Inviato in stampa il 13/3/2017
Appleseed - Agenzia di marketing digitale www.appleseed-web-marketing.it
dispensa introduttiva al I° corso per
OPERATORE DI MARKETING DIGITALE
Il vero pericolo non è l’ignoranza ma l’illusione della conoscenza.
Stephen Hawking
PREMESSA Un eccesso d’informazione equivale all’assenza d’informazioni. Internet ha cambiato il nostro approccio al mondo troppo velocemente ed è difficile rendersi conto pienamente delle trasformazioni in corso. Venti anni fa ridacchiavamo dietro quelli che allora chiamavamo yuppies, persi a pavoneggiarsi con i primi telefonini. Oggi non battiamo ciglio davanti a nonne che chiamano nipoti via Skype, smanettando sul loro smartphone.Tutto cambia, che ci piaccia o meno. Ci manca, però, un quadro completo. Persi nel grande “frullatore informativo” della Rete abbiamo difficoltà a distinguere le notizie dalle bufale. Viviamo la sensazione di trovarci davanti un oceano infinito di dati e di persone, ma alla fine ci ritroviamo a chattare su Facebook con l’amico che abbiamo lasciato a casa mezz’ora prima. Dal punto di vista sociale questo ha scombinato un bel po’ l’intero pianeta, ma non è questa la sede dove affrontare questo versante. Qui parliamo di aziende, di business e di marketing. Per farlo, però, dobbiamo prima prepararci a rivedere alcune “illusioni” create da un approccio troppo “epidermico” al mondo del web. È cambiato il modo di giocare e gran parte delle regole le dettano i “grandi giocatori”, aziende come Google, Microsoft e Facebook. Se vuoi soltanto provare a sederti a questo tavolo devi conoscere bene queste regole, e sarà il primo passo a segnare il tuo percorso. Ed è proprio questo il punto. Il primo passo è rimettere tutto in discussione: le nostre conoscenze, le nostre opinioni, le nostre certezze. Nel corso della storia è accaduto ogni qualvolta ci si è trovati davanti a grandi cambiamenti. Diceva Einstein: I problemi non possono essere risolti con lo stesso modello di conoscenza che li ha generati. Quando cambia il quadro generale è inevitabile una “fase di transizione” durante la quale i “vecchi modelli” di pensiero tentano di sopravvivere al cambiamento. Ovviamente non hanno alcuna possibilità di successo, il cambiamento è sempre inarrestabile. Questa resistenza, però, a volte, rende il processo lungo e laborioso. Quando Stevenson inventò la locomotiva a vapore in molti escludevano potesse competere con la versatilità e la sicurezza delle carrozze a cavalli. Sappiamo come è andata a finire. Oggi ci troviamo in una fase simile, ma più concitata. E si tratta di scegliere, ancora una volta, se investire sulla locomotiva a vapore o sul Pony Express. Perché Internet non è più soltanto “un altro canale” da gestire nella propria comunicazione. L’errore di fondo è proprio questo: il web non è uno strumento per fare pubblicità. Non più, almeno. Lo era negli anni ‘90 e agli inizi del 2000, quando si parlava di web 1.0, un luogo strano, fatto di siti e pagine web che rappresentavano un tentativo di trasposizione digitale dei media tradizionali, sostanzialmente stampa e tv, cioè sistemi basati su una interazione specifica: uno parla, molti ascoltano. La parola d’ordine, oggi, è interazione e questo rende tutto diverso. L’incontro con le tecnologie mobile e l’incrocio tra il web e la Tv, inoltre, stanno rivoluzionando sempre più il sistema rendendolo letteralmente pervasivo ed è il momento di guardarlo con occhi diversi per comprenderlo sul serio e agire di conseguenza. L’obiettivo di questo volume è quello di liberare la mente dalle tante illusioni create da un approccio spesso superficiale, sostituendole con dati, analisi dal rigore scientifico, esempi tratti da chi ha fatto della Rete il proprio tavolo da lavoro. Un passaggio necessario prima di affrontare tecniche e strategie. Prima di addentrarci nel mondo digitale, però, proviamo a sfatare un paio di illusioni che nascono molto prima del web, anche se la rivoluzione digitale le ha rese ancora più pericolose. Parliamo di marketing e cominciamo da un’affermazione che potrebbe apparire banale, ma è dolorasemente necessaria: il marketing non è “una specie di magia”.
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PREMESSA
Sicuramente non consente di moltiplicare clienti e fatturato come fossero pani e pesci. Sembra quasi inutile ribadirlo, ma è meglio andare sul sicuro, considerato come si trovino ancora centinaia di roboanti annunci su “come guadagnare 2.000 euro da casa” oppure le vendite di like e commenti (o link) “un tanto al chilo”. Per evitare di essere confusi con questo approccio, diciamolo come premessa. Ma se questo è facilmente condivisibile, la prossima illusione sarà più dura da sfatare: l’obiettivo del marketing è quello di “fare soldi”. Può sembrare un'eresia affermarlo, ma l’affermazione è falsa e fuorviante. La redditività rappresenta l’ovvio risultato finale da ottenere, un “effetto” assolutamente necessario e da “conteggiare” adeguatamente nella strategia. Ma rimane comunque un risultato. Non può (e non deve) essere considerato l’obiettivo delle nostre azioni di marketing. La differenza può sembrare sottile ma, tra obiettivo e risultato, in realtà, passa un mondo. Pensate a un uomo affetto da un'infezione; cosa è stato studiato per guarirlo? L’antibiotico. Ma un antibiotico, in realtà, non “guarisce” assolutamente nulla: il suo obiettivo è uccidere un germe, la guarigione rappresenta il risultato finale di questo processo, la conseguenza diretta. La malattia viene generata da un germe ed è quello che bisogna eliminare per guarire. La conoscenza medica, la scienza, ci spiega che, in questo caso, per “sanare” qualcosa, dobbiamo eliminare qualcos’altro. Cercare semplicemente di trovare “qualcosa che ti guarisca” equivale a cercare una pozione magica invece che una medicina. Stessa cosa nel marketing: concentrarci sulla fine del processo senza conoscerlo significa pensare che il marketing sia “una specie di magia”. Il marketing, invece, è un approccio complessivo il cui vero obiettivo è ottimizzare il dialogo di un’azienda con il proprio mercato, sfruttando ogni opportunità e abbattendo (o aggirando) ogni barriera. Il vero obiettivo è la “soddisfazione” del cliente attraverso la individuazione e realizzazione di un bisogno. Contestualmente bisogna creare e ottimizzare una rete di valore intorno a questo bisogno soddisfatto. Cioè creare un modello di business che, più prosaicamente, risponda alla fatidica domanda: come ci guadagno? Il marketing ha sempre funzionato così, ma oggi l’urgenza di comprendere questo approccio si è fatta pressante: la novità di un mondo costantemente interconnesso ha messo questo modello al centro di tutto. In un mercato fatto di social networks e di commenti degli utenti, la soddisfazione del bisogno diventa la principale “moneta di scambio”. Tutto il resto è “conseguenza”. La ricetta è semplice, l’attuazione un po’ meno. I problemi nascono perché entrano in gioco numeri enormi e sono necessarie competenze tecniche abbastanza avanzate e sempre aggiornate. Quando proviamo a parlare con il cliente attraverso i nostri contenuti utilizzando il web e i canali digitali, la nostra comunicazione “deve” prima attraversare un articolato sistema tecnologico fatto di algoritmi, motori di ricerca e social networks. Sembra complesso, ma liberata la mente dalle illusioni, la visione del percorso da seguire sarà immediatamente più chiara. Per questo abbiamo voluto centrare questo volume su quelle “affrettate impressioni” che spesso impediscono un accesso efficace ai mercati digitali. Il volume che vi trovate a leggere, per quanto sia sostanzialmente autoconclusivo, rappresenta anche la prima dispensa di un corso completo costruito sulle esigenze delle PMI. L’obiettivo è quello di fornire le conoscenze di base per creare un dialogo costruttivo tra l’azienda ed i fornitori di servizi web. Vuole essere anche uno strumento per difendersi dai tanti venditori di fumo che, purtroppo, infestano il settore. Il corso rientra all’interno del progetto NETT Economy che viene illustrato nel dettaglio nelle ultime pagine e che vuole accompagnare il territorio verso un processo di crescita economica attraverso l’acquisizione diffusa di competenze digitali. Il web è diventato da tempo un “gioco per grandi” che non può essere lasciato in mano ad arruffoni o tecnici poco aggiornati. Il problema è di tutti e tutti dobbiamo affrontarlo. franco mennella
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GLOSSARIO In questa dispensa, limiteremo al minimo l’uso di “paroloni” tecnici e anglicismi inutili, ma ci sono alcuni termini sui quali è necessario comprendersi adesso. Non vuole essere un glossario esaustivo, ma solo un necessario chiarimento riguardo alcuni termini generali. Su alcuni di questi termini esiste un ampio ventaglio di opinioni. La necessità di un pre-glossario nasce proprio da questo: a prescindere da ogni singola interpretazione, in questo volume i termini seguenti sono utilizzati seguendo queste definizioni. Considerato il loro compito puramente “introduttivo”, le definizioni fornite in questa sezione sono estremamente ridotte e semplificate. SEO Acronimo di Search Engine Optimization (ottimizzazione per i motori di ricerca) rappresenta l’insieme di pratiche necessarie e utili per assicurarsi che i contenuti del sito siano correttamente rilevati dai motori di ricerca. Spesso erroneamente confuso con il web marketing ne rappresenta, comunque, una parte fondamentale e probabilmente prioritaria, anche se non sufficiente. La SEO interviene sulla definizione tecnica delle pagine web e sui contenuti da inserire nel sito e fuori dal sito. Quando l’azione si estende anche alle tecniche di relazione con gli altri siti e con il web e gli utenti in generale è più corretto usare l’acronimo SEM (Search Engine Marketing=marketing attraverso i motori di ricerca). URL Acronimo di Unique Resource Locator (Localizzatore unico della risorsa), rappresenta l’indirizzo completo di una pagina, ad esempio http://www.nomedominio.it/pagina.php. In generale, l’URL è quello che compare sulla barra degli indirizzi del browser.
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CRAWLER Più correttamente Web Crawler (o anche spider, robot o bot), è un programma automatico che si occupa di esplorare il Web. Il programma legge il contenuto di una pagina, ne invia una copia ai server del motore di ricerca (che successivamente analizzerà per inserirla nel proprio database) e prosegue a scandagliare altre pagine seguendo i link trovati nella pagina analizzata. Questo processo, chiamato Web Crawling o Spidering è l’azione che effettuano i motori per avere dati sempre aggiornati sul web. CRAWL-BUDGET Rappresenta l’investimento in termini di risorse o tempo (valori assegnati dal motore di ricerca individualmente per ogni sito) che gli spider dedicano alla scansione di un sito web. In ogni suo passaggio su di uno specifico sito il Crawler visiterà un determinato numero di pagine e con un limite di tempo. ROBOTS.TXT Un file robots.txt è un file di testo che indica quali parti del sito non debbano essere accessibili a tutti o specifici Crawler dei motori di ricerca. Questo al fine di non sprecare Crawl Budget con pagine e sezioni non rilevanti. QUERY Il termine Query, che in italiano possiamo tradurre come “richiesta”, rappresenta la specifica domanda di un utente al motore di ricerca. Cercando “hotel trapani”, quella che stiamo inserendo nel campo testo del motore rappresenta tecnicamente una “richiesta al database” del motore di ricerca, che risponderà visualizzando i contenuti del suo database relativi al termine “hotel trapani”. SERP Acronimo di Search Engine Results Page, let-
GLOSSARIO
teralmente significa “pagina dei risultati del motore di ricerca”. Le SERP, quindi, rappresentano sostanzialmente tutte le risposte alla Query che abbiamo inserito nel motore di ricerca. Ogni qualvolta un utente effettua una ricerca, ottiene un elenco di risposte ordinato. Quando facciamo qualsiasi ricerca su Google, quelle schermate di risultati rappresentano le SERP ed elencano tutte le pagine contenute nel database del motore consultato che riguardano le parole usate come Query. La posizione di una pagina nelle SERP corrisponde all’importanza che il motore di ricerca riconosce al contenuto della pagina raggiungibile da quel link rispetto la domanda posta (Query). KEYWORDS Indica specifiche parole (keywords=parole chiave) individuate per intercettare le Query che si presume siano maggiormente ricercate dagli utenti. Nell'esempio della Query "hotel trapani" le keyword palesemente rilevanti sarebbero "hotel", "trapani" ed "hotel trapani". INDICIZZAZIONE Indica il “riconoscimento” di un sito web da parte dei motori di ricerca. In pratica riguarda tecniche e procedure pensate per “invitare” i Crawler a visitare il sito per trasferirne i contenuti ai database dei vari motori di ricerca. Effettuando una Query su Google e scrivendo il termine “site:” prima di un dominio (ad es. site:repubblica.it) si avrà la contezza di quante pagine siano state indicizzate dal motore di ricerca. POSIZIONAMENTO Con il termine posizionamento si intende l’insieme di pratiche SEO/SEM e complessivamente di web marketing tese a supportare la “scalata” del sito all’interno delle SERP per una determinata Query. Ad esempio, ottenere che quando un utente digiti la Query “hotel trapani” il sito si trovi nella migliore “posizione” possibile. Ovviamente il posizionamento è successivo alla indicizzazione. OTTIMIZZAZIONE Indicizzazione e posizionamento sono influenzati da molteplici fattori che riguardano la struttura tecnica del sito, la qualità dei contenuti e l’insieme delle strategie di relazione sul
web. I processi di ottimizzazione attraversano trasversalmente tutti i campi d’azione puntando a definire con esattezza ogni singolo aspetto al fine di risultare competitivi nel posizionamento rispetto ai competitors. L’ottimizzazione può essere tecnica (velocità del sito, struttura del codice di programmazione, struttura del sito) o contenutistica (selezione e costruzione dei contenuti). La SEO rappresenta uno dei principali modelli di ottimizzazione, anche se non l’unico.
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SOMMARIO
1 - La grande illusione: apri un sito e sei sul web Le scelte di Google Box - Le mosse di Google L’intenzione che conta 2 - Bastano ottimi contenuti per ottimi risultati Siamo quello che Google conosce di noi Box - Cos’è lo ZMOT? I micromomenti [infografica] Tavola periodica dei fattori di posizionamento 3 - Quello che conta è essere primo sui motori Box - Folksonomy 4 - L’approccio strategico è tutta filosofia L'evoluzione del web Box - What’s next Box - Ma che lavoro fai? 5 - Internet non serve realmente al business Box - L’esperimento di Honan L'analisi dei dati KEYPOINTS NETT Economy, il progetto Appleseed, Company profile
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La grande illusione: apri un sito e sei sul web
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rima di ogni cosa dobbiamo sfatare la più grande illusione del web. Ognuno di voi avrà pensato almeno una volta che Internet sia un sistema in grado di consentire un accesso libero e non mediato all’informazione. L’illusione è che siate voi a scegliere cosa leggere, cosa vedere, dove informarvi. Il problema è che non è vero. E non potrà mai esserlo. Non pensate a nessun complotto, è solo una questione di quantità. A dimostrazione di ciò verifichiamo i veri numeri del web. Se date uno sguardo alla tabella sottostante, vedrete cosa è successo sul web nei 30 secondi circa che avete impiegato per giungere a questo punto della pagina.
The internet in Real Time [http://visual.ly/internet-real-time/]
In appena 30 secondi sono stati creati 330 account Twitter e sono stati scambiati 171 mila tweet, sono state caricati 60 ore di contenuti video su YouTube, sono stati pubblicati quasi 165 mila stati di Facebook e apposti oltre 156 mila like. Sempre negli stessi 30 secondi sono stati comprati più di 1.500 prodotti su Amazon e sono stati investiti quasi 50 mila dollari su AdWords. E tantissime altre cose, come potete vedere dall’immagine. Ricordate, parliamo di azioni avvenute in appena 30 secondi. Complessivamente stiamo parlando di quasi 680 mila Gigabyte di dati. Per avere un'idea fisica, si tratta dell’equivalente di 600 copie dell’edizione completa dell’Enciclopedia britannica. In 30 secondi!
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The Internet Map [http://internet-map.net/]
Per comprendere le vere proporzioni della Rete proviamo ad analizzarla seguendo un altro ordine di grandezza, qualcosa che renda visivamente il peso dei diversi abitanti di Internet. La figura che vedete in alto rappresenta una sorta di mappa del web e le palline identificano i siti principali. La loro dimensione nello schema è data dal peso reale che hanno sulla Rete i diversi siti in termini di pagine, visite e utenti. I tre pallozzi più grossi sono quelli che ci aspettavamo: Google, Facebook e Twitter. Ma il punto è che, per quanto grande, anche Google.com ha un peso relativo all’interno della Rete e se lo stesso Google ha un peso relativo, immaginatevi quanto possa essere rilevante un semplice sito aziendale messo su senza alcuna idea di cosa si stia facendo e senza nessuna strategia di supporto. La mappa restituisce in maniera plastica quanto pesa un singolo sito web, anche quello più blasonato, all’interno dell’universo rappresentato da Internet. E, per essere più specifici, tutto questo ci porta immediatamente all’amara verità: la semplice presenza all’interno del web non serve assolutamente a nulla. Nella nostra immagine abbiamo evidenziato una sezione ovale dove vediamo i siti italiani più importanti. Nessuno di questi è visibile se
guardiamo il quadro d’insieme. E stiamo parlando di siti come repubblica.it, per citarne uno dei più grossi. La considerazione che emerge dall'analisi di questi dati è semplice e rappresenta la base dalla quale partire per utilizzare in maniera corretta le strategie di presenza web. I numeri del web sono talmente enormi che nessun tipo di contenuto può essere considerato rilevante se non adeguatamente supportato da precise azioni strategiche, di comunicazione e di marketing. Torniamo a un dato generale: su Internet si calcola ci siano complessivamente più di mille miliardi di pagine. Anzi, scriviamolo in cifre: 1.000.000.000.000. Colpisce abbastanza, no? Soltanto pensare che un sito (o una pagina Facebook) possa avere una qualche rilevanza all’interno di questi numeri è chiaramente una illusione che mette in seria discussione la nostra possibilità di fare business in Rete. Bisogna accettare l’idea che mettere su un sito equivale ad aprire un negozio in un cortile buio, nascosto dietro un vicolo al quale si accede da una porticina segreta messa nel sottoscala di un palazzo. Purtroppo questo palazzo sorge in una luminosissima via dove, invece, i
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nostri concorrenti hanno splendide vetrine che si affacciano sulla sede stradale con sfavillanti insegne che invitano a entrare e ad acquistare. Inoltre mandano in giro dei promoter a fermare i passanti per proporgli offerte e servizi. Pensate che qualcuno troverà il nostro oscuro negozietto? Credete davvero che qualcuno si farà strada tra i promoter, cercherà in ogni vicolo e in ogni sottoscala alla ricerca di una porticina che lo porti in un luogo, di cui, magari, non sospetta nemmeno l’esistenza? Questa è un’altra illusione da sfatare che nasce dalla mancata percezione dell’enormità di questi numeri: esserci non basta, anzi, non serve assolutamente a nulla. Bisogna esserci nel modo giusto e nel posto giusto, accendere le insegne, contattare i promoter e giocare al tavolo dei grandi. Per essere più corretti, non esiste un unico tavolo dei grandi. È più corretto parlare di diversi tavoli da gioco. I principali sono sicuramente il nostro sito, le pagine social, la stesura e realizzazione di strategie online e offline, oltre al rapporto con i motori di ricerca. Cominciamo ad analizzare proprio questi ultimi che oggi, indubbiamente, rappresentano il centro di tutte le azioni sul web. Quando Larry Page, il creatore di Google, presentò la sua idea agli investitori aveva un solo scopo: realizzare un sistema in grado di catalogare i contenuti di Internet ed offrire uno strumento per cercare le informazioni. Nel tempo il ruolo dei motori si è evoluto in uno strumento insostituibile di business, ma la sua funzione chiave rimane la stessa: catalogare informazioni. Però abbiamo visto i numeri del web e questo deve farci riflettere. Pensate per un attimo di voler creare un sistema di catalogazione di una libreria con mille miliardi di volumi. Per ogni singolo argomento che vogliate cercare in questa immensa biblioteca ci saranno almeno alcune migliaia di volumi che lo trattano. Quale scegliere, con quali criteri preferire un volume rispetto un altro? Domande cruciali, ma in questo gioco noi non siamo il bibliotecario, siamo il libro. La domanda diventa quindi: come farci rilevare e preferire rispetto alle altre migliaia di libri che trattano lo stesso argomento?
Le scelte di Google Detto ciò, è utile comprendere come funzionano i motori di ricerca, che hanno l'arduo compito di fornire risposte adeguate alle domande degli utenti, cercandole in quest'immenso mare di informazioni che abbiamo visto essere il web. Ci concentreremo su Google perché è indubbiamente il più utilizzato, ma anche perché, sostanzialmente, il meccanismo è simile anche per gli altri motori. La maggior parte di voi magari lo sapranno, ma per quelli che non l’hanno ben presente è una informazione essenziale: non cerchiamo i contenuti su Internet. La storia è un po’ diversa ed è ben riassunta nell’infografica che potrete vedere nella prossima pagina, realizzata proprio da Google. Partiamo dalla base: la parola web, in inglese, significa ragnatela e ogni ragnatela ha bisogno dei suoi ragni. O meglio, se vogliamo usare il termine inglese, dei suoi spider. Gli spider, detti anche crawler, robot o bot, sono programmi che, come i ragni, sanno muoversi a proprio agio nella grande ragnatela di Internet. Quelli di Google, ma il meccanismo vale sostanzialmente per tutti i motori di ricerca, hanno un compito preciso: scandagliare la rete e riportare alla casa madre le informazioni sulle pagine web che incontrano nel loro girovagare sul net. I ragnetti girano, controllano la pagina e ne trasferiscono una copia a Google. A questo punto avviene la magia: schiere di computer elaborano le informazioni raccolte applicando sofisticati algoritmi, e sulla base di quanto rilevato costruiscono un immenso database sui contenuti del web. Quando noi facciamo una domanda a Google e inseriamo delle parole nella casellina del motore di ricerca, pensiamo di stare scandagliando la totalità del web alla ricerca del contenuto desiderato. In realtà stiamo chiedendo a Google di verificare se nei suoi immensi database siano presenti dei riferimenti al contenuto che stiamo effettivamente cercando. E gli stiamo anche chiedendo di selezionare quelli che, secondo lui, sono i più coerenti con la nostra ricerca.
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Questo è un concetto basilare che non bisogna mai dimenticare: non stiamo cercando direttamente sul web, ma negli archivi di Google. Il suo database cataloga ogni singola pagina in base al contenuto. Un meccanismo che si basa sulle informazioni che gli spider hanno raccolto scandagliando le nostre pagine. Il primo problema, quindi, è se hanno capito bene. Appurato come la ricerca non sia sulle nostre pagine ma all’interno del suo database, quello che conta davvero non è cosa stiamo dicendo noi, ma cosa riesce a comprendere il nostro ragnetto. Questo ci pone un problema essenziale: a prescindere dalla qualità dei nostri contenuti, le nostre pagine sono leggibili nel modo migliore dagli spider? Ma la formulazione più corretta della frase dovrebbe essere: forniscono le informazioni che desideriamo? Apriamo a questo punto la pagina di Google è poniamo una domanda specifica: come funziona un motore di ricerca? Noi lo abbiamo fatto e l’immagine che vedete a sinistra rappresenta lo screenshot dei risultati. Guardiamo il numeretto sopra: circa 2.410.000 risultati (0,49 secondi). In circa mezzo secondo Google ha scavato nel suo database, ha trovato quasi due milioni e mezzo di contenuti e li ha ordinati seguendo una logica propria. Ricordate che il passaggio rilevante è questo: la logica
con la quale vengono ordinati i risultati è quella degli algoritmi di Google che non necessariamente coincide con quella umana o con le nostre opinioni personali. Ma torniamo ai numeri. Un ricercatore puntiglioso sfoglierà 4/5 pagine. Il 99 per cento guarderà solo la prima pagina. Riflettiamo su questa proporzione, su questi numeri. Su un milione duecentomila possibili risultati, avete avuto l’opportunità reale di consultare da 10 a 50 fonti. E queste fonti sono state scelte da Google, non da voi. Tenetelo ben presente. La nostra reale possibilità di scelta è limitata a queste fonti, che rappresentano meno dello 0,01 per cento delle reali scelte a nostra disposizione. Insomma, il grosso del lavoro lo fa lui, anche se noi continuiamo a coltivare la sensa-
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zione di essere stati determinanti nel trovare la nostra preziosa informazione. In ogni caso appare chiaro come sia Google a scegliere cosa visualizzare. Più avanti vedremo meglio su cosa basi le sue scelte. E Facebook? Sul social network di Zuckerberg va anche peggio. Perché se Google almeno ti consente di porre una domanda, Facebook fa tutto da solo. È sensazione comune che i post pubblicati da ognuno di noi siano visibili quanto meno a tutti i nostri amici faticosamente coltivati su Facebook. Ma anche questa, ahimè, è una delle illusioni del web generata dalla mancata percezione dei veri numeri di Internet. Per sfatarla partiamo da un numero. O meglio, da una percentuale: 5/10%. Mediamente è questa la percentuale di post pubblicati dai vostri amici che visualizzerete sul vostro wall, la pagina principale di Facebook. Il rimanente 90/95%, se il vostro amico non lo ha condiviso direttamente sul vostro diario, probabilmente non lo vedrete mai e comunque lo vedranno in pochi, non necessariamente quelli che il vostro amico avrebbe voluto. Se si trattava del primo dentino del nipote, pazienza. Ma se si trattava di un messaggio commerciale il problema comincia a essere diverso. La domanda è: come viene deciso quali argomenti rientrino in questa percentuale? Anche nel caso di Face-book esiste un algoritmo, si chiama Edge Rank, che fa proprio questo. Sbircia tra i vostri interessi, quelli dei vostri amici, analizza il vostro comportamento da connessi, cerca di capire gli argomenti affrontati nei post e prova ad offrirvi i contenuti che lui reputa vi possano interessare. Ripetiamo: che LUI (l'Edge Rank di Facebook) reputa vi possano interessare! Analizzare i meccanismi di Facebook e Google ci porta ad archiviare la illusione del web che abbiamo affrontato all’inizio e che ci vedeva ingenuamente alla porta di un oceano infinito di informazioni alle quali avere libero accesso. In
realtà il nostro ruolo attivo nella ricerca d’informazioni sul web è marginale. Questo se valutiamo il sistema con gli occhi di chi cerca un contenuto. Se, invece, siamo quelli che vogliono diffonderlo cambia la prospettiva. Sembra quasi banale ricordarlo: bisogna sapere cosa fare e possiamo tranquillamente affermare che sapere è potere La massima è antica, ma mai come oggi appare attuale. In una comunicazione interamente smistata da sistemi tecnologici, comprenderne il funzionamento non è più una scelta: è una emergenza.
Buoni, ma scemi Facciamo una pausa, ricapitolando quanto detto finora e ribadendo l’affermazione centrale: I contenuti sul web sono costantemente mediati da motori di ricerca, algoritmi dei social networks ed affini. La buona notizia è che il loro principale interesse è quello di accontentarci, di consegnarci realmente una informazione il più possibile vicina a quella che cercavamo. Il loro business si basa su questo. Negli anni ‘90 ogni webmaster un po’ smanettone sapeva benissimo come fornire a Google una serie d’informazioni che confondevano i motori, portando in prima posizione pagine web che, alla fine, non contenevano quanto cercato dall’utente. Se la cosa fosse andata avanti così sempre meno utenti avrebbero usato il motore di ricerca e oggi il colosso di
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Le mosse di Google Panda Nel febbraio 2011 Google ha introdotto un algoritmo, chiamato Google Panda, con l'obiettivo di ripulire le SERP dai siti di poco valore e colpire le Content Farm, quei siti che producono contenuti in gran quantità, senza considerare la qualità, per attirare più traffico possibile e sfruttarlo tramite gli annunci pubblicitari (ad esempio tramite Google AdSense). Dal 2011, Panda ha visto una serie di aggiornamenti minori e alcuni aggiornamenti maggiori. Hummingbird Ha sostituito il precedente PageRank, rivelatosi facile da manipolare, che è diventato uno degli oltre 200 parametri considerati nel sistema globale. Il nome (Hummingbird=colibrì) deriva dal fatto che il nuovo algoritmo vuole essere preciso e veloce. Lanciato nel Settembre 2013. Google Fresh Il nuovo algoritmo, che premia la freschezza dei contenuti, va a modificare il ranking dei risultati nel 35% dei casi, rappresentando così una delle modifiche di maggiore impatto che Google ha abbracciato per migliorare l’esperienza di ricerca sul motore. La conseguenza immediata è quella per cui tutti i produttori di contenuti saranno premiati, mentre sono bocciati i siti più statici contenenti informazioni datate e pertanto meno utili all’utenza che compone le Query. RankBrain RankBrain è il nome dato da Google a un sistema di intelligenza artificiale di apprendimento automatico, che viene utilizzato per aiutare a processare i risultati della ricerca utilizzando sistemi di Machine Learning (quando un computer insegna a se stesso come fare qualcosa, invece che “impararlo” da esseri umani, tramite programmazione) e di Intelligenza Artificiale.
Mountain View sarebbe molto meno colosso. Inizia così una guerra infinita tra Google e i webmaster smanettoni. Una guerra che ha avuto diversi campi di battaglia: Hummingbird, Panda, Google Fresh. Questi nomi non vi diranno nulla, forse, ma si tratta di alcuni degli aggiornamenti lanciati negli ultimi anni a Google sostanzialmente per provare a capire il reale contenuto di una pagina web, con l’obiettivo principale di penalizzare i soliti furbetti del quartierino. Ma se Google and friends vogliono davvero aiutarci, dove sta il problema? La cattiva notizia è che parlano una lingua diversa dalla nostra. Vediamo quindi che lingua parlano e perché li abbiamo definiti poco intelligenti. I motori di ricerca provano a leggere e interpretare i nostri contenuti per fornire risultati affidabili ai propri utenti, ma il tentativo di fornire la risposta giusta si scontra col problema di capire realmente di cosa parli un determinato contenuto web. La parola magica è comprendere. Davvero pensate che un sistema automatico sia in grado di leggere un testo e comprenderlo? Siamo ancora lontani dall’intelligenza artificiale che ci propongono i film di fantascienza. Più modestamente, questi sistemi ricercano schemi, relazioni di significato tra termini e associazioni semantiche per collegare una domanda (la vostra ricerca su Google) a una risposta (il contenuto di una pagina web). Google and friends sono buoni e fanno di tutto per darci risposte corrette, ma l’esigenza di farci capire, se vogliamo investire sul web, è nostra. Quindi prepariamoci a imparare una nuova lingua. O meglio, un nuovo linguaggio. Qui non si tratta di parlare inglese, arabo o swahili, ma di relazionarsi con un sistema complesso che ha delle difficoltà a comprendere cosa significhi un termine o, peggio ancora, un intero testo. Provate ad associare tutto questo con la possibilità di affacciarsi al mercato mondiale semplicemente aprendo un sito o una pagina social. Purtroppo il mondo è un po’ più complesso di quanto pensiamo. Affronteremo meglio l’argomento più avanti, ma il concetto sul quale si basa il tentativo di emulare l’intelligenza
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umana nella comprensione di un testo è la semantica. Per noi è naturale associare un concetto a una parola, per una macchina no. Inoltre, affrontando il web in ottica globale, pochi si rendono conto come non sia soltanto l’enormità dei numeri e il conseguente livello di competizione a essere un problema. Bisogna anche sapere le cose. Per esempio come Google, Facebook e Twitter siano assolutamente marginali in tutto il mondo orientale, tra cui Cina e India, la metà della popolazione mondiale. Sapevate che il secondo social network al mondo è Qzone, una sorta di clone di Facebook usato in Cina e con quasi un miliardo di utenti? Paesi diversi, scenari diversi. Oppure che lo stesso Google è di fatto bloccato in molti paesi (principalmente per ragioni politiche)? Ma anche nel democratico mondo occidentale il peso di ogni singolo ambiente web cambia profondamente. Un esempio su tutti: per una disputa con il governo e gli editori, Google ha sospeso il servizio Google News in Spagna. E se poi ci mettiamo ad analizzare i singoli target di mercato scopriremo come segmenti diversi usino social networks diversi. E non esageriamo definendo tutto questo come la punta dell’iceberg. Nelle pagine centrali di questa dispensa troverete una tabella dove sono elencati i fattori che influenzano, positivamente o negativamente, il posizionamento su Google. Guardandoli appare chiaramente come puntino a un unico obiettivo: rendere comprensibile a un algoritmo il contenuto di una pagina e il grado di apprezzamento generale da parte degli utenti. Un’analisi basata sui contenuti, ma anche sulla struttura tecnica. Complesso? Sicuramente, ma il gioco è questo, ci piaccia o meno, e i numeri sono troppo grossi per pensare che la sola presenza serva a qualcosa. Il sistema è talmente articolato da rendere impensabile ottenere risultati senza un approccio complessivo e professionale. L’intenzione che conta Ma, senza voler entrare troppo nello specifico, fino a ora abbiamo analizzato il problema solo
dal nostro punto di vista. Abbiamo cercato di capire come ottimizzare le nostre azioni sul web per essere trovati dai nostri utenti. Oggi, però, bisogna affrontare il problema da un punto di vista diverso. Il risultato delle nostre ricerche non è più basato esclusivamente sulle parole che digitiamo nella casellina di testo di Google. Il motore di ricerca va ben oltre, analizzando la nostra cronologia, gli interessi dimostrati, le ricerche più recenti. Ma anche il contesto complessivo, come eventuali notizie particolarmente importanti o mode significativamente dilaganti. Prende tutto questo, lo fa elaborare ai suoi mega computer e cerca di individuare le nostre intenzioni di ricerca. L’obiettivo è sempre quello di provare a dare il risultato che si sta cercando, anche andando oltre quello che materialmente scriviamo. Si può fare un parallelo con il T9, il sistema usato per assistere nella scrittura di messaggini. Come il T9, analizzando i caratteri che stiamo inserendo, individua la parola che vogliamo cercare, Google prova ad andare oltre le semplice indicazioni che gli diamo con la nostra query. L’impatto più evidente si ha grazie a Google Suggest, lo strumento che, mentre iniziamo a comporre la nostra ricerca, ci offre alcune alternative, come possiamo vedere nell’immagine sottostante.
Apriamo una significativa parentesi per comprendere quanto sia rilevante Google (insieme ai sistemi analoghi) nell’influenzare le nostre scelte. Prima ancora di intervenire sui risultati, arriva ad influenzare anche la nostra scelta iniziale, suggerendo una definizione finale per la ricerca. Ma torniamo alle intenzioni di ricerca e come queste abbiano a che fare con il marketing digitale e cominciamo a definire le diverse tipo-
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logie di ricerca, per come vengono convenzionalmente divise: ricerche branded riguardano (e contengono) un marchio o comunque il nome esplicito ed identificativo dell’argomento centrato; ricerche navigazionali puntano alla ricerca di un contenuto web (pagina, video, immagine, ecc..); ricerche informazionali l’utente cerca informazioni aggiuntive e/o specifiche su un dato argomento generale; ricerche transazionali la ricerca riguarda probabilmente l’acquisizione di un prodotto o di un servizio. L’aspetto rilevante di questa suddivisione è come Google cerca di comporre le sue SERP, in modo da soddisfare i possibili intenti celati da una interrogazione di ricerca. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a tracciare il tuo indirizzo IP e quindi personalizzare la tua pagina in funzione della tua località, il motore offrirà diverse soluzioni, per essere certo che tu ottenga la risposta che vuoi. In base agli specifici settaggi sulla privacy di chi sta effettuando la ricerca, la comprensione dell’intento di ricerca potrà essere più affinata e restituire risultati migliori. Per comprendere come tutto questo si trasformi in strumenti di marketing ed occasioni di business, analizziamo lo schema sottostante:
In pratica, il motore di ricerca analizza l’intenzione nella query dell’utente e stabilisce se, per esempio, sia una ricerca informativa (ed allora restituirà una serie di contenuti correlati all’argomento) oppure transazionale. In questo caso non solo mostrerà link a shop e marketplace ma, probabilmente, farà comparire il carosello di Google Shop per invogliare all’acquisto diretto. Per fare un esempio esplicito, ipotizziamo di fare una ricerca con i termini “lampade d’antiquariato” ma inseriamo questa ricerca in due contesti diversi. Nel primo caso si tratta di uno studente universitario di design che sta facendo una tesi e, nelle settimane precedenti, ha svolto diverse ricerche sui sistemi di illuminazione nel corso dei tempi. In questo scenario, il motore individuerà una ricerca di tipo informativo e comporrà la SERP di conseguenza. In una situazione neutra, però, un termine così diretto potrebbe lasciar trasparire una possibile intenzione d’acquisto, elemento che caratterizzerà la ricerca come transazionale. L’analisi di questo versante rappresenta uno degli elementi più complessi del marketing digitale e merita migliore approfondimento. Ma ci serviva per comprendere pienamente quale sia il contesto all’interno del quale ci stiamo muovendo. E, principalmente, quanto siamo andati lontano dalla semplice equivalenza termine di ricerca=parole chiave.
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Bastano ottimi contenuti per ottimi risultati
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on il termine contenuto s’intende qualcosa di volutamente generico, perché può comprendere qualunque cosa: testo, video, immagini, dati, ecc… Ma un robot non vede un’immagine, non riesce a comprendere l’argomento trattato in un video. Come può quindi inserirlo nei risultati? E se nella vostra pagina dovete promuovere un libro attraverso un box di testo, come farà a comprendere che quel box parla di un libro e non è una informazione come le altre? Se il robot non raccoglie questi dati non potrà comunicarli a Google e noi saremo meno rintracciabili. Lanciamo un altro nome: Universal Search, e parliamo di come la complessità degli elementi della pagina sia in grado di farci guadagnare una buona posizione nella SERP. Google non è semplicemente un motore di ricerca, in realtà è l'insieme di più motori integrati tra loro: Web, Immagini, Maps, Shopping, Video, Notizie, Libri, Voli e App. E molto altro ancora. L'integrazione di questi motori di ricerca, che negli anni Google è riuscito a creare, prende il nome di Universal Search. Semplificando possiamo dire che la ricerca web si concentra nello spulciare le pagine del nostro sito mentre il resto delle ricerche che compone l’Universal Search si concentra direttamente sui singoli contenuti delle nostre pagine. Le immagini, i parametri sulla nostra localizzazione che dovremmo avere fornito a Google Maps, eventuali prodotti che vendiamo sul sito, i video o le notizie che presentiamo sulle nostre pagine, ma anche cose più specifiche come
libri, voli ed applicazioni che offriamo sui nostri canali. A sinistra possiamo vedere l’esempio di una ricerca per la parola chiave Homer Simpson. Sui dieci risultati presenti nella prima pagina, la metà vengono dalla ricerca organica, tre vengono dai video, uno dalla sezione immagini e uno dalla sezione news. Per questo motivo si parla spesso di ricerche verticali e ricerche orizzontali. Le ricerche verticali sono relative a una tipologia unica di contenuti: testo, per esempio, piuttosto che immagine o video. Le ricerche orizzontali comprendono tutto e cercano di scovare il contenuto desiderato dall’utente sfruttando tutti i possibili canali. A questo va aggiunto il nuovo sviluppo di Google teso a dare risposte dirette e non soltanto proporre link ad altri siti. Avrete notato come spesso, dopo una ricerca, sulla destra compaiano schede complete sull’argomento ricercato. Questo capita quando cerchiamo un personaggio, un luogo o un marchio sufficientemente noto o comunque palesemente all’interno della nostra ricerca. Ma oggi si trova anche altro: bisogna soltanto comprendere come Google costruisce questi risultati e perché alcuni contenuti siano visualizzati in un modo e altri in modo diverso. Insomma, oggi essere visibile sui motori ha diversi significati. In questa ottica le nostre pagine web possono essere uno strumento versatile per farsi trovare dai motori, ma bisogna ragionare in senso più ampio, analizzando non soltanto il sito nel suo complesso, ma anche i singoli contenuti che siano testo, video, imma-
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OTTIMI CONTENUTI, OTTIMI RISULTATI
gini, ecc.… Se cerchiamo un hotel, a volte vengono visualizzate informazioni dettagliate o anche un form per prenotare direttamente dai risultati del motore. Lo stesso vale per i prodotti e per molte tipologie di contenuti orizzontali. In quest’ottica il concetto di qualità si allarga parecchio e comprenderete facilmente come questo influisca sul business. Maggiori possibilità di essere trovati, maggiori possibilità di contatto. E di successo. Siamo quello che Google conosce di noi Questo, paradossalmente, ci porta alla nuova illusione da cancellare: basta creare buoni contenuti. Purtroppo non funziona così. Ribadiamo, prima di tutto, come i motori di ricerca non si basino sul contenuto delle nostre pagine, ma soltanto su quello che i robot riescono a trovare e, principalmente, a comprendere. Questo ci fa rivedere il concetto di buon contenuto: è un errore analizzare la pagina in maniera sommaria, pensando che ci sia da valutare solo l’importanza dell’argomento trattato e la qualità stilistica di testo o immagini. Oltre questa valutazione complessiva dobbiamo analizzare (e ottimizzare) ogni singola parte, proponendola nel modo corretto per essere compresa efficacemente da spider e algoritmi dei motori di ricerca. Local search Una panoramica dei diversi elementi che vengono presi in considerazione nella definizione del contenuto di una pagina web. Nel caso presentato all’interno di questo schema è stata posta una particolare attenzione alla Local Search, cioè a quelle strategie di posizionamento che tendono principalmente a “farsi trovare” e quindi raggiungere dagli utenti geograficamente più vicini al punto vendita.
Ovviamente, non finisce qui. Possiamo anche avere scritto il post più interessante del mondo, ma se il motore di ricerca non lo considera tale, perché magari non è in grado di leggerlo correttamente, il post non verrà consegnato ai nostri potenziali utenti e, qualità o meno, noi avremo fallito. Ma anche se siamo stati abbastanza bravi da creare contenuti facilmente leggibili dai motori, saremo comunque all’inizio del nostro lavoro, perché adesso dobbiamo confrontarci con i competitors. Riprendiamo l’esempio della pagina dove si parla proprio del funzionamento dei motori di ricerca. Ipotizziamo un utente che chieda informazioni sul funzionamento dei motori di ricerca. Google recupera dal suo database la scheda di questa pagina e ci propone il link in SERP. La domanda è: in che posizione spunterà la nostra pagina? Come abbiamo già detto, Google valuterà diverse pagine, ma anche contenuti dalla Universal Search, che parleranno dello stesso argomento. Quindi ordinerà tutto e sceglierà i contenuti più rilevanti rispetto la domanda dell'utente. Insomma, dovrà scegliere tra tutte le pagine che parlano del funzionamento dei motori, quale potrebbe essere la più utile e, a seguire, tutte le altre sempre in ordine, decrescente, di utilità. Sempre secondo lui, ovviamente.
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Abbiamo già visto come Google applichi al contenuto delle nostre pagine una serie di parametri e strumenti di analisi. Alcuni riguardano la pagina, altri la presenza in rete e altri, in qualche modo, anche la presenza sui social networks del sito e l’affidabilità dell’autore. I professionisti del settore studiano il comportamento dei motori e cercano di individuare cosa influisca o meno (e in che misura) sulla posizione in classifica nei risultati di una ricerca. Se volete farvi un'idea della complessità dei fattori in gioco, potete dare uno sguardo alla tabella dei fattori di posizionamento (nelle pagine centrali). Con questo termine si indicano le caratteristiche tecniche (e non solo) che influiscono sulla considerazione delle nostre pagine da parte di Google. La cosa importante, comunque, è ricordare come dall’insindacabile giudizio di Google e del suo algoritmo dipenda il successo o meno di gran parte della nostra comunicazione sul web. I criteri di attribuzione di ranking sono tantissimi, ma qui torniamo a dire come ai primi posti si trovi in ogni caso la qualità intrinseca del contenuto. Ovvero quanto sia scritto bene il contenuto e quanto risponda adeguatamente alle domande degli utenti, se contiene link a risorse valide e se è ottimizzato per i motori di ricerca; segue la popolarità del contenuto e del sito che lo ospita, a volte indipendentemente dal fatto che possano esistere contenuti migliori su altri siti meno famosi sul web. Il trust rank è infatti una delle componenti dell’algoritmo di Google attraverso cui valuta il livello di affidabilità di un sito web rispetto agli argomenti che tratta. E poi c’è la popolarità dell'autore del contenuto, l'author rank, che segue la stessa logica del trust rank: se Google percepisce la presenza di una fonte autorevole ne favorisce il posizionamento. Il percorso fin qui illustrato sembra piuttosto semplice nella sua idea di base: ottimi contenuti all’interno di pagine corrette, costruite per essere lette, all’interno di siti affidabili.
Il problema vero nasce quando mettiamo a fianco i numeri. Uno dei principali momenti di confronto tra professionisti del settore riguarda l’incidenza reale di una soluzione tecnica o di una specifica pratica web. In pratica: ma vale la pena ottimizzare? Facciamo un esempio estremamente concreto: l’uso del robots.txt. Questo file indica ai nostri ragnetti se ci sono aree del sito che è inutile visitare. Se gestite un CMS, ad esempio, è probabile che ci siano intere cartelle da saltare, quelle dei meccanismi. Ma perché dovrebbe essere un problema nostro semplificare il lavoro allo spider? Perché esiste il Crawl budget, un valore assegnato da Google al nostro sito che indica quante pagine visualizzerà il robot in ogni passaggio e quanto tempo ci dedicherà. Se parte di questo tempo lo spreca ad analizzare file inutili noi abbiamo perso un'occasione. Oppure le definizioni delle immagini, altro particolare poco considerato. Google non vede le immagini, ma esiste una proprietà, chiamata alternative text (alt), che permette di associare una definizione del contenuto della nostra immagine leggibile dai motori. Cosa succede se non lo facciamo? Niente, semplicemente abbiamo perso l’occasione di essere rintracciati anche attraverso la Universal Search. Ogni singola ottimizzazione, in termini generali, ha un impatto molto piccolo sulle nostre performance. Per comprenderci, ipotizziamo un’azione di ottimizzazione che migliori le nostre performance dello 0,01%. A occhio sembrerebbe poco conveniente. Ma è sempre vero? Affrontando la prima illusione abbiamo visto come, all’interno di una ricerca con più di due milioni di risultati, in realtà noi avremmo valutato soltanto i primi 10. Quindi noi scegliamo all’interno dello 0,001 per dei risultati possibili. Il rimanente 99,999% dei risultati della nostra ricerca è visibile dalla seconda pagina in poi e la maggior parte di noi non ne conoscerà mai l’esistenza. La cosa da tenere presente è come sia stato Google a scegliere i magnifici 10. Alla luce di questa considerazione, quell’aumento di performance dello 0,01% di cui parlavamo prima, comincia ad assumere un altro peso e un’altra
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importanza. Applicandolo all’esempio precedente rappresenterebbe, a parità di contenuto, la possibilità concreta di scalare 100 posizioni nelle SERP. Ovviamente è una visione semplificata delle cose, ma serve a rendere l’idea dell’approccio necessario. E siamo soltanto all’inizio del percorso, perchè fin’ora abbiamo limitato il discorso al semplice ranking delle parole chiave, la vecchia lotta per conquistare le prime posizioni nelle SERP seguendo una logica che vede, comunque, sempre le keywords al centro della nostra strategia. Ma, ricordando cosa diceva un genio come Albert Einstein:
non si possono risolvere nuovi problemi seguendo vecchi schemi di pensiero. Il vero terreno di confronto, oggi, è molto più ampio. Abbiamo ribadito come il trend dichiarato sia quello dell’applicazione di sistemi di intelligenza artificiale. Abbiamo ribadito come il tentativo dei motori sia quello di comprendere la nostra intenzione di ricerca. E poi ci sono i social networks che sanno tutto di noi, il mobile che ci segue in ogni istante della giornata... Le strategie basate sulle keyword sono diventate una parte e non il centro del problema.
Cos’è lo ZMOT?
Che cos’è il Momento Zero della Verità? Il Momento Zero della Verità, o Zero Moment of Truth – ZMOT (pronunciato “zee-mot”) è un nuovo momento del processo decisionale e d’acquisto che consiste nella ricerca di informazioni in rete prima di recarsi in negozio. Gli utenti, una volta ricevuto uno “stimolo”, prima di recarsi in un punto vendita (o su un sito e-commerce) si informano leggendo le recensioni, i commenti e i giudizi degli altri utenti, chiedendo agli amici oppure consultando i social network, facendo ricerche sui motori di ricerca, consultando siti web, guardando video, e così via. In pratica gli utenti si informano e decidono nel “momento zero della verità”, effettuando ricerche in rete, sui motori di ricerca ma anche sui social network. Il momento zero della verità, quando si sta pensando all’acquisto di un prodotto, può avvenire in vari momenti della giornata e in tante situazioni differenti. La logica dello ZMOT diventa ancora più chiara affrontando un’altro dei termini che sta rivoluzionando il marketing digitale: i micromomenti. (fonte: http://www.riccardoperini.com/momento-zero-verita.php)
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OTTIMI CONTENUTI, OTTIMI RISULTATI
Adesso parleremo di micromomenti, ma soltanto per fornire un esempio tangibile del nuovo modo di vedere il web. I micromomenti I micromomenti sono quegli istanti nell’arco della giornata in cui si manifesta una necessità, un bisogno o una curiosità (con cui può anche iniziare o terminare il processo d’acquisto di un bene o servizio) che vengono soddisfatti tramite una consultazione online. La conquista di tali micromomenti è divenuta, secondo Google, il nuovo terreno di sfida dei marketer (digitali e non). L’imperativo categorico del marketing (non solo del real time marketing) è infatti quello di presidiare tutti i punti di contatto (touchpoints) del processo decisionale dell’utente (buyer’s Journey) in qualunque istante si manifestino. La soddisfazione del bisogno nei microments avviene prevalentemente tramite la consultazione dello smartphone. Perchè sono importanti i micromomenti? Perché l’avvento del mobile ha stravolto completamente il modo di ricercare, di informarsi e di soddisfare i bisogni, sia che si tratti di neces-
sità e decisioni di acquisto poco rilevanti, sia che si tratti di scelte importanti. Il trend è in continua ascesa e pensare mobile first non significa solo realizzare siti ed e-commerce progettati per dispositivi portatili (responsive o mobile) ma significa reimmaginare completamente l’esperienza dell’incontro dell’azienda con l’utente che, risulta totalmente differente, rispetto agli schemi con cui eravamo abituati a confrontarci. Facciamo un esempio concreto: hai realizzato un sito mobile friendly e hai un’ottima visibilità su Google, cioè compari nelle prime posizioni della SERP. Senonché ti accorgerai che Google, per la query che ti interessa, restituisce dal cellulare (ma anche desktop) pagine di risposte locali, dando la preferenza ad aziende che fanno capire a Big G di essere radicati sul territorio. Avere un ottimo posizionamento generico e un sito tecnicamente in grado di convertire non basta per garantire risultati. Il terreno di gioco non è più soltanto il posizionamento delle keywords, ma bisogna prevedere i tempi ed i modi di contatto col potenziale cliente. Un gioco apparentemente complesso ma nel quale Google e i motori, sapendoli usare, sono potenti alleati.
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Quello che conta è essere primo sui motori
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ndiamo a sfatare un’altra, pericolosa illusione del web: basta essere primi sui motori per avere successo. Niente di più falso. E se vogliamo essere precisi, è la stessa affermazione a essere priva di senso: primi su cosa? Una formulazione più corretta potrebbe essere primo per le ricerche su una specifica query, quindi su una parola chiave. Ma poi siamo certi che siano proprio quelle le parole chiave più convenienti per il nostro business? Facciamo un esempio sul settore turistico. Istintivamente possiamo pensare che, dovendo promuovere un hotel a Trapani, essere primi con la ricerca hotel trapani sia la soluzione di tutto e, comunque, il migliore risultato ottenibile. Eppure un utente che digita una tale ricerca è un turista che, in qualche modo, ha già scelto di venire a Trapani. Un recente studio della Four Tourism, agenzia di destination marketing, ha sottolineato come Trapani sia presente sul mercato turistico del web per appena il 10% del suo potenziale. La vittoria su questo campo, quello di chi conosce e cerca questo territorio è limitata a questo segmento. Tra l’altro, questo è sicuramente il segmento più competitivo e quindi dispendioso in termini di risorse. Per esempio c’è da superare le proposte delle OTA, come Tripadvisor. C’è un 90% da esplorare che quella keyword non contempla. I meccanismi della Universal Search ci hanno fornito altri motivi per abbandonare questa concezione. La domanda primi su cosa va allargata ai vari canali della ricerca globale, rendendo ancora meno sensata la ricerca generica di una buona posizione. Inoltre, anche essere primi con la migliore keyword possibile non risolve per nulla il pro-
blema. Tralasciando il contenuto del sito e analizzando soltanto i risultati in SERP, avrete notato come siano visivamente diversi tra loro: foto, stelline, link aggiuntivi. Alcuni siti sono decorati in maniera diversa rispetto ad altri. E un utente, a prescindere dalla posizione, tenderà a cliccare sul link più ricco. Questa è una parte, nemmeno la più rilevante, del problema. Il punto è che ancora una volta non basta esserci. Bisogna capire perché, come e, come abbiamo visto con i microformati, anche quando essere presente sul web. Stabilito come la domanda sia semplicistica, rimane comunque il problema. Una volta stabilito quale sia l’ambito all’interno del quale vogliamo essere trovati dobbiamo sempre competere per raggiungere il risultato. Questo è quell’ambito che viene genericamente indicato come SEO (Search Engine Optimization, ottimizzazione per i motori di ricerca), disciplina spesso associata con il SEM (Search Engine Marketing). Semplificando ai limiti del consentito, potremmo dire che la SEO si occupa principalmente dei risultati della ricerca organica, la SEM di quella a pagamento. Ma qualsiasi professionista del settore contesterà questa definizione. E avrebbe ragione. Perchè, oggi, il concetto stesso di posizionamento è profondamente cambiato. Facciamo qualche esempio: un utente effettua una ricerca con il termine caffè. Quali risultati privilegerà il motore di ricerca? Supermercati e negozi? Bar e locali? Informazioni generiche? Partiamo dal presupposto che Google vuole darci un risultato utile. Quindi considererà prima di tutto il dispositivo. Se digitiamo da un PC è probabile che stiamo cercando informazioni su un acquisto, quindi saranno privilegiati brand, supermercati e negozi. Se effettuiamo
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QUELLO CHE CONTA
la ricerca da mobile è plausibile che siamo per strada e vogliamo sapere dove poter prendere un caffè nelle vicinanze. In più c’è da tenere in debita considerazione l’orario, se più confacente all’acquisto di un prodotto o alla prima colazione, la zona in cui viene effettuata la ricerca, l’abitudine o meno, da parte dell’utente, di acquistare prodotti e servizi consultando il web... e potremmo continuare davvero a lungo. Ipotizziamo che, tenendo presente tutto questo, il nostro motore mostri un elenco di bar, cercando di geolocalizzarli il più possibile; se il mobile ha la geolocalizzazione attiva, mostrerà i più vicini al punto dove ci si trova. Questo accade dal punto di vista dell’utente. Ma saltiamo il fosso e vediamo come questo influisce sulla gestione della nostra presenza digitale. Concentriamoci sul bar che, abbiamo visto, potrebbe intercettare l’utenza mobile che cerca un posto dove prendere un caffè. Questo aggancio non è per nulla automatico, e per potere fornire all’utente una informazione, il motore di ricerca deve prima averla. Va detto che Google (come gli altri motori) mette a disposizione delle aziende tutta una serie di strumenti per comunicare dati aziendali, posizione geografica e molte altre cose che completano la ricerca. Strumenti utilizzati poco e male, almeno in Italia. Ma andiamo ancora di più nel dettaglio. Se nel raggio d’azione del nostro utente ci sono due o più bar, quale selezionerà Google? Teniamo presente che parliamo
di ricerca mobile, effettuata su piccoli schermi, dove quelle che contano sono davvero le prime posizioni, più spesso solo la prima. In un caso del genere entrano in gioco tanti fattori (escludendo quelli legati a campagne a pagamento). Ma la linea da seguire è la stessa: il sistema cerca di trovare il risultato che l’utente troverà più adatto ai suoi desideri. Per raggiungere l’obiettivo spulcerà tra i suoi interessi, tra le sue abitudini d’acquisto, tra la sua cronologia di ricerca. Insomma cercherà tutte le informazioni possibili per comprendere cosa desidera realmente. Poi verificherà all’interno del suo database se c’è qualcosa che corrisponda a quei parametri e la visualizzerà sullo smartphone del nostro possibile cliente. Lo abbiamo già detto, le ricerche non sono fatte direttamente sul web, ma sull’indice dei motori di ricerca. Per effettuare questo confronto ed estrarre il risultato più adatto all’utente, quindi, è necessario che il nostro bar abbia spiegato al nostro motore di ricerca le caratteristiche della sua specifica offerta. Se, ad esempio, il nostro utente è un assiduo frequentatore di siti ambientalisti e bio e il nostro bar offre colazioni biologiche e a chilometro zero, il motore preferirà questo esercente, sicuramente più vicino alle esigenze dell’utente, rispetto a un’altro che restituiva un risultato più
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QUELLO CHE CONTA
ning. In pratica sono complessi algoritmi che hanno la capacità d’imparare da soli, analizzando e raffrontando dati e schemi, traendo conclusioni e arrivando a sviluppare nuove procedure senza l’intervento di un programmatore. Ricordate il film Corto circuito? Era una pellicola degli anni ‘80, dove il protagonista era un simpatico robottino, chiamato Numero 5, dotato di una vivace intelligenza artificiale e caratterizzato da una costante e insaziabile fame di input, di dati. Quello era un film, ma non siamo distanti dal vero. Ogni sistema di auto apprendimento ha bisogno di dati per crescere e diventare più efficace. E mai come in questo caso vale una massima classica del marketing: feed the monster
generico. Sempre ammesso che conosca le peculiarità del bar, cioè che siano state comunicate correttamente. Come fare? Dobbiamo abbandonare per un attimo la tecnica e tornare alle materie umanistiche: si parla di semantica. Prima di entrare in questo campo, definiamone meglio i contorni. Gli esempi appena fatti sono, ovviamente, estremamente semplificati, ma ci servivano a entrare in questa nuova logica, quella già accennata delle intenzioni di ricerca. Motori di ricerca e social network cercano di andare oltre alle nostre intenzioni palesi e il loro motto potrebbe essere:
che possiamo tradurre con nutri la bestia. Se il sistema vuole dati, noi dobbiamo darglieli, provando a renderli congeniali, appetibili e, soprattutto, digeribili. Qui, comunque, non parleremo di tecniche, ma di concetti e arriviamo, finalmente, alla semantica. semantica (se·màn·ti·ca/) sost. femminile
1. La scienza dei significati destinati a essere definiti e cristallizzati da parole significanti quando si tratti di nozioni o azioni, e da segnali morfologici quando si tratti di rapporti sintattici. 2. In filosofia, parte della logica diretta a determinare i limiti di un linguaggio corretto e rigoroso mediante l'analisi dei ‘simboli’ linguistici d'uso comune; in senso più ristretto, lo studio delle relazioni fra espressioni linguistiche e il mondo cui si riferiscono o che dovrebbero descrivere.
non ti diamo quello che cerchi, ma quello che vuoi. Sembra pretenzioso, ma ci sono davvero vicini. In ogni caso, quello che conta è che si stanno muovendo in questa direzione e se vogliamo utilizzare gli strumenti digitali per il nostro business faremmo meglio ad assecondarli. Per realizzare questo scopo, il modello seguito da questi colossi del digitale, da Facebook a Google, è quello chiamato machine lear-
Superata la definizione accademica, ragioniamo su come questo abbia a che fare con il web e il digitale. Per farlo torniamo al nostro robottino, all’insaziabile Numero 5. La maggior parte delle situazioni comiche, in questo film, nasceva quando il simpatico robot-
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Folksonomy La folksonomia (neologismo derivato dal termine inglese folksonomy) è l'operazione di categorizzare informazioni compiuta dagli utenti mediante l'utilizzo di parole chiave (o tag) scelte liberamente. Il termine è una parola macedonia formata dall'unione di "folk" e "tassonomia"; una folksonomia è, pertanto, una tassonomia creata da chi la usa in base a criteri individuali. Concretamente, è la metodologia utilizzata da gruppi di persone che collaborano spontaneamente per organizzare in categorie le informazioni disponibili attraverso internet (vedi web 2.0). Questo fenomeno, in contrasto con i metodi di classificazione formale (in particolare con la tassonomia classica), cresce soprattutto in comunità non gerarchiche legate ad applicazioni web, attraverso le quali vengono diffusi contenuti testuali e/o multimediali. Considerato che gli organizzatori dell'informazione sono di solito gli utenti finali, la folksonomia produce risultati che riflettono in maniera più definita l'informazione secondo il modello concettuale della popolazione in cui il progetto viene realizzato. <fonte Wikipedia>
tino si trovava alle prese con un contenuto e lo assumeva come verità, a prescindere dal fatto che l’informazione provenisse da una enciclopedia o da un fumetto per bambini. Questo perchè una macchina non ha, di base, alcun elemento effettivo per distinguere un volume enciclopedico o un saggio da un testo narrativo. In realtà, un sistema di machine learning non funziona così. Nel caso dei modelli attuati dai motori di ricerca, potremmo rispolverare il vecchio detto voce di popolo, voce di Dio. Avendo a disposizione pressocchè la totalità dei contenuti digitali, il nostro sistema d’intelligenza artificiale non fa altro che analizzare continuamente quest’oceano d’informazioni per individuare schemi, ricorrenze e occor-
renze, assonanze e dissonanze. Se trova un numero sufficiente di persone che parlano contestualmente di Coca Cola e di bibite, assocerà i due termini. E così farà se lo vedrà connesso a termini correlati, come festa, divertimento, party, ecc... Quale sia il numero sufficiente è dato dalla grandezza del mercato di riferimento e da molti altri fattori che devono essere analizzati scrupolosamente se vogliamo impostare una efficace strategia di marketing. Quello che conta è che questi contenuti esistano e siano scritti in maniera intellegibile per i sistemi automatici. E ovviamente accattivanti (o utili) per l’utente che dobbiamo contattare. Una delle prime leggi del marketing recita che il vero successo è possedere una parola nella mente del cliente. Le storiche pubblicità che hanno creato termini immortali che ancora oggi utilizziamo possono essere considerate capolavori del marketing. La pubblicità a fatto associare l’idea di “crema spalmabile” al termine “Nutella” e guardando una “penna a sfera” è molto probabile che venga alla mente il termine “Bic”. Raggiungere questo risultato garantiva la vendita del prodotto: ogni qual volta l’utente pensava alla esigenza, il pensiero si trasfomava automaticamente nel brand. Oggi può risultare più interessare ed efficace impiantare la nostra parola nella mente di Google. Se immetti termini di ricerca come “Enjoy” o, più recentemente, “taste the feeling”, termini assolutamente generici e che affrontano situazioni molto ampie, il sistema di correlazioni dei motori di ricerca non potrà prescindere da come la Coca Cola abbia da tempo “presidiato” questi termini. E questo rappresenta un vantaggio assoluto. In generale, quindi, l’obiettivo è quello di produrre contenuti quantitativamente e, principalmente, qualitativamente adeguati a convincere Google che, ad esempio, il nostro brand di bici da mountain bike sia associato a termini generici che riguardino il nostro mercato, come “cicloturismo”, “passeggiate ecologiche” o quant’altro abbiamo previsto nella nostra strategia di marketing e comunicazione.
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L’approccio strategico è tutta filosofia
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e dinamiche e i numeri che abbiamo illustrato all'inizio hanno dimostrato come non basta esserci. Pubblicare semplicemente un contenuto senza supportarlo con azioni strategiche specifiche equivale esattamente a non esserci. Riflettere sul reale funzionamento dei motori di ricerca e dei social networks ci ha fatto capire come anche essere presente con contenuti difficilmente leggibili dai motori di ricerca equivale nuovamente a non esserci. In sintesi, l'unico reale modo di esserci è comprendere le regole del gioco e cominciare a giocare sul serio. Spesso gli imprenditori che si trovano a valutare la possibilità di integrare il loro business con Internet, sentendo questi discorsi, cominciano a storcere il naso pensando si tratti solo di filosofia, che ci sia poco di concreto. Questa è la più pericolosa illusione del web. Provate a pensarci: la struttura del web, la dinamica degli algoritmi che lo regolano, le leggi che regolano il marketing e le interazioni del mercato rappresentano la anatomia di Internet. Fatevi una domanda: andreste da un chirurgo che considera poco importante conoscere l’anatomia del paziente prima di operarlo? La verità è che in altre aree del pianeta l'uso professionale e globale di Internet per lo sviluppo delle aziende è un presente già consolidato, e sono le aree che hanno vinto la competizione e la crisi. Il gioco è questo e la regola è molto semplice: o sei dentro o sei fuori! Se qualche anno fa Internet era soltanto uno dei tanti canali per raggiungere il mercato, oggi È il mercato. Le differenze tra fisico e virtuale si fanno sempre più sottili, la Rete non serve solo per connettersi con ciò che è distante, ma anche per prenotare il ristorante sotto casa. Essere sul web nel modo giusto coincide con l'esi-
genza di essere sul mercato nel modo giusto. Prodotto e informazione del prodotto viaggiano insieme anche quando il prodotto è estremamente fisico. Basti pensare come uno dei mercati più influenzati da Internet sia il turismo. Una cosa così fisica e tangibile come una destinazione, cresce e prospera in base a quanto crescono e prosperano le informazioni sul web che la riguardano. Però abbiamo anche assodato come l'informazione e la comunicazione sul web siano mediate da sistemi automatici come gli algoritmi di Google, Facebook, Twitter…. Questo, insieme all'altrettanto assodata esigenza di essere presente in Rete in forma adeguata, ci porta a cambiare completamente l'approccio rispetto a come s'intendeva l'azione sul web negli anni '90 e fino all'inizio del secolo. A quei tempi i numeri non erano certamente esagerati come adesso e i sistemi non erano ancora in grado di mettere in pratica alcuna reale capacità di comprensione dei contenuti. Il gioco, quindi, diventava tutto sommato semplice: si individuavano le parole chiave della propria attività, le mitiche keywords, e le si piazzava in punti e modi strategici all'interno delle proprie pagine web per essere “bevuti” dai motori di ricerca. Se vendo televisori al plasma, devo fare in modo che chiunque cerchi su Google la parola televisori al plasma mi becchi nella prima pagina. In quel tempo i motori di ricerca erano abbastanza sempliciotti e si bevevano quanto scrivevano diligenti webmaster nel codice delle loro pagine. Anche quando puntavano su keywords che non c'entravano nulla col contenuto, perseguendo l'unico obiettivo di aumentare il numero di accessi. La competizione, in quegli anni, di fatto non era tra i siti;
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TUTTA FILOSOFIA
era tra i webmaster e le loro tecniche, più o meno lecite. Nel frattempo cresceva il malcontento degli utenti che cercavano il loro bravo televisore al plasma e si beccavano la pagina di un sito porno, magari pieno di virus, creato da un promettente, ma non troppo onesto, smanettone anni '90. Google non ci sta e affina le armi. Dall'alba del nuovo millennio è un susseguirsi di nuovi aggiornamenti del più grande motore di ricerca. Tutte innovazioni create con un unico scopo: non fidarsi troppo dei webmaster, provando a sfruttare ogni sistema possibile per comprendere autonomamente il contenuto di una pagina web, ma anche di pesarne il giudizio che ogni singolo utente ha della pagina. Ci sono sostanzialmente due frasi che condensano questo periodo. La prima è, indubbiamente
cerca spasmodica di backlinks, cioè collegamenti che puntavano al nostro sito inseriti in altre pagine. Nascono così le link farm, siti totalmente inutili che avevano come unico scopo quello di inserire, spesso a pagamento, link a altri siti, falsando quell'idea di certificazione che si voleva dare al backlink. E anche in questo caso la risposta è stata dura: i nuovi algoritmi di Google penalizzano, fino all'esclusione, siti che si fanno linkare da pagine di dubbia qualità. I backlinks mantengono la funzione di approvazione sociale solo se provengono da siti au-
Content is king Questa frase ribadisce come il contenuto sia il Re indiscusso di ogni strategia web. Purtroppo questa frase è stata interpretata un po’ troppo alla lettera creando la sottile illusione che bastasse realizzare un buon contenuto per vincere la partita. Altra frase chiave di questi tempi è Google loves what people love Tradotto spiega come Google ami (e metta in cima alle SERP) ciò che la gente ama. In pratica sottolinea che, insieme al contenuto, l’altro fattore rilevante è l’interazione con gli utenti del web, il loro gradimento e la conseguente condivisione attraverso backlinks oppure sui social networks. Rimane il problema di comprendere come possa un algoritmo valutare un contenuto e misurarne il grado di apprezzamento del pubblico. Il primo approccio fu legato ad un parametro molto semplice, probabilmente troppo, visto com'è andata a finire. Se molte pagine web mettono un link verso un'altra specifica pagina, questa deve avere un contenuto interessante. Questo fece scoppiare un altro bubbone: la ri-
torevoli e che affrontano argomenti compatibili. In caso contrario si rischia un pesante cartellino rosso. Ovviamente stiamo sempre semplificando, ma tutto questo ci serve per sottolineare un unico, semplice concetto: non ci sono scorciatoie, non ci sono trucchetti. E se ci sono, saranno sgamati a breve. Il business di Google si basa sulla credibilità e affidabilità dei suoi risultati di ricerca. Chiunque cerchi di alterarli è visto come un avversario. A noi resta solo da scegliere se scommettere sulle capacità di un programmatore, fosse anche il più geniale, di individuare una falla nel sistema da sfruttare a proprio vantaggio. Oppure sulla capacità del colosso di Mountain View, al momento l’azienda più grande del pianeta, leader incontrastato nel proprio settore, di individuare al più presto una soluzione.
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Considerato come la domanda fosse palesemente retorica, non aspettiamo una risposta e concentriamoci sulla realtà di quelle frasi: il contenuto è davvero il re e per farci amare da Google dobbiamo realmente farci amare dalla gente. Ma Google non è una persona, è un programma, un algoritmo. Quindi ragiona in termini di parametri quantificabili, non certo di qualità, almeno non come la intendiamo noi umani. Allora cerchiamo di comprendere, ovviamente semplificando ai limiti del consentito, come si realizza questa magia, quali sistemi utilizza Google e il web nel suo complesso per valutare i contenuti e le interazioni sociali, quali parametri adotta per farci salire o scendere dalle pagine dei risultati. In una parola come fa a comprendere di cosa parliamo e su che basi valuta se la gente ci ama o meno. E alla fine potremmo porre la domanda centrale: come utilizzare queste conoscenze a vantaggio del nostro business? L'evoluzione del web Prima di passare ad alcune questioni tecniche è importante aggiungere un altro elemento. Mentre si evolveva il sistema, si evolvevano anche gli utenti. Non ci sono soltanto i Millennials e i giovani nati dopo il 2000, interfacciati al web in maniera quasi fisica. Anche le fasce più adulte, quelli che hanno vissuto la trasformazione dallo Spectrum allo smartwatch, stanno entrando nel mondo digitale. La Vodafone ha recentemente lanciato un'offerta Senior che prevede servizi adatti a una popolazione più anziana con interfaccia dello smartphone a uso semplificato. Sono già commercializzati dei piccoli apparati, anche sotto i 20 euro, che trasformano la tv in un Pc. L'obiettivo è quello di consentire l'utilizzo di Internet attraverso qualcosa che assomigli al familiare telecomando del televisore, un oggetto che è intimamente connesso alla nostra vita quotidiana. Sempre sull'integrazione web/tv prossima ventura, bisogna considerare l'arrivo di Netflix in Italia. Il colosso americano delle webTv non lesina certo risorse per avvicinare
un pubblico più largo possibile alla fruizione di contenuti web attraverso il televisore di casa. E Apple ha già lanciato il suo modello di Web Tv Box, commercializzato sotto i 200 dollari e fornito di un telecomando uguale a quello della Tv di casa. Solo che ci permette di vedere web Tv come Netflix, ma anche video su Facebook e YouTube. Un altro elemento rende chiaro il cambio di modello in corso. Da tempo, ormai, tutta la promozione dei grandi circuiti televisivi punta sulle versioni web della loro offerta. Fate mente locale sulle pubblicità che vi raggiungono giornalmente: il gruppo Sky punta su SkyGo, Mediaset su Premium Play e anche la Rai è scesa fortemente in campo con l’applicazione RayPlay. E con uno spot dedicato proprio alle fasce più avanti con gli anni. Inoltre, sempre in casa Rai, è andato in onda un programma (Complimenti per la connessione) centrato proprio sulla educazione digitale degli anziani, usando come testimonial Nino Frassica nei panni del maresciallo di Don Matteo, una scelta precisa di comunicazione e di target. Questo modello di integrazione rende chiaro come anche l'accesso degli attuali no-digital al mondo della comunicazione web sia ormai ineludibile e vicino. Il televisore di casa, a oggi considerato il principale competitor di Internet, diventerà a breve uno dei sui canali di diffusione principali. E probabilmente il più invasivo, considerato come proprio nei paesi meno connessi, come l'Italia, la centralità in casa dell'apparecchio televisivo è assoluta. La barriera tra i due media crollerà a vantaggio del web che, rispetto al broadcasting tradizionale, ha costi nettamente inferiori di gestione della rete. E poi, se guardate una web Tv siete connessi e il sistema potrà offrirvi una pubblicità cucita su di voi, superando la ormai indiscussa scarsa efficacia degli spot sulla tv tradizionale. Un discorso a parte meriterebbero due settori in via di veloce sviluppo. Per adesso lanciamo solo i nomi: Wearable tecnology e Internet of Things (IoT). Entrambi i sistemi porteranno internet nelle nostre vite in modi che oggi sembrano ancora fantascienza. In realtà sono già operativi in diverse aree del pianeta, Usa in testa.
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What’s next
Con il termine wearable technologies intendiamo tutte quelle tecnologie portabili e indossabili, modellate attorno al corpo delle persone, il monitoraggio di segnali endogeni ed esogeni al corpo, anche di natura emozionale, ampliando anche la capacità sensoriali. Nel 2014 sono stati circa 19 milioni i dispositivi di wearable technology venduti nel mondo. Oltre 600 mila solo in Italia. L’International Data Corporation), ha previsto 112 milioni di pezzi acquistati nel 2018. L’IoT, (Internet of Things, Internet delle cose) punta a integrare oggetti di uso comune col web. Si va da gli iBeacon che dialogano con i device mobili, al frigorifero che tiene conto della dispensa, fino alle case completamente controllate in remoto attraverso la rete Internet. Ma anche ogni sistema che consenta il pagamento online di prodotti acquistati fisicamente attraverso l’utilizzo di device mobili o di wereable tecnology. Ultimo eclatante esempio il Dash di Amazon, che consente l’acquisto diretto di un prodotto premendo un bottone ma anche colossi come Google e Facebook stanno investendo pensatemente nel settore. Siamo ancora nella fase di transizione, ma ormai è una fase estremamente avanzata. Dopo tutto, se vi ricordate la nascita dei cellulari, i primi anni sono stati colmi di diffidenza verso quella tecnologia, caratterizzati da un utilizzo limitato della comunicazione mobile e a costi elevati ed esclusivi. Ma è durata poco. Inoltre, se allora vi avessero detto che a breve avreste controllato la vostra posta mentre aspettavate l'autobus, probabilmente avreste chiamato la neurodeliri. Lo abbiamo già detto: tutto cambia, che ci piaccia o meno. Contemporaneamente c'è stata anche un'altra evoluzione nel modo di approcciarsi al web. Negli anni '90 il web era altro da noi. L'utilizzo era confinato nel chiuso di un ufficio o di una cameretta, alienava completamente dalla vita esterna, la virtualità era assoluta, così come il distacco. Si dialogava esclusivamente attraverso una tastiera o con il mouse, un aggeggino attaccato a un filo che faceva comparire una freccetta sul monitor. La stessa bassa qualità della grafica e delle immagini confinava quel mezzo in un limbo irreale, quasi una fuga dal mondo. In questo sistema il rapporto con le informazioni seguiva la stessa freddezza. L'utente aveva bisogno di una informazione e digitava la ricerca sul motore di ricerca. Tutto finiva lì. Oggi le cose sono profondamente cambiate. La tecnologia touch ha abbattuto quella potente barriera tecnologica data dal sistema tastiera/mouse e oggi il proliferare di sistemi evo-
luti come Siri e Google Now sta riducendo ancora di più le distanze uomo-web. Questo, insieme alla continuità d'uso connessa all'affermarsi del mobile, ha cambiato profondamente anche gli stili di ricerca. Se si analizza il trend delle ricerche negli ultimi anni si nota una chiara evoluzione. Oggi si sta sviluppando un rapporto quasi personale con il web e in particolare con Google. Non si fanno ricerche, si pongono domande. E si guarda un sacco di roba. Se analizziamo il percorso di scelta della destinazione di una vacanza, un utente visita mediamente 24 siti, con punte di 38 siti, prima di scegliere una meta specifica per il proprio viaggio. E il trend appare in aumento anche per i prossimi anni. Il punto è che le modalità di ricerca si stanno polarizzando. Crescono le ricerche molto ampie, formate da lunghe key phrases, anche di 6/7 parole, spesso scritte sotto forma di domanda esplicita. In questo modo si cerca di trovare delle informazioni generali, ottenute le quali si passa ad una ricerca estremamente specifica e ristretta. Per fare un esempio, ipotizziamo di cercare un vino per la cena organizzata all'ultimo momento. La prima ricerca potrebbe essere Vino qualità cena elegante associare con carne. Dopo uno sguardo ai primi risultati ci si è fatta una idea e si passa a cercare specifici vini individuati dalle prime ricerche che, presumibilmente, in questo caso riguarderanno food blogger o magazine di settore. Ma non è solo
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Google il problema. O meglio, non parte tutto da lui. Perché gran parte delle ricerche nascono da messaggi che raccogliamo dal web. E qui entrano in gioco i social networks. Sono loro che settano l'agenda degli interessi giornalieri. Un post interessante può portare alla voglia di approfondire l'argomento, a saperne di più riguardo una idea, un prodotto, una località. Scatta l'interesse e si cercano notizie. Magari seguendo lo schema precedente mantenendosi, quindi, su temi generali. Oppure, se l'informazione ottenuta era già completa, passando subito alla ricerca diretta. In ogni caso, i due tavoli si sovrappongono più di quanto si pensi. In particolare da quando anche i post dei social vengono indicizzati dai motori. Fate mente locale su questo percorso e valutate quanti sono gli elementi coinvolti nel tragitto che dovrebbe accompagnare i potenziali clienti verso i nostri contenuti. Non c'è solo il motore di ricerca, ci sono anche i social e, quindi, i loro utenti. E poi ci sono i blogger. Nell'esempio precedente li abbiamo appena accennati, ma rappresentano una categoria importante. La pubblicità tradizionale genera un ritorno di credibilità valutato al di sotto del 20% La recensione di un prodotto su un affermato blog di settore ha un fattore di credibilità che spesso raggiunge il 90% Sono differenze facilmente comprensibili, se ci pensate. La pubblicità arriva a tutti anche a persone fortemente fuori target, generando contatti praticamente inutili. La recensione di un blogger viene letta, sostanzialmente, da persone già interessate all'argomento e che si fidano della fonte (se no sceglierebbero di seguire un altro blog). Numeri inferiori, sicuramente, ma di contro si possono registrare percentuali d'interesse non paragonabili con quelli ai quali ci ha abituato il tradizionale modo di fare pubblicità sui vecchi media, visto che ci muoviamo all’interno di interessi condivisi. E non si tratta solo di blogger. Ogni volta che un utente condivide un nostro post, questo potrebbe essere visualizzato
anche da qualcuno degli amici, avviando un percorso che rischia di diventare virale. Se il nostro post viene condiviso da un utente con pochi amici con i quali interagisce di rado, però, la percentuale che il nostro post venga diffuso diventa minima. Se a farlo, invece, è un utente con migliaia di amici che interagiscono quotidianamente con lui, commentando i suoi post, mettendo like e condividendoli, le chances di visualizzazione del nostro contenuto aumentano esponenzialmente. Il nome che viene dato a questi attori del web è influencer e anche questo sarà un argomento che merita sicuramente un maggiore approfondimento. Se poi questi influencer sono delle voci accreditate nel settore che stiamo affrontando, le possibilità di diffusione aumentano considerevolmente. Non scomodiamo testimonial o vip e ipotizziamo di voler promuovere un evento, ad esempio una serata in discoteca. Se il contenuto che ne parla viene condiviso da una qualsiasi nota ragazza festaiola locale con 5.000 amici sul web che quotidianamente la inondano di messaggi e like, avrà un picco incredibile di visualizzazioni. In altre pubblicazioni avremo modo di approfondire queste tecniche di diffusione, ma in ogni caso, questo è il tavolo da gioco. E prima di sbirciare tra le regole, un'ultima considerazione. Appare abbastanza chiaro come il gioco si sia fatto più complesso. Sono aumentate le variabili ed è cambiata anche la massa di competitors. La domanda necessaria è quindi una soltanto: ma, alla fine, ne vale la pena?
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Ma che lavoro fai? Quella riportata nel titolo di questo paragrafo è la domanda più ricorrente per chi si muove all’interno delle professioni digitali. Eppure c’è una forte domanda di queste posizioni, anche se a volta si fa molta confusione nel definirle. Gli ultimi dati ufficiali parlano di una ricerca palese di oltre 80.000 posizione con quelle che vengono definite skill digitali. Un termine che indica la padronanza dei nuovi media e dei sistemi dell’era digital. Ma la ricerca palese di queste posizioni lavorative è assolutamente minima rispetto al trend che ci si prospetta negli ultimi anni. Negli Stati Uniti prevedono che entro il 2018 si registrerà un turn-over d’imprese per oltre il 40%: le imprese che non saranno in grado di entrare nei mercati digitali sono destinate a morire ed a fare spazio alle nuove forze economiche del web. Questo comporta che il numero di “offerte di lavoro in questo settore è destinato ad una crescita esponenziale già dai prossimi anni. Nella infografica sottostante riportiamo una elencazione delle figure più rappresentative dalla complessa galassia dei lavori digitali.
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Internet non serve realmente al business
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ueste pagine sono dedicate, principalmente, agli imprenditori. Sono loro a essere bombardati da centinaia di messaggi per essere primi sui motori di ricerca oppure guadagnare 100.000 clienti con Facebook. E sono sempre loro a essere estremamente delusi quando i risultati promessi non arrivano fino a fargli archiviare il problema con un banale: Internet non funziona per il mio business. Di contro sono anche loro che, quando si trovano a parlare con un professionista del web, lo sommergono di richieste e di consigli, condite da frasi come su Facebook funziona così, oppure ho visto un sito che fa quello che mi serve. Un atteggiamento paragonabile a quando si va dal dottore con prognosi già fatta, magari spulciando proprio su Google. Tra queste due facce della medaglia c'è l'unica domanda che un imprenditore dovrebbe porsi: perché dovrei investire tempo e risorse nel web? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro e tornare alla prima illusione del web affrontata in questo volume. Il pensiero comune è che, attraverso internet si possa aprire una finestra sul mondo e, quindi, apprezzarne le complessità, coglierne le differenze e, complessivamente, conoscere il modo
di vita (o le strategie di business) di altre aree del pianeta. Abbiamo visto come la cosa non sia del tutto vera. Anzi, quasi del tutto falsa. Il sistema, nel suo complesso, lo permetterebbe. Se avete voglia, pazienza e un minimo di conoscenze di base potreste usare il web per avere informazioni affidabili su quasi tutto. Il punto è che, in realtà, pochissimi hanno la voglia, la pazienza e le conoscenze minime per gestire questo processo di raccolta delle informazioni. Abbiamo parlato di ricerca semantica, di intelligenza artificiale applicata ai modelli di ricerca, di studi sulle intenzioni dell’utente. Tutto questo ci riconduce a una semplice verità: le grandi web company investono da tempo su questa nostra pigrizia e hanno elaborato strumenti sofisticati che scelgono per noi. Nel frattempo ci profilano e ci rendono appetibili per i loro investitori pubblicitari. L'algoritmo di Google, l'Edge Rank di Facebook e tutti gli strumenti di raccolta informazioni si basano su un unico concetto: studiare interessi e comportamenti e ipotizzare, sulla base di questi, cosa ci potrebbe interessare. Esiste una conseguenza che, stranamente, è poco chiara a molti: il sistema alimenta le nostre convinzioni e, quindi, ci proporrà argomenti a sostegno di quanto pensiamo.
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Basta vedere, nel box sottostante, cosa ha fatto e cosa è successo al direttore della rivista Wired quando ha provato a scandagliare i social.
L’esperimento di Honan Mat Honan, direttore della prestigiosa rivista Wired, ha fatto una scoperta che è stata alla base di una sua ri-cerca. Ha notato come, dopo aver casualmente apprezzato molti contenuti ideologicamente attinenti all'area di destra, conservatrice e xenofoba, Facebook aveva iniziato a rispondere promuovendo pagine e contenuti simili. Il redattore di Wired ha sperimentato la cosiddetta logica del "Daily Me" (l'Io Quotidiano) teorizzata da Cass Sunstein, ovvero quel meccanismo digitale perverso per cui l'utente finisce per essere circondato dall'eco assordante delle proprie convinzioni, creando idealmente un proprio giornale in cui non si apre mai ad altri punti di vista. Lo sperimentatore, che ha portato il suo News Feed a un punto massimo di estremismo, ha descritto questa parte con un certo disagio: Creiamo le nostre "bolle" politiche e sociali attraverso i filtri, che ti fanno apparire solo contenuti simili a quelli che hai già visto, così le cose che vediamo sono solo un "ipernicchia" fatta apposta per noi. Il News Feed di Honan non ha fatto altro che rimpolpare le convinzioni palesate dall'utente a colpi di Mi Piace. Nella "testa" dell'Edge Rank, come in quella di tutti gli algoritmi che governano i contenuti dei colossi informatici, c'è l'idea che nell'era della personalizzazione perfetta l'utente voglia solo leggere quel che già con-cerne alla sua area comportamentale e ideologica. Amazon vi suggerirà libri a partire dai comportamenti d'acquisto precedenti, Facebook vi suggerirà contenuti a partire dalle vostre interazioni passate. Ma l’esperimento è andato anche oltre: Hanon ha poi cominciato a mettere “Mi piace” ad ogni contenuto che gli si proponeva sul wall, per 48 ore. Al termine la sua bacheca era colma di inserzioni pubblicitarie. Il sistema lo ha individuato come una persona facilmente influenzabile e lo ha trattato di conseguenza, bersagliandolo di contenuti promozionali. In pratica, se siamo razzisti avremo il wall inondato da post razzisti. Lo stesso accade se siamo fan di Madonna, se teniamo esageratamente per una squadra di calcio o se seguiamo pedissequamente il gossip. Se siamo ambientalisti, Edge Rank selezionerà per noi tutti quegli argomenti che aderiscono alla nostra visione del mondo e, quindi, il nostro wall di Facebook sarà costantemente affollato di notizie sullo sviluppo sostenibile, sull'equilibrio della natura, sulle associazioni che si battono per il rispetto del pianeta, ecc.... oltre, ovviamente, a pubblicità di bici elettriche, pannelli solari e lampade a basso consumo. Quest’ultimo passaggio è ciò che rende interessante il sistema per chi deve usarlo come strumento di marketing e affronteremo dettagliatamente questo versante in altre pubblica-
zioni. Ma in questo momento è interessante affrontare i risvolti di quella che viene definita “bolla informativa” anche dal punto di vista sociale e d’impatto sulla cultura personale. Vi starete chiedendo perché partire da questa considerazione per parlare dei risvolti economici del web. Si tratta di una premessa necessaria per focalizzare la vostra attenzione sui dati. È un po' come nelle sedute degli Alcolisti Anonimi: ammettere di avere un problema è il primo passo verso la soluzione. E il problema è che le informazioni in nostro possesso sono solitamente inadeguate a comprendere il meccanismo della comunicazione sul web. Ed è ancora una volta una semplice questione di numeri. Partiamo da quelli che raccogliamo fisicamente nel mondo reale, le nostre esperienze e la nostra storia, i nostri contatti ed il nostro
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curriculum. Se un commerciante vende da trent'anni articoli da regalo è certo di conoscere il mercato, le aspettative dei suoi clienti, i prodotti che vanno e le modalità per proporli. Questo background, che fino a oggi ha sempre fatto la differenza, oggi non basta più. A sancirlo è un mero fatto statistico: rispetto alle possibili connessioni attivabili sulla rete, la nostra cerchia di conoscenze e di conoscenza, per quanto larga, non potrà mai rappresentare un dato significativo. Fate mente locale: quante persone potrete aver incontrato, nella vostra vita professionale e non: mille? Diecimila? Un post non particolarmente curato su Facebook può agevolmente raccogliere centinaia di migliaia di contatti, una strategia completa può essere valutata anche in milioni. Non c'è proporzione tra le nostre percezioni personali e l'ampiezza reale del mercato raggiungibile. L'analisi dei dati. La buona notizia è che, proprio per la sua stessa natura digitale, Internet risulta relativamente facile da mappare con dati statisticamente affidabili e reali. Un po’ più difficile, magari, è riuscire a interpretare correttamente questi dati. Al momento, comunque, ci interessa rispondere alla domanda su quanto convenga, oggi, investire sul web in modo professionale. Abbiamo già assodato che farlo in maniera raffazzonata non serve a nulla e può anche risultare deleterio ma, visto che parliamo di investimenti di soldi e risorse, analizziamo cosa c’è sull’altro piatto della bilancia. Cominciamo con l’infografica a destra che ci mostra i 10 trends del web marketing per il 2015. I due box finali sono interessanti, in particolare l’ultimo, che ci mostra una verità che, a questo punto, dovremmo aver ben compreso: tu sei quello che Google dice di te. È solo la certificazione di quanto abbiamo ripetuto più volte. Non conta quello che diciamo nella nostra comunicazione, ma quello che riescono a comprendere i motori di ricerca.
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Cambiamo ambito e guardiamo i dati relativi all’Italia visualizzati in questa nuova infografica realizzata da Consumer Barometer. I primi due box riportano dati intuibili, ma imponenti nella loro grandezza. Siamo sempre più connessi, siamo la look down generation, la generazione di quelli che guardano in basso, sempre intenti a sbirciare lo smartphone o il tablet. Dal punto di vista commerciale è interessante il dato sui video e il loro fattore di coinvolgimento. Un punto a favore delle strategie di video storytelling aziendale, oggi molto in voga. Ma il primo dato da focalizzare, per comprendere l’urgenza di una buona strategia digitale, è quello relativo all’uso di Internet nel percorso d’acquisti. Il 59% degli italiani usa il web in qualche modo per scegliere il prodotto da acquistare. Provate a leggere al contrario il dato: solo il 41% compra qualcosa che non ha in qualche modo incontrato sul web. Se non siete presenti sul web in maniera adeguata sarete di fatto ignorati da 6 potenziali clienti su 10. Sempre per comprendere i numeri del web, abbiamo i dati degli utilizzatori di Internet nelle diverse modalità (desktop e mobile). In Italia siamo in coda a molte classifiche, anche a causa dell’arretratezza delle reti tecnologiche, ma ci difendiamo. Anzi, per la verità svettiamo sul numero di smartphone che in Italia sono più degli italiani. Il 2017, inoltre, potrebbe essere un anno di svolta. Oltre ad alcune novità tecnologiche in arrivo, l’anno in corso dovrebbe vedere la soluzione, almeno parziale, del gap che ci pone in fondo alle classifiche come qualità della rete. Gli investimenti sono iniziati e in alcune zone anche i lavori di ammodernamento. Una buona notizia che, però, ci deve far comprendere quanto siano stretti i tempi per adeguarsi. Il grafico nella prossima pagina analizza gli utenti di Facebook in Italia. Si può notare un’equa distribuzione di genere e si dimostra anche come gli adulti non siano così diversi dai loro figli. Ma fino a ora abbiamo parlato di utenti. Proviamo a vedere come questo si tramuta in dati economici
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partendo dal settore che a molti sembra quasi fantascientifico: l’e-commerce da mobile. È davvero così prematuro parlarne? I dati dicono una cosa diversa: stiamo sfiorando i due miliardi di euro e il settore vive una crescita esponenziale.
I numeri che vedete sopra ci portano in Europa dove i numeri diventano davvero grossi, in particolare nel segmento e-commerce. Oltre 2 europei su 3 usano il web e metà di loro comprano online. Pensate alle opportunità per un territorio come il nostro che ha molte cose da vendere agli stranieri. Ma non dimenticate quello che abbiamo ribadito fino a ora: avere a disposizione un mercato così ampio significa scontrarsi con una miriade di competitors fortemente agguerriti. Nel campo digitale, inoltre, noi italiani paghiamo un ritardo significativo. Però è una guerra che non possiamo permetterci di perdere e che non possiamo combattere con lance e bastoni. Perché gli altri hanno missili e fucili con mirino laser. Nella prossima pagina riassumiamo per punti chiave quanto detto finora, un modo per raccogliere le idee e focalizzare le premesse che ci consentiranno di proseguire più agevolmente nell’analisi delle strategie da mettere in campo per aprire il nostro business alle opportunità dei mercati digitali.
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1) I numeri del web sono troppo grandi per pensare di essere “visibili” semplicemente creando contenuti; 2) Motori di ricerca e social networks usano elaborati sistemi per “comprendere” il reale contenuto delle nostre pagine e “consegnarlo” al pubblico più adeguato; 3) Essere presente sul web con contenuti difficilmente “leggibili” dai motori di ricerca equivale a “non esserci” 4) Qualche anno fa Internet era soltanto uno dei canali per raggiungere il mercato. Oggi È “il mercato” 5) La competizione è tale che ogni ottimizzazione, per quanto apparentemente minima, diventa assolutamente rilevante. 6) Content is king, il Re è il contenuto, e Google loves what people love, Google ama (e mette in cima alle SERP) ciò che la gente ama. 7) L'accesso degli attuali “no-digital” al mondo web è ormai ineludibile e vicino 8) Si sta sviluppando un rapporto quasi personale con il web e in particolare con Google. Non si fanno ricerche, si pongono domande 9) Le dinamiche su internet vedono al centro le azioni di blogger e influencer 10) Gli strumenti di raccolta informazioni si basano su un unico concetto: studiare i nostri interessi, i nostri comportamenti e ipotizzare cosa ci potrebbe interessare. 11) Internet è facile da “mappare” con dati statisticamente affidabili e reali. 12) I numeri del mercato web sono numeri economicamente “importanti” e giustificano ampiamente gli investimenti. 13) Unica condizione necessaria è un approccio professionale per contrastare i competitors. 43
Il volume che vi trovate tra le mani rappresenta l’introduzione al “Corso per operatore di Marketing Digitale” realizzato all’interno del progetto NETT Economy, in partnership con: ManPower Global Communication Multi Erice Assindustria Trapani UNISOM - Consorzio universitario Appleseed - Agenzia di Marketing Digitale
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Cos’è NETT Economy? NETT Economy è un progetto di crescita territoriale centrato sulla diffusione di conoscenze e tecniche per l’utilizzo consapevole delle nuove tecnologie digitali a supporto dell’economia locale. Un progetto ampio, che vuole coinvolgere tutte le categorie produttive, ma che ha un focus specifico sul turismo e sul destination marketing, considerato come il turismo sia nettamente il settore economicamente più rilevante del territorio, oltre ad essere il più adatto ad essere trasportato efficacemente sui mercati digitali. Partiamo da una precisa ed esplicita premessa: la gestione pubblica ha fallito pienamente sul versante dell’ammodernamento strutturale delle imprese, a livello locale come a livello nazionale. Ma il peso di questa inefficienza è totalmente sulle spalle dei privati. È necessario che aziende più lungimiranti “tirino la volata”, spingendo il territorio a lavorare insieme verso un obiettivo comune: la crescita economica diffusa. Come funziona? Si tratta di un progetto multipiattaforma. Considerato come l’esigenza del progetto parta dall’analisi del ritardo territoriale sull’utilizzo degli strumenti digitali, sono stati predisposti anche dei canali off-line mirati per coinvolgere anche le imprese più distanti dal web. Web Il centro di tutto è un sito web (netteconomy.it) all’interno del quale vengono pubblicati articoli e tutorial per imparare ad usare correttamente il web a vantaggio della propria attività. Oppure, cosa non meno rilevante,, a raccogliere informazioni che possano aiutarlo a scegliere in maniera consapevole i propri partner e i propri fornitori in ambito digitale. Il sito prevede anche strumenti di interazione avanzata, con forum, chat con esperti, test di autovalutazione ed altro.
Video Le informazioni più rilevanti (e le news più calde) saranno diffuse anche attraverso una trasmissione settimanale in video, condotta da Franco Mennella e diffusa attraverso la webTv del portale TuttoTrapani, oltre che sul sito, con mini corsi centrati sui principali aspetti del marketing digitale. Informazione su carta Il canale off-line è NETT Economy Magazine, periodico bimestrale su carta, stampato in 4.000 copie e diffuso gratuitamente presso le partite IVA del territorio trapanese per puntare direttamente verso le imprese. Eventi off-line La partecipazione diretta dei partners è garantita all’interno dei due eventi off-line direttamente promozionali del progetto che si terranno a febbraio ed aprile 2017. In seguito è prevista la convocazione (ottobre/novembre 2017) degli Stati Generali del Turismo, un incontro destinato a diventare annuale per analizzare i dati della stagione estiva appena conclusa e programmare la stagione successiva. Infine, NETT Economy è parte integrante del progetto TuttoTrapani, ideato dall’agenzia di marketing digitale Appleseed srl proprio per integrare, all’interno del progetto e ad integrazione dei canali generalisti tradizionali off-line (editoria ed eventi), un canale generalista di contatto per l’ambito digitale.
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appleseed - agenzia di marketing digitale company profile
Cos’è un’agenzia di marketing digitale? Semplicemente un’azienda in grado di offrire competenze e strumenti per consentire ai propri clienti una efficace presenza sul web e sui mercati digitali. La risposta è formalmente completa ma, diciamoci la verità, non dice moltissimo… Però c’è davvero tutto, solo che la frase va analizzata praticamente “parola per parola” per comprenderne il significato. Per farlo partiamo dalla fine: efficace presenza web e vediamo la definizione “da vocabolario” del termine principale. efficace ef·fi·cà·ce/ aggettivo Capace di produrre l'effetto e i risultati voluti o sperati; conveniente, dal punto di vista oggettivo o soggettivo. Come si può notare, efficace non vuol dire “bello” oppure “tanto”: Definiamo efficace qualcosa in grado di produrre “l’effetto o i risultati voluti”. Questo ci porta al cuore del problema: i risultati voluti. Un’agenzia di web marketing digitale parte da questo, dall’analisi del prodotto (o del concetto da comunicare), ne individua punti di forza e di debolezza e su questi disegna una strategia, un percorso che porti ai risultati desiderati dal cliente. Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull'albero. - "Che strada devo prendere?" chiese. La risposta fu una domanda: - "Dove vuoi andare?" - "Non lo so", rispose Alice. - "Allora, - disse lo Stregatto - non ha importanza che strada tu prenda". da “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carrol
Torniamo alla frase di apertura ed analizziamone un nuovo frammento: consentire ai propri clienti. Sembra quasi banale affermarlo, ma in realtà è un versante meno considerato di quanto si pensi. Oppure considerato male. Consentire ai propri clienti di raggiungere un risultato comporta due approcci, apparentemente contrastanti tra di loro: ascoltare attentamente il cliente nella definizione del prodotto e dell’obiettivo che si vuole raggiungere: è lui che conosce il prodotto meglio di chiunque altro ed ha gli strumenti per comprendere dove vuole arrivare; non assecondare passivamente il cliente nella elaborazione della strategia. Dopotutto, se avesse le competenze per disegnare una strategia digitale non avrebbe bisogno di un’agenzia di marketing. Pensate a quando andate dal dottore: voi gli raccontate i sintomi, che conoscete meglio di lui, lui vi prescrive una cura, visto che ha le competenze per farlo. Se conosceste la vostra malattia non andreste dal medico, ma dal farmacista a comprare direttamente la medicina. Ed arriviamo così agevolmente a competenze e strumenti. Una strategia è fatta da una sequenza di azioni coordinate tese, come abbiamo detto, a raggiungere un risultato. Esiste un interessante pensiero economico di J.Abraham, la teoria del Partenone. Si parla dei vari canali di vendita di un’azienda che l’autore paragona alle colonne che reggono il “tetto” del Partenone. Una equa distribuzione nelle varie “colonne” assicura stabilità al “tetto” che rappresenta il fatturato aziendale. E qui funziona più o meno allo stesso modo. Il “tetto” è la nostra presenza sul web, definita strategicamente per raggiungere gli obiettivi desiderati. Le colonne sono i diversi strumenti da mettere in campo. Il sito web, i social networks, le campagne su AdWords e altri sistemi paid, la comunicazione off-site (article marketing e link building) e offline, le azioni mobile e
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Appleseed
l’integrazione con le nuove tecnologie e soprattutto con quelle in divenire. Ma stiamo parlando di strumenti tecnici e tecnologici. Un motore di ricerca non è fatto da tanti omini che scelgono le nostre pagine perché sono “troppo belle” e quando Facebook seleziona quale dei nostri contenuti esporre sul wall dei tuoi amici non lo fa perché hai scritto la battuta del secolo. Ovviamente le “pagine belle” e le “battute del secolo” serviranno dopo a coinvolgere le persone che le vedranno. Ma prima bisogna convincere gli algoritmi di motori di ricerca e social network a mostrarlo. Visto che parliamo con delle macchine, rette da sistemi automatici, il problema diventa tecnologico. Non funziona più come nei ruggenti anni ‘90 quando abili programmatori sfruttavano la natura “meccanica” dei motori di ricerca per “imbrogliarli” e piazzare siti “a forza” nei risultati di ricerca. Il punto è che questi sistemi sono diventati “intelligenti” ed è praticamente impossibile “imbrogliarli” se non per breve tempo. Il vero problema è che non conviene: se mettiamo un contenuto in rete per motivi strategici, abbiamo l’interesse di mostrarlo alle “persone giuste”. Perché se essere onesti è una scelta, essere “compresi” correttamente dai sistemi automatici è una questione di competenze. Per apparire sui risultati dei motori di ricerca o sulla pagina principale del nostro social network preferito siamo subordinati ad una “scelta” che non viene fatta sulla base di quello che scri-
viamo, ma su quello che i sistemi automatici riescono a comprendere quando analizzando le nostre pagine e i nostri contenuti. Produrre pagine web dal codice corretto o strutturare in maniera coerente le campagna paid significa conoscere il “linguaggio” dei sistemi automatici, un linguaggio in continua evoluzione. Tutto questo rappresenta quella che in matematica si chiama condizione necessaria ma non sufficiente. La correttezza tecnica e le fredde strategie web ci possono anche portare una certa visibilità. Ma poi sarà il gusto e l’interesse dell’utente finale a decretare il raggiungimento dell’obiettivo. E qui si torna alla vecchia e cara comunicazione tradizionale. Ecco cos’è un’agenzia di marketing digitale. Una struttura in grado di contenere, compensare e coordinare un “set di competenze” variegato (marketing, comunicazione, tecnologia web) da mettere al servizio del business del cliente. Un bel po’ di roba, quindi, ma ricordate la figura del Partenone? Solo colonne sufficientemente solide e ben distribuite possono reggere il tetto. Per questo nel nostro claim principale abbiamo voluto evitare il riferimento ai diversi strumenti che possiamo mettere in atto per supportare i business dei nostri clienti per centrare quella che è la nostra mission e la nostra vera proposta che abbiamo racchiuso in uno dei nostr claim principali:
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il nostro prodotto è il tuo successo.
Le Illusioni del web di Franco Mennella edito da Appleseed agenzia di marketing digitale Via S.Lonero, 56 91100 Trapani (TP) Tel. +39 0923 196 1742 www.appleseed-web-marketing.it