in funzione del suo autore, dall’altro il significato dell’immagine si rivela nel momento in cui essa diviene un elemento per raggiungere una conoscenza che l’osservatore sta cercando. Il successo storico e critico del modello interpretativo del Vasari è noto a tutti, l’uso invece che delle immagini faceva Camillo è stato completamente accantonato (in virtù anche del fatto che, da Galileo in poi, con lo sviluppo della scienza moderna, il sapere non ha potuto più essere inteso in senso globale). Tuttavia si può rintracciare il modello Camilliano dell’uso delle immagini come manifestazione e accessi della memoria nell’attività del più grande innovatore degli studi storico artistici del Novecento, Aby Warburg. L’Atlante della memoria (o Mnemosyne) è l’ultimo progetto di Aby Warburg. A partire dalle raccolte di immagini preparate in vista di conferenze ed esposizioni, Warburg approntò l’opera in forma di un atlante che doveva essere corredato da testi esplicativi e in seguito pubblicato dall’editore Teubner. Al momento della morte,

nel 1929, Warburg lasciò un menabò incompleto (i 63 pannelli dell’ultima versione), l’abbozzo di una Introduzione e una serie di appunti raccolti poi dalla sua collaboratrice Gertrud Bing. Ma lo stato di incompletezza dell’Atlante alla morte dell’autore, le vicende storiche della Germania e il conseguente trasferimento della Biblioteca e dell’Istituto Warburg a Londra, e, soprattutto, la complessità dell’opera, indussero i collaboratori di Warburg all’abbandono del progetto editoriale. Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco, ecc.); ma anche reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana; e ancora testimonianze della cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli, ecc.). L’atlante contiene un migliaio di fotografie sapientemente composte e assemblate: le immagini sono l’oggetto privilegiato di studio di quest’opera. L’immagine è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa l’impressione e la memoria degli eventi. Dotate di un potere di evocazione maggiore rispetto al linguaggio verbale, in forza della loro vitalità espressiva, le immagini costituiscono i principali veicoli e supporti della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere riattivata e riprodotta. Nell’Atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, crea campi di interesse e provoca nello spettatore un processo interpretativo “aperto”. Obiettivo dell’Atlante è illustrare i meccanismi di tradizione di temi e figure dall’antichità – orientale e greco-romana – all’attualità, con particolare riguardo alla ripresa di moti, gesti e posture che esprimono l’intera gamma dell’eccitazione emozionale. Si tratta di Pathosformeln (formule espressive dell’emozione) dedotte direttamente dai modelli

di Marco Izzolino

Prima della diffusione della stampa, la scrittura e le immagini erano considerate due modalità parallele ed ugualmente importanti per la conservazione del sapere. In tutti gli “studioli” dei Signori del Rinascimento erano gelosamente custodite sia immagini evocative realizzate da importanti autori, sia manoscritti di testi fondamentali dell’antichità classica o più moderni. Nel 1550, grazie all’iniziativa della signoria dei Medici, per lo stesso editore Torrentino furono pubblicati due importanti trattati, Le vite... di Giorgio Vasari e L’idea del Theatro di Giulio Camillo Delminio (postumo). Il primo, che contiene - dopo un’introduzione di natura tecnica e storico-critica sulle tre arti maggiori (architettura, scultura e pittura) - una vera e propria descrizione della vita e delle opere di più di 160 artisti da Cimabue fino ai tempi dello stesso autore, costituisce una pietra miliare della storiografia artistica ed è considerato il punto di partenza di discipline come la storia dell’arte e della critica artistica.

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PREMESSA ← segue dalla pagina precedente antichi, o anche riemergenti senza diretto collegamento ai modelli, nella forma di engramma, cioè di un esito spontaneo dell’istinto gestuale. L’invenzione della stampa ha fatto della scrittura, per più di tre secoli, lo strumento principale attraverso cui archiviare e trasmettere il sapere. Fino a non molti anni fa entrare in possesso di un libro ha significato poter attingere a cose pensate da altri anche a immense distanze di spazio o di tempo. Le immagini così, che fino alla diffusione della fotografia sono state prodotte unicamente dagli artisti, sono state relegate ad un ruolo se non proprio secondario, almeno dipendente dalla scrittura. Di qui il successo del modello critico Vasariano che traduceva in linguaggio verbale il sapere tramandato in immagini dalla tradizione artistica italiana. Nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso, però, l’uso delle immagini ha conosciuto un incremento mai

avuto in precedenza. L’evoluzione dei mezzi di produzione, riproduzione e diffusione delle immagini ha avuto un ruolo preponderante nel determinare la situazione attuale, nella quale in molti casi si è addirittura ribaltato il vantaggio che aveva la scrittura rispetto all’uso delle immagini. In passato la conoscenza è stata archiviata e trasmessa soprattutto attraverso il libro e la scrittura, perché attraverso le parole era più semplice trasferire informazioni e pensieri: troppo lento era il processo di elaborazione delle immagini e troppo difficile era la loro possibilità di diffusione. Oggi parole e immagini, però, sono sullo stesso piano rispetto al numero di informazioni che sono in grado di fornire e alla capacità di circolazione che possono avere. La rivoluzione informatica non avrebbe avuto luogo se non si fosse verificata prima una rivoluzione nell’ambito per così dire delle “immagini”: quella che Gottfried Boehm definisce una “svolta iconica” (La svolta iconica, Meltemi, Roma 2009). Senza una completa sinergia tra scrittura e immagine non avrebbe potuto svilupparsi un “sapere multimediale”. La

semplificazione dei processi di produzione e l’aumento della circolazione delle immagini ne hanno determinato l’utilizzo anche in ambiti sociali inediti. Abbiamo cominciato ad accostare, tagliare, montare — in una parola — “articolare” le immagini, raggiungendo gradi di finezza espressiva paragonabili a quelli del linguaggio verbale. Le nostre facoltà mentali si sono dunque adeguate a queste nuove potenzialità. Sicché spesso usiamo le immagini in luogo delle parole oppure le usiamo per cose impossibili al linguaggio verbale come ad esempio per potere essere compresi al di là delle differenze linguistiche. Chi come me è nato alla metà degli anni Settanta, ha avuto la fortuna — o la sfortuna non so — di far parte forse dell’ultima generazione che si è formata sui libri. Siamo stati educati fin da piccoli ad apprendere dai libri. A cavallo tra Novecento e nuovo millennio, però, abbiamo assistito ad una mutazione radicale dei mezzi, dei luoghi e delle facoltà personali necessarie all’apprendimento. Il computer e, attraverso di esso, internet, sono diventati

AD UNA GRAMMATICA oggi il principale medium ed il principale “luogo” cui attingere conoscenza. Al giorno d’oggi ogni persona possiede, o ha la possibilità di utilizzare, una macchina fotografica (che forse un po’ impropriamente definiamo digitale, per distinguerla da quella analogica). Sulla base di una constatazione che è sotto gli occhi di tutti è possibile affermare che la fotografia è usata dai giovanissimi molto più di quanto venga utilizzata la scrittura. La mia è stata l’ultima generazione che abbia imparato a scrivere ed a disegnare prima di riuscire a riconoscere le rappresentazioni fotografiche e video. Nel corso degli anni Settanta, poi, si è andata progressivamente anticipando l’età in cui i bambini fossero in grado di riconoscere le foto e i video, tanto che i nati negli anni Ottanta furono i primi ad essere capaci di riconoscere tali immagini prima che gli fosse insegnato a disegnare e/o a scrivere. Le motivazioni di un simile processo sono state molte e varie. Sicuramente la larga diffusione di macchine fotografiche e video a basso costo è stato l’inizio del fenomeno,

Taddeo Gaddi, Annuncio ai pastori, 1328-1330 Basilica di Santa Croce, Firenze

tuttavia ciò è accaduto già nel corso degli anni Sessanta. Soltanto nel decennio successivo, però, sono intervenuti altri fattori determinanti: la diffusione dei televisori a colori, la disponibilità di questi per la fruizione tra i bambini, la diffusione delle fotografie nei libri per l’educazione infantile (libri scolastici e libri per bambini), la facilità con cui fosse possibile sviluppare le stampe fotografiche e dunque la messa a disposizione di queste alla visione infantile, ecc. Dagli anni Ottanta in poi, dunque, i bambini hanno completamente modificato il proprio modo di organizzare e comunicare le informazioni percepite. Le fotografie e le immagini video hanno probabilmente abituato i bambini, fin nei primissimi anni d’età, ad avere una maggiore familiarità nel “fissare” in immagini, piuttosto che in scritti, le proprie esperienze. Questi bambini sono stati definiti, credo impropriamente “nativi digitali”. Non è la capacità di utilizzare strumenti tecnologico-informatici che rende i nuovi nati diversi dalle generazioni precedenti, ma la loro capacità di organizzare il pensiero con e attraverso le immagini.

DELL’ESPRESSIONE Alla mia generazione - alla generazione del prima (i libri, la scrittura) e del dopo (le immagini, la multimendialità) tocca forse il difficile compito di creare un ponte tra una civiltà che ha trasferito nei libri il proprio sapere ed un’altra in cui il libro è destinato a sparire. Per noi e per chi ci ha preceduto è forse molto difficile comprendere la profonda distanza che c’è tra i nostri modi e meccanismi d’apprendimento e quelli dei giovanissimi. A noi spetta costruire una nuova metodologia didattica, basata non su quello che abbiamo appreso nel corso della nostra formazione, ma sulla base dell’esperienza diretta. Ciò che sta avvenendo nelle scuole di tutto il mondo, nelle università, in generale nei luoghi di formazione, è una preparazione alla comprensione e alla espressione attraverso il linguaggio informatico, che si è aggiunta alla preesistente tradizione che affidava l’archiviazione e la trasmissione delle conoscenze alla scrittura. Ma forse non si sta ancora dando il giusto valore alla comprensione del visivo. Abbiamo bisogno di addestrare le nostre capacità

VISIVA

visive, la nostra capacità di “leggere” le immagini, la nostra capacità di costruire significato da esse. Le immagini possono essere, in modo nuovo e diverso, un veicolo per la conoscenza (Camillo) e possono gettare anche una luce inattesa sul passato (Warburg). Nel libro Die Mneme (1904) lo psico-biologo Richard Wolfgang Semon, che ha molto influenzato la ricerca di Aby Warburg, introdusse, tra gli altri, il concetto di ”ecforia”. Si tratta di un processo di attivazione o di recupero di un ricordo all’interno della memoria, che dipende fortemente dagli indizi che abbiamo per il richiamo; perché così come quando archiviamo dei documenti dobbiamo usare parole d’ordine o criteri di catalogazione, allo stesso modo, nella memoria, riusciamo ad archiviare informazioni utilizzando alcuni elementi che pesano più di altri. Solo richiamando questi elementi riusciremo a ricomporre il ricordo dell’esperienza. Già alla metà del Cinquecento Giulio Camillo comprese quanto le immagini avessero un ruolo fondamentale nel

In questa mostra il buio è stato ricercato nelle opere d’arte, ovvero, in come gli artisti hanno utilizzato o vissuto o raffigurato il buio a partire dai contemporanei per poi scendere a ritroso nei secoli. È nato, così, un percorso visivo nella storia dell’arte che evidenzia come il buio nella sua costante presenza muti a seconda della cultura e del tempo.”

Una visione al buio vale almeno, se non di più, di una visione in piena luce. Il buio, al contrario di quanto normalmente si pensi, non deve essere inteso come una situazione in assenza di luce o contraria a ogni visibilità e, per questo, opposta a ogni processo di conoscenza. È, infatti, possibile vedere al buio e nel buio. E, non episodicamente, il buio è necessario. Definire il buio è difficile. È un carattere, una dimensione, una metafora? Una condizione o piuttosto un ambiente? Il buio è, comunque lo si declini, un qualcosa di sicuramente ambivalente. Si presenta e si ritrae allo stesso tempo. Non esiste buio senza luce, oscurità senza chiarezza. Il buio è spesso associato a un’idea negativa, a quei luoghi in cui mostri e streghe, maghi e nefandezze e demoni imperano. Una gran quantità di romanzi gialli o thriller fanno riferimento al buio già dal titolo ma una tale abbondanza non giustifica una sua esclusività nei mondi in cui domina il terrore. Ed ancora buia è la notte, anche se l’oscurità in questo nostro mondo è diluita in una chiarezza diurna che fa vivere una giornata senza fine; fatto salvo qualche improvviso blackout che ci riporta a quel buio incontrollabile dal quale la tecnologia tende ad allontanarci. Basti vedere un’immagine notturna dal satellite per rendersi conto di quanto la luminosità sulla terra abbia guadagnato nei confronti dell’oscurità. Del buio abbiamo timore, eppure è evento quotidiano che naturalmente si presenta a ogni finire del giorno. Al buio ci riposiamo; è una condizione necessaria per il nostro corpo e per la nostra mente. Il ritmo circadiano, ovvero l’alternanza sonno veglia, è cosa naturale tra tutti gli animali anche se con tempi diversi. Per il riposo ristoratore ricerchiamo il buio, lo costruiamo fino a mettersi una

fungere da richiamo per attivare quei collegamenti attraverso i quali le nostre esperienze, i nostri ricordi ed in generale il nostro pensiero sono organizzati. Chissà che non sia giunto il momento, grazie alle nuove tecnologie, di recuperare e comprendere in profondità modalità di espressione con le immagini che per troppi secoli sono rimaste sopite!

Emilio Isgrò, L’ora italiana, 1985

mascherina sugli occhi come avviene sugli aerei durante i voli transoceanici. Quindi il buio non è soltanto quel qualcosa da evitare e, forse, non è nemmeno quella pausa poco redditizia all’interno della nostra continua corsa quotidiana. Ma il paradosso vuole che in questa epoca buia manchiamo di buio. Al buio si incontrano tutti gli amanti, ma soprattutto quelli il cui vedersi non è più consentito, come succede a Clelia e Fabrizio, i due innamorati de La Certosa di Parma di Stendhal: “Sai che ho fatto un voto alla Madonna di non vederti più: perciò ti ricevo al buio, qui.” Un appuntamento al buio, invece, è tutt’altra faccenda. Il buio talvolta è un rifugio in cui nascondersi anche se lo

stare al buio è più facile che evochi l’essere stato sbattuto nel profondo di una segreta come è capitato al protagonista de Il Conte di Montecristo e purtroppo ancora capita a troppi dissidenti. Il buio è di norma accostato alla cecità, anche quando è temporanea, ma non è il buio a rendere ciechi. Nel romanzo Cecità di José Saramago è, infatti, una forte e lattiginosa luce bianca a impedire ogni sguardo sul mondo. E colui che per primo in tutta quell’umanità reietta ritrova la vista - si tratta della stessa persona che per primo l’ha persa esplode urlando in un “Vedo, vedo il buio!” essendo in quel momento notte. Anche in “Sul fare del giorno”, uno degli episodi tra scienza e fiaba delle Cosmicomiche di Italo Calvino, si legge: “a un tratto tutto il buio fu buio, in contrasto con qualcosa che non era buio, cioè luce.” Simili affermazioni ci autorizzano a dire che il buio si vede. Una dimensione suggerita, in maniera più prosaica, anche dai cartoni animati o dai fumetti quando due occhioni bianchi galleggiano nel nero profondo. Non proprio come gli animali, specie se notturni, anche l’uomo riesce a vedere al buio perché il nostro occhio è dotato di una serie di cellule periferiche della retina che si attivano in condizioni di scarsità di luce e producono quella specie particolare di visione che chiamiamo buio. Ciò implica che il buio non è una forma passiva di visione ma al contrario un’abilità particolare. Forse per questa sua specialità il buio ha attratto poeti e artisti in tutti i tempi. Il buio diventa allora una condizione di conoscenza in cui ritrovare quanto sappiamo ma soprattutto quanto non sappiamo.

SUL BUIO di Marco Bazzini

Lo scrittore francese Jean Paulhan ci lascia questa frase: “Meno luce c’è, meglio si vede”, mentre il grande poeta Baudelaire afferma: “Un lampo poi la notte!”. Come a dire che la nostra vita è nell’oscurità. Ma a guardare in quello in cui normalmente non si pensa di dover guardare sono anche i filosofi e tra questi Giorgio Agamben che nel suo libello Che cos’è il contemporaneo scrive: “contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, chi sa vedere questa oscurità, chi è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.” Ancora Calvino ne Le città invisibili ci dice: “Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.” Il buio non è separabile dalla luce. L’uno senza l’altra non esistono. E se il buio si oppone alla luce è solo e esclusivamente per il loro reale principio d’esistenza. Ben altra cosa è l’uscita dal buio verso la luce che troviamo come azione originaria nella creazione, così come recita la Genesi:

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni alla parola luce ci ricorda: “Dire sempre fiat lux quando si accende una candela”. Che è un altro modo per dire che la contrapposizione tra luce e buio è valida solo se consideriamo il buio come qualcosa di negativo di mortifero e la luce, qualsiasi essa sia, come fonte di salvezza e vita. La nascita è senza dubbio un’uscita dal buio verso la luce. Mentre la morte, lei non ha imbarazzi ad aver a che fare con il buio, è un’entrata nel buio. Il regno dei morti, da qualsiasi parte esso sia, è immaginato come oscuro, luogo in cui regnano le tenebre, il nero. Non a caso, metaforicamente si dice Hora nigra. E chiaramente tutto questo non fa altro che rafforzare il valore negativo del buio e del nero. Fatto sta che il nero è come l’analogon della materia buia, e lo dimostra bene e con grande ironia quel proto-monocromo nero realizzato dall’umorista francese Alphonse Allais a fine Ottocento in cui è possibile leggere: “Combat de nègres dans une cave pendant la nuit “ (Lotta tra neri in una caverna durante la notte). Il buio ci appare nella dimensione più elastica dell’immensità, perché al buio non esiste un dietro e un davanti,

Alphonse Allais, Album primo-avrilesque, Ollendorff, 1897

non esiste una destra e una sinistra. Il buio ci ingloba, inghiotte, è un qualcosa che ci sta intorno a 360°. E, infatti, è normale dire, o sentir dire, essere avvolto dal buio o essere mangiato dal buio. Rispetto a questo tema anche le espressioni verbali diventano interessanti e fanno da guida: il buio è un qualcosa che si affetta, è pesto, fitto. Come se avesse una concreta materialità. Ma si può avere anche il buio dentro, avere un carattere buio o essere buio in volto. Tutto ciò per definire un malessere, una sensibilità, un modo di essere. Per non dire di quando con tempi bui si indica una stagione, un tempo, o, con uno slancio al futuro, un avvenire non propriamente roseo e prospero e propizio. Ma sono molti e plurimi i livelli metaforici con cui il buio appare, non ultimo indagare nel buio, o fare un salto nel buio quando si sta per iniziare una qualsiasi ricerca, proprio come quella che ha portato a questo progetto di mostra. Che il buio sia nel nostro intimo o fuori di noi è un fenomeno così complesso che è necessario cercare di frammentarlo. Proprio per le sue inaccertabili caratteristiche il buio può essere indagato solo nel frammento: buio esterno buio interno, buio naturale buio artificiale, buio reale buio figurato. Ma esistono anche le gradazioni del buio poiché può essere tenebroso, brillante, opaco o luminoso. In questa mostra il buio è stato ricercato nelle opere d’arte, ovvero in come gli artisti hanno utilizzato o vissuto o raffigurato il buio a partire dai contemporanei per poi scendere a ritroso nei secoli. È nato, così, un percorso visivo nella storia dell’arte che evidenzia come il buio nella sua costante presenza muti a seconda della cultura e del tempo. Se gli artisti più recenti invitano a stare nell’oscurità, altri protagonisti del Novecento si rifanno al buio come materia per l’espressione pittorica o per l’indagine introspettiva. Il percorso procede al contrario e arriva alla rappresentazione dei notturni, un genere pittorico il cui primo episodio si trova a Firenze, nella Cappella Baroncelli di Santa Croce, con l’Annuncio ai Pastori di Taddeo Gaddi. Il buio è un mondo complesso che, seppur ai margini, lascia scoprire nuove visioni e per questo merita cascarci dentro senza troppi pregiudizi.


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