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Facoltà oscura

Facoltà oscura

di Vincenzo Marino

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Racconto vincitore 2022 della selezione nazionale della collana Corali, IVVI Editore, distribuita da Messaggerie Libri S.p.A.

“Questa non è una storia d'amore, ma una storia sull'amore, su chi scappa per paura di soffrire e che si arrende lasciandosi sfiorire. Lei scappò... e lui si arrese.” [#originalsin]

La voce che sentite non è quella con cui parlo ma quella con cui penso. Io non parlo da quando avevo dieci anni. Nessuno è mai riuscito a sapere perché, nemmeno io. I medici pensavano si trattasse di una malattia localizzata alle corde vocali, mio padre invece era convinto si trattasse di una facoltà oscura, e che quello in cui mi sarei messo in testa di non respirare più sarebbe stato il mio ultimo giorno. Mi chiamo Jonas, sono nato a Verrès, un piccolo paesino ai piedi del monte Rosa nelle Alpi Pennine, figlio unico di genitori borghesi. Essere figli unici agli inizi del XX secolo era piuttosto raro ma fu proprio questo a salvarmi la vita nei tormentati primi cinquanta anni del secolo; non solo, mi permise di poter studiare e assecondare la mia vera passione: la montagna. Quel sabato 6 luglio 1935 fu una giornata speciale. Oltre ad essere stato il mio trentesimo compleanno fu anche la data del mio primo contratto come guida alpina. Una guida alpina muta? Perché no? È stata proprio questa mia facoltà oscura ad avvicinarmi ai silenzi delle vette. Loro non hanno mai avuto bisogno di ascoltare la mia voce, ma solo i miei pensieri e io, stanco di ascoltare sempre le altrui voci e mai la mia,

decisi di dedicarmi all'arte di ascoltare il silenzio e di farne parte per il resto della mia vita.

Certo qualche difficoltà c'è stata, ho dovuto imparare il linguaggio dei segni, non solo nella mia lingua ma anche in francese e tedesco poiché non esiste una lingua dei segni universale. L'alpinismo lo è, e in questo sono stato facilitato. Chi va per monti, dalla Cina all'America, usa sempre lo stesso linguaggio. Ho deciso di raccontarvi una storia, anzi di scriverla. Ciascuno di noi, quando pensa, pensa con la propria voce, la conosce, la riconosce. Io no. Non so che voce io abbia, ma è l’unico modo che conosco per parlare e per ascoltare le mie stesse mute parole.

Il Grande e il Piccolo Pianoro

Appena dentro la grande vallata, là dove i suoi fianchi montuosi incominciano a superare i 2.000 metri di quota, si trova, sulla sinistra, una valle secondaria, poco conosciuta, poco frequentata. Vi si accede attraverso un sentiero di montagna, stretto, ripido e con molti tornanti. Il sentiero supera un salto di parecchie centinaia di metri e si snoda in una fitta abetaia tormentata da rocce affioranti. Superato questo tratto iniziale aspro e selvaggio, si approda a un Grande Pianoro. Al suo inizio sorge l'unico paesino della valle. Le tipiche case, una ventina in tutto, in sasso e legno, sono raggruppate le une vicine alle altre, quasi a difesa dalle insidie della montagna. Il pianoro è solcato da un torrente dalle acque limpide che, dopo aver lambito il paese, precipita a valle impetuoso e spumeggiante. Al termine del Grande Pianoro un salto, dà accesso al Piccolo Pianoro. Su questo sorge un modesto rifugio, ma con tanto d'ingresso invernale sempre aperto. Il rifugio è un'ottima base di partenza per le numerose cime che fanno corona al Piccolo Pianoro. Ed è qui che il 6 luglio 1935, presi contatto con Yvonne e suo marito Aloïs, una coppia di alpinisti francesi, in vacanza in Italia, in cerca di emozioni.

Mi chiesero di condurli sulla Quota 4.106, una cima posta lungo il confine italo - elvetico e al disopra della testata settentrionale dell'alta val d'Ayas. E’ il più orientale dei due slanciati corni rocciosi che compongono i Breithorn Orientali o Breithornzwillinge. Si trova a un paio di km in linea d'aria dal Breithorn Occidentale e a soli 450 metri dalla vetta della vicina Roccia Nera da dove parte la traversata dei Breithorn che permette di toccare in mezza giornata cinque cime sopra i 4.000 metri, con tratti non difficili di misto con passaggi di III. Aloïs, quaranta anni, medico affermato a Chassieu - vicino a Lione. Fisico imponente, di estrazione contadina, buono d'animo, di una pignoleria maniacale. La moglie Yvonne, conosciuta fin dalla giovanissima età, l’ha sempre accompagnato nelle sue scorribande sulle Alpi, ma non per dovere coniugale, bensì per genuina passione. Una coppia affiatata nella vita e nel tempo libero. Rimanemmo in rifugio tutta la mattinata per discutere i termini del contratto e stabilire una data per la salita. Avremmo trovato condizioni glaciali, viste le quote, per cui decidemmo, di comune accordo, di tentare la scalata la prima settimana di agosto, alla fine delle loro vacanze, per essere certi di incontrare le migliori condizioni meteo della stagione. Così, sabato 3 agosto, ci ritrovammo al Rifugio del Pianoro per gli ultimi preparativi e per coordinarci in vista della salita da portare a termine il giorno seguente, domenica 4.

Yvonne e Aloïs

Dolcevita di lana azzurra e giacca grigia con pantaloni alla zuava di panno pesante, per lui; dolcevita rosso, giacca nera tipo Spencer e gonna lunga nera con risvolti nero lucido per Yvonne. Io, il solito maglione rattoppato con classici pantaloni alla zuava. Ma con il denaro del contratto sarei finalmente riuscito a comprare uno di quei nuovi fiammanti maglioni inglesi che tanto andavano di moda quegli anni sulle Alpi.

Lasciammo il rifugio e risalimmo la soprastante rampa crepacciata verso la parete occidentale del Castore, fino ai piedi della cresta meridionale del Polluce, a circa 3.800 metri di quota. Risalimmo uno scivolo sdrucciolevole, arrivando a un tratto di roccette; pochi metri più sopra, oltre un terrazzino naturale di roccia liscia e neve, inizia la vasta rampa nevosa che culmina sulla cresta sommitale della Roccia Nera o Schwarzrüken. Inizialmente meno ripida, essa acquista subito maggior pendenza, toccando e mantenendo per circa 200 metri di dislivello una pendenza notevole che a tratti sfiora i 45°. Dalla Roccia Nera, la salita alla Quota 4.106 fu veloce e relativamente semplice, e ci richiese meno di un'ora. Percorremmo la cresta nevosa alle spalle della Roccia Nera, restando lontani dal dorso superiore delle eleganti ed esposte cornici sommitali, verso nord-nordovest, puntando le evidenti rocce rossastre della Quota 4.106. Qui la traccia sembra puntare a una diretta risalita delle rocce, scendendo invece repentinamente al disotto di un liscio sperone, che nasconde un ristretto canalino nevoso, dove è molto facile incontrare del ghiaccio vivo. Il canalino, seppur bordato a destra e sinistra da ampie rocce scure, salde e ricche di appigli per le mani, è relativamente ripido e soprattutto molto esposto sul lato destro di chi sale, verso meridione. Superato il canalino, al cui culmine si trova una roccetta piana utile per assicurare la corda durante la discesa, voltammo a sinistra mettendo piede sulle rocce della Quota. Entusiasmante il panorama offerto in ogni direzione dalla Quota 4.106, sia verso la concatenazione di neve e roccia dei Gemelli e del Breithorn Centrale che verso sud, ove si apre l'intera val d’Ayas, e verso nord, sullo Schwärzegletscher e sul Gornergletscher, mentre più ad oriente si ammirano dapprima le cornici sommitali della Roccia Nera e quindi il Monte Polluce, il Castore, il massiccio del Monte Rosa. La salita andò bene e sulla via del ritorno ci fermammo per la notte al Rifugio del Piccolo Pianoro. Aloïs era sfinito, si sentiva molto stanco. Appena ci sistemammo all’interno, cadde profondamente addormentato, mentre Yvonne ed io rimanemmo ancora un po’ svegli a “chiacchierare”. Le insegnai alcune frasi del linguaggio dei segni e sembrava molto divertita del fatto che si

potesse comunicare restando in silenzio. Ma soprattutto era sorpresa dal fatto che per comunicare in questo modo, bisognava guardarsi negli occhi e concentrarsi su quanto l'altro aveva da dire, cosa che non sempre accade tra persone dotate di parola. L'unico rumore era il crepitio dei ciocchi di legno nel caminetto e le folate di vento che spazzavano il ghiacciaio. La mattina dopo, però, quando ci risvegliammo, non trovammo Aloïs che, quando era troppo stanco o cambiava il tempo soffriva di sonnambulismo. La notte aveva nevicato e Yvonne era profondamente preoccupata per il marito, così uscimmo insieme per cercarlo. Girammo per ore tutto intorno al rifugio, ma la neve fresca aveva cancellato tutte le tracce, non riuscivamo a capire da che parte si fosse diretto. Il giovane medico alpinista francese era scomparso. Yvonne volle continuare a cercarlo per un'intera settimana, ma poi dovette darsi per vinta e tornò in patria promettendo che l’estate successiva sarebbe ritornata. Voleva ritrovarne almeno il corpo, ma l’estate del 1936 però, trascorse senza alcun successo. Continuammo invano per altre due estati a cercare il corpo di Aloïs, presi poi da altri pensieri, problemi, la guerra, un po’ alla volta dimenticai la promessa fatta a Yvonne né lei si fece più vedere a Verrès.

Nonostante le vicende belliche, che risparmiarono le nostre vallate, la mia attività di guida continuò con successo, spaziando su quasi tutto il settore svizzero dell'arco alpino nord-occidentale e riuscivo anche a mantenere economicamente la mia famiglia, dispiaciuta e preoccupata nel non vedermi per intere settimane ma ben felice della valuta pregiata che entrava regolarmente a casa. L'inverno del 1945/46 fu molto rigido e cadde tanta di quella neve da rendere impraticabili vie e tracce fino a primavera inoltrata. Domenica 25 maggio 1946 eravamo, tutte le guide alpine della val d'Ayas, al capezzale del Rifugio del Pianoro, nostro storico punto d'appoggio e d'incontro. Una valanga lo aveva spazzato via come fosse di carta, lasciando in piedi solo un inservibile perimetro di grigie pietre spoglie.

Iniziammo lentamente a rimuovere le travi abbattute, a recuperare gli oggetti che nel corso di tanti anni avevamo portato su, o almeno di quelli ancora riconoscibili: piatti, posate, un crocefisso, foto della Guerra, un busto del Duce. Piano piano riuscimmo a sgomberare l'ambiente principale del rifugio, ma più ci lavoravamo su, più ci rendevamo conto dell'inutilità del lavoro. Il rifugio del Piccolo Pianoro non esisteva più. Mi guardai intorno, cercando di incrociare lo sguardo della montagna che aveva fatto tutto questo, per chiederle: perché? Anche tu ti ci metti a distruggere? Un centinaio di metri più a ovest della mia posizione vidi una sagoma accovacciata, immobile nella neve. Presi il binocolo e riconobbi Yvonne. Cominciai a sbracciarmi cercando di attirare la sua attenzione, quanto avrei voluto avere ora una "voce", una voce qualsiasi! Cosa ci faceva là?

Lei si accorse della mia presenza, si alzò a fatica, mi riconobbe, mi salutò, mi sorrise e, muovendo ritmicamente il braccio sinistro, m’indicò un crepaccio molto più a monte. Corremmo in quel punto, io e le altre guide, ma non avendo a disposizione alcuna corda per calarci cercammo di richiamare l'attenzione di Yvonne.

Yvonne non c’era più. Scomparsa. Convinto di dover fare qualcosa, il giorno dopo, il 26 maggio, tornai con altre persone e mi feci calare nel crepaccio, dove trovai quel che rimaneva del corpo senza vita di Aloïs. Scrissi immediatamente al parroco di Chassieu, spiegando l'accaduto e pregandolo di mettersi in contatto con Yvonne, la moglie di Aloïs, per avvisarla del ritrovamento e per chiedere spiegazioni, ma ebbi una risposta sbalorditiva, Yvonne era morta per leucemia. Era deceduta il 4 maggio, dopo una lunga malattia, tre settimane prima che io e le altre guide la vedessimo

nei pressi del crepaccio ad indicarci il luogo dove il suo compagno aveva perso la vita nell'estate di undici anni prima.

Anni ‘80

La vita ti disillude perché tu smetta di vivere di illusioni e veda la realtà. La vita ti distrugge tutto ciò che è superfluo, fino a che rimanga solo ciò che è importante. La vita non ti lascia in pace, affinché tu smetta di combatterla e accetti ciò che è. La vita ti toglie ciò che hai, fino a che non smetti di lamentarti e inizi a ringraziare. La vita ti manda persone conflittuali affinché tu guarisca e smetta di proiettare fuori ciò che hai dentro. La vita lascia che tu cada una e un'altra volta fino a che ti decidi ad imparare la lezione. La vita ti porta fuori strada e ti presenta incroci fino a che non smetti di volerla controllare e fluisci come un fiume. La vita ti pone nemici sul cammino fino a che non smetti di "reagire". La vita ti spaventa tutte le volte necessarie a perdere la paura e riacquistare la fede. La vita ti toglie il vero amore, non te lo concede né te lo permette, fino a che non smetti di volerlo comprare con fronzoli. La vita ti allontana dalle persone che ami fino a che non comprendi che non siamo questo corpo ma l'anima che lo contiene. La vita ride di te molte volte, fino a che non smetti di prenderti tanto sul serio e impari a ridere di te stesso. La vita ti frantuma in tanti pezzi quanti sono necessari affinché da lì penetri la luce. La vita non ti da ciò che vuoi, ma ciò di cui hai bisogno per evolvere. La vita ti fa male, ti ferisce, ti tormenta, fino a quando non lasci andare i tuoi capricci e godi del respirare. La vita ti chiede, ti toglie, ti taglia, ti spezza, ti delude, ti rompe fino a che in te rimanga solo amore. Pensieri, dialoghi silenziosi e parole mute che io solo posso ascoltare. Essere muti ti facilita il rapporto con te stesso, alla fine nessuno ha torto e nessuno ha ragione.

"Nonno Jonas, è incredibile come riuscivate a salire con quest'attrezzatura!". È mio nipote Lukas che parla... approfittando del fatto che io non posso rispondere a tono. È venuto in vacanza a Verrès con un amico di Aosta, Sergio, anche lui alpinista o, come amano definirsi, free climbers secondo questa nuova moda americana. Amanti della fisicità, della forza, dell'allenamento in palestra ma meno propensi alla ricerca dell'anima di una via d'arrampicata. "Sergio, guarda questo manuale d’alpinismo, stampato nell’ottobre del 1944, e messo in vendita dopo la guerra”. "Ci voleva del coraggio per occuparsi di un manuale negli ultimi anni di guerra." "Ci voleva del coraggio per affrontare una salita in queste condizioni". Il manuale, redatto dai migliori alpinisti dell’epoca, tratta la tecnica alpinistica in uso a partire, approssimativamente, dal 1930, tecnica che è rimasta valida fino al 1960. Un arco quindi di trent'anni nel corso dei quali faccio notare ai miei interlocutori - sono stati risolti i più importanti problemi delle Alpi. "Guarda qua Lukas, con che razza di tecniche e con che mezzi, hanno arrampicato nel passato." "Fa paura pensare a tutti quelli che in quegli anni hanno affidato la loro vita a mezzi che offrono una sicurezza del tutto aleatoria, più morale che effettiva. Ma quello che fa veramente impressione è il riscontrare che con quei mezzi, gli alpinisti di allora, hanno affrontato salite che ancora adesso sono considerate di difficoltà estrema." Ai nostri occhi - spiego a gesti - quegli alpinisti appaiono come dei temerari o addirittura degli irresponsabili. Ma non è così: erano solo degli arrampicatori che ambivano a conquistare determinate mete e che usavano il migliore materiale a disposizione in quel periodo. Attrezzi più avanzati, più perfezionati in quel momento, non erano neanche ipotizzabili.

"Aspe’ aspe’ , fammi leggere: il manuale consiglia la corda di canapa italiana a filamento lungo con trefoli ritorti, diametro 12 mm. La raccomandazione, prima di usare la corda, è di avviarla su salite facili, oppure di bagnarla in acqua tiepida con l’aggiunta di sapone e di farla quindi asciugare all’ombra. In questo modo si aumenta la flessibilità della corda che da nuova ha la tendenza a formare anelli e ad attorcigliarsi. La corda di canapa è molto rigida e come tale si spacca a seguito di un violento strappo." "Erano corde statiche, le corde elastiche erano considerate molto pericolose perché l’elasticità diminuisce il loro diametro e quindi la loro resistenza, concetto completamento rivisto e ribaltato oggi." "Un altro difetto della corda di canapa è di diventare rigida, al punto da non essere più servibile, quando, nelle salite miste, a contatto con la neve assorbe acqua. In questo tipo di salite è consigliata la corda di Manila da 14 mm che si mantiene flessibile anche se bagnata." "Ma dai! Guarda qua come si legavano!" "Spaventoso! Il nodo semplice delle guide, o al massimo il nodo doppio. Il bolina con bretella è meglio, ma io non so nemmeno come si fa. L’imbraco, anche quello costruito con i cordini, è del tutto sconosciuto. Una semplice mandata di corda che gira attorno alla vita è l’unico legame dell’alpinista alla corda stessa. In quelle condizioni uno strappo di una certa portata deve avere conseguenze terribili sul corpo dell’alpinista." "I principi fondamentali dell’arrampicata però sono gli stessi. L’impostazione del corpo, la scelta degli appigli, la salita alla Dülfer, la salita in camino, sono gli stessi di adesso." "Si, la tecnica è la stessa, ma la sicurezza lascia molto a desiderare. Guarda questi disegni per la prevenzione delle cadute: sicurezze a spalla, sulla coscia, o con la corda che sfila semplicemente nel moschettone, agganciato a un chiodo, tenuta a mano dall’alpinista. In queste condizioni non si riesce proprio a capire come sia possibile trattenere l’eventuale volo del compagno di cordata."

"Già, così la corda invece di essere uno strumento di sicurezza diventa uno strumento di morte."

"La tecnica dell’arrampicata su ghiaccio, l’uso della piccozza, il gradinamento, l’uso dei ramponi è sostanzialmente eguale a quella praticata attualmente." Lasciai Lukas e Sergio a divertirsi nel leggere quel vecchio manuale d'alpinismo e andai a prendere i miei vecchi scarponi d'alpinismo per mostrarglieli. Un paio di originali chiodati... Il manuale inneggia all’introduzione della suola con chiodi di gomma (Vibram) che risolve il problema del tipo unico di calzatura adatto a tutti i tipi di terreno. Infatti, prima della Vibram abili fabbri fucinano a mano i chiodi che calzolai, altrettanto abili, fissano alla suola di cuoio degli scarponi. Ma i chiodi di ferro non tengono su roccia. Da qui la necessità per gli arrampicatori di sostituire gli scarponi con le pedule, più adatte all’arrampicata, e di portarsi il pesante fardello degli scarponi stessi nel sacco da montagna per tutta la salita. Il vecchio scarpone chiodato passa quindi, come dice il manuale, dai favori universali agli onori del museo. Adesso invece succede la stessa cosa. L’unica differenza è che lo scarpone Vibram si salva dagli “onori del museo” perché è ancora utilizzato sulle salite miste e in escursionismo. Nelle arrampicate di pura roccia è ormai generalizzato l’uso della scarpetta d’arrampicata: leggera, flessibile, consente con la sua aderenza di sfruttare anche le più piccole asperità. Passaggi che con lo scarpone sono impegnativi diventano, come per incanto, più agevoli con la scarpetta. "Nonno, domani partiremo per il rifugio Mezzalama, vogliamo tentare una nuova salita sul Breithorn."

Bene, mi piacerebbe accompagnarvi ma ... a ottant'anni è meglio se rimango a valle - spiegai loro a gesti. "Potresti venire con noi in auto fino a St. Jacques, hai ancora molti amici da quelle parti" - Si entusiasmò Lukas. "Nonno Jonas" - intervenne Sergio - "la sua presenza ci darebbe forza".

Breithorn, parete nord

Insomma, accettai la gita a St. Jacques. A dir la verità mi arresi subito senza lottare perché in cuor mio speravo me lo chiedessero e questa che segue è la trascrizione del racconto fattomi dai ragazzi al loro rientro. Il tempo è brutto. Il cielo è uniformemente coperto da nuvole grigie: pioviggina. Le vette sono imbiancate. Non ci sono armenti sui pascoli. I due giovani alpinisti lasciano St. Jacques e prendono a salire in direzione dei pascoli alti. Sono curvi sotto il peso dei loro sacchi. Camminano col passo lento e cadenzato di chi ha pratica di montagna. Incuranti della pioggia, vanno su per il largo sentiero coperto da foglie ingiallite, madide d'acqua. Approdano ai pascoli alti. Qui si fermano. Improvvisamente davanti a loro appare la meta che si prefiggono di salire: una parete di roccia quasi verticale, tutta lastronata, di cinquecento metri di dislivello. Solo pochi dei più forti alpinisti della valle riuscirebbero a superarla. E' impressionante da vedere. Adesso è in condizioni impossibili: la neve intasa le fessure, i lisci lastroni sono ricoperti da vetrato. Non solo l'istinto del montanaro, ma anche il comune buon senso, consiglierebbe di desistere dal tentativo di salirla.

I due giovani alpinisti riprendono il sentiero. Alla fine, là dove iniziano le prime morene e terminano i ghiacciai, raggiungono una baita abbandonata per passarvi la notte. E' buio ormai. Nell'interno della baita, alla luce incerta di una candela posta al centro di un tavolaccio, i due alpinisti consumano un pasto frugale. Sono in silenzio. Ognuno è immerso nei propri pensieri. I due sono assillati dal pensiero del difficile domani. Cinquecento metri di lastroni coperti da neve e da vetrato sono duri da superare: le incognite della salita sono gravi e pesanti. Nel fondo dell'animo qualche cosa dice di cercare una scusa accettabile, di fronte alla propria dignità, per rinunciare alla salita. Incertezze e dubbi si alternano col desiderio di riuscire in una grossa impresa, si accavallano con i problemi

della vita in pianura. Entrambi sono diplomati da alcuni anni ma non trovano lavoro. Nessun tipo di lavoro. La società nella quale vivono e alla quale hanno il diritto di appartenere, li rifiuta sistematicamente: si sentono emarginati. I loro animi sono carichi di rabbia e di umiliazione. Per loro fare quella parete nelle attuali proibitive condizioni, significa finire sui giornali locali. Significa affermare la propria presenza, trovare una remora alle proprie frustrazioni. Queste ultime considerazioni finiscono col prevalere, creando una forte volontà di riuscita.

Alle prime luci del nuovo giorno lasciano la baita che li ospita per la notte e prendono a salire la morena. Alla base della parete si fermano. Si legano in cordata, si sistemano i chiodi, i moschettoni, il martello a portata di mano. Iniziano ad arrampicare. I primi tiri di corda sono durissimi. Superato lo zoccolo iniziale, le cose vanno meglio, ma la salita è sempre molto difficile. La neve, il freddo e il vetrato rendono ogni manovra più onerosa. Piantare chiodi è incredibilmente faticoso, la loro tenuta è sempre aleatoria. La condizione di equilibrio è precaria, basata a volte più sulla fortuna che sull'abilità. Il dispendio di energia fisica è enorme. Nonostante questo i due giovani alpinisti, lastrone dopo lastrone, si innalzano fino alla parte terminale della parete. Qui fanno una breve sosta. Sulla loro sinistra i lastroni sono meno inclinati e più articolati: la via per la vetta, ormai vicina, è più agevole. Si spostano tutto a sinistra in piena esposizione. Provano la meravigliosa sensazione di avercela fatta, si sentono euforici. Vogliono sfogare la loro forza di dominatori fino all'ultimo, fino alla cima. Così tirano su diritto. Ma qui il difficile è fare i conti con le proprie energie residue. Lukas sente le dita, intirizzite dal contatto con la neve, allentarsi sugli appigli. Nel tentativo di mantenersi in equilibrio inarca il corpo per esercitare una maggiore pressione con i piedi. Le dita si rilassano e mollano l'appiglio. Cade nel vuoto.

La corda schiocca in una tremenda frustata, i chiodi della sosta cedono di schianto e anche Sergio è trascinato nella caduta. Il vento del volo nel vuoto

sibila nelle orecchie, mozza il fiato in gola. Sacco da montagna, berretto, giacca a vento, scarponi, vengono strappati violentemente da dosso dal vento della caduta. La sensazione della tragedia ineluttabile attanaglia l'animo: un urlo disperato lacera il silenzio. Poi, dopo un centinaio di metri di caduta libera, il tonfo violento su un cumulo di neve fortemente inclinato. La caduta è attutita, ma i due ragazzi, sotto shock, iniziano una velocissima discesa fuori controllo lungo lo scivolo di neve fresca e si fermano solo grazie all'azzeramento della pendenza. Una discesa di centinaia di metri velocissima. I corpi dei due giovani alpinisti giacciono sul nevaio sottostante. Svenuti, senza zaini né giacche, ancora legati da una corda che ha retto l'urto ma non è servita a frenare una caduta i cui effetti finali hanno del miracoloso. Passano ore. È pomeriggio inoltrato. Sergio è il primo a riprendere conoscenza. Ancora sotto shock chiama Lucas. Entrambi sono un po' ammaccati ma vivi.

Il tempo è brutto: il cielo è coperto, banchi di nebbie ristagnano sui fianchi della montagna. Sergio va avanti a battere una pista nella neve, abbastanza rapidamente si portano verso la fine di un vasto pianoro. E' in questo punto che incontrano due sciatori: sono fermi sugli sci uno a fianco dell'altro, sono francesi, ma parlano discretamente l'italiano, dicono di essere marito e moglie e di venire da un rifugio non molto lontano. S’informano sulle loro condizioni fisiche, dopodiché consigliano loro di dirigersi verso quel ricovero, il rifugio del Piccolo Pianoro, un centinaio di metri più a monte: l'illuminazione è a gas, il riscaldamento è a stufa con abbondante riserva di legna, esiste anche una discreta scorta di viveri in scatola. Raccomandano loro di passare dal custode del rifugio, che abita giù nel paese, a pagare quanto avrebbero consumato. Indicano poi a Sergio e a Lukas la via da seguire: "Al termine del Grande Pianoro scendete nel torrente. Attraversatelo su un ponte di pietra. Rimontate una rampata di neve e rocce fino ad approdare al Piccolo Pianoro. A questo punto il rifugio è visibile, basta andare nella sua direzione per raggiungerlo. Inoltre, per non avere problemi, vi è sufficiente seguire le tracce degli sci che abbiamo lasciato."

Sergio e Lukas ringraziano per la loro cortesia, e si salutano reciprocamente augurandosi una buona continuazione della gita. Quindi seguono le indicazioni della coppietta francese, scendono nel torrente, trovano il ponte in muratura, ma non vedono nessuna traccia di sci. Attraversano il torrente e rimontano la rampa dalla parte opposta, ma anche qui non ci sono tracce di sci. Il tempo sta peggiorando: una densa nebbia cala sulla montagna fino ad avvolgerla completamente. La nebbia fitta uniformandosi col candore della neve riduce la visibilità a pochi metri. Hanno ormai l'impressione di essere immersi in un mondo senza dimensioni. Si accorgono di essere sul Piccolo Pianoro perché stanno viaggiando in piano. Consultano la cartina, altimetro alla mano, riprendono la marcia. L'incipiente oscurità riduce ancora di più la visibilità. Continuano a procedere, ma hanno ormai perso il senso del tempo e della direzione. Non trovano le piste dei francesi: questo fa sorgere loro il dubbio di aver commesso un grossolano errore di orientamento. Dalla consultazione della carta si accorgono di aver superato la posizione del rifugio. Ritornano indietro.

Quando raggiungono la zona, Lukas, quasi scomparso nel buio e nella nebbia, chiama Sergio. Davanti a loro una massa scura. Sicuramente è il rifugio: infine lo trovano. Come si avvicinano si accorgono, con profonda delusione, che è un grosso masso erratico. Alla sua base osservano i resti di un muretto semi nascosto dalla neve. Sul suo lato destro un ingresso: è un tipico riparo costruito dai pastori. Varcano l'ingresso: trovano una nicchia asciutta e accogliente, ideale per un bivacco. Per trovare il rifugio, iniziano una battuta attorno tenendosi in contatto alla voce. Le loro ricerche non hanno esito: è buio fatto, la nebbia è fitta, la visibilità è ridottissima. Decidono di passare la notte in quel riparo poiché scendere fino a St. Jacques in quelle condizioni, è quanto mai arduo. Nella rovinosa caduta hanno perso tutto l'equipaggiamento da bivacco ma riescono ad arrangiarsi con delle vecchie coperte che trovano nel riparo dei pastori.

La mattina seguente il tempo non è cambiato: nebbia fitta. I due ragazzi s’incamminano all'alba e in poche ore mi raggiungono in paese, dove mi raccontano tutta la loro avventura così come io ora l'ho descritta.

Facoltà oscura

Seduto su una comoda poltrona, ascoltai le loro parole immedesimandomi nella loro terribile esperienza. "Nonno, tu sai dov'è il rifugio dei francesi? Lo abbiamo cercato dappertutto lassù!"

Gesticolai di sì, aggiungendo che non esisteva più perché abbattuto da una valanga nell’inverno del ‘45/’46 e mai più ricostruito. Mentre una profonda agitazione iniziava a prendermi facendomi affiorare lontani ricordi di passate esperienze, chiesi loro di descrivermi i due francesi. “Eravamo sotto shock, nonno Jonas, chissà cosa abbiamo capito!” - disse Sergio. “Erano strani” – aggiunse Lukas – “Ho pensato che fossero appena usciti da una festa in maschera. Lei ha detto di chiamarsi … non mi ricordo …” Mi alzai di scatto dalla poltrona e dalla mia bocca esplose violentemente dopo tanti anni una sola parola: “YVONNE” - dissi tutto di un fiato. “Si! Yvonne” – disse Lukas – “E lui si chiamava Aloïs, adesso ricordo. E tu come lo sai?”. “Ma nonno Jonas! Hai parlato!”. Già, ho parlato – pensai – del resto … è una mia facoltà oscura. In silenzio mi avvicinai alla finestra, le nuvole basse e grigie stavano finalmente lasciando il passo ad ampi sprazzi di azzurro. Il sole illuminava le creste bianche degli ultimi cumuli che ancora adornavano le cime. Ho sempre creduto a chi si pone domande, poche, tante, confuse, lineari, mirate, non importa. Ciò che conta e che se le facciano. Farsi domande significa farsi degli scrupoli, avere dei crucci, tenere in considerazione qualcosa o qualcuno; domandarsi quanto si pecca di torto o di ragione. Farsi domande permette di tornare indietro, di darsi tempo per riprendere fiato, per ascoltarsi. Perché chi si fa domande, ascolta. Chi si fa domande, ci fa caso, bada, osserva, soppesa. Chi si fa domande cerca, inevitabilmente risposte, brutte o belle che siano.

Le risposte portano sempre un cambiamento. Credo a chi non teme i cambiamenti, a chi non si rassegna, a chi non si accontenta, a chi crede nel lecito chiedere perché i silenzi, a lungo andare, spengono ogni cosa, anche le persone. Guardai verso l’alto, come per cercare qualcuno, ma non c’era nessuno da cercare, non più 1 .

1 NdA - Questo racconto è una parziale opera di fantasia. I personaggi principali sono inventati, reale è invece la leggenda della coppia di coniugi francesi che nell'alta Val d'Ayas, continua da più di un secolo, a divertirsi sciando per i crinali e le vallate della zona. La leggenda mi è stata raccontata da diversi valligiani della Val d'Ayas, con alcune impercettibili differenze che non ne intaccano però il forte senso poetico.

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