Bimestrale n. 4/2021 – anno XXX/BO - € 2,00
ottobre/dicembre 2021
I Concerti, al via la XXXV edizione con il debutto dell’ensemble Les Paladins e l’atteso ritorno di Trifonov e Avital MICO - Bologna Modern e MIA - Musica Insieme in Ateneo fra nuovi repertori e giovani talenti
Sergey e Lusine Khachatryan
Armonie familiari
SOMMARIO
n. 4 ottobre / dicembre 2021
Editoriale
Tutti a Teatro! di Fulvia de Colle
L’intervista
Antonio Iannuzzi / Ottica Massarenti 78
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StartUp
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Bologna Modern #6
Le stagioni del violino, da Festa a Solbiati
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MIA – Musica Insieme in Ateneo
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Vivere d’arte... Eugenio Palumbo, Arianna Morganti
Sette concerti con i grandi talenti
Teatro Comunale di Bologna Sinfonica e Opera d’Autunno
I luoghi della musica
Il Chiostro dei Carracci a San Michele in Bosco di Maria Pace Marzocchi
Storie della musica
Karol Szymanowski di Brunella Torresin
Di... segni e di versi
Poesie, colori, suoni di Nicola Muschitiello ed Erico Verderi
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34 39 42 46 51
Per leggere
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Da ascoltare
Le novità di Avital, Rana, Turchetti di Roberta Pedrotti
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In copertina: Sergey e Lusine Khachatryan (foto di Marco Borggreve) 6
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MUSICA INSIEME
Daniil Trifonov
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Articoli e interviste Les Paladins, Sandrine Piau, Jérôme Correas Sergey Khachatryan, Lusine Khachatryan Daniil Trifonov Trio di Parma Il Pomo d’Oro, Avi Avital
di Chiara Sirk
Sergey e Lusine Khachatryan
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I concerti ottobre / dicembre 2021
I Maestri del Martini, i libri di Raspanti e Marzadori
Jérôme Correas
Alessandro Solbiati
Trio di Parma
Avi Avital
EDITORIALE
In queste settimane di frenetici preparativi per l’inizio della nostra trentacinquesima Stagione, ma anche di rassegne come MICO – Bologna Modern e MIA – Musica Insieme in Ateneo, che mai come quest’anno abbiamo curato con una passione e un desiderio di condividere senza precedenti, i sentimenti sono contrastanti. Alla gioia per la riapertura al 100% delle capienze dei luoghi dello spettacolo e della cultura italiani – un traguardo per il quale la nostra Fondazione si è sempre battuta, nella consapevolezza che i teatri sono fra i luoghi più sicuri, per la salute come per l’anima – si somma un senso di disorientamento, che coglie in maniera diversa organizzatori, artisti e pubblico. Per gli organizzatori si tratta in primis di dover ricollocare, a tempo di record e con mille difficoltà pratiche e burocratiche, posti inizialmente “proibiti”, di dover spostare ancora una volta i nostri abbonati – e non finiremo mai di essere loro grati per la pazienza e la disponibilità che ci stanno dimostrando. A loro volta gli artisti, specie se stranieri, si devono sottoporre a controlli rigorosi e reiterati prima di calcare il palcoscenico, e naturalmente i timori di una risalita della curva epidemiologica serpeggiano sempre sotto traccia in tutti noi, pur fiduciosi nella campagna vaccinale e nella sicurezza delle procedure di controllo. E tuttavia, riempire gli spazi vuoti fra le poltrone sembra tradursi simbolicamente nel colmare il vuoto che ci ha circondato sinora. La vertigine di rivedere una sala piena si somma alla sensazione quasi di pudore che ci coglie nel ritrovarci fianco a fianco, dopo oltre un anno di “distanziamento sociale”: non solo un’espressione che ci è apparsa subito stonata, sgraziata nella sua artificialità, ma anche un ossimoro, perché stare distanti non è certo un’attitudine sociale. Alla socialità vera, quella degli abbracci, delle strette di mano, del guardarsi negli occhi, si sostituisce semmai un ricorso al “social” che ben poco ha di fisico, di carne e sangue, e tuttavia ci ha tenuto in molti casi aggrappati a un sottile filo di equilibrio, in mesi in cui mantenerlo era davvero difficile. Dentro di noi, insomma, si agitano correnti di energia compressa, dubbi e timori, ma ancora una volta è la musica a rimettere in ordine le cose, e a mostrarci la strada, con l’entusiasmo della rinascita e il desiderio di tornare a condividere emozioni e conoscenze, dal vivo, insieme. E sono gli stessi ospiti
Foto di Andrea Ranzi
TUTTI a Teatro!
dei nostri cartelloni a fornirci una moltitudine di spunti di riflessione, grazie alle loro scelte artistiche, che hanno spesso il valore di una regia: le eroine handeliane di Sandrine Piau cantano l’universalità di valori come l’amore, il sacrificio, la lotta per difendere le proprie scelte; la Quinta Stagione che Fabrizio Festa intreccia a Vivaldi per l’inaugurazione di Bologna Modern ci ricorda l’importanza di radicarsi nel passato per imparare ad affrontare il futuro, e la presenza nel cartellone di MIA – Musica Insieme in Ateneo di incredibili talenti che hanno brillato al Concorso Alberghini come al Premio Antonio Mormone e al Busoni ci infonde fiducia nel domani della cultura. E se il mandolino di Avi Avital ci mostra il valore universale della musica, che nei secoli riecheggia nelle corti come nelle campagne e per le strade dei quartieri popolari, il senso del tempo che pulsa nel programma di Sergey e Lusine Khachatryan si somma alla concezione di musica come “riunione di famiglia”, come divertimento e passione da condividere con chi si ama. I Concerti 2021/22 ci porteranno a conoscere molte famiglie musicali, riportandoci alle origini stesse della cameristica, e a riprenderci una volta per tutte – così speriamo – i nostri spazi. Con rispetto e sicurezza. Silenzio in sala! La musica ci aspetta. Fulvia de Colle
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MUSICA INSIEME
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Imprenditoria e cultura
OCCHIO
alla musica!
Con un passato da ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, di servizio a Palermo agli albori del maxiprocesso alla mafia, Antonio Iannuzzi ci racconta la sua esperienza imprenditoriale, dalle consulenze nel settore dell’occhialeria all’apertura del punto vendita Ottica Massarenti 78 a Bologna, ma anche del suo desiderio di crescita culturale e spirituale attraverso la musica
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om’è nata e come si è sviluppata la tua carriera da imprenditore? Ho cominciato come commercialista, facendo consulenze ad aziende nel settore dell’occhialeria. Da consulente mi sono innamorato dei vari ambiti nei quali ho operato, moda, occhialeria, oggettistica, e sono diventato socio della piccola azienda con cui collaboravo. Esportavamo quasi tutta la produzione all’estero, il made in Italy in quegli anni andava veramente forte: era un mercato ad hoc che riusciva a contrastare brand molto più famosi. Un occhiale prodotto dalla mia azienda aveva lo stesso peso di un Versace o di un Armani… era insomma un periodo in cui si girava il mondo e si vendeva molto bene. Di che anni parliamo? Fine anni Ottanta, anni Novanta. Nel ’95 già cominciava a percepirsi l’arrivo del mercato cinese
a cambiare il settore, in maniera molto pressante. Avvenne anche una graduale scomparsa degli importatori, che erano la linfa vitale delle piccole aziende come la mia, e senza di loro non era possibile affrontare il mercato. Adesso verso cosa si orienta il tuo business? Da due anni a questa parte cerco di fronteggiare le “tempeste” rimanendo per quanto possibile nel mio “porto sicuro”. È più difficile guardare al mercato estero, così come è più complicato muoversi in quello interno. Sono due mondi commerciali completamente diversi e purtroppo i piccoli imprenditori fanno ancora più fatica a uscire da questa crisi perché la politica economica nazionale tende a concentrare gli aiuti verso aziende di grandi dimensioni, in tutti i settori. Quali sono per te i parametri imprescindibili nella realizzazione di un tuo prodotto? È importante collocarsi su una fascia qualitativa molto alta e coniugarla con un prezzo che non superi certi limiti. Per noi piccoli imprenditori la vera sfida consiste nel saper essere concorrenziali rispetto alle grandi aziende. Una caratteristica che rende unici i miei prodotti poi è la possibilità di personalizzarli a piacimento, sia nella vendita al dettaglio sia nella distribuzione su larga scala. Con Ottica Massarenti 78 hai creato un tuo punto vendita a Bologna. Come mai questa scelta? Bologna è una città che coniuga la cultura e lo stile. Io le posso offrire qualcosa per quanto riguarda lo stile, Bologna può aiutarmi ad introdurre cultura nel mio settore. È una città viva, è facile lavorarci, ti crea stimoli, le piacciono le cose belle ed è disposta a pagarle. Mi sta dando molte soddisfazioni, considerando anche la situazione attuale dell’economia. Nella tua azienda quante persone lavorano? In questo momento la mia attività si sviluppa attraverso partnership con altre aziende che utiliz-
zano i miei macchinari, in questo modo non ho dipendenti ma collaborazioni senza costi fissi. Tre o quattro anni fa avevo già avviato questo tipo di scelte, e devo dire che a lungo termine si sono rivelate efficaci e vantaggiose. Come affronti le tematiche ambientali nel tuo lavoro? Sono alla continua ricerca di forme di riutilizzo dei materiali. Ho appena messo in campo quattro modelli prodotti con materiale completamente riciclabile. Sono molto attento a questo tema, cerco sempre soluzioni interessanti e non mi accontento, mi ci dedico senza mezze misure. Come mai hai deciso di sostenere Musica Insieme? Per quanto riguarda la musica classica nutro una grande curiosità e voglio accrescere la mia conoscenza: pur essendo ignorante di questo tipo di musica, ne riconosco la valenza, la bellezza e lo spessore. Le sale da concerto erano un ambiente che conoscevo poco e ho deciso di avvicinarmici col desiderio di “educarmi”. Come mai hai voluto farlo da imprenditore, piuttosto che da semplice spettatore? Questo mio interesse verso la musica classica è nato nel periodo peggiore per tanti settori culturali: mi sono sentito chiamato in causa, ho voluto dare una mano. Nasco come un uomo di business, ma sono un sostenitore del business etico e morale, che tiene in considerazione non soltanto il bilancio ma anche i rapporti umani e le tematiche più sensibili. Vorrei esprimere un enorme ringraziamento alle persone che fanno parte di Musica Insieme, che mi hanno dimostrato e confermato che dove risiede la cultura, in tutte le sue forme, c’è un sistema di vita diverso, migliore, più piacevole ed interessante. Cosa pensi delle limitazioni alle capienze dei teatri che hanno condizionato le attività artistiche per oltre un anno e mezzo?
La trovavo una cosa assurda e ingiusta se paragonata ad altre attività che non hanno subìto delle limitazioni così categoriche, come i trasporti pubblici o le grandi distribuzioni commerciali. Posso immaginare le difficoltà organizzative che una Fondazione come Musica Insieme possa aver dovuto attraversare per far fronte ai continui cambiamenti e disposizioni dettate dal Governo. In altri ambiti, come quello del calcio e degli stadi, si sono adottate misure meno vessatorie, da una parte in ragione degli interessi economici che gravitano intorno a questo sport (poiché la cultura fa meno business, viene trascurata), dall’altra della maggior capacità di gestione dei disagi derivanti dalle privazioni (una persona che vive di cultura non andrà mai a spaccare vetrine o a protestare con la forza, per quanto possa essere toccata anche pesantemente da una determinata situazione, e per questo verrà ingiustamente messa in secondo piano). Di fronte a queste tematiche regna sempre un po’ di ipocrisia: un insegnante, per esempio, viene spesso lodato come una delle figure fondamentali della nostra società ma poi guadagna cifre irrisorie. Per tornare ai teatri, sono felice che finalmente si sia ripristinata la capienza al 100% e spero che anche le attività legate al mondo dello spettacolo tornino presto alla normalità. (a cura di Riccardo Puglisi)
Nella pagina accanto: Antonio Iannuzzi. Sopra e a sinistra: gli interni del punto vendita Ottica Massarenti 78 a Bologna
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MUSICA INSIEME
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StartUp
VIVERE d’arte
Due giovani talenti, l’uno mandolinista, l’altra promettente manager culturale, dimostrano che con la musica non solo “si mangia”, ma si può anche spiccare il volo
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i accomunano una passione e un’energia illimitate, favolosi ricordi musicali e il sogno di cambiare la percezione e il modo di proporsi della musica e del teatro, per affascinare e conquistare sempre nuove generazioni
con la loro magia. Eugenio Palumbo, mandolinista, vincitore assoluto dell’edizione 2021 del Concorso “Alberghini” per giovani talenti in duo con la chitarra di Roberto Guarnieri, e Arianna Morganti, che dopo alcune esperienze
lavorative ancora giovanissima è “tornata a scuola” ed ora, forte della sua laurea di progettista culturale, è in forze all’Orchestra della Toscana. Conosciamoli meglio con le loro parole, colme di un entusiasmo contagioso.
Eugenio Palumbo 20 anni, mandolinista. Lo trovate su Instagram
Qual è il tuo miglior pregio e quale il tuo peggior difetto? Il lato che più apprezzo del mio carattere è la curiosità. Un motore che alimenta le mie giornate e che mi porta ad interessarmi ai campi più disparati: dalla musica all’economia, dalla filosofia alla cucina. Questa continua ricerca però mi fa anche realizzare la vastità del sapere, e l’impossibilità di poterlo assimilare tutto in certi momenti crea in me un certo disagio. Il mio più grande difetto sta proprio qui, ovvero in quella ricerca ossessiva della perfezione, soprattutto nella musica, che non fa accettare l’errore e che in presenza di esso distrugge tutto ciò che di buono è stato fatto. Nell’ultimo anno però ho davvero compreso l’importanza dell’errore, e l’accettazione di essere fallibile ha dato un grande impulso al mio processo di maturazione. Come hai scoperto il mandolino? Mia madre racconta sempre che tornati a casa dall’ospedale mio padre mi mise nella culla e mi poggiò di fianco un mandolino. Battezzato. Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica? Quando avevo all’incirca quattro anni mio padre mi portava sempre
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MUSICA INSIEME
con sé alle prove settimanali della sua orchestra a plettro. Le prove, interminabili, duravano almeno tre ore e pur essendo così piccolo non mi annoiavo, anzi mi divertivo. Prendevo tutto come un gioco: fingevo di suonare un mandolino invisibile, dirigevo l’orchestra, ballavo, cantavo… e quando ero stanco mi sdraiavo sulle sedie e ascoltavo in silenzio quella musica. Questo ritengo sia stato il momento in cui la musica è entrata nella mia anima, e da lì non è più uscita. Chi consideri il tuo modello (anche non di ambito musicale)? Ho avuto la fortuna di avere molti modelli durante la mia formazione: i miei genitori, mio zio Stefano, la
mia insegnante Dorina Frati, i professori del Liceo… Tutti mi hanno insegnato che se si vogliono raggiungere dei risultati bisogna lavorare duro e restare umili. Inoltre trovo grande ispirazione nelle storie dei grandi personaggi della musica e dello sport (un’altra mia grande passione): ultimamente sono in fissa con Andre Agassi. Qual è il percorso di studi che stai facendo ora? Attualmente frequento l’ultimo anno del Triennio di Mandolino presso il Conservatorio “Luca Marenzio” di Brescia, sotto la guida del Maestro Dorina Frati. Presentaci il tuo duo con Roberto Guarnieri in… quattro battute! Amici che si divertono. Con quale musicista, anche del passato, ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto suonare? La lista è infinita, ma se devo scegliere dico Daniel Barenboim. Un concerto sulle opere per mandolino di Beethoven con lui al pianoforte e poi posso smettere di suonare. Qual è il traguardo che ti proponi di raggiungere nei prossimi anni? La mia missione è una e una sola: dare al mandolino la dignità che non ha mai avuto.
Arianna Morganti Quali sono secondo te il miglior pregio e il peggior difetto del tuo carattere? Il mio miglior pregio è la determinazione, grazie alla quale affronto con entusiasmo le sfide della vita. Il mio peggior difetto invece è quello di essere molto severa con me stessa e con gli altri e proprio per questo mi arrabbio spesso e con facilità. Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica? La voce di mio nonno Emilio che, quando ero piccola, dalla sua sedia davanti alla TV, ascoltava e cantava concerti di ogni genere. Ricordo il suo “Nessun Dorma”: quando lo cantava era emozionato e la sua voce mi sembrava bella come quella di Pavarotti, uno dei suoi cantanti preferiti. Qual è stato un concerto che ti ha particolarmente emozionata e perché? Mi ritengo fortunata, perché ho avuto la possibilità di ascoltare concerti davvero straordinari. Se ne dovessi scegliere uno, sceglierei il concerto di fine anno del Maggio Musicale Fiorentino del 2018, in cui Esa-Pekka Salonen aveva diretto Le Sacre du Printemps di Stravinskij: ho ancora impressa l’energia di quella serata, l’atmosfera di mistero, il ritmo e la passione di quel brano. Qual è il percorso formativo e professionale che stai facendo ora? Da quando avevo 19 anni ho avuto il privilegio di lavorare per diverso tempo in ambito teatrale e musicale e questo mi ha dato la possibilità di capire “cosa volessi fare da grande”. Così, con un po’ di coraggio, tre anni fa ho deciso di lasciare il lavoro per dedicarmi allo studio e oggi sono laureata in Progettazione e Gestione di Eventi e Imprese dell’Arte e dello
Foto Elettra Bastoni
26 anni, organizzatrice delle arti performative. La trovate su Facebook e Linkedin
Spettacolo presso l’Ateneo di Firenze. Recentemente ho avuto la possibilità di accedere, prima come tirocinante e poi come dipendente, agli uffici di direzione generale, sviluppo e fundraising dell’Orchestra della Toscana. Il tuo libro Asilo Teatrale degli Appennini è un’interessante proposta di sviluppo culturale da applicare a territori ben specifici. Accetti la sfida di spiegarcelo in dieci righe? Proviamoci: Asilo Teatrale degli Appennini è un lavoro di ricerca nato nel 2015, rivisto e pubblicato nel 2021. Il progetto nasce dalla volontà di portare il Teatro dove non c’è. Nello specifico si fa riferimento all’area interna del basso appennino pesarese-anconetano e ai suoi nove comuni. Il fine è quello di creare un sistema teatrale condiviso che possa contribuire allo sviluppo comunita-
rio, culturale ed economico dell’intera area. La volontà di proporre un progetto culturale ad hoc per queste terre è stata dettata dalla profonda convinzione che il Teatro abbia un ruolo fondamentale all’interno della comunità e che possa influenzare le dinamiche societarie ed economiche del territorio in cui si inserisce. L’obiettivo è quello di fare delle terre di confine i luoghi ideali per una nuova idea di accoglienza e di impresa culturale. Hai delle fonti d’ispirazione, dei maestri (anche non necessariamente del tuo “ambito”)? Credo che osservando i “grandi del passato” si possa imparare tanto: una delle figure che spesso prendo ad esempio è quella di Paolo Grassi, il cosiddetto “poeta dell’organizzazione”. Come pensi si possano avvicinare alla musica i ragazzi, che oggi non sono certo tra i frequentatori abituali di concerti? In un mondo in cui il tempo di noi giovani si è frammentato, ridotto e velocizzato, è difficile far comprendere l’importanza dell’ascolto, del silenzio e dell’armonia. Il teatro e i suoi riti esistono da secoli, ma adesso sono proprio questi a doversi mettere in discussione: non si può chiedere ai bambini e ai ragazzi di appassionarsi a una forma già consolidata. La musica di certo non può e non deve cambiare, ma il momento di ascolto e di fruizione sì. Come? Chiediamolo ai bambini. Qual è il traguardo che ti proponi di raggiungere nei prossimi anni? Non ho un sogno nel cassetto, ma spero di poter contribuire ad un ripensamento culturale e teatrale necessario per formare il pubblico del domani e per sentirmi meno sola quando vado a Teatro!
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MUSICA INSIEME
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Bologna Modern #6
LE STAGIONI Al via la VI edizione di Bologna Modern, in collaborazione con il Teatro Comunale, con un focus sul violino, fra prime assolute e incontri con gli autori
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ata nel 2016 in collaborazione con il Teatro Comunale per farsi vetrina delle migliori esperienze dell’oggi, Bologna Modern unisce le forze con MICO – Musica Insieme Contemporanea per proporre una nuova prospettiva sul violino nel XX e XXI secolo, ma senza dimenticare le sue radici più profonde. E il concerto inaugurale, mercoledì 27 ottobre, intreccia proprio storia e presente: grazie alla maestria dell’ensemble barocco L’Astrée e alla creatività di Fabrizio Festa, Le Quattro Stagioni di Vivaldi, capolavoro fra i più celebri e amati della storia, saranno “attraversate” da una Quinta Stagione, ispirata al calendario cinese e affidata al violino elettrico di Francesco D’Orazio, in un dialogo ricco di suggestioni. In occasione del concerto, il pubblico potrà assistere ad uno straordinario esperimento di Musical Artificial Intelligence, ovvero l’applicazione di un nuovo metodo, il Brain Computer Interface, in grado di tradurre in suono direttamente le onde cerebrali. Ma la musica d’oggi trae linfa anche dalle energie di giovani straordinari interpreti, e la scuola violinistica italiana in particolare si conferma una inesauribile fucina di talenti, dal Seicento al… 2021. Laura MarSotto, Fabrizio Festa, zadori poi è un orgoglio tutto bolognese, scelta a soli in alto, Laura Marzadori 25 anni da una giuria presieduta da Daniel Barenboim
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MUSICA INSIEME
Foto Ennio D’Altri
del violino
come primo violino di spalla dell’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano. Insieme a lei, Andrea Obiso, a sua volta primo violino di spalla dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma e premiato in competizioni internazionali come il “Prix Ravel” e l’“ARD” di Monaco. Attraverso il dialogo fra le corde dei rispettivi strumenti, Marzadori e Obiso hanno voluto creare un “binario per il futuro”, un messaggio di unione e di rinascita che il 4 novembre ci farà viaggiare sulle note dei grandi compositori degli ultimi due secoli, da Glière a Sollima. In Italia, un ruolo fondamentale nella costruzione di un nuovo repertorio, di nuovi interpreti, e soprattutto di un nuovo pubblico, è svolto poi dal Divertimento Ensemble e da progetti come IDEA, a cui Musica Insieme riconferma il proprio sostegno e che permette, con la guida di una musicista e didatta straordinaria come Maria Grazia Bellocchio, di approfondire ogni anno lo studio di un diverso autore. Dopo le integrali pianistiche dedicate a Ligeti e Kagel, nel 2021 la Call for Young Performers di questo importante progetto europeo si concentrerà su uno dei nostri massimi compositori: Alessandro Solbiati, che l’11 novembre incontrerà il pubblico e introdurrà il programma del concerto. Un programma che non manca di rendere omaggio al violino, con brani come Sonetto e il Duo da “Il gigante”. A concludere la rassegna, il 18 novembre, saranno due brillanti solisti come Daniele Sabatini e Simone Rugani, vincitori del contest #iorestoacasa e #suonoperte, indetto durante il lockdown dal Divertimento Ensemble e sostenuto da Musica Insieme per offrire occasioni di esibirsi ai giovani interpreti. Accanto ai capolavori novecenteschi per violino e pianoforte di Ravel e Schnittke, che incorniciano il programma, non poteva mancare in cartellone una prima assoluta di Maria Vincenza Cabizza, già selezionata alla Biennale College di Venezia 2021 e laureata al Conservatorio di Milano con una tesi dal titolo emblematico: “Come combattere gli stereotipi sulla musica contemporanea, in poche semplici mosse”.
MIA – Musica Insieme in Ateneo
NOTE resistenti Compie un quarto di secolo la rassegna che propone agli studenti dell’Ateneo i più grandi maestri, ma anche i più brillanti talenti delle ultime generazioni
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Sotto, Giovanni Gnocchi e Giulia Loperfido
inasce dopo la pandemia il cartellone dedicato agli studenti, in collaborazione con l’Università di Bologna, che amplia a sette il numero degli appuntamenti per consentire il recupero dei concerti sospesi, a cominciare da Rising Stars come la pianista Giulia Loperfido, formatasi con Bogino e Lucchesini e oggi all’Accademia di Santa Cecilia, che sarà solista del concerto inaugurale, il 24 novembre (musiche di Haydn), insieme al Collegium Musicum Almae Matris, ospite regolare del nostro cartellone. Un viaggio dalla Spagna barocca all’Argentina del Tango nel centenario della nascita di Astor Piazolla (1921-1992) risuonerà poi l’1 dicembre grazie a due maestri riconosciuti come il violoncellista Giovanni Gnocchi e il chitarrista Giampaolo Bandini. Il 15 dicembre, i giovanissimi vincitori del Premio Alberghini 2021, sostenuto da Musica Insieme, saranno protagonisti di un’Accademia che accoglierà formazioni come il Trio Hermes e il duo di mandolino e chitarra Palumbo / Guarnieri. Nel 2022 si rinsalderà la collaborazione con l’Orchestra del Baraccano diretta da Giambattista Giocoli, ospitando in anteprima un progetto che ripercorre il legame fra Bologna e Praga attraverso la figura di Josef Mysliveček, “il divino Boemo”. Due Rising Stars da ascoltare saranno poi
XXV edizione
DAMSLab /Auditorium (Piazzetta Pier Paolo Pasolini 5/b - Bologna) - ore 20.30
2021 - mercoledì 24 novembre L’ATENEO PER L’ATENEO
Collegium Musicum Almae Matris Giulia Loperfido pianoforte Roberto Pischedda direttore
2021 - mercoledì 1 dicembre SULLA VIA DI ASTOR PIAZZOLLA
Giovanni Gnocchi violoncello Giampaolo Bandini chitarra
2021 - mercoledì 15 dicembre RISING STARS I
Trio Hermes Duo Palumbo / Guarnieri Lodovico Parravicini violino
2022 - mercoledì 2 febbraio RISING STARS II
Ying Li pianoforte
2022 - mercoledì 23 febbraio DA PRAGA A BOLOGNA
Orchestra del Baraccano Giambattista Giocoli direttore
2022 - mercoledì 9 marzo ARCHETIPI
Laura Gorna violino Gabriele Pieranunzi violino Francesco Fiore viola
2022 - mercoledì 16 marzo RISING STARS III
Jae Hong Park pianoforte
L’ingresso ai concerti della rassegna è gratuito per gli studenti e il personale docente e tecnicoamministrativo dell’Università di Bologna, su presentazione del proprio badge, mentre per tutti i cittadini il biglietto ha un costo di 7 euro. I biglietti saranno disponibili la sera del concerto a partire dalle 19.30 nel foyer dell’Auditorium DAMSLab. Non è prevista prenotazione.
i pianisti Ying Li e Jae Hong Park, vincitori rispettivamente del Premio Internazionale Antonio Mormone e del Premio Busoni 2021, mentre è un trio rodato di grandi solisti quello formato da Laura Gorna e Gabriele Pieranunzi al violino e Francesco Fiore alla viola. Si riconferma non da ultimo la collaborazione con il Centro La Soffitta del Dipartimento delle Arti per un concerto in cartellone, che sarà annunciato nei prossimi mesi. 20
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MUSICA INSIEME
Foto di Andrea Ranzi
Teatro Comunale di Bologna
SINFONICA
e Opera d’Autunno
Una doppia stagione prevede fino a dicembre concerti al Manzoni con l’Orchestra e con la Filarmonica del Teatro Comunale e titoli operistici nella Sala Bibiena del teatro felsineo
Foto di Juventino Mateo
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randi direttori e solisti e nuove promesse nazionali e internazionali sono i protagonisti dell’“Autunno Sinfonico”, che il 28 ottobre vede debuttare alla direzione dell’Orchestra del Teatro Comunale il polistrumentista belga Martijn Dendievel, il quale accosta la Sinfonia n. 1 in mi minore op. 39 di Jean Sibelius a due pagine di Franz Liszt: Les Préludes e il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore, quest’ultimo interpretato dal pianista Giuseppe Albanese, già ospite con successo delle scorse stagioni del teatro felsineo. L’8 novembre è previsto il concerto con l’americano Ryan McAdams alla guida della Filarmonica del Teatro Comunale e il violoncellista iraniano in grande ascesa Kian Soltani. In programma la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 73 di Brahms e il Concerto in la minore op. 129 per violoncello e orchestra di Robert Schumann. Doppio debutto di due giovani talenti con l’Orchestra del TCBO il 26 novembre: si tratta della tedesca Corinna Niemeyer, Direttore artistico e musicale dell’Orchestre de Chambre du Luxembourg, e del pianista Luca Buratto, notato dal Guardian come “nome da seguire” e segnalato dal Telegraph come “un virtuoso fuori del comune”, i quali presentano il Concerto n. 5 in mi bemolle maggiore op. 73 per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven e la Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98 di Brahms. Formazione di grande prestigio per il Triplo concerto in do maggiore op. 56 di Beethoven, il 29 novembre, con Alexander Lonquich nella doppia veste di direttore e pianista, il violinista ungherese Barnabás Kelemen e il violoncellista armeno Narek Hakhnazaryan. Sul po-
Autunno Sinfonico all’Auditorium Manzoni I biglietti per i concerti dell’“Autunno Sinfonico”, da 15 a 35 euro, sono disponibili online tramite Vivaticket, presso la biglietteria del Teatro Comunale e il giorno del concerto al Manzoni da 1 ora prima dell'evento.
Autunno all’Opera al Teatro Comunale I biglietti per l’Adriana Lecouvreur, da 10 euro a 145 euro, e per La cenerentola, da 10 a 115 euro, sono in vendita online tramite Vivaticket e presso la biglietteria del Teatro Comunale, aperta dal martedì al venerdì ore 12-18, il sabato ore 11-15 e nei giorni di spettacolo a partire da 2 ore prima dell'inizio della recita.
Foto di Cecopato Photography
i costumi da Claudia Pernigotti, mentre le luci sono curate da Daniele Naldi. Le coreografie sono di Luisa Baldinetti e i video di Roberto Recchia. A dicembre è la volta del capolavoro di Gioachino Rossini, La cenerentola, spettacolo che sarebbe dovuto andare in scena nel marzo 2020, ma che è saltato a causa dell’emergenza sanitaria. La produzione – che arriva finalmente nella Sala Bibiena per quattro serate dal 16 al 23 dicembre – è quella pensata da Emma Dante per l’Opera di Roma nel 2016, proposta per la prima volta a Bologna. Dirige Nikolas Nägele. Protagonisti Chiara Amarù nel ruolo del titolo, Antonino Siragusa come Don Ramiro, Nicola Alaimo, che si alterna con Andrea Vincenzo Bonsignore, nei panni di Dandini, Vincenzo Taormina in quelli di Don Magnifico, Aloisa Aisenberg e Sonia Ciani come Tisbe e Clorinda, e Gabriele Sagona come Alidoro. Le scene sono di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino, le luci di Cristian Zucaro e i movimenti coreografici di Manuela Lo Sicco. Presenting partner dello spettacolo è Alfasigma. La proposta autunnale del Teatro Comunale di Bologna si completa, poi, con un evento straordinario natalizio dedicato alle famiglie. In programma l’esecuzione, il 19 e il 22 dicembre in Sala Bibiena, di Pierino e il lupo di Sergej Prokof’ev e dell’Histoire de Babar di Francis Poulenc con l’Orchestra del TCBO diretta da Marco Boni e la voce narrante di Vittorio Franceschi. Presenting partner dell’iniziativa è Rekeep. Informazioni su www.tcbo.it.
In alto: Alexander Lonquich. Qui sotto Corinna Niemeyer. Nella pagina accanto, in alto, La cenerentola, sotto, Kian Soltani
Foto di Simon Pauly.
dio della Filarmonica del Teatro Comunale, Lonquich propone anche l’Ouverture da Der Freischütz di Carl Maria von Weber e la Sinfonia n. 8 in si minore D 759 detta “Incompiuta” di Franz Schubert. Chiude la stagione autunnale il concerto in programma il 4 dicembre diretto dal pluripremiato Dmitry Matvienko, vincitore della Malko Competition 2021 di Copenhagen, che per il suo debutto con l’Orchestra del Comunale accosta Le danze di Galanta di Zoltán Kodály, la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 43 di Jean Sibelius e il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in la maggiore di Liszt, interpretato ancora da Giuseppe Albanese. Main Partner della Stagione Sinfonica 2021 è Intesa Sanpaolo. Per l’“Autunno all’Opera” in Sala Bibiena è proposta l’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, nell’allestimento che il Teatro Comunale di Bologna ha realizzato a porte chiuse insieme a Rai Cultura nel febbraio scorso in forma di film-opera trasmessa su Rai5. La produzione, firmata da Rosetta Cucchi, va in scena con quattro recite dal 14 al 20 novembre in una versione ripensata per lo spazio del palcoscenico e destinata questa volta al pubblico presente in sala. Dirige Asher Fisch. Nel cast il grande soprano lettone Kristine Opolais nel ruolo della protagonista, Luciano Ganci nella parte di Maurizio, Veronica Simeoni in quella della Principessa di Bouillon e Sergio Vitale impegnato come Michonnet. Completano la compagine vocale Romano Dal Zovo (Principe di Bouillon), Gianluca Sorrentino (L’abate di Chazeuil), Elena Borin (Mad.lla Jouvenot), Aloisa Aisemberg (Mad.lla Dangeville), Luca Gallo (Quinault) e Stefano Consolini (Poisson). L’acrobata è Davide Riminucci. Le scene sono firmate da Tiziano Santi,
I luoghi della musica
IL CHIOSTRO
dei Carracci
Scopriamo un altro dei “luoghi segreti”che Musica Insieme ha portato alla luce durante la scorsa Stagione, ospitandovi un appuntamento del festival nazionale Musica con Vista
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di Maria Pace Marzocchi
l Chiostro dei Carracci è custodito all’interno dell’ex convento suburbano di San Michele in Bosco, dal 1896 sede dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, di cui quest’anno ricorrono due importanti anniversari: il 125° della fondazione e il 40° del riconoscimento di Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS). Secondo la tradizione, sul colle di San Michele già nel IV secolo si trovava un cenobio monastico, e nell’XI secolo è documentata una comunità di canonici regolari agostiniani. Nel 1364 vi si insediarono i monaci olivetani, che vi sarebbero rimasti fino alle soppressioni napoleoniche del 1797. Numerosi furono i rifacimenti architettonici, nel monastero e nella chiesa, splendidamente decorata tra Cinque e Seicento, da Giorgio Vasari ai grandi pittori del Barocco. Nell’imponente complesso monastico, il cui dormitorio di oltre 160 metri di lunghezza costituisce la sala più lunga esistente a Bologna, trovano posto due chiostri. Il più piccolo, e più prezioso, è il “Chiostro dei Carracci”, edificato tra il 1602 e il 1603 in forma ottagonale entro la preesistente planimetria quadrangolare del chiostro quattrocentesco dall’architetto dell’ordine Pietro Fiorini, che qui realizzò il suo capolavoro: un prisma perfetto in mattoni ed arenaria,
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scandito da serliane (un particolare tipo di trifore) separate da paraste corinzie angolari e concluse dall’attico a balaustra, e nel portico un’alternanza di volte a crociera e volte a botte. Poco dopo furono alzati i ponti per “l’opra la più grande e di maggior premura che mai facesse Lodovico” (Malvasia), che volle al suo fianco “gli eccellenti Maestri usciti dalla sua Scola”: Massari e Garbieri, Galanino e Brizio, Lionello Spada e Giacomo Cavedoni… Accanto a loro ma indipendente Guido Reni, direttamente coinvolto dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati protettore degli Olivetani, che nel 1603 gli versò un primo acconto per l’impresa ancora in fase di progetto, avviata nell’estate 1604 e conclusa in quella successiva o poco oltre. In forma del tutto nuova e singolare nella decorazione si incrociano due cicli: complessivamente 37 riquadri, per narrare le Storie della vita di San Benedetto fondatore dell’ordine (già raffigurate nella perduta decorazione quattrocentesca di cui resta un solo episodio staccato e ora nell’ex dormitorio), e, in subordine gerarchico e visivo, le Storie di Santa Cecilia, la protomartire cristiana particolarmente venerata dal cardinale Sfondrati e “advocata” dell’ordine. Ludovico Carracci, che per sé riservò sette riquadri tra cui San Benedetto libera il masso reso immobile dal demonio, aveva optato per una tecnica inusuale, mescolando tempera e fresco alla pittura ad olio, così da emulare la luminosa cromia delle pale d’altare. Ma a causa della preparazione del muro con un intonaco di polvere di marmo e calcina, e dei problemi di umidità connessi al luogo, le pitture iniziarono presto a deteriorarsi, e già nel settembre del 1606, a decorazione da poco ultimata, la pellicola pittorica cominciò a sollevarsi e a cadere cosicché molti scomparti furono ripassati con una mano di vernice. Ulteriori interventi si susseguirono nel tempo (nel 1632 quello famoso del Reni, peraltro mal riuscito, sul suo San Benedetto riceve doni dagli abitanti di Subiaco di cui resta la bella copia tratta nel 1689 da Giovanni Maria Viani, ora nel presbiterio della chiesa), ma le pitture continuarono a deteriorarsi. Lo notava con apprensione nella sua Felsina Pittrice il canonico Carlo Cesare Malvasia, che in uno scritto uscito postumo ne avrebbe steso una dettagliata descrizione corredata dalle stampe incise da Jacopo Giovannini. Dell’iconico ciclo decorativo restano a tutt’oggi sette scomparti (il più leggibile quello di Alessandro Tiarini che nel 1613, sostituendosi a Guido Reni che aveva abbandonato l’impresa bolognese per tornare a Roma, dipinse a buon fresco il riquadro mancante); eppure, dai superstiti dipinti in parte sbiaditi si può ancora leggere la singolare simbiosi fra architettura reale e racconto in pittura, pensato così da inquadrare gli episodi principali nelle grandi cornici delle serliane. CHIOSTRO OTTAGONALE DEI CARRACCI Complesso di San Michele in Bosco Via Pupilli, 1 Bologna
Storie della musica
KAROL
Szymanowski
Ripercorriamo le tormentate vicende del “più grande compositore polacco dopo Chopin”, di cui Daniil Trifonov eseguirà per Musica Insieme la Terza Sonata di Brunella Torresin
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Karol Szymanowski (1882-1937), foto conservata nella George Grantham Bain Collection (Library of Congress)
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ato in una famiglia di proprietari terrieri con profonde radici polacche, Karol Szymanowski vide la luce il 21 settembre 1882 del calendario giuliano, nella tenuta paterna di Tymoszówka. All’epoca il paese faceva capo al distretto di Chekhrin, nella provincia di Kiev, ed era parte dell’impero russo; oggi è un villaggio che conta poco più di 800 abitanti, entro i confini dell’Ucraina. Cultore di tutte le arti, scrittore, viaggiatore e umanista, Szymanowski è considerato il più grande compositore polacco dopo Chopin. La sua produzione è molto ampia: comprende brani cameristici e per orchestra, pezzi per voce e per coro, musica sacra e teatro musicale, è un’opera permeabile al dialogo con i suoi contemporanei e alle correnti musicali del suo tempo, così come alla più autentica tradizione popolare del suo paese. Che per lui fu e rimase sempre la tormentata Polonia della prima metà del Novecento. Tormentata, controversa è stata anche la sua esistenza – si spegne nel 1937, a 54 anni, in una clinica a Losanna – messa alla prova dagli avvenimenti storici, dalla malattia, dalla sofferenza esistenziale. È a Tymoszówka che Szymanowski finisce di comporre la Sonata n. 3 opera 36, il brano che il pianista Daniil Trifonov eseguirà per I Concerti di Musica Insieme il 21 novembre 2021 al Teatro Manzoni. La completa nell’anno 1917: il terzo anno della Grande Guerra, l’anno della dissoluzione dell’impero russo, l’anno della Rivoluzione d’Ottobre. In primavera Szymanowski si trova a Kiev, dove cerca di far eseguire alcune sue opere: «Sono quattro anni che non ascolto il suono delle mie musiche per orchestra, per un compositore è
una cosa atroce», scrive al pianista e direttore d’orchestra russo Alexander Siloti. È angustiato dalle ristrettezze economiche. E a fine giugno raggiunge i famigliari a Tymoszówka, per l’ultima volta. In una lettera a Stefan Spiess, del 16 luglio 1917, Szymanowski annuncia all’amico: «Ho scritto una sonata per pianoforte, e mi interessa molto sapere cosa ne farai». In una successiva lettera all’editore austriaco Emil Hertzka la descrive così: «… quattro movimenti che creano una singola unità, piuttosto particolare nel suono». Straordinariamente difficile da interpretare, la terza Sonata che Szymanowski dedica ad Alexander Siloti rimane la sua ultima importante opera per pianoforte. Alla fine dell’estate 1917 Karol, la madre e le sorelle abbandonano la tenuta di Tymoszówka e riparano nella città di Elisavetgrad. Vi resteranno due anni, e per Karol, isolato dalla società musicale e dagli amici, sarà «un’agonia». Poi la situazione precipita: in fuga dall’Ucraina, gli Szymanowski raggiungeranno Varsavia a fine dicembre 1919, via Odessa, Mar Nero e Romania. Non possiedono più nulla. La Polonia nata dal Trattato di Versailles è uno stato fragile, dai confini ancora contesi. Ma è la patria ritrovata: «Serva per quasi un secolo – dirà Szymanowski – e improvvisamente liberata».
Di… segni e di versi
POESIE,
colori, suoni
Continuano gli appuntamenti con le poesie di Nicola Muschitiello e con gli acquerelli di Erico Verderi, dove la musica è un’ispirazione costante
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ncora una volta il segno creativo di Erico Verderi sa tradurre visivamente le liriche di Nicola Muschitiello, voce poetica fra le più interessanti dei nostri tempi e autore profondamente legato alla musica nella sua ispirazione più pura. Come nella poesia prescelta per questo numero, che sin nel titolo assimila la donna alla musica stessa, in un intreccio fra elementi naturali e strumenti come il liuto, il flauto, la voce umana, che le immagini di Verderi rispecchiano, dando voce alla poesia e colore alle parole e ai suoni che essa evoca.
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A MARIE MUSICA
Nel simbolo del pettirosso e della farfalla hai con te la figura del liuto e il suono del flauto, sul piccolo albero sempreverde ti riposi, nel musico legno t’incanti e la spina inesistente del bosso ti passa a fil di lama dove donna dài la vita ed esali un grido d’anima, un ah! d’amore che è un’ottava nota. (da Terra celeste, 1999)
I CONCERTI ottobre / dicembre 2021 Lunedì 25 ottobre 2021
TEATRO AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
LES PALADINS SANDRINE PIAU..........................................................soprano JÉRÔME CORREAS..................................................clavicembalo e direttore Handel Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna
Lunedì 15 novembre 2021
TEATRO AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
SERGEY KHACHATRYAN.....................................violino LUSINE KHACHATRYAN.......................................pianoforte Bach, Schubert, Debussy, Respighi Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti” e “Musica per le Scuole”
Domenica 21 novembre 2021
TEATRO AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
DANIIL TRIFONOV.....................................................pianoforte Weber, Szymanowski, Debussy, Brahms Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna
Lunedì 6 dicembre 2021
TEATRO AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
TRIO DI PARMA Brahms, Čajkovskij Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti” e “Musica per le Scuole”
Lunedì 13 dicembre 2021
TEATRO AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
IL POMO D’ORO AVI AVITAL.......................................................................mandolino Paisiello, Barbella, D. Scarlatti, Galuppi, Cecere Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna
Biglietti in vendita su Vivaticket e presso Bologna Welcome. Nei giorni di concerto, la biglietteria del Teatro Auditorium Manzoni è aperta dalle ore 17 Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme: Galleria Cavour, 3 - 40124 Bologna - tel. 051.271932 - fax 051.279278 info@musicainsiemebologna.it - www.musicainsiemebologna.it - App MusicaInsieme
Lunedì 25 ottobre 2021
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ietro le quarantotto opere di George Frideric Handel (la dicitura inglese è quella del suo autografo) si annida un irripetibile quarantennio di storia del teatro, un’industria culturale febbrile, attorno alla quale gravitano cantanti, divi, impresari, nobili, con tutte le loro rivalità artistiche e politiche. In questo circo di varia umanità lui è sempre, nel bene e nel male, l’ago della bilancia: il più amato, il più odiato, sempre il più temuto. Ma Handel, che dal 1712 si stabilisce definitivamente in Inghilterra, non sarebbe Handel senza il triennio di formazione italiana, di cui Rodrigo è la prima opera compiuta in questa lingua (Firenze, 1707). Se non è chiaro l’esatto motivo che lo attira a sud delle Alpi, è evidente tuttavia l’influenza che hanno su di lui gli incontri accumulati dalla fine del 1706 al
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1710: Arcangelo Corelli, Domenico Scarlatti, Antonio Caldara, Agostino Steffani, per dire dei più noti. E quattro piazze privilegiate per ascoltare musica e proporne di nuova: Roma e Firenze, seguite da Venezia e Napoli. Dall’Italia l’onnivoro Handel trae indicazioni decisive sull’uso degli archi e della vocalità, tesse relazioni e guadagna crediti che potrà spendere quando, da produttore e impresario di se stesso, scenderà dall’Inghilterra per raccogliere i migliori cantanti su piazza (farà tappa anche a Bologna, dove nel 1729 incontrerà Owen Swiny, un influente ex manager londinese). Giovane e scafato, se incappa nel divieto (temporaneo) di scrivere opere, come accade nello Stato Pontificio, si adatta ad altri generi (ecco, per esempio, quel capolavoro sacro che è il Dixit Dominus). Dove s’imbatte in
COMPOSITORE
imprenditore
L’attesissimo debutto dell’ensemble francese porta sul palco di Musica Insieme le più celebri eroine handeliane, impersonate dalla voce di Sandrine Piau di Luca Baccolini
Lo sapevate che a quattro anni Sandrine Piau si è innamorata dell’arpa, suo primo strumento, sentendola suonare alla gattina Duchessa nel celebre cartone Disney Gli Aristogatti cardinali, dimentica la sua fede luterana. Dove gli si chiedono modifiche sostanziali nello stile, esegue le varianti senza batter ciglio. Esempio di musicista flessibile, quasi liquido, Handel sembra esser nato per il successo. È infaticabile: dalla prima opera, Almira (1705), all’ultima, Deidamia (1741), non passano due anni consecutivi senza che la sua creatività non partorisca un nuovo titolo. Gli anni Trenta i più prolifici, con 19 titoli. Ma poi, dal 1741, cala improvvisamente il sipario su questo prodotto culturale. E un altro si fa avanti di slancio: l’oratorio. Nei diciotto anni che ancora gli restano da vivere fino al 1759 scriverà quindici oratori, ma nessun’altra opera. Com’è possibile che l’autore di Giulio Cesare in Egitto, Alcina, Agrippina abbia potuto abbandonare il terreno così
LUNEDÌ 25 OTTOBRE 2021 ORE 20.30 TEATRO AUDITORIUM MANZONI
LES PALADINS SANDRINE PIAU soprano JÉRÔME CORREAS clavicembalo e direttore Georg Friedrich Handel Da Ariodante: Ouverture et Marche Da Lotario, Aria di Adelaide: „Scherza in mar la navicella‰ Da Giulio Cesare in Egitto, Recitativo: „E pur così in un giorno‰ Da Giulio Cesare in Egitto, Aria di Cleopatra: „Piangerò la sorte mia‰ Concerto grosso in la minore op. 6 n. 4 Da Alcina, Aria di Morgana: „Credete al mio dolore‰ Sonata in sol maggiore op. 5 n. 4 Da Rinaldo, Aria: „Il Vostro Maggio deÊ bei verdi anni‰ Da Alcina, Aria di Morgana: „Tornami a vagheggiar‰
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I PROTAGONISTI
Dalla fantasia visionaria dell’ultimo capolavoro di JeanPhilippe Rameau prende il nome la compagine Les Paladins, fondata dal clavicembalista e direttore Jérôme Correas. L’ensemble francese, specializzato nel repertorio del XVII e XVIII secolo, è caratterizzato da uno stile e un suono particolari e da un’interpretazione decisamente teatrale, apprezzati nei più importanti teatri in Francia e all’estero, in particolare negli Stati Uniti, in Giappone e nei principali festival europei. E specialista riconosciuta del repertorio barocco è il soprano Sandrine Piau, già al fianco di celebri direttori come William Christie, Philippe Herreweghe, Christophe Rousset, Gustav Leonhardt. Prima cittadina francese ad aver ricevuto il premio della Handel Society di Londra, è ospite dei maggiori teatri, da Parigi a Salisburgo, e nel 2018 l’abbiamo applaudita per l’intensa interpretazione di Soeur Constance nell’allestimento di Dialogues des Carmélites di Poulenc al Teatro Comunale di Bologna.
repentinamente, e senza ripensamenti? Certo l’Opera del mendicante di John Gay e Johann Christoph Pepusch (1728), uno dei successi più clamorosi del teatro inglese, segna idealmente l’inizio di un cambiamento dei gusti, a favore di contenuti meno intellettualistici. E la surreale contesa tra la fazione “nazionalistica” della nobiltà inglese, che s’oppone all’opera italiana di
DA ASCOLTARE
Di lunga data la collaborazione tra Les Paladins e Sandrine Piau. Un motivo in più per selezionare, nella sconfinata discografia del soprano francese, le incisioni che la vedono al fianco dell’ensemble diretto da Jérôme Correas, a partire proprio da un programma monografico su Handel: Cantates & Duos italiens (Arion, 2001), con ben trenta arie tratte dalle opere italiane del grande compositore. A dieci anni di distanza il legame si rinsalda con Le Triomphe de l’Amour (Naïve, 2011), celebrazione del sentimento universale attraverso le arie di Lully, Charpentier e Rameau. Per chi desiderasse invece sentire Sandrine Piau cimentarsi in un repertorio diverso, consigliamo due album per Alpha / Outhere: Si j’ai aimé (2019), dedicato alla mélodie francese, e Clair-Obscur (2021), incisione già premiata fra l’altro con l’“Editor’s Choice” della rivista Gramophone e lo “Choc” di Classica, in cui la Piau mostra ancora una volta la sua poliedricità cantando Strauss, Berg e Zemlinsky.
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Handel proprio ingaggiando, per paradosso, il miglior cantante italiano (Farinelli) e il miglior compositore italiano (Porpora), non basta a spiegare il divorzio di Handel dall’opera. Ellen Harris, professoressa di musicologia al Massachusetts Institute of Technology, vent’anni fa ha provato a dare una spiegazione setacciando i conti correnti di Handel presso la Bank of England e soprattutto i suoi investimenti nella South Sea Company, ed è riuscita a stabilire un nesso di causa-effetto tra il boom dell’oratorio e la rapida risalita negli affari del compositore. Ma bisogna fare un passo indietro. Appena arrivato in Inghilterra, Handel dimostra subito fiuto per gli affari: risulta infatti nel 1715 un suo investimento di 500 sterline (62.500 al valore attuale) in un portafoglio azionario della Compagnia dei Mari del Sud. Handel deve avere buoni informatori, o un senso degli affari straordinario, visto che poco prima del crac del 1720 – uno dei più drammatici mai accaduti nel mondo anglosassone fino al 1929 – riesce a piazzare due terzi delle sue azioni, minimizzando così le potenziali perdite. Ma altri pericoli minacciano il suo capitale, fin lì così ben difeso. Dal 1725, quando Handel riceve già un appannaggio di 700 sterline annue dalla Royal Academy of Music per scrivere e produrre soprattutto opere teatrali, comincia a convertire le azioni residue dei Mari del Sud in soldi contanti (circa 2.450 sterline), necessari per fronteggiare i costi crescenti delle produzioni (comprese Ariodante e Alcina). Alla fine degli anni Trenta, il conto è quasi completamente svuotato: gli restano infatti appena 50 sterline. E finisce per prelevare pure quelle. Nulla, rispetto a quest’immagine, potrebbe fornire miglior spiegazione dell’indebolimento dell’opera italiana a Londra, la conseguenza di un apparato economicamente non più sostenibile, per colpa di cachet esorbitanti e di una concorrenza irrazionale tra le due fazioni (quella handeliana e quella avversa), destinate in breve a distruggersi a vicenda. Non è un caso che dopo Deidamia del 1741, Handel accetti di slancio un invito a Dublino, dove nel 1742 debutta Messiah, l’oratorio della svolta. La riscoperta di questo genere – snello, economico, affrancato dai capricci delle star del canto – fa decollare di nuovo le casse di Mr. Handel. Nel 1743 il compositore riapre un nuovo portafoglio azionario con la South Sea Company. Niente, da quel momento, lo fermerà: ogni anno il suo conto cresce a tre zeri. Alla sua morte, Handel lascia liquidità per 17.500 sterline, 2,2 milioni al cambio attuale. E anche un grande rimpianto: cosa avremmo ascoltato ancora, se non si fosse fermato a Deidamia?
Sandrine l’incantatrice > Intervista > Sandrine Piau Il celebre soprano francese ci porta nel suo mondo, e ci ricorda di essere sempre convinti delle proprie scelte e di battersi per i propri obiettivi: esattamente come farebbero le eroine handeliane. Quando è nata la sua passione per la musica e qual è stato il suo percorso? «Sono stata attratta dalla musica classica molto presto. I miei genitori, melomani appassionati, avevano molti dischi. Io ascoltavo rapita, specie le Passioni di Bach, con le grandi voci di allora, Christa Ludwig, Elisabeth Schwarzkopf, poi imitavo le cantanti. Vedendo il film Gli Aristogatti mi sono innamorata dell’arpa e ho iniziato a studiarla. Poi a undici anni mi hanno iscritto alla scuola di Radio France, una scuola musicale che è stata la mia fortuna. Ho partecipato a tanti spettacoli all’Opéra, da piccola mi vestivano da maschietto pestifero, per esempio nella Bohème. Ho ancora il programma con gli autografi di Placido Domingo e Mirella Freni». E il canto? «Studiavo già l’arpa seriamente, mi interessava già la musica antica. Al conservatorio un amico flautista mi parlò di William Christie e mi candidai a lavorare con lui. Da una cosa è venuta l’altra, ho scoperto la mia voce e poi tutto il resto». Cosa pensa delle eroine handeliane che interpreterà nel concerto di Bologna? Si rispecchia in una o più di esse? «Difficilmente mi identifico con un personaggio, piuttosto mi attraggono certe situazioni. Questo recital ha il pregio di creare un prisma di volti femminili differenti con diverse emozioni. Si tratta spesso di donne forti, o che nascondono la propria fragilità sotto una corazza invincibile. Oppure che hanno un’anima forte nonostante l’apparenza delicata. Partenope è una guerriera. Cleopatra, che mi piace più di tutte, usa la seduzione come arma per tentare di manovrare gli uomini che detengono le leve del potere: un personaggio femminista ante litteram, che si batte come una leonessa. Alcina invece è una maga, ma finisce sconfitta nel momento in cui si mostra innamorata, in cui accetta la propria fragilità. Però è anche una parte da cattiva, mi piace molto giocare con questo aspetto». Come si può avvicinare un pubblico di giovani alla musica barocca?
«In Francia il barocco ha un enorme successo, anche perché ci si è molto concentrati sulle messe in scena, su spettacoli fantastici. William Christie ci diceva: “siete dei missionari, dovete cantare per convincere”. Forse non c’è più bisogno di questo, ma sicuramente ci sono tante persone che ancora pensano che il teatro d’opera non sia adatto a loro, non ci provano nemmeno. Invece con gli incontri pubblici, anche nelle scuole, si può fare moltissimo. Ci si può innamorare di questa musica anche senza saperne nulla, è toccante. Ma se si conoscono i contesti, la storia – pensiamo alla vicenda umana di Handel, i fallimenti, i castrati, materiale da film! – la si può amare di più e meglio. Spiegare a tanti giovani che quella era la musica contemporanea del tempo, i divi, le pop star che scatenavano deliri. Poi naturalmente non si deve avere la pretesa di convincere tutti». Quante ore dedica allo studio? Ha qualche buon consiglio da elargire a un’aspirante cantante? «Studiare molto, lavorare con serietà è fondamentale. È l’unico rimedio per essere a posto almeno con la coscienza, poi ci sono tante variabili che non dipendono da noi, la salute, il freddo, i contrattempi improvvisi: con uno studio e una preparazione impeccabile si è già abbastanza al sicuro. L’altro punto fondamentale è essere centrati, trovare il proprio equilibrio. Un consiglio che do volentieri è di ascoltare tutti, assorbire come una spugna, ma poi decidere con la propria testa, cercando il proprio obiettivo, ma soprattutto di aver chiaro ciò che non si vuole. Pensare che l’insegnante di canto risolva tutti i problemi è ingenuo. Anzi, se si è certi delle proprie convinzioni qualche volta fa bene anche disobbedire. Una cantante molto famosa mi ascoltò in conservatorio e mi liquidò con un “continui a fare l’arpista”. Ho pensato che poteva aver ragione ma anche sbagliarsi, e ho continuato a studiare: avevo ragione io». (a cura di Riccardo Puglisi)
Lunedì 15 novembre 2021
Foto Marco Borggreve
LUNEDÌ 15 NOVEMBRE 2021 ORE 20.30 TEATRO AUDITORIUM MANZONI
SERGEY KHACHATRYAN LUSINE KHACHATRYAN
violino pianoforte
Johann Sebastian Bach Ciaccona dalla Partita n. 2 in re minore BVW 1004 Franz Schubert Sonata n. 4 in la maggiore D 574 Claude Debussy Sonata n. 3 in sol minore L 148 Ottorino Respighi Sonata in si minore P 110
RICONQUISTARE
il futuro
Il duo armeno debutta a Bologna con un programma in cui il tempo è l’assoluto protagonista, e ci dimostra l’importanza di guardare al passato per affrontare il domani di Paolo Stegani
È
proprio quando il futuro appare nebbioso ed incerto che il passato può diventare un rifugio nel quale riconquistare la propria sicurezza e la forza per andare avanti. Ci si affida al tempo e contemporaneamente lo si affronta. La musica ce lo ha sempre dimostrato e permesso, ed è pronta a farlo di nuovo la sera del 15 novembre, per il debutto dei fratelli Khachatryan nella città di Bologna. Time infatti è il titolo di un programma che promette di farci spaziare fra le epoche, i generi e le melodie. Il repertorio della serata esplora la grande musica di quattro secoli differenti, partendo dal barocco ed arrivando fino all’età contemporanea, per chiudere il concerto con una sorpresa tutta tricolore – anzi, tutta bolognese – in omaggio al nostro Paese, particolarmente amato dal Duo anche dal punto di vista musicale. Le intenzioni sono chiare sin dall’inizio, con un titolo che non lascia spazio ad equivoci sull’idea che ha generato il programma in questione. Time promette un focus specifico su un anno particolare che lega tutte queste epoche musicali a filo doppio: il ’17. Un’annata che, nel mondo della musica classica, è spesso stata sinonimo di nuove creazioni ed eventi memorabili. È in quell’anno del XVIII secolo, infatti, che Bach pare abbia creato la Partita in re minore, ed è, nello specifico, nella Ciaccona (fra le vette assolute dell’arte strumentale del compositore tedesco) che Sergey potrà darci maggior prova di tutto il proprio talento, rispettando l’assoluta regolarità imposta
dall’“ostinato” tipica di questa forma musicale. Ne possiamo godere per bontà della sorte: il manoscritto originale di queste sonate, infatti, sarebbe andato incontro a un destino ben prosaico – quello di involgere
I PROTAGONISTI
Nati a Yerevan, in Armenia, i fratelli Sergey e Lusine Khachatryan provengono da una famiglia di pianisti, e suonano in duo sin da bambini. Sergey, la cui “voce” è stata paragonata addirittura al timbro di Luciano Pavarotti per calore e intensità, ha vinto il primo premio al Concorso internazionale “Jan Sibelius” di Helsinki nel 2000, diventando il più giovane vincitore nella storia del concorso, e nel 2005 ha trionfato al “Reine Elizabeth” di Bruxelles. Nel 2019 ha debuttato con grande successo alla Scala di Milano nella Stagione della Filarmonica, diretto da Myung-Whun Chung. Lusine Khachatryan ha ricevuto a sua volta numerosi riconoscimenti, ed è stata premiata fra gli altri ai Concorsi pianistici internazionali di Ostra, Marsala e Le Havre. Ospite dei principali Festival, da Ravinia a Brema, da Edimburgo allo Schleswig-Holstein, la stampa americana l’ha definita una “poetessa della tastiera”.
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Lunedì 15 novembre 2021
il burro – se ai primi dell'Ottocento un grande collezionista di autografi bachiani non avesse scovato le preziose pagine in uno stock di vecchie carte cedute a un piccolo droghiere. L’ennesimo caso in cui il passato ci è stato amico, ed il destino ci ha dimostrato di poter essere anche generoso. 100 anni più avanti la musica è diversa, e la società pure: i due musicisti vi si addentrano senza paura e ci fanno “accomodare” in un salotto viennese, nel quale risuonano melodiose le dolci note della Sonata n. 4 in la maggiore di Schubert. Un’opera ricca, che alterna il ritmo fresco e la vitalità “beethoveniana” dello Scherzo e dell’Allegro vivace finale, all’Andantino in la maggiore dal tono dolcemente misterioso, che rivela il modello mozartiano di uno Schubert appena ventenne, e richiede all’interprete, al di là di un non eccessivo virtuosismo tecnico, di «intendere la musica, oltre che le note», come scriveva lo stesso autore.
DA ASCOLTARE Da solo, Sergey Khachatryan ama suonare Bach: lo dimostra l’apertura del suo recital per Musica Insieme e il cd Naïve del 2010 dedicato alle Sonate e Partite per violino. Con l’orchestra spiccano invece scelte live e Concerti di autori a lui particolarmente affini come Sibelius, Khačaturjan, Šostakovič: i primi due li ha incisi nel 2003 con la Sinfonia Varsovia ed Emmanuel Krivine, i Concerti di Šostakovič nel 2006 con l’Orchestra Nazionale di Francia diretta da Kurt Masur. Insieme, Sergey e Lusine hanno registrato il loro album di debutto per EMI Classics nel 2002, con musiche di Brahms, Bach e Ravel; l’etichetta francese Naïve ne ha poi pubblicato le Sonate di Franck e Šostakovič (2008), l’integrale di Brahms (2013) e My Armenia (2015), con opere di autori, da Padre Komitas a Edvard Mirzoyan, che hanno saputo amalgamare sonorità dell’Est europeo ed influenze folk. Considerato dai due fratelli fra gli album più importanti della loro carriera per il suo valore simbolico ed ideologico, è dedicato alla centesima commemorazione del genocidio armeno.
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Fanno invece parte del secolo scorso le due esecuzioni finali della serata, con un viaggio sia nel tempo che nello spazio: se infatti con la Sonata n. 3 in sol minore di Debussy siamo a Parigi, avvolti dal desiderio di astrarci dagli orrori della prima guerra mondiale, con Ottorino Respighi e la sua Sonata in si minore (una delle maggiori opere cameristiche di grandi dimensioni da lui composte) siamo a Bologna, dove venne eseguita dal vivo per la prima volta il 3 marzo 1918 da Respighi in persona, con un duo in cui il piano la fa certamente da padrone, in un turbine di virtuosismi, ma il violino da parte sua rispecchia la grande maestria tecnica dello strumento da parte del compositore, che esordì per l’appunto come violinista. Se la Sonata in sol minore sarebbe stata l’ultima opera di Debussy, ormai gravemente ammalato, la Sonata di Respighi è coeva al poema sinfonico Le fontane di Roma e alle Antiche arie e danze per liuto: tre opere fra loro completamente diverse che mettono in luce le capacità di Respighi di esprimersi secondo un’ampia gamma di linguaggi e di stili, facendo coesistere grande intensità espressiva e tecniche proprie del barocco italiano. È un viaggio dunque, quello propostoci dai fratelli Khachatryan, in cui farci prendere per mano ed esplorare i diversi periodi musicali in maniera metodica, precisa, per accorgerci con ancor più facilità ed interesse di come l’evoluzione musicale vada spesso di pari passo con quella umana, e di come la prima sia conseguenza (e allo stesso tempo causa) della seconda. In un’intervista di qualche tempo fa, Sergey Khachatryan ha dichiarato: «Nella vita capitano cose che forgiano la tua personalità, e così si evolve anche il tuo modo di suonare e di pensare la musica. Ma sono cambiamenti delicati, non radicali. Almeno per me». Nonostante queste parole, la carriera dei fratelli Khachatryan mostra un’evoluzione continua, e l’energia e la novità del loro nuovo progetto fa grandi promesse, che siamo sicuri verranno mantenute. Entrambi sono pronti, a suon di strumenti ed excursus temporali, a ricordarci che esiste sempre un passato sul quale poter fare affidamento. Tutti insieme e con coraggio, sembrano intendere, sapremo riprenderci il futuro. Ci vuole tempo, ci vuole Time.
Lo sapevate che Lusine Khachatryan ha inventato il “Piano-Theatre”, un nuovo genere nel quale si mescolano repertorio classico ed arte drammatica
Bologna, arriviamo! Il vostro debutto per Musica Insieme è attesissimo… e tu, sei felice di tornare in Italia? «Amo l’Italia. Un paese pieno di storia, cultura, architettura magnifica… Sarò sincero, l’Italia è uno dei miei paesi preferiti in Europa dopo l’Armenia. Adoro esplorarla, e non parlo soltanto delle grandi città ma anche dei piccoli centri abitati, un patrimonio a cielo aperto senza pari. Mi piace molto il fatto che gli italiani e gli armeni siano così simili, ho sempre notato molte particolarità in comune. Siamo due paesi complicati, sia in positivo che in negativo [ride, ndr]. Sarà la prima volta per me e mia sorella a Bologna, e spero proprio di poter creare un buon rapporto con il pubblico che ci ascolterà quella sera». Com’è nata l’idea del “17” come numero chiave sul quale improntare il vostro programma? «Devo ammettere che l’idea non è del tutto nostra, è venuta ad un nostro amico, mentre io e mia sorella eravamo in Austria. È là che per la prima volta, infatti, abbiamo eseguito il programma di Time. Dopo che ce ne ha parlato ci ho riflettuto a lungo, andando a studiare quali possibili opere includere, e mi ha convinto. Ho voluto espandere questa idea e renderla ancor più coraggiosa, con autori e musiche audaci che si legassero bene l’una all’altra». La serata si concluderà con l’omaggio ad un grande compositore italiano… «Respighi è stata una scoperta per me e mia sorella, lo conoscevamo di fama ma non ci eravamo ancora messi alla prova con una sua composizione. Come artista ho sempre bisogno di esplorare: con lui lo abbiamo fatto e siamo rimasti colpiti dal suo linguaggio musicale, dall’impatto emotivo che ne scaturiva. Ci siamo accostati a questa nuova musica e immediatamente ne abbiamo capito il valore. Non è nel nostro programma soltanto per omaggiare la città di Bologna, ma perché adesso è un pezzo imprescindibile del nostro repertorio». Com’è suonare assieme alla propria sorella? «I rapporti fra sorella e fratello non sono automaticamente facili, ma devo dire che mi ritengo fortunato a collaborare con lei, amo condividere la mia passione per la musica e lavorare al suo fianco. Lei ha un carattere diverso dal mio, ma questo rende le nostre collaborazioni ancora più interessanti. È estremamente talentuosa, ho sempre suonato con lei e non voglio smettere mai di farlo. Se
assisterete al nostro spettacolo, vi assicuro che capirete il perché». La tua è una famiglia di musicisti. Il tuo percorso come violinista è iniziato in maniera spontanea o sei stato orientato verso questa scelta? «In Armenia, così come in Italia, c’è sempre stata la tradizione di far suonare uno strumento ai bambini, anche se adesso il fenomeno sta cominciando piano piano a scomparire. Dato poi che mia sorella aveva scelto il pianoforte, lo strumento dei miei genitori, io venni orientato verso qualcos’altro. Non che il mio apprezzamento per lo strumento non fosse spontaneo, però si è trattato più che altro di una casualità. Da bambino mi motivavano specialmente le esibizioni dal vivo ed è grazie ad esse che trovavo la costanza e la caparbietà per continuare ad esercitarmi e ad evolvere come musicista. Ora so per certo che la musica è la mia vita, ma non saprei dire quale sia stato il momento preciso in cui ho deciso, o capito, che questa fosse la mia strada». Hai qualche idolo, musicista e non? «Non ho mai amato gli idoli, non è un concetto che mi appartiene, è una strada che impedisce di lavorare con originalità al proprio percorso personale. Sono contrario all’imitazione di un’altra figura, per quanto possa essere d’ispirazione. Può essere uno stimolo, una motivazione, questo sì. Ho ammirato ed amato grandi violinisti sin da piccolo, ma ho sempre avuto le mie idee, il mio modo di fare e pensare le cose, ricevendo il supporto di tante persone. A partire dai miei genitori, soprattutto mio padre. Lavorare con mia sorella mi ha permesso di evolvere sia dal punto di vista musicale che umano». Vuoi lasciare un messaggio al pubblico di Musica Insieme? «Mi auguro che chi ha acquistato il biglietto arrivi preparato e con la mente aperta. Giustamente ci si aspetta sempre qualcosa dal musicista, ma credo ci debbano essere delle sane aspettative anche nei confronti del pubblico, che sia pronto e preparato, appunto, a ricevere il messaggio dell’artista. Concentrata, attenta, curiosa: è così che speriamo di trovarti al nostro arrivo, Bologna!». (a cura di Paolo Stegani)
Foto Marco Borggreve
> Intervista > Sergey Khachatryan
Domenica 21 novembre 2021
LA FORMA
L
Bologna lo attende per uno dei suoi due soli recital in Italia: il talento di Trifonov offrirà al pubblico un’originale e affascinante antologia pianistica di Elena Cazzato
e figure delineate da una pennellata decisa, il marmo che si plasma a colpi di scalpello, il verso che si compone per accostamento di sillabe: così le note si susseguono, una sull’altra e una dopo l’altra, seguendo la direzione delle idee del compositore. Se nei primi tre casi la forma dell’opera d’arte si staglia inevitabilmente davanti ai nostri occhi, la forma musicale, al contrario, si nasconde nel mezzo di un piacevole groviglio di suoni. Ogni composizione, tuttavia, possiede una sua specifica forma, intesa come struttura, articolazione delle melodie, organizzazione di frasi e periodi all’interno di ritmi e armonie ben definiti. Nel corso del XIX secolo, i teorici della musica dettarono le regole di costruzione della sonata classica, basandosi sulla prassi compositiva di fine Settecento e inizio Ottocento. La sonata è
DANIIL TRIFONOV
Nato in una famiglia di musicisti nel 1991, Daniil Trifonov ha iniziato lo studio del pianoforte all’età di cinque anni e ha debuttato con l’orchestra a otto. Ha frequentato la Scuola di musica Gnessin di Mosca nella classe di Tatiana Zelikman, per poi proseguire i suoi studi con Sergei Babayan al Cleveland Institute of Music. Nel 2011 è arrivata la vittoria al Concorso “Rubinstein” di Tel Aviv e subito dopo il trionfo al “Čajkovskij” di Mosca. Da allora Trifonov ha attraversato il mondo esibendosi con le principali orchestre e direttori, ospite delle più importanti sale da concerto e festival. Lodato dalla critica per il suo stile interpretativo, che unisce una grande energia a una delicata sensibilità, nel 2014 ha debuttato anche come compositore con la prima mondiale del suo Concerto per pianoforte al Cleveland Institute of Music.
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MUSICA INSIEME
delle idee
DOMENICA 21 NOVEMBRE 2021 ORE 20.30 TEATRO AUDITORIUM MANZONI
DANIIL TRIFONOV
pianoforte
Karol Szymanowski Sonata n. 3 op. 36 Claude Debussy Pour le Piano L 95 Sergej Prokof’ev Sarcasmes op. 17 Johannes Brahms Sonata n. 3 in fa minore op. 5
descritta quale genere di composizione in tre o quattro movimenti, schematicamente riassumibili in un primo di carattere allegro in forma-sonata, ovvero un brano che ruota attorno a due melodie che vengono esposte, per poi scontrarsi tra loro, e infine riappacificarsi; un secondo tempo, libero e più lento; un Minuetto con Trio, ovvero un’antica danza in forma ABA, con la prima parte che si ripete identica all’ultima e un tempo centrale di carattere opposto; un movimento allegro finale, spesso in forma di rondò, caratterizzato dalla presenza di un motivo che si ripete varie volte, inframmezzato da episodi contrastanti. Contemporaneamente, nel 1853 Johannes Brahms scriveva la sua terza Sonata per pianoforte, discostandosi con decisione dalle norme appena dettate – come spesso accade, la teoria viene superata dalla pratica – per dar voce a una forma più fluida. La sonata in questione, infatti, è insolitamente lunga: siamo di fronte a cinque movimenti, in un’atmosfera estremamente monumentale e quasi sinfonica. Dopo un Allegro maestoso e un Andante, il classico Minuetto scompare (come già in Beethoven, ad esempio) a favore dello Scherzo, un tempo dal
Foto Dario Acosta-DG
Domenica 21 novembre 2021
carattere più energico, dal ritmo incalzante. Segue un quarto movimento in una forma completamente nuova, l’Intermezzo, una composizione libera tipica del periodo romantico – in questo caso una riproposizione del secondo tempo in atmosfera macabra – spesso utilizzata dallo stesso compositore come forma a sé, estrapolata dall’ambito sonatistico. Conclude un Allegro moderato, che ricorda un tempo di marcia piuttosto agitato. Mezzo secolo più tardi, anche Karol Szymanowski compose la sua terza Sonata per pianoforte, col numero d’opus 36. Il compositore polacco iniziò la sua carriera musicale rifacendosi all’esperienza romantica e in particolare al connazionale Chopin, per poi allontanarsene quasi completamente e spingersi verso più avveniristiche sperimentazioni. Il brano in questione è testimone di un periodo già maturo: siamo nel 1917, in piena Grande Guerra, quando il genere della sonata veniva completamente distrutto e scardinato dall’interno. Questa sonata, infatti, si basa in realtà su un unico movimento, suddiviso internamente in quattro sezioni dal tempo liquido, che fluttua continuamente. Addirittura la composizione accoglie al suo interno una fuga, forma tipica del periodo barocco, del quale però recupera esclusivamente i procedimenti di costruzione tipici del contrappunto, ma non certo le
DA ASCOLTARE In uscita a ottobre 2021 l’attesissimo cofanetto Deutsche Grammophon interamente dedicato alla musica barocca, in cui Trifonov allinea composizioni di Johann Sebastian Bach, del figlio Carl Philipp Emanuel e del meno noto Gottfried Heinrich Stözel, in un album intitolato Bach: the Art of Life. Recentissime anche le incisioni dedicate a tre grandi Maestri della madre patria, Skrjabin, Stravinskij e Prokof’ev, con la collaborazione dell’Orchestra del Mariinskij diretta da Valerij Gergiev. Lavoro monumentale e tutto russo anche quello del 2019, anno in cui Trifonov ha registrato il Primo e il Terzo Concerto di Rachmaninov insieme all’Orchestra di Philadelphia diretta da Yannick Nezét-Séguin. Fra i tanti riconoscimenti ricevuti, nel 2018 l’artista ha aggiunto un tassello fondamentale alla sua carriera discografica con il Grammy per il doppio album dedicato agli Studi Trascendentali di Liszt (Trascendental, DGG, 2016).
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Lo sapevate che in tempi pre-pandemici Daniil Trifonov cambiava città in media ogni due giorni, per sostenere tournée mondiali di circa 130 concerti all’anno melodie e tantomeno le armonie. In questo caso, quindi, la sonata diventa un pretesto per dare vita ai virtuosismi sfrenati che si agitano nel pensiero del compositore, libero da vincoli. Un altro genere di composizione che si evolve attraversando i secoli, dall’epoca barocca a quella moderna, è la suite, brano formato da un insieme di danze. Nel 1901 Claude Debussy pubblicò Pour le Piano, una suite di tre danze: Prélude, Sarabande, Toccata. Il termine Preludio non connota altro che un brano introduttivo, che prelude per l’appunto alla composizione vera e propria. Il fulcro di Pour le Piano, infatti, è la Sarabanda centrale, un’antica danza in tre movimenti di origine orientale, dal tempo molto lento. Conclude la Toccata: nata come pezzo per organo di accompagnamento al canto, si è trasformata successivamente in una forma ricca di virtuosismi per mettere in risalto tutte le possibilità tecniche degli strumenti a tastiera. Debussy, sul lato formale, rimane fortemente legato alle origini barocche delle danze, ma ne modifica chiaramente le armonie, creando una composizione assolutamente moderna. Succede anche, poi, che sia il compositore stesso a inventarsi una forma per descrivere la sua composizione: è il caso dei Sarcasmes op. 17 di Prokof’ev. Il termine “sarcasmi”, di per sé, non denota nessuna struttura in particolare. Si tratta di un ciclo di cinque brevi brani, ciascuno con un carattere differente e ben distinguibile. Ciò che li accomuna è sicuramente la violenza della scrittura, la presenza fondamentale della componente ritmica e le dissonanze miste a marcati contrasti: forse proprio per la loro potenza innovativa il nostro autore ha voluto dar loro un titolo così eccentrico. Pur essendo il foglio di carta dello spartito perennemente rettangolare, di brano in brano le note vi si dispongono in forma sempre diversa, traducendo in suono le mirabolanti fantasie del genio creativo del compositore.
Foto Francesco Fratto
Lunedì 6 dicembre 2021
UNA ROMANTICA
nostalgia Due grandiosi capolavori della musica da camera in programma per il nostro più acclamato Trio, ambasciatore di Parma Capitale della Cultura di Elisabetta Collina
L
a vicenda del trio con pianoforte è una strana storia di rifiuti, prevaricazioni, alleanze e infine tregue più o meno “armate”. Intanto l’idea di affiancare due archi a una tastiera è vecchia quanto è vecchia la storia della musica da camera, intesa nel senso vero di “musica da casa”. L’iconografia musicale, dal Seicento in poi, è piena di quadri, incisioni, disegni e miniature nelle quali,
TRIO DI PARMA
Il Trio di Parma, formato da Enrico Bronzi, Ivan Rabaglia e Alberto Miodini, si è costituito nel 1990 nella classe di musica da camera di Pierpaolo Maurizzi al Conservatorio “A. Boito” di Parma. Perfezionatosi con il leggendario Trio di Trieste, nel 2000 l’ensemble ha partecipato all’Isaac Stern Chamber Music Workshop presso la Carnegie Hall di New York. Ha ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi, affermandosi ai Concorsi internazionali di Melbourne e della ARD di Monaco, e al “Vittorio Gui” di Firenze. Premio “Abbiati” 1994 quale miglior complesso cameristico, è stato invitato dalle più importanti istituzioni italiane, dall’Accademia di Santa Cecilia a Roma alla Società del Quartetto di Milano, dalla Fenice di Venezia all’Unione Musicale di Torino. All’estero si è esibito nelle principali sale internazionali: Filarmonica di Berlino, Carnegie Hall e Lincoln Center di New York, Wigmore Hall di Londra, Konzerthaus di Vienna, Teatro Colón di Buenos Aires, e ai Festival di Lockenhaus e Melbourne.
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in un interno nobiliare o borghese (dipende dalla zona geografica del pittore), un suonatore o una suonatrice al cembalo sono affiancati da suonatori al violino e alla viola da gamba. Sembrano tutti avere la stessa importanza e la stessa voglia di suonare insieme. Eppure, se osserviamo le partiture coeve, troveremo strane incongruenze: la parte del cembalo propone solo una linea di basso, coi numeri che indicano gli accordi da realizzare come accompagnamento, la parte dell’arco grave ricalca la linea del basso del cembalo e al violino è data tutta l’importanza musicale. Si tratta, insomma, di una aperta concezione gerarchica tra gli strumenti! Le cose si complicano quando, a fine Settecento, al mite cembalista si sostituisce il più aggressivo pianista. Certo, lo strumento non è ancora il sonoro grancoda che conosciamo oggi, ma si fa sentire, e non si adatta più a fare il semplice comprimario. Così, in quel momento, il violino cerca un alleato nel collega dall’estensione più grave, il violoncello che, nel frattempo, ha soppiantato la nobile viola da
Lo sapevate che il Trio ha un intenso impegno didattico al Mozarteum di Salisburgo e ai Conservatori di Novara e Parma, dove tiene un Master di Alto Perfezionamento in musica da camera
LUNEDÌ 6 DICEMBRE 2021 ORE 20.30 TEATRO AUDITORIUM MANZONI
TRIO DI PARMA
ALBERTO MIODINI pianoforte IVAN RABAGLIA violino ENRICO BRONZI violoncello Johannes Brahms Trio in si maggiore op. 8 (II versione) Pëtr Il’ič Čajkovskij Trio in la minore op. 50
gamba. Bisogna però arrivare ai trii di Mozart, e soprattutto a quelli di Beethoven, perché si giunga ad una tregua nella costruzione di un equilibrio stabile fra i tre: bisogna, poi, che la musica da camera, intesa come musica da casa, si trasformi grazie all’ossimoro che tutti conosciamo in musica da concerto, perché per questo genere musicale nascano i grandi capolavori romantici tra i quali, appunto, i due trii in programma in questo appuntamento. In entrambi gli autori qui proposti, Brahms e Čajkovskij, la lezione dei classici viennesi, riletta, ripensata, rimeditata e addirittura stravolta, è imprescindibile punto di riferimento e visione nostalgica di un tempo perduto, che si inserisce alla perfezione nel loro originalissimo sentire romantico. Se c’è una parola comune a questi due brani composti a poca distanza di tempo uno dall’altro, ma in due ambienti culturali lontani quanto più non potrebbero essere, la parola è “nostalgia”. Partiamo da Johannes Brahms, che, giovane straordinario pianista all’inizio della sua carriera, a metà dell’Ottocento sente prepotente il richiamo di un passato glorioso, proprio quando sembra che le certezze - almeno formali - della “musica pura” esaltata dall’antica viennesità classica vengano travolte dalle nuove idee sinestetiche. È in questo momento, tra il 1853 e il 1854, che compone il Trio op. 8, edito nel 1854, dove la forma ereditata dai classici si riempie della foga e dell’irruenza di un pianista ventenne all’inizio della propria esperienza nell’arte. Un’esperienza che non viene rinnegata, tuttavia, ma ripensata e spogliata di tutto ciò che fa retorica in questa versione, in una revisione del Trio che l’autore ripropone alla fine degli anni Ottanta quando, dopo le esperienze sinfoniche, nel suo autunno artistico Brahms ritrova proprio nelle antiche forme della musica da camera, ormai spogliate di ogni ridondanza, la più perfetta espressione del suo malinconico autunno artistico. Malinconia e nostalgia stanno alla base anche dell’altro trio in programma, l’op. 50 di Čajkovskij,
composto in Italia nel febbraio 1882 sotto l’onda emozionale della morte (avvenuta nel dicembre precedente a Parigi) di Nikolaj Grigor’evic Rubinstein, amico carissimo del compositore, alla memoria del quale il brano è dedicato. Sappiamo che la “classicità” per il compositore russo è solamente un sogno ideale di un passato irrecuperabile, e che quasi mai questa nostalgia si trasforma in epigonismo formale di modelli invece irrimediabilmente stravolti dall’interno. Così quando apriamo la partitura del Trio scopriamo davvero delle sorprese. Intanto proprio perché è un trio, quasi a smentire l’affermazione dell’autore che scriveva: «Per me i diversi timbri di questi strumenti si combattono ed è per me, vi assicuro, una vera tortura ascoltare un Trio o una Sonata con il violino o il violoncello. Un Trio presuppone uguaglianza di diritti e omogeneità. Ma come può esistere una tale omogeneità fra strumenti ad arco da una parte e il pianoforte dall’altra?». Nonostante ciò, ne esce un capolavoro di malinconia, dove il musicista russo pare addirittura ricordare l’idea dei grandi tombeaux barocchi. Il brano propone due movimenti, nel primo dei quali (che a grandi linee richiama una forma-sonata allargata) l’indicazione di Pezzo elegiaco è già un programma. Ad esso segue un Tema con variazioni, dove il musicista alterna varietà di intenti: non mancano movimenti di danza (valzer e mazurka) e nemmeno una fuga, che si inserisce nella consueta alternanza tra sezioni espressive e più focose. Poi, dalla nona variazione, indicazioni come Andante flebile, Lamentoso, Lugubre, Piangendo, Poco a poco morendo ci ricordano in conclusione l’intenzione commemorativa dell’intera composizione.
DA ASCOLTARE
L’ultimo lavoro che spicca nella discografia del Trio di Parma è l’album dedicato a Schubert nel 2016, per l’etichetta inglese Decca: il disco contiene l’incisione del Trio con pianoforte D 898 e dell’Adagio D 897. Precedentemente i tre si sono dedicati a monumentali lavori, quali le opere integrali di Brahms per l’Unicef, di Beethoven e Ravel per la rivista Amadeus, e soprattutto di Šostakovič per Stradivarius, con il quale nel 2008 hanno ricevuto il prestigioso premio “Disco dell’anno” dalla rivista Classic Voice. Per l’etichetta Concerto, hanno inoltre inciso i trii di Pizzetti, Liszt, Schumann e Dvořák. Un repertorio molto vasto, dunque, che spazia dalla primissima musica romantica di Schubert, ancora estremamente legata al classicismo, al modernismo novecentesco di Pizzetti.
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Vivere, giocare, suonare > Intervista > Trio di Parma
Foto Francesco Fratto
Ha festeggiato i trent’anni di attività nel 2020, proprio quando Parma diveniva Capitale della Cultura. La chiusura di tutti i luoghi di spettacolo ha interrotto l’autunno scorso il ritratto che Musica Insieme gli stava dedicando per Bologna Modern, salutato da un entusiasmo e un coinvolgimento davvero eccezionali: sul palco del Manzoni, il Trio di Parma concluderà per I Concerti 2021/22 il suo viaggio nella storia della musica. I trent’anni sono un momento di bilanci: quali sono i ricordi più preziosi della vostra storia e cosa prevedete o vi augurate per il futuro? Ivan Rabaglia: «Ricordo la prima volta che suonammo al Regio di Parma per una rassegna di allievi quando non eravamo ancora un trio “ufficiale”. Quello fu il momento in cui ci guardammo in faccia e ci chiedemmo se non era il caso di continuare a suonare insieme. Dopo iniziarono i viaggi: bellissimi ricordi, dai posti più sperduti a quelli più celebrati. Teatri come il Colón di Buenos Aires, la Wigmore Hall di Londra o i nostri meravigliosi teatri italiani ti lasciano un segno dentro perché hanno una storia e risuonano con una propria “personalità”. Ora il Covid ha cambiato noi tutti. E in particolare sto pensando agli ar-
chitetti e agli organizzatori che insieme a noi musicisti dovranno rimodulare il concetto di teatro per far tornare le persone ad ascoltare la musica dal vivo, senza paure e con una nuova visione della partecipazione». Qual è il segreto di una collaborazione così duratura? Immaginiamo che “vivere” un Trio, come spesso si dice per il quartetto d’archi, sia una sorta di matrimonio a tre… I.R.: «In realtà il quartetto d’archi impone una condivisione più intensa rispetto a quella del trio. Questa formazione ti chiede sia la disciplina del quartetto che la libertà del solista. Tutti e tre siamo sposati e con figli, e penso che nessuno di noi viva il trio come un matrimonio. Per come siamo diversi un “doppio matrimonio” sarebbe un disastro! Questi anni insieme ci hanno insegnato che il rispetto delle nostre differenze è il modo migliore per restare uniti nella musica. Un’idea che potrebbe funzionare anche nella società…». Parma è stata scelta come Capitale della Cultura 2020/21. Cosa rappresenta per la vostra storia questa città, che avete significativamente prescelto come nome del Trio? Enrico Bronzi: «Il nostro nome è stato scelto prima
di tutto nella tradizione dei grandi complessi italiani (Trio di Trieste, di Milano, di Bolzano…). Ci siamo formati quando eravamo ancora studenti di una splendida istituzione, il Conservatorio di Parma. Per questa ragione è stato naturale darci questa connotazione, nonostante il nome della nostra città sia soprattutto legato alla lirica, fenomeno che quando eravamo ragazzi un po’ snobbavamo perché ci sentivamo abitanti di un altro universo, quello della musica da camera. La storia musicale di Parma è però gloriosa, ed entrare al Teatro Farnese o suonare al Teatro Regio è una delle emozioni più forti che ancora proviamo. La nostra è una città magica per la sua atmosfera e per la storia stratificata che ai fasti medievali affianca le testimonianze farnesiane o i segni del Ducato di Maria Luigia d’Austria, che fu sposa del Bonaparte». Il ritratto in tre concerti dedicatovi da Musica Insieme, che completerete quest’autunno, è anche un ritratto del trio con pianoforte dall’Ottocento a oggi: come avete inteso questo percorso nella scelta degli autori e delle “aree” geografiche? Alberto Miodini: «Se la pratica della musica da camera sino alla prima metà dell’Ottocento ha trovato terreno fertile, con il suo straordinario repertorio, essenzialmente nell’Europa Centrale (con Vienna innegabile punto di riferimento), a partire dal Novecento si assiste a un eccezionale allargamento degli orizzonti geografici e culturali per questo genere di musica. Le opere per trio con pianoforte ne sono una sicura testimonianza e con i nostri programmi – partendo dalla Russia di Šostakovič e passando dalla Francia di Ravel siamo approdati in una Irlanda rivisitata dallo svizzero Martin – abbiamo cercato di illustrare come autori di origini e formazione differenti si approccino nelle maniere più diverse agli aspetti formali, estetici, timbrici e coloristici, studiando e superando, direi, l’annosa problematica della convivenza di strumenti dalla natura assai diversa quali gli archi e il pianoforte». Al pubblico di Musica Insieme proporrete infine due capolavori ottocenteschi… Enrico Bronzi: «La cosa interessante è che questo programma accosta due polarità opposte dell’Ottocento: Brahms e Čajkovskij d’altronde si detestavano cordialmente, e in modo abbastanza esplicito… Con loro ci troviamo di fronte a due forme di pensiero assolutamente contrapposte del XIX secolo, e si capisce quindi perché si detestassero: il loro mondo musicale è radicalmente opposto. Ovviamente sono due giganti: in Brahms c’è la consapevolezza incredibile di ogni elemento costruttivo, e un artigianato musicale e formale di estrazione tipicamente tedesca, mentre Čajkovskij parte dall’anima, dall’idea che la musica sia spontaneità, sia biografia. Lo stile di Čajkovskij
per certi aspetti appare molto più “floreale”, ma viene compensato dalla dimensione e dall’articolazione del racconto, come un grande romanzo russo dell’Ottocento». Infatti nel suo Trio op. 50 c’è proprio un riferimento autobiografico alla morte dell’amico Nikolaj Rubinstein. E.B.: «Sì, e a partire da lui il riferimento elegiaco alla morte di un amico diventerà una sorta di ossessione per la musica russa: Rachmaninov scriverà due trii, entrambi elegiaci, entrambi con il tema della “marcia funebre”, e anche Šostakovič nel suo secondo Trio renderà un omaggio postumo all’amico Sollertinskij: insomma il carattere “elegiaco” diventa una sorta di modello irrinunciabile per Čajkovskij, ma contagia anche molta musica russa. E si capisce perché: questo Trio è una specie di viaggio pieno di ritratti, c’è la mazurka, c’è il valzer, c’è tutto un insieme di colori che ci dà proprio la percezione di compiere un grande viaggio, o di leggere un grande romanzo». E in Brahms? E.B.: «Brahms non è da meno, nella sua opera 8 la dimensione del viaggio si compie a un livello più subliminale ma anche più profondo: in lui il viaggio è inteso come il continuo lavorio sul materiale, l’idea della variazione continua, il dire molto con il poco, che è un’ambizione artistica molto alta. Nella prima versione del Trio, del 1854, ci sono fra l’altro degli elementi autobiografici, come un tema di Schubert citato nell’Adagio che era in realtà un omaggio a Clara Wieck, poi espunto nella revisione del Trio che Brahms farà più di trent’anni dopo, in favore di una concezione più coerente e compatta. Ma la cosa interessante è che evidentemente il vecchio Brahms tiene molto da conto questo suo trio giovanile, decidendo di lavorarci ancora nella maturità». La mattina del 6 dicembre incontrerete gli alunni delle primarie e medie per la nostra iniziativa “Che musica, ragazzi!”. Quando la musica è bella, non ha limiti di età: tutto sta a come raggiungere i giovanissimi, e spesso sono loro stessi a indicarci la strada per farlo… E.B.: «Questo è molto vero. È inutile che ci sforziamo di entrare nella loro mente, i bambini hanno anche molta iniziativa, e sanno benissimo cosa vogliono. Forse partirei dal fatto che l’esperienza di suonare insieme è un privilegio grandissimo, perché ci consente in qualche modo di continuare a giocare anche da grandi. In musica, la dimensione del lavoro non fa perdere quella forma di divertimento che è suonare insieme e ragionare intorno alle cose belle: queste cose apparentemente inutili e superficiali rispetto al racconto della vita sono in realtà quelle che la rendono più interessante e più bella». (a cura di Fulvia de Colle) MI
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Lunedì 13 dicembre 2021
UNO STRUMENTO di Maria Chiara Mazzi
LUNEDÌ 13 DICEMBRE 2021 ORE 20.30 TEATRO AUDITORIUM MANZONI
IL POMO D’ORO AVI AVITAL mandolino
Giovanni Paisiello Concerto per mandolino e archi in mi bemolle maggiore Emanuele Barbella Concerto per mandolino e archi in re maggiore Domenico Scarlatti Sonate per mandolino e basso continuo K 90 e K 91 Baldassarre Galuppi Concerto per flauto, archi e cembalo in re maggiore Carlo Cecere Concerto per mandolino e archi in la maggiore
Foto Zohar Ron
Un ritorno e un debutto attesissimi quelli di Avi Avital e dell’ensemble Il Pomo d’Oro, in un programma tutto italiano che attraversa la storia del repertorio per mandolino
versatile
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I PROTAGONISTI
Nato a Be’er Sheva, in Israele, Avi Avital ha iniziato a studiare il mandolino a otto anni e presto si è unito all’orchestra di giovani mandolinisti fondata e diretta dal violinista russo Simcha Nathanson. Vincitore del prestigioso Concorso Aviv di Israele nel 2007, Avi Avital è il primo mandolinista nella storia a ricevere questa onorificenza. È stato anche il primo solista di mandolino ad essere nominato per un Grammy Award classico. Fra i solisti più richiesti nei festival e nei teatri internazionali, è dedicatario di più di cento composizioni contemporanee, fra cui i recenti Concerti di Giovanni Sollima, Avner Dorman, Jennifer Higdon. Il Pomo d’Oro è un ensemble specializzato nelle esecuzioni storicamente informate di periodo barocco e classico. Formatosi nel 2012, prende il nome da un’opera monumentale di Antonio Cesti del 1666. Dal 2016, Maxim Emelyanychev ne è il direttore principale e dal 2019 Francesco Corti collabora come direttore ospite. L’ensemble ha all’attivo tournée nelle più note sale da concerto di tutta Europa e ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali.
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Foto JMignot
Lunedì 13 dicembre 2021
andolino napoletano: strumento a corde pizzicate che raggiunge la perfezione ad inizio Settecento, con quattro cori (cioè corde doppie) accordati come fosse un violino. Di primo acchito, appena sentiamo questa parola e leggiamo questa definizione pensiamo allo strumento popolare legato alla visione oleografica e stereotipata della città di Napoli. E siccome nella nostra esperienza di ascolto siamo abituati a distinguere nettamente generi e categorie, destinazioni e utilizzazioni della musica, quasi che i brani fossero merci da distribuire ordinatamente sugli scaffali di un grande magazzino, ci chiediamo stupiti cosa ci faccia uno strumento come questo in una stagione di concerti di “classica”. La prima risposta è che proprio un concerto come questo serve a mettere a posto le cose, a cambiare le nostre prospettive e a conoscere meglio la storia, quella della società che consumava musica nel Settecento e infine, o innanzitutto, quella della musica. Gli strumenti musicali sono, appunto, strumenti, cioè mezzi attraverso i quali si fa musica, e le connessioni tra i generi e gli usi sono state da sempre frequentissime: il fatto che fosse una consuetudine popolare, all’epoca di cui stiamo parlando, non impediva che gli stessi strumenti che suonavano agli angoli delle strade di Napoli, come appunto il mandolino, diventassero protagonisti anche nelle chiese e nei teatri, nelle sale da concerto, nei palazzi e nelle case.
Luoghi, questi ultimi, dove la musica da camera era “musica da casa”, familiare, destinata all’uso personale di bravi dilettanti: per loro componevano anche importanti musicisti, autori magari di melodrammi applauditissimi, o le cui musiche arricchivano le più importanti cerimonie religiose. Questi stessi compositori componevano decine di brani anche per il mandolino, affiancandosi in questo ad autori meno consueti nelle comuni programmazioni di oggi, ma che non fanno che confermare la diffusione capillare di un repertorio e di uno strumento. Simbolo stesso di nobiltà e di aristocratica eleganza, protagonista dei salotti della Napoli tardobarocca, il mandolino conosce nel contempo anche una diffusione negli ambienti musicali pubblici, e raggiunge una fama straordinaria, al punto da essere spesso utilizzato per accompagnare arie all’interno dei melodrammi, anche grazie a virtuosi dello strumento che, sull’onda della diffusione internazionale dell’opera italiana, conquistano il pubblico di tutta Europa con la propria bravura e la propria abilità, contribuendo non poco alla conoscenza dello strumento a pizzico anche in luoghi lontani. Si tratta di una fama che sempre più si consolida nel corso del secolo, fama alla quale contribuisce anche la presenza di quei tanti viaggiatori culturali che giungono a Napoli da tutto il continente e che non solo riportano nei diari di viaggio le loro impressioni sulla musica ascoltata, ma spesso acquistano, per potere rieseguire il repertorio una volta tornati a casa, spartiti musicali che oggi costituiscono preziose collezioni di musica italiana laddove non ti aspetti. Ne è esempio illustre la collezione “Gimo” (dal nome della tenuta della famiglia presso la quale è stata conservata fino a metà Novecento, e ora alla biblioteca di Upssala), raccolta durante il suo viaggio in Italia a metà Settecento dallo svedese Jean Lefebure, all’interno della quale, oltre al resto, troviamo una preziosa raccolta di musica per mandolino del primo Settecento che comprende composizioni di Giuliano, Caudioso, Cocchi e Gervasio e anche alcuni dei brani in programma di Cecere e Bardella. Venendo direttamente alle pagine proposte in concerto, vediamo subito che non mancano, quindi, autori di grande fama: Domenico Scarlatti, celebre per le oltre cinquecento sonate per clavicembalo, ma anche per una ventina di brani analoghi destinati al mandolino, o, sempre in area culturale napoletana, Giovanni Paisiello, che recupera nelle sue pagine destinate al mandolino il paesaggio sonoro della città partenopea. Non ci deve stupire poi la presenza di Baldassarre Galuppi, esponente dell’ultimo Settecento veneziano, perché proprio
a Venezia il mandolino aveva goduto di tale apprezzamento da spingere lo stesso Vivaldi a dedicargli alcuni concerti. A fianco di queste personalità, le cui opere ancora oggi si riempiono i cartelloni, non c’era però il vuoto che oggi tendiamo a raccontare quando ragioniamo di storia della musica: per accontentare la grande quantità di consumatori di questo genere di musica esisteva, come detto, Lo sapevate che Il Pomo uno straordinario tessuto connettivo di compositori e d’Oro è ambasciatore di virtuosi che con le loro ufficiale dell’associazione opere contribuivano a difEl Sistema Greece, fondere una prassi e uno stile, come le onde che si irun progetto umanitario radiano in uno stagno che offre un’educazione quando lanciamo un sasso, musicale ai bambini nei trasformando in patrimonio di tutti le idee più innovative campi profughi in Grecia dei 'grandi'. Tra essi Emanuele Barbella, primo violino nei teatri di Napoli e membro della Cappella Reale, che accompagnò Charles Burney in una celebre “visita musicale” nella città, e Carlo Cecere, “contrappuntista e violinista eccellente”, oltre che abile flautista e compositore di opere buffe, e protagonista di celebri salotti partenopei. Entrambi testimoni del tempo e dello splendore di quella civiltà musicale napoletana che vide nel Settecento proprio uno dei suoi momenti di maggiore gloria.
DA ASCOLTARE In uscita a ottobre 2021 l’ultimo lavoro del Pomo d’Oro diretto da Francesco Corti. L’album è intitolato Anima aeterna, sulla scia della precedente registrazione Anima sacra, con la quale l’ensemble era stato insignito del prestigioso premio Opus-Klassik nel 2019. Si tratta di una raccolta di arie sacre e mottetti del XVIII secolo affidati alla sapiente voce del controtenore Jakub Józef Orliński. L’album, pubblicato dall’etichetta Erato, contiene diverse prime assolute e si avvale della partecipazione del soprano Fatma Said nel brano Laetus Sum di Zelenka. Avi Avital, ormai da anni artista esclusivo Deutsche Grammophon, ha realizzato proprio l’anno scorso il suo ultimo album: Art of the Mandolin, recensito in questo numero nella nostra rubrica Da ascoltare. Ricordiamo inoltre il suo cd dedicato a Vivaldi, registrato per la medesima etichetta nel 2015, vincitore del premio ECHO Klassik.
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Incontri brillanti > Intervista > Avi Avital e Il Pomo d’Oro Per il nostro “concerto di Natale” l’entusiasmo per il ritorno a Bologna di Avi Avital si somma all’attesa di un debutto, quello dell’ensemble Il Pomo d’Oro: ne abbiamo parlato con uno dei suoi fondatori, il violista Giulio D’Alessio, in dialogo con lo stesso Avital.
Dove vi siete incontrati e come avete deciso di collaborare? Avital: «Conosco le registrazioni de Il Pomo d’Oro da quando l’ensemble si è formato e fin da subito sono rimasto sbalordito dalle loro interpretazioni così ricche d’energia. Poi, mentre mi trovavo a Hong Kong in tournée, durante una serata libera scoprii del tutto per caso che l’ensemble si esibiva proprio quello stesso giorno a Hong Kong insieme a Joyce DiDonato. Il loro spettacolo così elegantemente studiato e la loro performance scoppiettante furono la conferma di ciò che avevo provato ascoltando le registrazioni, e così dissi a me stesso: “Devo per forza suonare insieme a loro!”. Credo infatti di condividere con Il Pomo d’Oro l’obiettivo ultimo di donare al pubblico un’esperienza musicale originale, fresca ed entusiasmante». D’Alessio: «Ci siamo conosciuti due anni fa, immediatamente prima della pandemia, a Hong Kong. Avi è venuto a sentire il nostro concerto, e poi a cena, parlando, ci è venuta l’idea di fare qualcosa insieme. Io sono napoletano, e lui, in quanto mandolinista, non può che avere un debito con la mia città: fare un programma su Napoli e il mandolino ci è sembrato subito molto naturale. D’altra parte Avi è veramente un musicista virtuoso, eclettico e brillante!». Maestro Avital, come e quando ha scelto il mandolino come “suo” strumento? Avital: «A otto anni ho voluto iniziare a suonare il mandolino perché uno dei miei vicini lo suonava, ed era praticamente il primo vero strumento che potevo vedere, sentire e toccare da vicino. Ricordo che il legame fu fulmineo. Come qualsiasi strumento a corde pizzicate, è molto intuitivo: c’è una corda, la pizzichi con le dita o con un plettro e il suono esce. Per un bambino tutto questo è assolutamente magico e molto più immediato di qualsiasi strumento ad arco o a fiato». Qual è la relazione tra mandolino e repertorio classico? Avital: «La storia della musica ha sempre considerato il mandolino come uno strumento amatoriale. Solo pochi brani “classici” furono scritti dai
più famosi compositori: Vivaldi, Scarlatti, Mozart, Beethoven ad esempio hanno scritto per mandolino, ma rispetto agli altri lavori questi pezzi costituiscono una minoranza, per quantità e importanza nell’ambito della loro produzione. Per questo ho eseguito molti arrangiamenti di pezzi scritti per altri strumenti, pensando che avrebbero assunto un ulteriore valore artistico se eseguiti sul mandolino. Dedico anche gran parte della mia attività a promuovere l’ampliamento del repertorio mandolinistico». Quando pensiamo al suono del mandolino, ci ricolleghiamo immediatamente al folklore. Come percepisce il rapporto tra musica classica e popolare attraverso il mandolino? Avital: «Questo tema mi ha sempre incuriosito, a causa della natura del mio strumento, che è poi la natura della grande famiglia di strumenti popolari a corde pizzicate, ma anche del mio amore per i più diversi generi musicali. In particolare, adoro i compositori che hanno scritto musica “per sala da concerto” ispirata al loro stesso folklore, come Bartók, de Falla, Villa Lobos, Piazzolla, e persino Dvořák e Ravel». Come avete scelto questo programma “tutto italiano”? E come vi sentite a suonare proprio in Italia questo tipo di repertorio? Avital: «L’Italia è considerata il luogo di nascita del mandolino. Lo strumento è ancora più legato alla città di Napoli e al folklore napoletano, talmente tanto che i due diventano quasi sinonimi. Abbiamo quindi deciso di esplorare il repertorio musicale per mandolino composto a Napoli nel XVIII secolo. Ci sono alcune rare perle musicali di autori napoletani purtroppo poco noti, le cui composizioni hanno fatto brillare il mandolino nel modo più autentico, nobile e scintillante». Maestro Avital, recentemente ha registrato per Deutsche Grammophon un album dedicato a Vivaldi, ma è solito suonare tantissima musica barocca dei più disparati compositori. Come descriverebbe questo particolare periodo storico-musicale? Avital: «Il periodo barocco è generalmente molto adatto al mandolino e molto divertente da suonare. C’è un alto grado di improvvisazione e in qualche modo c’è una maggiore libertà di interpretazione, se facciamo il paragone con gli stili di musica classica più recenti. In questo specifico programma è stato interessante tuffarsi nel particolarissimo stile del barocco napoletano, esplorando le sue sfaccettature. È così diverso dalla musica di Vivaldi dello stesso periodo, così come il dialetto napoletano o la cucina tipica sono diversi rispetto a quelli veneziani – diversi, ma interconnessi, s’in-
tende. In entrambi i casi, la musica riflette incredibilmente la cultura locale. Il barocco napoletano è pieno di fantasia e umorismo, ed è altamente sentimentale». Maestro D’Alessio, Musica Insieme è felice di accogliere il vostro debutto a Bologna, e leggiamo di una vostra futura “casa” a Monte Savino; d’altronde il vostro nome e molti membri dell’ensemble sono italiani: com’è il rapporto con il panorama musicale italiano nel vostro repertorio? D’Alessio: «Il nostro nome è italiano, certo, e deriva dal titolo di un’opera mitica di Cesti, ma l’orchestra è molto internazionale. Abbiamo musicisti da tutto il mondo, che partecipano ai nostri progetti. Siamo un’orchestra specializzata nell’opera barocca, perciò suoniamo quasi interamente musica italiana. Da poco abbiamo fondato il nostro coro e approfondiremo repertori di musica vocale del tardo rinascimento e del primo barocco. I nostri ultimi progetti, a dire il vero, sono stati incentrati sulla musica di Bach, Mozart, Wagner, Mahler, e altri compositori non contemporanei. Ma è vero riconoscere che i primi anni dell’orchestra sono stati caratterizzati da una programmazione quasi esclusivamente di musica italiana». (a cura di Elena Cazzato)
Per leggere / di Chiara Sirk
Gabriele Raspanti Sillabario di musica
(Diastema Editrice, 2020)
Gabriele Raspanti, violinista ben noto a Bologna, dove si è diplomato sotto la guida di Paolo Borciani, fondatore, nel 2002, dell’ensemble Harmonicus Concentus, concertista e docente al Conservatorio di Cesena, ha scelto per il titolo del suo primo libro una parola desueta, che ha il profumo di una libreria antiquaria: Sillabario di musica. Fantasie cromatiche di un violinista (Diastema Editrice, 2020). L’opera rivela che nell’autore convivono più interessi: quello per la musica e quello per la letteratura e per le arti figurative. Avrebbe come musicista, didatta, laureato in lettere classiche le carte in regola per scrivere un trattato, invece ha scelto la forma del racconto, che Raspanti chiama dialogo e diario, in ventitré capitoli, legati da un filo rosso che unisce musica e alfabeto. Così troviamo divagazioni dalla a alla zeta, da dissonanza a opera, polifonia, ritmo: parole con evidenza legate alla musica, qui trattate in modo non convenzionale. E voci come corpo, malinconia, quadri, zibaldone dove il nesso con la musica è più nascosto. Non è un manuale per addetti ai lavori, ma un libro che racconta, che narra per il piacere di chi lo ha scritto e di chi lo vorrà leggere.
Laura Marzadori L’altra metà delle note
(HarperCollins Italia, 2021)
Laura Marzadori è una nota e apprezzata violinista nata a Bologna, precoce talento, arrivata al prestigioso traguardo di primo violino di spalla dell’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano. Dedica anche molto spazio alla musica da camera raccogliendo lusinghieri consensi. All’archetto per qualche tempo ha affiancato la scrittura dando alle stampe il suo primo romanzo. S’intitola L’altra metà delle note (HarperCollins Italia, 2021, 240 pagine). Potremmo definirlo un romanzo di formazione, in cui la protagonista, Tina, a soli tre anni desidera vivere di musica. Perché il sogno si avveri la strada è lunga, numerosi sono i sacrifici ed è necessario fare i conti con i propri aspetti più fragili, con i disturbi alimentari. Nel libro, molto fresco e onesto, si intravedono i lati oscuri di una professione estremamente esigente. Tina troverà la forza di superare anche i momenti più bui? Non sveliamo il finale, diremo solo che non è un romanzo autobiografico, anche se l’autrice ha dichiarato che l’invenzione si mescola a momenti che lei ha realmente vissuto. 58
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BONONIA Una raccolta di saggi, un “sillabario”, un romanzo: tre originali sguardi sulla musica in cui pulsa il cuore della nostra città
È di recente uscita il volume Maestri di musica al Martini. I musicisti del Novecento che hanno fatto la storia di Bologna e del suo Conservatorio (256 pagine) sulla cui copertina campeggiano i nomi di Piero Mioli e Jadranka Bentini che lo firmano come curatori perché 43 sono gli autori che concorrono, con vari contributi, alla pubblicazione. È il dodicesimo titolo della collana Musicalia dell’editore bolognese Pendragon. Nasce come un omaggio al Conservatorio intitolato a Padre Martini per poi ben presto assumere un respiro ben più ampio, perché i protagonisti furono sì docenti di quella scuola, ma sapientemente costruirono molteplici rapporti, legami saldi, scambi con innumerevoli altre realtà. Il Conservatorio stesso ha visto passare nelle sue belle aule, nei suoi severi corridoi i protagonisti della vita musicale italiana, la cui fama travalicava i confini. Significativa la testimonianza diAlberto Caprioli che incontra per la prima volta nel 1980 Claudio Abbado al Musikverein di Vienna. Il Maestro gli chiede «Sei di Bologna? Allora conoscerai Tito Gotti, un musicista intelligente e prezioso, un amico». Ecco dove poteva arrivare il Conservatorio Martini attraverso i suoi docenti. Il libro tenta di racchiudere un mondo sfuggente, perché in perenne movimento: docenti che arrivano e che dopo qualche anno se ne vanno, personalità che hanno segnato
docet
la musica ma non il Conservatorio, maestri “storici” che hanno lasciato la propria impronta indelebile su generazioni di studenti. Indagare questa magmatica realtà, che va da Respighi a Gaspari, da Molinari Pradelli a Ferrari Trecate, da Manzoni a Buscaroli, coordinando un pool di collaboratori notevole, per numero di autori e per competenza, deve aver richiesto un impegno rigoroso, costante e di lunga durata. Il libro è certamente una pietra miliare nell’indagare i musicisti presenti a Bologna nel Novecento, secolo che non pare sia stato tanto breve, almeno leggendo queste pagine. Si resta stupiti di quante persone illustri siano passate per Bologna arricchendo l’istituzione felsinea ma, nello stesso tempo, scoprendo la città, il suo patrimonio di storia, cultura, musica. Leggendo di Abbado, di Benedetti Michelangeli, di Busoni ci si chiede che fine abbia fatto tutto questo. Difficile rispondere. Resta la certezza di un’istituzione che porta avanti un’eredità impegnativa. Lo fa sapendosi rinnovare senza rinunciare alla propria memoria, fatta di bravi insegnanti (quanti nomi ben noti ricorrono, Zecchi, Salce, Noferini, Proietti, Fugazza e così tanti altri che è impossibile ricordarli tutti) qui raccontati in modo sapiente. Piero Mioli e Jadranka Bentini (a cura di) Maestri di musica al Martini
(Pendragon, 2021)
Da ascoltare / di Roberta Pedrotti
PIZZICARE, percuotere L’arte del mandolino di Avi Avital e le arti incantatorie del pianoforte, dall’impeto chopiniano di Beatrice Rana alle “sottrazioni progressive” di Silvia Turchetti Chopin
Beatrice Rana (Warner Classics, 2021)
Études op. 25 – 4 Scherzi
A nemmeno trent’anni Beatrice Rana ha già inanellato conferme su conferme che il suo precoce talento non era un fuoco di paglia, che la sua fama e la sua carriera sono ben meritate. Per chi scrive la folgorazione fu con la Sonata n. 2 di Chopin, tecnicamente formidabile, poeticamente ponderata e profonda. Le stesse qualità ricorrono ora in quest’ultimo Chopin discografico, in cui Rana sciorina tutto l’armamentario della pianista di primissima categoria, né si sa se ammirare più il nitore, l’elasticità, la plasticità del tocco, il dominio delle dinamiche e del legato, la fluidità del fraseggio, l’intelligente uso del pedale e degli accenti. Rana, però, conosce l’ideale rinascimentale della sprezzatura, l’arte della naturalezza più raffinata e disinvolta in cui nulla è lasciato al caso, privo di ragione e studio. Studio, appunto, come le dodici Études op. 25, che non sono solo un prontuario di elementi tecnici, ma anche un repertorio retorico coerente e variegato fra il patetico e l’elegiaco, il brillante e il tragico. Al pari, poi, degli Scherzi, Rana fa piazza pulita del bozzettismo e dà ragione espressiva al gesto, senso al segno, per uno Chopin di rara eleganza e incisività. Beethoven, Liszt, Schoenberg, Webern, Conz
Silvia Turchetti (EMA Vinci, 2021)
L’evoluzione delle assenze
Questo è un disco a tesi. Chiara e decisa, racconta un’evoluzione formale che in due secoli di musica è proceduta per sottrazione, dando sempre più spazio e valore all’assenza. Ora, del principio assoluto si potrà discutere, ma il percorso è scelto e perseguito con coerenza e convincente determinazione. Posa solido in grembo a Beethoven, alla Sonata n. 31 op. 110 e dunque all’ultima produzione, la resa dei conti che marca i vuoti dell’esistenza nella rinuncia alla dedica, come in soluzioni formali sempre più precipitose ed elusive. Essenziale ed elusivo è pure il Liszt di St. François de Paule marchant sur l’eau, che fa del virtuosismo un elemento drammaturgico contrapposto a un’unica minimale melodia carsica. Il passo verso lo Schoenberg dei Sechs kleine Klavierstücke – e, inevitabile conseguenza, il Webern delle Variationen für Klavier – è forse più breve di quanto non sembri. Se spiazza l’improvviso vuoto intorno a questi frammenti di armonia e melodia, è continuo il filo che lega costruzioni tematiche essenziali. Anche il tocco pianistico via via si scarnifica verso l’astrazione estrema, fino ai pezzi scritti all’uopo nel 2020 da Roberto Conz: per Silvia, tre altre variazioni sull’assenza.
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Be’er Sheva, nel deserto del Negev, è una città universitaria, rinomata per gli scacchi, il calcio e la lotta. Ed è una capitale del mandolino. Questa è una storia che sembra uscita da una sceneggiatura di Allen o di Brooks. Negli anni Settanta il violinista Simha Nathanson emigrò dalla Russia in Israele, proponendosi come docente al conservatorio di Be’er Sheva. «Benissimo – gli risposero – ma le cattedre di violino sono già tutte occupate. Però abbiamo un magazzino pieno di mandolini e nessuno che lo insegni». Nemmeno Nathanson lo sapeva suonare, ma non si perse d’animo e, da violinista, inventò una tecnica il mandolino. Ebbe fortuna e dalla sua scuola sono emersi alcuni fra i maggiori virtuosi odierni dello strumento. Fra loro, Avi Avital, assai impegnato nel rivitalizzare e incrementare il repertorio per mettere a frutto il potenziale della scuola Nathanson. Questo cd ne è uno splendido saggio che spazia da Vivaldi, a un raro Beethoven giovanile, dal Novecento storico di Ben-Haim e Henze alla contemporaneità di Sollima e Bruce, attraversa la letteratura espressamente destinata al mandolino non senza toccare il genere della trascrizione con una Sonata di Domenico Scarlatti. La corda pizzicata accomuna il mandolino e il clavicembalo, la scrittura di Vivaldi e di Scarlatti non differisce troppo nell’articolazione. Il tocco di Avital mette in luce l’affinità, ma marca anche la peculiarità del suo strumento, la brillantezza e la ricchezza del suono, il potenziale di colori e dinamiche. Ancor più, in Beethoven sentiamo il mandolino emancipato in una cantabilità preziosa nei suoi chiaroscuri. BenHaim echeggia la tradizione ebraica e mediorientale giocando su accostamenti con chitarra e cembalo che si ritrovano, come tiorba o arpa, anche in Bruce e Henze, così da enfatizzare un richiamo al passato in dialogo e contrasto con intervalli ed elementi novecenteschi e contemporanei. Il confronto si fa poi monologo in Sollima e ribadisce la gloria della scuola di Be’er Sheva e dell’arte di Avital. Vivaldi, Beethoven, Bruce, Sollima et al. Avi Avital, Venice Baroque Orchestra, Anneleen Lenaerts et al. (Deutsche Grammophon, 2020) Art of the Mandolin
Fondazione Musica Insieme Galleria Cavour, 3 – 40124 Bologna Tel. 051 271932 – Fax 051 279278
Editore
Fulvia de Colle
Direttrice responsabile Irene B. Grotto, Cristina Fossati, Riccardo Puglisi, Alessandra Scardovi
In redazione
Luca Baccolini, Elena Cazzato, Elisabetta Collina, Maria Pace Marzocchi, Maria Chiara Mazzi, Chiara Sirk, Paolo Stegani, Brunella Torresin
Hanno collaborato
Kore Edizioni - Bologna
Grafica e impaginazione
Grafiche Zanini - Anzola Emilia (Bologna)
Stampa
Registrazione al Tribunale di Bologna n° 6975 del 31-01-2000
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